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eticaeconomia

Buon bi-centenario, Karl Marx!

di Domenico Mario Nuti

merlin 23520832 a4f6afcProbabilmente sono in pochi, fra i Marxisti come fra i nemici del Marxismo, a rendersi conto che – paradossalmente – il più alto elogio del capitalismo può essere trovato in Marx ed Engels, nel Manifesto del Partito Comunista (1848), che riconosce senza mezzi termini che il sistema capitalista ha promosso l’urbanizzazione, l’industrializzazione, il progresso tecnico, la crescita economica e una prosperità senza precedenti:

“La borghesia, durante il suo dominio di cento anni scarsi, ha creato forze produttive più massicce e colossali di tutte le generazioni precedenti messe insieme. L’assoggettamento all’uomo delle forze della natura, le macchine, l’applicazione della chimica all’industria e all’agricoltura, la navigazione a vapore, ferrovie, telegrafi elettrici, le opere necessarie alla coltivazione di interi continenti, le canalizzazioni dei fiumi, la comparsa di intere popolazioni – chi mai nei secoli precedenti aveva avuto anche il solo presentimento di tali forze produttive... La borghesia, con il rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con l’immensa agevolazione dei mezzi di comunicazione, ha portato alla civiltà tutte le nazioni, anche le più barbare.”

Al tempo stesso, Marx vedeva il capitalismo come una forma sistematica di sfruttamento del lavoro. Le società primitive a suo parere non generavano sfruttamento poiché i soggetti economici scambiavano prodotti che incorporavano all’incirca quantità equivalenti di lavoro. Nella schiavitù lo sfruttamento era in realtà minore di quanto non sembrasse perché, anche se il lavoro non era pagato, l’autoconsumo degli schiavi permetteva loro di recuperare una parte del proprio lavoro.

Il feudalesimo era apertamente un sistema di sfruttamento, perché la quantità di lavoro svolto dai lavoratori per sé stessi e per i loro padroni feudali era chiaramente stipulata e visibile; mentre nel capitalismo sembrava che lo sfruttamento non ci fosse affatto, dal momento che tutto il lavoro era pagato con un salario, ma in realtà i lavoratori eseguivano più lavoro di quanto non fosse incorporato nei loro mezzi di consumo, e così c’era un surplus di lavoro non pagato che veniva appropriato dai capitalisti.

Marx trascurava del tutto l’imprenditorialità, l’incertezza e il rischio e la loro ricompensa: in queste circostanze una quota positiva di profitti è sufficiente a dedurre la presenza di sfruttamento, senza la digressione superflua della teoria Marxiana del valore-lavoro.

Inoltre la sostituzione e la crescita del capitale fisso sarebbe necessaria in ogni modo di produzione (compreso il socialismo, come sottolineato da Pareto 1890 nella sua recensione del Capitale): pertanto lo sfruttamento dovrebbe essere limitato al massimo al consumo dei capitalisti. Tuttavia Marx considerava come sfruttamento tutti i profitti, consumati o re-investiti che fossero, perché a suo modo di vedere avevano origine in ultima analisi – direttamente o indirettamente – in un processo di “accumulazione primitiva”, radicata nel furto, la rapina, la conquista, la guerra e altre forme di violenza.

Indubbiamente la disuguaglianza della ricchezza e dei redditi è una caratteristica distintiva del capitalismo. Tuttavia la sua caratteristica giustificazione era il finanziamento degli investimenti e lo sviluppo economico: “Accumulate! Accumulate! Così comandano Mosè e i Profeti” (Capitale, vol I, Ch.24).

Marx aveva modellato i flussi intersettoriali e le condizioni di equilibrio per un’economia sia stazionaria che in crescita nei suoi schemi di riproduzione semplice e allargata a due settori (verticalmente integrati e producenti rispettivamente beni di consumo e di investimento). Tuttavia egli esagerava l’instabilità del sistema capitalistico ipotizzando che i profitti dovessero essere necessariamente reinvestiti nello stesso settore in cui erano generati, mentre invece il re-investimento non è mai soggetto a questa arbitraria restrizione. (Lange 1970 amplificava eccessivamente la presunta instabilità del sistema mantenendo questa indebita restrizione in un modello multisettoriale).

Marx considerava il capitalismo come un sistema totalmente caotico e anarchico, che naturalmente causava disoccupazione del lavoro e la sottoutilizzazione di tutte le altre risorse, nonché costose crisi e fluttuazioni economiche. Egli trascurava però processi automatici di aggiustamento economico, che operano in modo imperfetto, a volte troppo veloce o troppo lento, ma sono pur sempre tipici del funzionamento dei mercati in un sistema economico capitalista.

