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una citta

Unionized, not unionized

Gianni Saporetti intervista Aris Accornero*

Nella vicenda Fiat il risultato più grave, e paradossale perché raggiunto grazie allo statuto dei lavoratori, è l’esclusione dalla fabbrica del sindacato più forte; il modello americano di cui tutti parlano anche a sproposito; l’asimmetria fra lavoratori e azienda che la Fiom non riesce ad accettare

Mi sem­bra di ca­pi­re che se­con­do lei il ri­sul­ta­to di gran lun­ga più gra­ve di tut­ta la vi­cen­da Po­mi­glia­no-Mi­ra­fio­ri sia l’esclu­sio­ne dal­la fab­bri­ca del sin­da­ca­to più rap­pre­sen­ta­ti­vo. E' co­sì?

Sì è co­sì, pe­rò pri­ma vor­rei fa­re una pre­mes­sa su un fat­to cui nes­su­no ha fat­to più cen­no ma che a me sem­bra uti­le ri­cor­da­re. Esat­ta­men­te tre an­ni fa, a gen­na­io del 2008, la Fiat a Po­mi­glia­no ave­va fat­to un gros­sis­si­mo sfor­zo, an­che eco­no­mi­co (so­prat­tut­to le­ga­to al fat­to che gli ope­rai non la­vo­ra­va­no per­ché par­te­ci­pa­va­no a dei cor­si di for­ma­zio­ne) per in­tro­dur­re il fa­mo­so World Class Ma­ni­fac­tu­ring. L’azien­da ave­va mol­to re­cla­miz­za­to l’ope­ra­zio­ne, se n’era par­la­to an­che nel So­le 24 ore. Quan­do mi era sta­to chie­sto un giu­di­zio, ave­vo det­to: "Beh, al­la Toyo­ta è un po’ di­ver­so…”. Per­ché quel­lo a cui lo­ro pun­ta­va­no era una ri­con­qui­sta di que­gli ope­rai a mo­du­li di com­por­ta­men­to e la­vo­ra­ti­vi ri­vi­si­ta­ti, non tan­to in sen­so pro­fes­sio­na­le, ma qua­si in sen­so mo­ra­le.


Ora, quell’ope­ra­zio­ne, che con­si­ste­va in un ci­clo di le­zio­ni da cui pas­sa­ro­no tut­ti, con il coin­vol­gi­men­to di 266 ca­pi, ad­di­rit­tu­ra con la rea­liz­za­zio­ne di ope­re per l’ade­gua­to svol­gi­men­to del­le le­zio­ni e l’in­tro­du­zio­ne di qual­che pic­co­la no­vi­tà con­co­mi­tan­te a que­sto gros­so sfor­zo or­ga­niz­za­ti­vo-rie­du­ca­ti­vo, fu un bu­co ter­ri­bi­le, cioè non ne ven­ne fuo­ri nul­la.

Io pen­so che Mar­chion­ne aves­se avu­to qual­che no­ti­zia su com’era Po­mi­glia­no, nel sen­so del­la sua ano­ma­lia in­du­stria­le, pe­rò con que­sto suo ap­proc­cio, chia­mia­mo­lo pro­te­stan­te, evi­den­te­men­te si era con­vin­to in qual­che mo­do che, spie­gan­do le co­se, la gen­te avreb­be ca­pi­to, che ci sa­reb­be sta­to un ri­sul­ta­to.

Il fat­to che non ci sia sta­to al­cun ri­sul­ta­to, se­con­do me è sta­to un no­te­vo­le shock per Mar­chion­ne, che pro­ba­bil­men­te già si ar­ro­vel­la­va per ca­pi­re co­me mai que­sto mon­do fos­se tan­to di­ver­so da quel­lo che lui avreb­be vo­lu­to.

In real­tà lui già sa­pe­va che all’este­ro so­lu­zio­ni tan­to ra­di­ca­li non era­no co­sì fa­ci­li da far pas­sa­re: il 20% del­la Chry­sler si era op­po­sto al pro­get­to di ri­strut­tu­ra­zio­ne nei pri­mi me­si del 2009. Tre me­si do­po, il 25% del per­so­na­le GM si era op­po­sto al­le no­vi­tà da lui pro­po­ste, che pe­rò poi era­no pas­sa­te a mag­gio­ran­za.

In­som­ma Mar­chion­ne si era for­ma­to que­st’idea che fos­se pos­si­bi­le cu­ra­re que­sti ca­si di di­sor­di­ne, scar­sa pro­dut­ti­vi­tà e go­ver­na­bi­li­tà azien­da­le. Quin­di io par­ti­rei dal fat­to che die­tro la vi­cen­da Po­mi­glia­no-Mi­ra­fio­ri c’è una de­lu­sio­ne, for­se an­che uma­na, da par­te di Mar­chion­ne per il fal­li­men­to dell’ope­ra di rie­du­ca­zio­ne av­via­ta in quell’azien­da un po’ di­sgra­zia­ta.

In­ten­dia­mo­ci, que­sta non è la spie­ga­zio­ne del­la svol­ta e tan­to me­no pre­lu­de a quel che poi è av­ve­nu­to. Pe­rò mi sem­bra im­por­tan­te ri­cor­da­re che, con que­sta "cu­ra”, era sta­to ac­cor­da­to un cer­to mar­gi­ne di af­fi­da­bi­li­tà an­che al­le mae­stran­ze e al­la si­tua­zio­ne di Po­mi­glia­no d’Ar­co.


Ma co­me si ar­ri­va all’espul­sio­ne del­la Fiom?


In­fat­ti, que­sta del ruo­lo del­la rap­pre­sen­tan­za è di­ven­ta­ta og­gi la que­stio­ne fon­da­men­ta­le, per­ché qui è an­da­ta a fi­ni­re, in mo­do buf­fo e for­se per­si­no un po’ ka­f­kia­no, che lo Sta­tu­to dei la­vo­ra­to­ri, ri­ma­neg­gia­to do­po il re­fe­ren­dum dei ra­di­ca­li del ‘95, ha por­ta­to all’esclu­sio­ne del sin­da­ca­to più rap­pre­sen­ta­ti­vo.

