Fai una donazione

Questo sito è autofinanziato. L'aumento dei costi ci costringe a chiedere un piccolo aiuto ai lettori. CHI NON HA O NON VUOLE USARE UNA CARTA DI CREDITO può comunque cliccare su "donate" e nella pagina successiva è presente (in alto) l'IBAN per un bonifico diretto________________________________

Amount
Print Friendly, PDF & Email

manifesto

Keynes, il costo morale del rischio

di Massimo De Carolis

Avere presagito, fin dall’alba, il tramonto del neoliberalismo riporta all’attualità la «Teoria generale dell’occupazione» del grande economista inglese, ora in un Meridiano con testi inediti

19 maggio copertina duncan grant maynard keynes at charleston 1917All’indomani di una crisi economica globale, tuttora lontana dall’aver esaurito la sua spinta destabilizzante, non può sorprendere che un’opera come la Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta torni oggi alla ribalta, accendendo di nuovo l’interesse non solo degli economisti di professione, ma di chiunque si sforzi di capire cosa stia succedendo nel mondo. Dopotutto, il trattato di Keynes era nato a sua volta sull’onda della grande depressione, quando il dissesto dell’economia globale e l’avanzata dei totalitarismi avevano reso non solo legittimo, ma addirittura urgente un programma di completo rivoluzionamento delle teorie economiche e delle politiche di stampo liberale.

Per Keynes erano almeno due i mitologemi da cui il pensiero economico andava rapidamente affrancato: da un lato, la fiducia cieca nella «mano invisibile» del mercato e nella sua supposta capacità di autoregolazione; dall’altro la certezza dogmatica che non potesse esistere una disoccupazione del tutto involontaria, perché il sistema tenderebbe in ogni caso a stabilizzarsi al livello ottimale, nel quale tutte le risorse sono utilizzate al meglio. In quegli anni di crisi, questi due pregiudizi erano platealmente smentiti dai fatti. Entrambi erano però talmente radicati nell’edificio dell’economia di mercato, che solo un ripensamento sistematico dell’intero castello, compresa la sua «cittadella» centrale, poteva consentire di sfatarli senza dover rinunciare a ogni forma plausibile di razionalità economica e senza rischiare, così, di spingere il liberalismo verso la bancarotta.

 

Rimosso negli anni ’80

Sotto il profilo teorico, la Teoria generale fu l’apice di un percorso lungo e articolato, di cui il Meridiano Mondadori appena uscito (Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, a cura di Giorgio La Malfa e Giovanni Farese, pp. 1328, euro 80,00) offre un panorama completo, grazie alla preziosa ricostruzione introduttiva di Giorgio La Malfa e all’ampio corredo di testi brevi, che precedono e seguono l’opera maggiore, molti dei quali inediti in lingua italiana. Sotto il profilo invece strettamente pratico, i frutti della rivoluzione keynesiana non maturarono che nel Dopoguerra, nei trent’anni «gloriosi» durante i quali, in tutto l’Occidente, i parametri economici registrarono un balzo in avanti senza precedenti.

Il «keynesismo» diventò, a quel punto, il modello teorico dominante nelle maggiori istituzioni accademiche e governative, anche se in una versione talmente piegata alle esigenze di programmazione economica e così fiduciosa (specie nella versione americana) nell’efficacia dei formalismi matematici e nella piena calcolabilità dei rischi, da assomigliare sempre meno alla disincantata ragionevolezza del maestro. Sta di fatto che, quando l’ordine globale cominciò a mostrare crepe irreparabili, il keynesismo di scuola si dimostrò incapace di affrontarle, aprendo le porte alla controrivoluzione neoliberale.

All’inizio degli anni Ottanta, la lezione di Keynes diventò così l’oggetto di una vera e propria rimozione. All’insegna di una bandiera ideologica tanto rozza quanto efficace – «più mercato e meno Stato» – i vecchi miti del passato tornarono ad aggirarsi sulla terra come zombie: il mercato che si regola da solo, l’aggressività competitiva come unico lievito della crescita, l’impossibilità «logica» di una disoccupazione del tutto involontaria e di un potere monopolistico in grado di manipolare stabilmente la dinamica concorrenziale. Il finale, come è d’obbligo in un film dell’orrore, fu il bagno di sangue degli ultimi dieci anni.