Questi processi automatici sono: nel breve termine, per un dato livello di produzione, l’aggiustamento Walrasiano dei prezzi a ogni eventuale eccesso di domanda positivo o negativo; nel medio termine, al variare del livello di produzione, l’aggiustamento Marshalliano della produzione delle imprese al prezzo dei loro prodotto relativamente al loro costo marginale, nonché la trasmissione agli altri settori del fabbisogno di inputs corrispondente alla variazione di produzione (attivando quello che Goodwin 1949 chiama “il moltiplicatore come matrice”). Nel lungo termine, quando può variare la capacità produttiva, avviene infine l’aggiustamento graduale dello stock di capitale effettivo a quello che, in considerazione del livello di domanda, è desiderato dalle imprese – un aggiustamento verso l’alto tramite un investimento netto positivo o verso il basso attraverso la mancata sostituzione del capitale in eccesso. Questi processi di aggiustamento sono radicati nella massimizzazione del profitto da parte di imprese che operano in un sistema di mercati, i cui proprietari si appropriano del profitto a proprio vantaggio. E naturalmente va sottolineato che questi meccanismi di aggiustamento autoregolano la produzione, i prezzi, le transazioni intersettoriali e la capacità produttiva – ma non si autoregolano come istituzioni (con un processo che sarebbe di “autopoiesi”), e per questo la loro creazione, regolamentazione e garanzia rimangono funzioni fondamentali dello stato.

Goodwin (1947, 1951a e 1953) paragona i meccanismi di aggiustamento operati dai mercati a meccanismi omeostatici, come ad esempio un termostato, che registra la temperatura e automaticamente attiva sistemi di riscaldamento e raffreddamento in modo da ridurre la differenza fra temperatura desiderata e temperatura effettiva (vedi anche Leijonhuvfud 1970).

La stessa logica è meno cogente e molto controversa nel caso dei mercati finanziari. L’intermediazione finanziaria crea valore modificando le dimensioni, maturità e rischiosità della domanda e offerta di assets finanziari, ma la loro continua operazione è associata a episodi sia di euforia che di panico. I mercati finanziari contribuiscono allo sviluppo a costo di una maggiore vulnerabilità e instabilità potenziale. Keynes sosteneva che l’investimento finanziario sarebbe dovuto essere indissolubile come il matrimonio (o meglio, dovremmo dire, il divorzio sarebbe dovuto essere ugualmente costoso e traumatico). I prodotti derivati, il cui valore dipende dal valore degli assets sottostanti che essi amplificano e moltiplicano, possono contribuire all’aumento del rischio complessivo anziché alla sua distribuzione su un ampio numero di agenti. Per questo Buiter (2009) proponeva di riservare le transazioni sui derivati ad agenti che le possano giustificare sulla base di un interesse assicurabile sottostante.

L’alternativa alla funzione dei mercati visti come termostati è la regolazione manuale della temperatura o dei processi equivalenti; il controllo manuale – in termini economici – corrisponde alla pianificazione centrale. La desiderabilità di meccanismi di autoregolamentazione di mercato rispetto alla pianificazione centrale dipende dalla velocità di reazione del sistema, dalla tendenza a ridurre o amplificare una eventuale divergenza fra obiettivi e realtà, dalla stabilità o meno di questi processi. Possono aversi circostanze in cui il controllo manuale (pianificazione) è preferibile al controllo automatico (i mercati). Il mio esempio preferito è tratto da Star Wars: quando Luke Skywalker deve colpire con un sol colpo il cuore dell’Impero, disattiva il meccanismo automatico di mira e ricorre al sistema manuale. Ma lo giustificano circostanze eccezionali: ha un solo obiettivo, può centrarlo o mancarlo senza gradi intermedi di successo, e … la Forza è con lui.

Questi processi automatici di aggiustamento, insiti in un sistema di mercato, sebbene imperfetti hanno reso il sistema capitalista più flessibile, al tempo stesso esponendolo al rischio di possibili episodi ancora più gravi di disoccupazione, instabilità e ristagno.

Uno dei principali contributi di Marx all’economia politica è una teoria evoluzionista (“Darwiniana”, a detta di Engels nel suo discorso funebre celebrativo “Sulla tomba di Marx”, 1883) dei modi di produzione, intesi nel senso moderno di sistemi economici, come assetti istituzionali che regolano la produzione e lo scambio dei beni economici.

Per Marx l’azione del lavoro sulla natura porta allo sviluppo delle forze di produzione (risorse naturali, accumulazione di capitale fisico e umano, lo stato delle conoscenze tecniche). Questo sviluppo porta al sorgere di contraddizioni tra il potenziale produttivo della società e i rapporti di produzione dominanti (ad esempio le regole sulla proprietà, organizzazione della produzione, etc.). I rapporti di produzione allora vengono modificati in modo da eliminare tali contraddizioni, realizzando “la legge della necessaria corrispondenza dei rapporti di produzione al carattere delle forze produttive” (Lange, 1963).