L’ar­ti­co­lo 19 del­lo sta­tu­to, in­fat­ti, che era na­to ex no­vo con la ne­ces­si­tà di iden­ti­fi­ca­re i ti­to­la­ti a rap­pre­sen­ta­re, giu­sta­men­te si po­ne­va la do­ma­na: chi è ti­to­la­to a rap­pre­sen­ta­re? E la ri­spo­sta era e ri­ma­ne: chi ha fat­to de­gli ac­cor­di con l’azien­da, con la con­tro­par­te. Che si­gni­fi­ca che chi non fa l’ac­cor­do è ta­glia­to fuo­ri.

Ora, que­sto prin­ci­pio di esclu­sio­ne, non vo­lu­to dall’azien­da, ma in­dot­to dall’an­da­men­to del­la vi­cen­da, so­prat­tut­to dal fat­to che c’è una di­vi­sio­ne sin­da­ca­le for­te, co­me ha ri­cor­da­to Gian Pri­mo Cel­la sul Mu­li­no, scas­sa tut­to il si­ste­ma di rap­pre­sen­tan­za e in qual­che ma­nie­ra san­ci­sce la fi­ne del si­ste­ma di rap­pre­sen­tan­za sin­da­ca­le vi­gen­te fi­no ad og­gi in Ita­lia.

In Eu­ro­pa pra­ti­ca­men­te non è pos­si­bi­le esclu­de­re dal­le trat­ta­ti­ve un sin­da­ca­to che sia esi­sten­te su ba­si na­zio­na­li. In Ita­lia si è ar­ri­va­ti a quel­la leg­ge sul pub­bli­co im­pie­go che esclu­de dal­la trat­ta­ti­va chi non ab­bia al­me­no il 5% di un mix fra vo­ti ed iscrit­ti. Co­sa mol­to co­rag­gio­sa, mol­to ne­ces­sa­ria, per­ché la ple­to­ra di sin­da­ca­ti­ni del pub­bli­co im­pie­go con­ta­va fi­no a 30-40 sog­get­ti, al­cu­ni di­scu­ti­bi­li con se­di in sper­du­ti pae­sel­li.

Ma an­che con quel­la leg­ge ri­ma­ne­va il fat­to che nes­sun sin­da­ca­to, an­che con una rap­pre­sen­tan­za mi­ni­ma, pur­ché non sim­bo­li­ca, po­te­va es­se­re esclu­so.

Qui al­lo­ra com­pa­re una gros­sa no­vi­tà nel si­ste­ma di re­la­zio­ni in­du­stria­li eu­ro­peo e que­sta no­vi­tà è la più fe­ra­le, la più bie­ca, è quel­la su cui ri­schia­mo di più. An­che se è inu­ti­le sco­mo­da­re le pa­ro­le de­mo­cra­zia, co­sti­tu­zio­ne, que­sta è una co­sa enor­me, in­cre­di­bi­le.


Si è par­la­to mol­to di mo­del­lo ame­ri­ca­no. Ne­gli Sta­ti Uni­ti esi­sto­no mo­del­li di rap­pre­sen­tan­za mol­to di­ver­si da quel­li in vi­go­re in Eu­ro­pa. Può spie­ga­re?

Que­sto ci fa en­tra­re nei gan­gli di quel si­ste­ma ame­ri­ca­no di re­la­zio­ni in­du­stria­li con cui ades­so si sta pa­stic­cian­do, per­ché mol­ti di­co­no di co­no­scer­lo e po­chi in­ve­ce lo co­no­sco­no dav­ve­ro.

Il pri­mo ele­men­to di dif­fe­ren­zia­zio­ne è che ne­gli Sta­ti Uni­ti si con­trat­ta nell’azien­da. E ba­sta. Cioè, si con­trat­ta nell’azien­da gran­de e poi si cer­ca di ap­pli­ca­re quan­to si è ot­te­nu­to in tut­te le al­tre real­tà ove il sin­da­ca­to è pre­sen­te.

Se­con­da pre­ci­sa­zio­ne: ne­gli Sta­ti Uni­ti, il sin­da­ca­to è pre­sen­te nel­le azien­de do­ve i la­vo­ra­to­ri l’han­no vo­lu­to al 50% più uno. Se un sin­da­ca­to rag­giun­ge que­sta quo­ta di suf­fra­gi tra i di­pen­den­ti, es­so esi­ste e ne­go­zia. Ma esi­ste e ne­go­zia da so­lo: non c’è, per de­fi­ni­zio­ne, plu­ra­li­smo sin­da­ca­le.

Per di­re, nel­la ca­te­go­ria de­gli elet­tri­ci, il sin­da­ca­to gros­so è uno dei più di de­stra e l’al­tro, di si­ni­stra, è uno dei più di si­ni­stra. Ec­co, in azien­da uno ne en­tra, uno è ri­co­no­sciu­to, uno trat­ta e trat­te­rà. E co­me sap­pia­mo, trat­ta e trat­te­rà tan­tis­si­me co­se, tra cui il wel­fa­re azien­da­le, che in Ame­ri­ca è fon­da­men­ta­le vi­sto che, co­me sap­pia­mo, il wel­fa­re na­zio­na­le è mol­to de­bo­le. In Ita­lia non è co­sì.

Per tut­te que­ste ra­gio­ni, quan­do un sin­da­ca­to en­tra in azien­da, di­ven­ta di per sé po­ten­te per­ché in­tan­to si ne­go­zia­no va­rie con­di­zio­ni, che noi chia­me­rem­mo "ex­tra­con­trat­tua­li”, ma che là so­no con­si­de­ra­te par­te so­stan­zia­le del rap­por­to di la­vo­ro e del­le con­di­zio­ni di trat­ta­men­to. Un di­scor­so di­ver­so an­dreb­be fat­to per il pub­bli­co im­pie­go, per­ché ai di­pen­den­ti pub­bli­ci ven­go­no co­mun­que ga­ran­ti­te sa­ni­tà e pen­sio­ni. Ma nel pri­va­to tut­to si gio­ca sul­la pre­sen­za o me­no del sin­da­ca­to in azien­da.