Ora che la partita riprende a ruoli invertiti – con le tecniche neoliberali di governo dell’economia sul banco degli imputati – l’ingenuità maggiore sarebbe accontentarsi di capovolgere lo schema, invocando un «più Stato e meno mercato» che dovrebbe traghettarci al di là dell’anarchia liberista. Ci sono almeno due ragioni per cui una simile ingenuità risulterebbe politicamente pericolosa, oltre che incompatibile con la lezione di Keynes. In primo luogo, perché verrebbe a riproporsi intatta la peggiore illusione del neoliberalismo: quella che, appunto, il mercato e lo Stato, il privato e il pubblico, l’economia e la politica non siano, come insegna l’esperienza, due polarità sistematicamente intrecciate, ma due sfere del tutto indipendenti, perfettamente separabili come le due metà di un’anguria, purché si eliminino le proverbiali revolving door che tutti aborrono a parole e che tutti usano però, di fatto, con la massima disinvoltura.

In secondo luogo, un modello così elementare di «governo politico» dell’economia finirebbe col dover rimuovere a sua volta l’unica obiezione veramente radicale che il neoliberalismo abbia indirizzato a ogni genere di «pianificazione»: quella che, in economia, non può esistere un punto di vista «sovrano», capace di assegnare in anticipo il giusto valore a ogni impresa e a ogni prestazione produttiva, semplicemente perché il valore di mercato è costruito sul futuro, in un gioco di aspettative e preferenze incrociate, incerte e soggettive, su cui ciascun singolo agente (con o senza l’avallo di Stato) può solo speculare, possibilmente a proprio rischio e pericolo.

È bene sottolineare che, su questo specifico punto, la visione di Keynes non è molto lontana da quella dei «padri nobili» del neoliberalismo. In un articolo del 1937 che riassume la General Theory per rispondere ai suoi diversi critici (e che è giustamente incluso nel Meridiano) Keynes ripropone una distinzione fra il rischio e l’incertezza radicale, che era stata tracciata quasi negli stessi termini da Frank Knight più di quindici anni prima.

 

Impossibili previsioni

Il rischio, come nel gioco d’azzardo, è sempre solo «moderatamente incerto» perché riconducibile a un calcolo delle probabilità e quindi padroneggiabile, in linea di principio, con gli strumenti della razionalità matematica. L’incertezza radicale è propria invece di eventi singolari, come la probabilità di un terremoto, di una guerra o di un mutamento dei prezzi del rame in un futuro remoto e nebuloso. In casi simili, non c’è base oggettiva per alcun genere di previsione: we simply do not know. Al mercato non resta altra via che far convergere le aspettative collettive su un sistema di valori doppiamente convenzionale: in primo luogo, perché è costruito sull’inverosimile finzione che il domani resti uguale all’oggi; e, in secondo luogo, perché, in mancanza di certezze solide, ciascuno si affiderà alla convenzione di mercato semplicemente perché lo fanno tutti gli altri, il che assicura quanto meno la certezza di poter trovare un acquirente, al medesimo prezzo, qualora si volesse tornare sui propri passi.

In altri termini, la convenzione di mercato – purché adeguatamente condivisa – consente di rischiarare gradualmente la scatola nera del futuro remoto, segmentandolo in «una successione di brevi periodi più o meno numerosi». All’interno di ciascun segmento, si potrà ragionevolmente contare sul fatto che la convenzione non verrà meno di punto in bianco, ottenendo così la garanzia di poter eventualmente rivedere le proprie valutazioni, prima che sia troppo tardi: «in questo modo investimenti che per la collettività sono ‘fissi’ divengono ‘liquidi’ per il singolo».

Una convenzionalità tanto profonda dei valori di mercato è chiaramente agli antipodi di qualsiasi determinismo: di qui la fermezza con cui Keynes respinge ogni tentativo di equiparare l’economia a una scienza naturale, ribadendo che si tratta invece di una scienza «morale» (in Germania si sarebbe detto una Geisteswissenschaft). Un disincanto inaccettabile per le teorie mainstream. E, per di più, un’argomentazione molto simile a quella con cui Ludwig von Mises taglia le gambe a ogni possibile pianificazione «dall’alto», per sancire l’intangibilità dell’ordine spontaneo del mercato. Come è possibile, allora, che da premesse tanto simili Keynes tragga conclusioni esattamente opposte, giungendo in fondo a intuire il tramonto del neoliberalismo prima ancora che ne sia iniziata l’alba?

Una chiave può essere offerta da una distinzione concettuale che ha un peso decisivo nel Capitolo XII della Teoria generale, e che non ha invece alcun corrispettivo nelle concezioni neoliberali: la distinzione tra impresa e speculazione. Un’impresa vera e propria ha sempre il compito di sfidare l’incertezza radicale e, dunque, di «sconfiggere le forze oscure del tempo e dell’ignoranza che avviluppano il nostro futuro». Questo è vero di un’attività imprenditoriale in senso stretto ma anche, in fondo, di una performance creativa e, a maggior ragione, di un investimento finanziario di lunga durata. Si tratta, in ogni caso, di puntare su un progetto, una visione, un sogno, e di creare le condizioni perché entri nel novero delle possibilità reali.