Ulteriori contraddizioni emergono tra la base economica (i rapporti di produzione) e la sovrastruttura del sistema, quest’ultima intesa come le relazioni sociali e la coscienza sociale (religione, ideologia, cultura, eccetera; Lange fa l’esempio del sostegno al capitalismo implicito nell’etica Protestante) che contribuiscono alla legittimazione del modo di produzione esistente. Conflitti e contraddizioni tra i vari elementi del sistema e la loro risoluzione guidano la sua evoluzione, secondo “la legge della necessaria corrispondenza della sovrastruttura alla base economica”. Forze produttive e rapporti di produzione definiscono un modo di produzione, anche se in ogni momento coesistono residui di modi di produzione precedenti e embrioni della sovrastruttura della società futura.

Nel suo approccio originale all’evoluzione dei sistemi economici in ogni caso Marx faceva tre errori principali: egli credeva che ci sarebbe stato un punto di arrivo di questo percorso evolutivo, ossia il comunismo pieno (con prevalenza di beni liberi, distribuzione in base ai bisogni, e la fine dello Stato), senza classi e quindi non antagonista, sotto il quale non ci sarebbero stati più conflitti né contraddizioni; che ci dovesse essere una progressione lineare dei sistemi economici, dalle società primitive alla schiavitù al feudalesimo al capitalismo (sia pure con un possibile dirottamento rappresentato dal modo Asiatico di produzione), il socialismo e il comunismo pieno; che l’evoluzione del sistema sarebbe stata dominata da una forma estrema di materialismo dialettico, o determinismo economico, con un ruolo esclusivo dei fattori economici.

Mentre invece il comunismo pieno è rimasto un obiettivo mai realizzato; negli anni ’90 il socialismo si è ri-trasformato in capitalismo, per di più in una forma estrema di iper-liberalismo, e i fattori economici non sono che una parte sia pure importante delle molteplici cause delle trasformazioni sistemiche.

Una profezia di Marx che invece si è puntualmente avverata è quella del progressivo immiserimento relativo del proletariato. Infatti, mentre in termini assoluti il progresso economico capitalistico ha aumentato immensamente gli standards di vita e ridotto la povertà oltre le più ottimistiche aspettative, in termini relativi soprattutto in questo secolo la quota dei ricchi nel reddito e nella ricchezza globale è andata aumentando a ritmi elevati senza precedenti e raggiunto livelli record.

Secondo Oxfam (2016) nel 2015 i 62 individui più ricchi avevano aumentato la loro ricchezza del 44% rispetto al 2010, raggiungendo la stessa ricchezza complessiva del 50% più povero della popolazione mondiale, che al contrario si impoveriva del 41% nello stesso periodo (nel 2010 per totalizzare la stessa ricchezza del più povero 50% almeno gli individui più ricchi necessari erano molti di più, 388 invece di 62). Dal 2008 in poi la ricchezza dell’1% più ricco della popolazione globale è andata crescendo ad una media annuale del 6% – molto più rapidamente del tasso del 3% a cui è cresciuta la ricchezza del rimanente 99% della popolazione globale: di questo passo nel 2030 il top 1% verrebbe a detenere $305mila miliardi rispetto ai $140mila miliardi di oggi, raggiungendo i due/terzi della ricchezza mondiale (Guardian, 13/4/2018).

Il problema è che i ricchi risparmiano proporzionalmente più dei poveri, e la disuguaglianza prima o poi conduce a una mancata corrispondenza tra risparmio e investimento e al ristagno secolare. Questa tesi del ristagno secolare veniva proposta per primo da Hobson 1902, e riproposta da Hansen 1939 a spiegare il ristagno statunitense degli anni ’30; economisti neo-Keynesiani come Steindl (1952) e Marxisti come Sweezy e Baran (1958) avevano rappresentato questa tradizione negli anni ’50; Summers (2015) la riprendeva come spiegazione dei fenomeni che hanno accompagnato la Grande Recessione globale iniziata nel 2007 e ancora devastante. La disuguaglianza crescente sta minando le stesse fondamenta del capitalismo iperliberale, globalista e austeritario imperante.

La notizia che Marx è morto e Dio è morto chiaramente sono delle grossolane esagerazioni.


* Una versione inglese di questo scritto è stata pubblicata sul Blog dell’autore il 5/05/2018. Il testo è tratto da un saggio molto più ampio su “Ascesa e Caduta del Socialismo”, scaricabile da https://1drv.ms/w/s!AvJLj9Zdu3xmhHlwCfduoiGz790c a cui si rinvia per i riferimenti bibliografici.

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