Quin­di quan­do il sin­da­ca­to en­tra, con­ta e mol­to, e ov­via­men­te met­te le ma­ni in que­stio­ni co­me le tur­na­zio­ni, gli ora­ri, i sa­la­ri in­di­vi­dua­li, i sa­la­ri di ca­te­go­ria. In­fat­ti con l’en­tra­ta del sin­da­ca­to, il co­sto del la­vo­ro au­men­ta dal 15% al 20%. Nei fat­ti que­sto è il di­va­rio prin­ci­pa­le del­la strut­tu­ra re­tri­bu­ti­va ame­ri­ca­na. Tant’è che in Ame­ri­ca, nel­le ta­vo­le, nel­le ta­bel­le dei li­bri che trat­ta­no que­sti ar­go­men­ti, la ca­ta­lo­ga­zio­ne del­le azien­de si fon­da in­nan­zi­tut­to sul­la di­stin­zio­ne tra "Unio­ni­zed” o "Not Unio­ni­zed”. Cioè tra im­pre­se sin­da­ca­liz­za­te e non sin­da­ca­liz­za­te. E so­no pro­prio due mon­di di­ver­si!

In­fi­ne va det­to che una vol­ta che un sin­da­ca­to en­tra, pra­ti­ca­men­te ci sta in eter­no: è mol­to dif­fi­ci­le far fuo­ri un sin­da­ca­to che è sta­to ac­cet­ta­to.

Tut­to que­sto spie­ga per­ché le azien­de osta­co­la­no in ogni mo­do l’en­tra­ta del sin­da­ca­to e an­che per­ché l’ac­cet­ta­zio­ne è mol­to com­ples­sa e la par­te giu­ri­di­co-am­mi­ni­stra­ti­va tre­men­da. Il prin­ci­pa­le mo­do di te­ne­re il sin­da­ca­to fuo­ri dall’azien­da è che il giu­di­ce "ri­ta­gli” la par­te dell’azien­da do­ve si vo­ta. I sin­da­ca­ti vor­reb­be­ro rap­pre­sen­ta­re tut­ti, ma c’è sem­pre un giu­di­ce che di­ce: "No, gli im­pie­ga­ti no!”, "No, quel­la è una se­de trop­po lon­ta­na”. In­fat­ti gran par­te del­la par­ti­ta si gio­ca sul­la de­fi­ni­zio­ne del­la bar­gai­ning unit, cioè dell’uni­tà ove si con­trat­ta. Ca­pi­ta che giu­di­ci con­ser­va­to­ri ma­ni­po­li­no le bar­gai­ning unit sot­traen­do al vo­to quel­le par­ti dell’azien­da do­ve le mae­stran­ze so­no più di­spo­ste al­la sin­da­ca­liz­za­zio­ne, op­pu­re in­clu­den­do­vi quel­le par­ti do­ve le mae­stran­ze so­no me­no di­spo­ste.

Poi, va an­che det­to che una vol­ta en­tra­to, vi­sto che il sin­da­ca­to con­ta, a quel pun­to mol­te azien­de lo usa­no co­me pun­to d’ap­pog­gio nel­le po­li­ti­che. Cer­ca­no di usar­lo, an­che giu­sta­men­te, chie­den­do­gli ad esem­pio di con­vin­ce­re i la­vo­ra­to­ri a fa­re de­gli spo­sta­men­ti o al­tro. In­som­ma, il sin­da­ca­to è mol­to den­tro al­la ge­stio­ne dell’azien­da. Tal­vol­ta, ad­di­rit­tu­ra, an­che se ra­ra­men­te, quel­li che noi chia­mia­mo i se­gre­ta­ri ge­ne­ra­li dei sin­da­ca­ti di ca­te­go­ria di­ven­ta­no per­fi­no mem­bri dei con­si­gli di am­mi­ni­stra­zio­ne. La Chry­sler è una del­le po­che azien­de che han­no vi­sto il se­gre­ta­rio ge­ne­ra­le del sin­da­ca­to en­tra­re nel con­si­glio di am­mi­ni­stra­zio­ne.

Già qui emer­ge l’enor­mi­tà del­le dif­fe­ren­ze tra il si­ste­ma eu­ro­peo e quel­lo ame­ri­ca­no.


Quin­di non esi­ste un con­trat­to di ca­te­go­ria, un con­trat­to na­zio­na­le...


La co­sa fon­da­men­ta­le co­mun­que è che il sin­da­ca­to ame­ri­ca­no è un rap­pre­sen­tan­te di rap­por­ti di la­vo­ro azien­da­li. Non c’è quel­lo che da noi per bre­vi­tà si chia­ma "con­trat­to”. Ci so­no esclu­si­va­men­te rap­por­ti di la­vo­ro e con­trat­ti azien­da­li. Nes­su­no ne­gli Sta­ti Uni­ti si so­gne­reb­be di chie­de­re: "Cos’han­no i me­tal­mec­ca­ni­ci?”, per­ché i me­tal­mec­ca­ni­ci in quan­to ta­li non han­no un bel nien­te: han­no ciò che è sta­to con­qui­sta­to nel­le fab­bri­che me­tal­mec­ca­ni­che do­ve c’è il sin­da­ca­to.

A De­troit, ad esem­pio, do­ve ci so­no le tre gran­di azien­de au­to­mo­bi­li­sti­che, i sin­da­ca­ti, da sem­pre, quan­do ar­ri­va il mo­men­to di rin­no­va­re il rap­por­to di la­vo­ro, scel­go­no su qua­le azien­da pun­ta­re, do­ve fa­re la lot­ta e poi pre­sen­te­ran­no agli al­tri le me­de­si­me ri­chie­ste.

Va det­to che nean­che l’In­ghil­ter­ra ha il con­trat­to na­zio­na­le di ca­te­go­ria: c’è una tra­di­zio­ne mi­sta di ac­cor­di di ti­po azien­da­le e di in­te­se di ca­te­go­ria. Ma ciò è do­vu­to al fat­to che là le ca­te­go­rie so­no estre­ma­men­te nu­me­ro­se, con spiz­zi­chi an­che mol­to pro­fes­sio­na­li, di ari­sto­cra­zia ope­ra­ia, che pe­rò ma­ga­ri, nu­me­ri­ca­men­te, so­no ri­si­bi­li.