 

Distanza dalle illusioni neoliberali

La convenzione di mercato, come abbiamo visto, gioca un ruolo essenziale in questo transito dal possibile al reale, perché canalizza l’investimento collettivo, mettendolo al servizio della realizzazione dell’impresa. A decidere le sorti di un’impresa, in tutto o in parte, sarà dunque la convenzione, vale a dire il processo mimetico per cui ciascun agente, in condizioni di incertezza radicale, si sforzerà di adattarsi alle preferenze altrui. Diviene così possibile, e altamente vantaggioso, adottare come bersaglio non il valore probabile delle singole imprese, ma la convenzione come tale. Si potrà cioè cercare di anticipare le scelte collettive, eventualmente di manipolarle e pilotarle, sfruttando la credulità altrui per lucrare il massimo guadagno e scaricare sugli altri – più lenti o meno furbi – i rischi dell’operazione.

Il punto cruciale, per Keynes, è che il progresso tecnico e l’evoluzione spontanea dei mercati, se lasciati a se stessi, tendono non a ridurre ma, anzi, a potenziare al massimo la preponderanza della speculazione sull’impresa vera e propria. Nella logica dei mercati, infatti, il parametro del progresso è il loro grado di liquidità e «fra i precetti della finanza ortodossa nessuno è più antisociale del feticcio della liquidità».

Possiamo a questo punto misurare la distanza abissale che separa Keynes dalle illusioni neoliberali. In buona o cattiva fede, il neoliberalismo ha costruito il suo successo sulla pretesa di aprire la strada allo spirito d’impresa, all’intraprendenza come generica capacità umana di sognare il possibile e di renderlo reale. A questo scopo ha imposto che ogni singolo segmento della vita sociale prendesse le forme di un mercato, in cui ciascuno offre se stesso, i propri progetti e i propri sogni alla valutazione altrui. Oggi scopriamo a caro prezzo che l’intera strategia non è mai stata – né poteva esserlo – al servizio dell’impresa, ma della speculazione. E che a essere premiate dal sistema non sono perciò le menti creative, i visionari, i coraggiosi, ma gli approfittatori e i ciarlatani. Con l’aggravante che tale squilibrio non è più confinato alla sfera dell’alta finanza, ma investe la vita sociale. La sfera pubblica, che nei sogni della modernità doveva essere la leva dell’illuminismo, rischia di trasformarsi nel regno della più completa opacità: un labirinto in cui ciascuno specchio riflette solo, all’infinito, la vanità degli altri specchi.

È su questo terreno paludoso che, un secolo fa, Keynes ha allestito il suo cantiere di ricerca. E sullo stesso terreno una diversa economia politica attende ancora di essere edificata.

Pin It

Comments

Search Reset
0
marku
Thursday, 27 June 2019 10:43
futuro remoto?
maddechè
il capitalismo transnazionale è morto e sepolto
quello che vaga per il pianeta è il suo zombie
tornato in "vita" nella sua dimensione di arma finale (contro se stesso) il capitalismo finanziario globalista.

Oh gente su che andiamo!

quante possibilità di uscita dalla crisi sistemica finale date allo zombie?
parafrasando un grande pensatore comunsta
il vecchio sistema è morto ed un altro è impossibile che nasca perchè capitalismo e merkati sono dello stesso sesso e se cambi i nomi in caino e abele ottieni il risultato finale
un fratricidio.
L'unico tentativo pacifico per uscire da questa situazione lo sta facendo la Cina con la via della seta, ma questo vorrebbe dire la fine dell'occidentalocentricità, la qualcosa non risulta per noi neanche filosoficamente concepibile.
Ci stiamo inesorbilmente avvicinando al rendez vous.

Non appena il grande satana avrà esaurito le carte poltiko mafioso terroristiche partirà la nuova guerra mondiale terza volta che il capitale mondiale da una parte rifinanzierà tramite la ricostruzione il proprio status quo e secondariamente stabilirà nuove elites con scale gerarchiche essi sperano invariate dove l'impero appunto impera.

Divagare quindi di keynes è come combattere una polmonite con l'aspirina, camperai due giorni in più e basta.
Ai Comunisti l'arduo compito di ripartire con la Quinta internazionale con il moto
Pace, Terra e Libro a tutti gli uomini di Buona Volontà
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Mario M
Thursday, 27 June 2019 09:09
Alla vigilia della restaurazione neoliberista degli anni '80, James Tobin ebbe a dire, se non vado errato, che per affrontare i nuovi problemi si rispolverava una teoria che 50 anni prima era già vecchia.