Nel mon­do eu­ro­peo con­ti­nen­ta­le, in­ve­ce, la nor­ma so­no i con­trat­ti di ca­te­go­ria.

In que­st’as­set­to, gli av­van­tag­gia­ti so­no i pae­si con mag­gio­re uni­tà sin­da­ca­le o con me­no sin­da­ca­ti con­cor­ren­ti. Quin­di il mo­del­lo re­sta la Ger­ma­nia, ol­tre al­la Sve­zia, ec­ce­te­ra. Non cer­to la Fran­cia, do­ve i sin­da­ca­ti li­ti­ga­no dal­la mat­ti­na al­la se­ra su tut­to. L’Ita­lia è uno dei po­chi pae­si do­ve l’uni­tà sin­da­ca­le ha co­per­to lun­ghi pe­rio­di. In tut­ti que­sti pae­si c’è un con­trat­to di ca­te­go­ria.


Una for­ma di con­trat­ta­zio­ne azien­da­le esi­ste an­che in Ita­lia...


In tut­ta Eu­ro­pa ci so­no ov­via­men­te nu­me­ro­se azien­de, i cui la­vo­ra­to­ri di­spon­go­no del con­trat­to na­zio­na­le e di qual­co­sa ne­go­zia­to azien­dal­men­te, ma si trat­ta sem­pre di una con­trat­ta­zio­ne di se­con­do li­vel­lo, co­sid­det­ta in­te­gra­ti­va. E cioè: ol­tre al­le con­di­zio­ni nor­ma­ti­ve e ai trat­ta­men­ti che val­go­no per tut­ti, c’è qual­co­sa che con­no­ta il rap­por­to di la­vo­ro in quel­la spe­ci­fi­ca azien­da, e qua­si sem­pre è qual­co­sa in più.

È un mo­do per trat­te­ne­re (o per at­ti­ra­re) la ma­no­do­pe­ra qua­li­fi­ca­ta o sem­pli­ce­men­te per evi­ta­re turn-over trop­po ele­va­ti.

Ma ci so­no an­che fi­na­li­tà pro­dut­ti­ve, quel­le che il pro­to­col­lo del 1993 ha uf­fi­cia­liz­za­to, fa­cen­do ri­co­no­sce­re al­la Con­fin­du­stria (per la pri­ma vol­ta in Ita­lia) la con­trat­ta­zio­ne di se­con­do li­vel­lo.

Apro una pa­ren­te­si: an­che pri­ma del 1993 si con­trat­ta­va. Io, quan­do ero in com­mis­sio­ne in­ter­na, ho con­tri­bui­to a con­trat­ta­re con l’azien­da del­le co­se che al­tri non ave­va­no. Per esem­pio, il pre­mio di pro­du­zio­ne, cioè quel­lo che poi nel 1993 è di­ven­ta­to il ful­cro del­la con­trat­ta­zio­ne di se­con­do li­vel­lo. Pro­dut­ti­vi­tà, com­pe­ti­ti­vi­tà, qua­li­tà, era­no que­sti i va­ri pa­ra­me­tri per ot­te­ne­re di più ri­spet­to al con­trat­to na­zio­na­le.

Il fat­to è che quel che fa­ce­va­no le com­mis­sio­ni in­ter­ne, che nel do­po­guer­ra si oc­cu­pa­va­no an­co­ra del pa­ne e dei com­bu­sti­bi­li del­le fa­mi­glie dei la­vo­ra­to­ri, non era ben vi­sto né da Con­fin­du­stria né dal­la Cgil.

La Cgil non vo­le­va la con­trat­ta­zio­ne azien­da­le per ra­gio­ni di so­li­da­rie­tà ge­ne­ra­le in ri­fe­ri­men­to al con­trat­to na­zio­na­le. Nell’am­bi­to del­la Cgil fu Ser­gio Ga­ra­vi­ni a in­ven­ta­re la con­trat­ta­zio­ne azien­da­le co­me con­trat­ta­zio­ne di tut­ti gli aspet­ti del rap­por­to di la­vo­ro. Era una po­si­zio­ne mol­to avan­za­ta, per­ché quel ti­po di ne­go­zia­zio­ne si fa­ce­va nel con­trat­to na­zio­na­le. E in­ve­ce lui vo­le­va con­trat­ta­re gli ora­ri, le pau­se, per­si­no le pa­ghe, a li­vel­lo azien­da­le.

Chia­ro che, se vo­glia­mo va­lu­ta­re la vi­cen­da di Po­mi­glia­no al­la lu­ce di que­sto sce­na­rio non pos­sia­mo che ri­co­no­sce­re che è cam­bia­to tut­to. In­nan­zi­tut­to, per co­me è sfo­cia­ta la vi­cen­da del con­trat­to na­zio­na­le che, da una de­ci­na d’an­ni, Con­fin­du­stria vor­reb­be al­leg­ge­ri­re, sma­gri­re, snel­li­re, per con­trat­ta­re più co­se in azien­da e me­no nel pae­se.

An­dreb­be an­che spie­ga­to che que­sto spo­sta­men­to di ba­ri­cen­tro ver­so l’azien­da è mo­ti­va­to dall’estre­ma ar­ti­co­la­zio­ne che il po­st-for­di­smo ri­chie­de al­le im­pre­se. Il po­st-for­di­smo in fon­do ha por­ta­to al­le im­pre­se non me­no pro­ble­mi che ai la­vo­ra­to­ri. Og­gi si è dif­fu­sa una strut­tu­ra or­ga­niz­za­ti­va com­ple­ta­men­te di­ver­sa, più oriz­zon­ta­le che ver­ti­ca­le, che fa sì che ogni azien­da sia di­ver­sa dal­le al­tre, an­che per via del­la com­pe­ti­zio­ne.

Que­sta di­ver­si­fi­ca­zio­ne por­ta le azien­de a spin­ge­re ver­so un mag­gior nu­me­ro di nor­me ne­go­zia­te in lo­co ri­spet­to a quel­le che pri­ma si ne­go­zia­va­no a Ro­ma.

Que­sto pe­rò non giu­sti­fi­ca la po­li­ti­ca un po’ in­sa­na del pre­si­den­te di Con­fin­du­stria D’Ama­to, il qua­le ha co­min­cia­to a di­re: "Ba­sta, ba­sta, bi­so­gna pas­sa­re ai con­trat­ti azien­da­li”. Que­sta in­si­sten­za sui con­trat­ti azien­da­li ha da­to luo­go a in­fuo­ca­ti di­bat­ti­ti, an­che coi sin­da­ca­ti, ma so­prat­tut­to fra im­pren­di­to­ri, i cui in­te­res­si so­no mol­to di­ver­si. Bru­tal­men­te si po­treb­be di­re che i pic­co­li vo­glio­no il con­trat­to na­zio­na­le e i gran­di no. I pic­co­li vo­glio­no il con­trat­to na­zio­na­le per­ché è un re­gi­me che tu­te­la tut­ti per­ché, ad esem­pio, im­pe­di­sce che dei la­vo­ra­to­ri ven­ga­no pa­ga­ti me­no per pro­dur­re di più. Quin­di è uno stru­men­to di rac­cor­do si­ste­mi­co del mon­do pa­dro­na­le di di­men­sio­ne mi­no­re. Ol­tre­tut­to, ge­sti­re un con­trat­to azien­da­le ri­chie­de co­sti che le pic­co­le azien­de non po­treb­be­ro sop­por­ta­re.

In­ve­ce le gran­di azien­de, for­ti del lo­ro po­te­re, spin­go­no per an­da­re ver­so con­trat­ti azien­da­li più nu­tri­ti e per ri­dur­re, sem­pli­fi­ca­re, le nu­me­ro­sis­si­me nor­me na­zio­na­li al­le qua­li sot­to­stan­no le va­rie ca­te­go­rie.

D’al­tron­de la ri­chie­sta di una sem­pli­fi­ca­zio­ne non è co­sì pe­re­gri­na. Og­gi i con­trat­ti di ca­te­go­ria so­no più di tre­cen­to. Cioè men­tre i sin­da­ca­ti, in que­sti ul­ti­mi 20-25 an­ni, si so­no ac­cor­pa­ti in gros­se con­fe­de­ra­zio­ni di ca­te­go­ria, nes­su­no ha in­ve­ce ten­ta­to di ac­cor­pa­re i con­trat­ti.

Tra l’al­tro, quan­do ero in fab­bri­ca io, ce n’era uno mol­to sot­ti­le, cre­do fos­se­ro 80 pa­gi­ne, ades­so i con­trat­ti so­no da tre­cen­to a cin­que­cen­to pa­gi­ne in su!

Pro­vo­ca­to­ria­men­te da tem­po di­co che bi­so­gne­reb­be fa­re un "te­sto uni­co”. Al­tri­men­ti, noi avre­mo tre­cen­to con­trat­ti che re­sta­no lì, con uno spo­sta­men­to ver­so l’azien­da di nor­ma­ti­ve che di­ven­ta­no di­ver­se da luo­go a luo­go.

Su que­sta vi­cen­da c’è sta­ta una trat­ta­ti­va con Con­fin­du­stria. Nel 2008 la Cgil, la Ci­sl e la Uil han­no pro­dot­to uno smil­zo te­sto di pro­po­sta di ri­so­lu­zio­ne con cui so­no an­da­ti a trat­ta­ti­va con la Con­fi­du­stria che chie­de­va ap­pun­to lo spo­sta­men­to del ba­ri­cen­tro.

I sin­da­ca­ti han­no po­sto an­che lì la que­stio­ne del­la rap­pre­sen­tan­za, pro­po­nen­do per il la­vo­ro pri­va­to la leg­ge che c’è per il la­vo­ro pub­bli­co, ap­pun­to quel­la del mi­ni­mo del 5% co­me ti­to­la­ri­tà a ne­go­zia­re, a rap­pre­sen­ta­re, ec­ce­te­ra.

In quell’oc­ca­sio­ne c’è sta­ta pe­rò una se­pa­ra­zio­ne tra Ci­sl e Uil, da una par­te, e Cgil dall’al­tra, sul­la que­stio­ne del­le de­ro­ghe. La Cgil, in­fat­ti, non ha ac­cet­ta­to la ri­chie­sta, an­che per­ché la Fiom ave­va vo­ta­to all’una­ni­mi­tà con­tro que­sta ipo­te­si giu­sto qual­che gior­no pri­ma.

Il pun­to do­len­te è sta­to quel­lo. In real­tà Con­fin­du­stria ave­va pre­te­so e ot­te­nu­to una co­sa tut­to som­ma­to non gra­vis­si­ma e cioè la pos­si­bi­li­tà di de­ro­ga azien­da­le a nor­me del con­trat­to na­zio­na­le.

È da al­lo­ra che c’è que­sta di­vi­sio­ne. È par­ti­to tut­to da lì for­mal­men­te, l’an­no scor­so, con i due ac­cor­di del 2009.

La que­stio­ne del­la de­ro­ga, in real­tà, è spe­cio­sa, per­ché tut­ti e tre i sin­da­ca­ti han­no più vol­te ac­cet­ta­to del­le de­ro­ghe, ge­ne­ral­men­te die­tro si­tua­zio­ni di for­za, di emer­gen­za, di cri­si, di ne­ces­si­tà, qual­che vol­ta di in­ve­sti­men­to. Non c’è so­lo Mar­chion­ne che in­ve­ste, an­che la Zop­pas, l’Elec­tro­lux e al­tre azien­de han­no fat­to in­ve­sti­men­ti chie­den­do qual­co­sa.

La stes­sa Mel­fi è na­ta co­me una mo­struo­sa de­ro­ga con­trat­tua­le! Si de­ro­ga­va su tut­to. Pro tem­po­re cer­to, e pe­rò...