Mi chiedo cosa è oggi il mercato: quando abbiamo gli imperatori di internet, nati dal nulla, che controllano da monopolisti l'informazione (facebook, google), le vendite (amazon), gli affitti temporanei (airbnb). Anche nei settori classici della produzione si va verso il monopolio con i grandi conglomerati industriali dell'auto, degli aerei ecc.

Paradossalmente i nostri industriali invocano a gran voce le grandi opere (sprechi), le infrastrutture (brutture), che sono una sorta di finanziamento in deficit dell'economia: un keynesismo fuori tempo, come ad esempio le olimpiadi, che sono costose carnevalate che lascano macerie, come a Torino.

Mi chiedo perché la nostra sinistra, quella affluente e quella radicale e pensosa, non sostiene alcune iniziative di una parte di governo, ora in minoranza e in disgrazia, come il salario minimo, il reddito di cittadinanza; e quelle dell'altra parte del governo con i certificati di credito fiscale. Forse, come Drogo nel Deserto dei Tartari, aspetta la rivoluzione, e trascura e non sostiene i vari movimenti dal basso dei cittadini che si auto organizzano sul TAV le vaccinazioni.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Eros Barone
Thursday, 27 June 2019 00:08
Basta rivolgere una semplice occhiata al mercato capitalistico mondiale del lavoro per fare chiarezza circa alcuni equivoci alimentati dal malsenso comune, sia erudito che accademico, sia popolare che volgare. Mentre il primo si aggira nei meandri di improbabili tassonomie dualistiche keynesiane di occupazione (più o meno “piena”, pervicacemente quest’ultima ritenuta, comunque, possibile dalle anime belle del progressismo, cui è da ascrivere l'estensore di questo articolo) e disoccupazione involontaria, della definizione di un qualche impagabile tasso di disoccupazione naturale antinflazionistico, fino al perenne 'topos' della teoresi marginalistica sulla disoccupazione volontaria, giacché sempre vi sarebbe posto per chi desideri lavorare.
In realtà, non è il lavoro che manca, ma i soldi per pagare la forza-lavoro come merce. Se i lavoratori decidessero di farlo gratis, o a metà prezzo, comunque sottocosto, vedreste che la cosiddetta disoccupazione si dissolverebbe come nebbia al sole.
Di fronte a tali note pratiche e teoriche, serve ricordare la semplice analisi marxiana sull’"esercito industriale di riserva". (Fra le amenità relative alla storia del revisionismo italiano, basti ricordare che ad Enrico Berlinguer, nel 1976, fu fatto dire che “ormai” la legge dell’esercito industriale di riserva “non funzionava più”!). Sennonché gli intellettualisti del socialismo borghese (categoria cui appartiene l'autore dell'articolo) possono far valere il solito alibi storico e teorico, giacché di contro a Keynes e compari costoro possono appellarsi all’astio della cricca di von Mises e von Hayek. E tanto basta loro per formare una schiera 'asinistra' in difesa della “rivoluzione keynesiana”. Sennonché, ahiloro!, Keynes non era meno liberale e meno sostenitore degli interessi capitalistici dei suoi astiosi critici. Tanto che scrisse: “Moralmente e filosoficamente condivido praticamente tutto del libro del prof. Hayek, "La via della schiavitù". E non si trattava di un semplice consenso ma di una identificazione profondamente motivata. Il “rozzo proletariato” è da Keynes paragonato al “fango” nei confronti dello squisito “pesce”, ossia “la borghesia e l’'intellighentsia', le quali, per quanti siano i loro difetti, rappresentano "l’essenza della vita, e portano sicuramente in sé il seme di ogni progresso umano”. In definitiva, la sua “reazione contro il 'laissez-faire' è dettata solo dalla ricerca di metodi più efficaci per realizzare davvero i princìpi del liberismo, basati “sullo svolgimento della libera concorrenza anziché sulla sua abolizione”. Proprio il 'laissez faire', caro ai fondamentisti del liberismo, è da Keynes indicato “quale base per la selezione naturale attraverso la concorrenza”, che “fa muovere l’evoluzione lungo strade desiderabili ed efficaci”, così come “l’individualismo invoca l’amore per il denaro, attraverso il perseguimento del profitto, quale elemento base della selezione naturale misurata dal valore di scambio. È ogni giorno più evidente che il problema morale della nostra epoca riguardi l’amore per il denaro”. Il che, appunto, “non significa disfarsi del sistema di Manchester, quanto piuttosto indicare le circostanze richieste dal libero gioco delle forze economiche per realizzare le piene potenzialità della produzione”. Dopodiché, l'autore di questa apologia neo-keynesiana arriva ad affermare, non si sa se con maggiore sprovvedutezza o con maggiore impudenza, che "su questo terreno paludoso una diversa economia politica attende ancora di essere edificata"...
Like Like Reply | Reply with quote | Quote

Add comment

Submit