Co­mun­que in quel­la se­de è di­ven­ta­ta una que­stio­ne fa­ta­le, si è in­cep­pa­ta la trat­ta­ti­va e quin­di è sta­to fat­to l’ac­cor­do se­pa­ra­to.


Lei so­stie­ne che la Fiom è un uni­ver­so mol­to par­ti­co­la­re nel si­ste­ma ita­lia­no. In che sen­so?


Io ho scrit­to e con­ti­nuo a pen­sa­re che que­st’or­ga­niz­za­zio­ne dal­le lun­ghe tra­di­zio­ni sia un ca­so mol­to par­ti­co­la­re. In­tan­to nel­la sua strut­tu­ra, per­ché com­pren­de set­to­ri pro­dut­ti­vi com­ple­ta­men­te di­ver­si: si va dal­le val­vo­le ter­mo­io­ni­che al­la can­tie­ri­sti­ca, dall’au­to all’ore­fi­ce­ria. Non pos­so di­re che sia una ca­te­go­ria "mo­stro”, ma cer­to è più di una ca­te­go­ria: è un mon­do. An­che per que­sto ha mol­ti iscrit­ti. Il me­tal­mec­ca­ni­co poi è un com­par­to com­pe­ti­ti­vo, che espor­ta, quin­di è mol­to im­por­tan­te.

In que­sti de­cen­ni è sta­to più vol­te sug­ge­ri­to: "Ma non è me­glio crea­re qual­che sin­da­ca­to di set­to­re, scor­po­ra­re qual­che ca­te­go­ria che non c’en­tra nien­te con tut­te le al­tre?”. Evi­den­te­men­te si è ri­te­nu­to più co­mo­do man­te­ne­re lo sta­tus quo. Pe­rò, ri­pe­to, è una ca­te­go­ria che uni­sce set­to­ri fra lo­ro dav­ve­ro lon­ta­ni.

Sul pia­no po­li­ti­co, poi, è una ca­te­go­ria che è sem­pre sta­ta ab­ba­stan­za di si­ni­stra.

Io ar­ri­vo a di­re che po­li­ti­ca­men­te la Fiom sem­bra quel che re­sta del par­ti­to co­mu­ni­sta. Di­co sem­bra per­ché in real­tà non è af­fat­to ve­ro. La pri­ma vol­ta che ho sen­ti­to Lan­di­ni e ne ho par­la­to in ca­sa, ho det­to: "Beh, di una co­sa si può es­ser si­cu­ri: che que­sto non co­no­sce Marx”. Tre gior­ni do­po è usci­to sul gior­na­le che lui non ha mai let­to Marx…

Pe­rò, ec­co, han­no un’idea del con­flit­to di clas­se e dei di­rit­ti dei la­vo­ra­to­ri mol­to pre­ci­sa e ac­cet­ta­no il com­pro­mes­so me­no di quel che, nel me­stie­re del sin­da­ca­to, di so­li­to si fa. In qual­che mo­do so­no po­co "sin­da­ca­to” per­ché so­no po­co ne­go­zia­li. Lo­ro ov­via­men­te ri­spon­do­no che so­no po­co ne­go­zia­li per­ché non pos­so­no trat­ta­re quel­le ro­be lì, non pos­so­no ce­de­re su quei pun­ti lì.

Lo­ro ad­di­rit­tu­ra ri­fiu­ta­no l’asim­me­tria fra ca­pi­ta­le e la­vo­ro (ap­proc­cio che ha qual­che ra­di­ce nel­la po­li­ti­ca del­la Cgil) che è quel­la che giu­sti­fi­ca tut­to il di­rit­to del la­vo­ro e mol­ti pez­zi di tan­te co­sti­tu­zio­ni. Per lo­ro è un’asim­me­tria inac­cet­ta­bi­le.

La con­se­guen­za è che la Fiom, con l’im­pre­sa, vuo­le ne­go­zia­re tut­to e in pa­ri­tà. Il che evi­den­te­men­te non è pos­si­bi­le. Per­ché nel ca­pi­ta­li­smo un’asim­me­tria c’è e sta pro­prio nel fat­to che non puoi ne­go­zia­re tut­to. Non puoi met­te­re il na­so su tut­to quel che fa e vuo­le fa­re l’azien­da.
Fi­ni­sco di­cen­do che die­tro a que­sta par­ti­co­la­re li­nea do­ve la lo­gi­ca dell’in­tran­si­gen­za si co­niu­ga con l’in­tran­si­gen­za del­la lo­gi­ca, io ci ve­do quel "sin­da­ca­to dei di­rit­ti” che fu pen­sa­to da Tren­tin, che è sta­to in­te­so e frain­te­so in mo­di di­ver­si, ma uno dei mo­di in cui es­so è sta­to in­te­so era que­sto. E cioè il po­stu­la­to di un az­ze­ra­men­to dell’asim­me­tria. L’asim­me­tria c’è, la si sof­fre, la si de­nun­cia tut­ti i gior­ni, ma noi non l’ac­cet­tia­mo. Noi vo­glia­mo ne­go­zia­re tut­to. Il pa­dro­ne non può fa­re tut­to quel che vuo­le, do­vre­mo di­scu­te­re con lui tut­to quan­to.

Ri­pe­to: que­sto può an­che es­se­re ri­te­nu­to nor­ma­lis­si­mo per un sin­da­ca­to, ma l’en­fa­si che po­ne la Fiom su que­sta piat­ta­for­ma ope­ra­ti­va è ta­le da aver­la in­dot­ta a non sot­to­scri­ve­re tan­ti ac­cor­di.

I vec­chi di­co­no che uno, quan­do vie­ne scon­fit­to due, tre, quat­tro vol­te, do­vreb­be chie­der­si: "Beh, ma com’è che m’han­no scon­fit­to?”. E non si può ri­spon­de­re: "Era­no cat­ti­vi!”.

È un po’ la vi­cen­da del­la scon­fit­ta del­la Cgil al­la Fiat nel ’55, che io ho vis­su­to per­so­nal­men­te. Il gior­no pri­ma -io ero mem­bro del­la com­mis­sio­ne in­ter­na- era­va­mo an­da­ti a dif­fon­de­re un vo­lan­ti­no, l’ul­ti­mo mes­sag­gio ai com­pa­gni del­la Fiat. E ri­cor­do che ci di­ce­va­mo: "Spe­ria­mo che vo­ti­no be­ne”. In­ve­ce non vo­ta­ro­no be­ne. Noi a quel pun­to ave­va­mo tut­te le no­stre cau­se espli­ca­ti­ve: il re­gi­me di fab­bri­ca, la com­pres­sio­ne dei di­rit­ti, il li­cen­zia­men­to dei dis­si­den­ti. Pe­rò poi Di Vit­to­rio dis­se: "Sì, vab­bé, ho ca­pi­to, pe­rò”.

In­ten­dia­mo­ci, an­che Di Vit­to­rio era mol­to con­fu­so. La sua po­si­zio­ne con­tro la con­trat­ta­zio­ne azien­da­le cer­to non aiu­ta­va la com­pren­sio­ne del pro­ble­ma. All’epo­ca la Fiat era un im­pe­ro. Il wel­fa­re del­la sa­lu­te a To­ri­no non era l’Inam, l’Isti­tu­to Na­zio­na­le As­si­cu­ra­zio­ne Ma­lat­tie, ma la Malf, la Mu­tua Azien­da­le La­vo­ra­to­ri Fiat.

La con­di­zio­ne dei la­vo­ra­to­ri Fiat era mol­to di­ver­sa da quel­la de­gli al­tri.

Quin­di si può di­re che era­no mol­to cat­ti­vi, pe­rò il lo­ro pa­ter­na­li­smo azien­da­le era co­spi­cuo, c’era­no pa­rec­chi be­ne­fit. Io, quand’ero ra­gaz­zi­no, an­da­vo a pren­de­re la be­fa­na Fiat, co­me fi­glio di di­pen­den­ti.

Che co­sa si po­te­va ne­go­zia­re con una sif­fat­ta azien­da, in­ve­ce di su­bi­re co­me un dan­no i suoi re­ga­li? Che co­sa chie­de­re all’azien­da? Ec­co, co­me di­ce­va Ga­ra­vi­ni, bi­so­gna­va ot­te­ne­re la con­trat­ta­zio­ne in tut­ti gli aspet­ti del rap­por­to di la­vo­ro, che il sin­da­ca­to all’epo­ca non con­trat­ta­va di si­cu­ro.

Per fi­ni­re con la Fiom, la mia im­pres­sio­ne è che non si sia­no chie­sti a suf­fi­cien­za co­me mai va­rie bat­ta­glie sia­no fi­ni­te ma­le.

La pri­ma vol­ta che me ne so­no ac­cor­to è sta­to nel 1980 quan­do ave­vo fat­to una gran­de in­chie­sta sul­le pro­pen­sio­ni dei la­vo­ra­to­ri ver­so il con­flit­to e la par­te­ci­pa­zio­ne, ed era usci­to che la mag­gio­ran­za re­la­ti­va dei la­vo­ra­to­ri era per la coo­pe­ra­zio­ne fra la­vo­ra­to­ri e pa­dro­ni. Mi sal­ta­ro­no ad­dos­so co­me se fos­si un mat­to!

Poi, nel­lo stes­so an­no ci fu la lot­ta dei tren­ta­cin­que gior­ni, che fu un’al­tra le­gna­ta…

Da al­lo­ra in poi la Fiom avreb­be do­vu­to fa­re un pa­io di ri­fles­sio­ni che non ha fat­to. Mi di­spia­ce dir­lo ades­so per­ché la Fiom, po­ve­ret­ta, è sot­to ti­ro e pe­rò…


Tor­nan­do a quel­la che lei de­fi­ni­sce co­me la no­vi­tà più gra­ve e di­rom­pen­te, quel­la dell’esclu­sio­ne di un sin­da­ca­to, co­sa suc­ce­de ades­so? C’è chi di­ce che la Con­fin­du­stria ne esce al­tret­tan­to ma­le del sin­da­ca­to…


Al­lo­ra, quel­la è la co­sa più inac­cet­ta­bi­le per­ché non esi­ste in Eu­ro­pa. è una as­so­lu­ta no­vi­tà nel si­ste­ma del­la rap­pre­sen­tan­za.

La Fiat che fa­rà? Ha fat­to que­sta fin­ta azien­da, que­sta new­co, for­se ne fa­rà an­che al­tre.

An­che la Con­fin­du­stria, in ef­fet­ti, ne esce ma­lis­si­mo, per­ché la sua rap­pre­sen­ta­ti­vi­tà vie­ne in­tac­ca­ta. La Con­fin­du­stria non vie­ne esclu­sa, ri­ma­ne co­me lob­by di ri­fe­ri­men­to, pe­rò, se si al­lar­ga que­sta pro­spet­ti­va, e ve­do che al­cu­ni au­to­ri la dan­no per pro­ba­bi­le, il suo po­te­re con­trat­tua­le ca­le­rà dra­sti­ca­men­te.

Al­lo­ra, l’esclu­sio­ne del sin­da­ca­to che dis­sen­te è la co­sa più gros­sa e più gra­ve an­che per le con­se­guen­ze a ve­ni­re, ma cer­ta­men­te an­che l’idea che va­rie azien­de si fac­cia­no il lo­ro con­trat­to azien­da­le ap­pic­ci­can­do­si o me­no ad un even­tua­le con­trat­to na­zio­na­le, che al­tri han­no al po­sto del con­trat­to azien­da­le, crea un di­scre­to ma­ra­sma.

Non a ca­so, la Con­fin­du­stria ha riu­ni­to un or­ga­no par­ti­co­la­re per de­ci­de­re su que­sta que­stio­ne, e la pro­nun­cia è sta­ta di gran­dis­si­ma cau­te­la per­ché io pen­so che più di me­tà de­gli im­pren­di­to­ri non vo­glia que­sto. E non lo vuo­le per­ché pen­sa che ne ver­ran­no guai.

Un fun­zio­na­men­to ef­fi­cien­te del si­ste­ma pro­dut­ti­vo pre­ve­de in­fat­ti un mi­ni­mo di coo­pe­ra­zio­ne fra le par­ti. Quan­do il sin­da­ca­to fir­ma il con­trat­to di la­vo­ro è una co­sa an­che li­be­ra­to­ria per le re­la­zio­ni re­ci­pro­che: "Me­no ma­le che c’è ‘sto con­trat­to di la­vo­ro, co­sì per tre o quat­tro an­ni stia­mo tran­quil­li”.

Se in­ve­ce co­min­cia­no ad es­ser­ci dei bu­chi per­ché uno non ha il con­trat­to na­zio­na­le, un al­tro ha un con­trat­to azien­dal-set­to­ria­le, un al­tro an­co­ra ha fat­to una so­cie­tà nuo­va, beh, in­som­ma, si pro­fi­la un bel pa­stic­cio!

Dav­ve­ro ci si de­ve au­gu­ra­re che quel che fa la Fiat non lo fac­cia­no an­che gli al­tri.


Ma se­con­do lei l’esclu­sio­ne del­la Fiom è sta­ta pre­me­di­ta­ta o è sta­ta la con­se­guen­za di un con­ca­te­na­men­to di even­ti?

Quan­do uno fa un cal­co­lo sul­le pro­spet­ti­ve for­mu­la una se­rie di ipo­te­si: "Se suc­ce­de que­sto…”. Beh, io cre­do che l’op­zio­ne "se suc­ce­de che la Fiom non fir­mi”, l’ab­bia­no te­nu­ta ben pre­sen­te.

Ma il pun­to è che lo­ro vo­le­va­no la go­ver­na­bi­li­tà e Po­mi­glia­no non è un mo­del­lo di go­ver­na­bi­li­tà, da tan­to tem­po. Non è nean­che col­pa del­la Fiat in sen­so stret­to. Ba­ste­reb­be ci­ta­re i ca­si cla­mo­ro­si: ma­ga­ri poi la­vo­ra­va­no an­che se il gior­no pri­ma era­no an­da­ti tut­ti al­la par­ti­ta, pe­rò cer­to fa im­pres­sio­ne; co­sì co­me fa im­pres­sio­ne che sia­no an­da­ti tut­ti a far gli scru­ta­to­ri. So­no co­se che quan­do uno le vie­ne a sa­pe­re, s’ar­ren­de e di­ce: "Vab­bé”. Il con­cet­to di go­ver­na­bi­li­tà dell’azien­da co­mun­que è tutt’al­tro che ba­na­le.

La go­ver­na­bi­li­tà dell’im­pre­sa è ciò che ha man­da­to in cri­si il for­di­smo per­ché l’azien­da ri­gi­da, ma­sto­don­ti­ca, gof­fa, an­che len­ta, del for­di­smo avan­za­to, di fron­te ad un mer­ca­to mol­to più spic­cio­lo, non era più go­ver­na­bi­le. è sta­ta la ri­gi­di­tà a far ca­de­re il for­di­smo. Il po­st-for­di­smo in­fat­ti si è af­fer­ma­to con la fles­si­bi­li­tà. Quan­do Mar­chion­ne chie­de la go­ver­na­bi­li­tà dell’im­pre­sa, quel­lo che vuo­le è un’im­pre­sa ul­tra fles­si­bi­le, si­ste­mi­ca­men­te fles­si­bi­le -non fles­si­bi­le all’oc­ca­sio­ne.

È que­sta ma­cro fles­si­bi­li­tà il pro­ble­ma. Die­ci an­ni fa la fles­si­bi­li­tà era quel­la dei tem­pi di la­vo­ro, og­gi un’in­te­ra fab­bri­ca si de­ve po­ter fer­ma­re, ri­par­ti­re, la­vo­ra­re di più, la­vo­ra­re di me­no. Que­sta ma­xi fles­si­bi­li­tà og­gi è for­se l’ul­ti­mo spun­to per­ché non si può ti­ra­re il col­lo ai la­vo­ra­to­ri e al­le co­se più di co­sì, in no­me del­la per­so­na­liz­za­zio­ne del pro­dot­to, del pro­dur­re per ogni sin­go­lo con­su­ma­to­re.

For­se l’in­te­ra vi­cen­da Fiat-Mar­chion­ne al­la fi­ne è la pro­va di una per­di­ta di pe­so del la­vo­ro im­ma­ne, ve­ra­men­te im­ma­ne. E noi non sia­mo abi­tua­ti. In Eu­ro­pa una co­sa co­sì non si era mai vi­sta. Al­tro­ve c’era­no sta­te si­tua­zio­ni ana­lo­ghe, ma le co­se era­no sta­te ge­sti­te me­glio.

Nel no­stro Pae­se, so­prat­tut­to per col­pa del Go­ver­no, la si­tua­zio­ne, in­ve­ce, si è pro­prio svac­ca­ta, se pos­so dir co­sì. In as­sen­za di un in­ter­me­dia­rio po­li­ti­co, l’eco­no­mia ha espul­so da sé tut­ti i cor­pi estra­nei, con il ri­sul­ta­to che il big ma­na­ge­ment ha con­ta­to più del big go­vern­ment. È que­sta la gran­de no­vi­tà. L’Ita­lia, poi, è un ca­so pe­no­so per via del suo big go­ver­nant, pe­rò la ten­den­za è quel­la. E se vin­ce il big ma­na­ge­ment, il la­vo­ro ci ri­met­te. Pun­to.

*Aris Ac­cor­ne­ro in­se­gna So­cio­lo­gia in­du­stria­le pres­so l’Uni­ver­si­tà di Ro­ma "La sa­pien­za”; in­sie­me a Ti­zia­no Treu e Ce­sa­re Da­mia­no ha fon­da­to Eli, Eu­ro­pa­La­vo­roIm­pre­sa. Ha pub­bli­ca­to, tra l’al­tro, Era il se­co­lo del la­vo­ro, Il Mu­li­no 1997; in­sie­me a A. Orio­li, L’ul­ti­mo ta­bù. La­vo­ra­re con me­no vin­co­li e più respon­sabilità, La­ter­za 1999; San Pre­ca­rio la­vo­ra per noi, Riz­zo­li, 2006.

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