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Stato e rivoluzione. Problemi filosofico politici della trasformazione in un mondo al collasso

di Gianni Fresu (Università di Cagliari)

MAR Progetto 1167 Atlante secondo Lenin 1976 1 scaled.jpgIntroduzione

In termini di profondità e dirompenza, i drammatici avvenimenti internazionali che travolsero il mondo tra il 1914 e il 1918 esemplificano come poche altre epoche storiche cosa si intenda per «crisi organica». Ciò vale particolarmente per la Russia sconquassata dalle molteplici conseguenze di una guerra disastrosa che, acutizzando i problemi strutturali di questo immenso Paese, portò al clamoroso crollo dell’impero zarista nel febbraio 1917. Dobbiamo la conoscenza di quanto accadde nella caotica Russia post-rivoluzionaria soprattutto al talento di tre grandi scrittori che, come ha scritto Ronald W. Clark, del loro soggiorno russo non lasciarono soltanto freddi resoconti di cronaca giornalistica. Tre narratori di eccezione come M. Philips Price, Arthur Ransome e John Reed, infatti, descrissero con vividi affreschi le immagini decadenti di un vecchio mondo che moriva, volgendo al contempo la propria curiosa attenzione verso i primi vagiti di quello nuovo che tentava disperatamente di nascere. Anche grazie a loro è stato possibile ricostruire il ruolo politico di Lenin in uno scenario per molti versi grottesco, nel quale, a causa di una guerra sconsiderata, la stragrande maggioranza della popolazione viveva nella miseria più assoluta e pativa la fame, mentre per ristrette fasce di popolazione nulla era cambiato.

«A Pietrogrado, all’Hotel Europa, c’era ancora Jimmy, del Waldorf-Astoria di New York, che continuava a servire i suoi cocktail. La Karsavina danzava ancora Il lago dei cigni davanti a platee rapite e Šaljapin continuava a deliziare i suoi ascoltatori in immacolati abiti da sera. Benché le riserve di viveri si facessero sempre più scarse, la maggior parte dei ristoranti di lusso non solo era aperta, ma faceva affari d’oro. Lo stesso avveniva per i teatri e i cabaret, anche se alle loro porte si svolgevano dimostrazioni e controdimostrazioni che spesso degeneravano in tumulti»1.

Come è noto, partito da Zurigo il 9 aprile 1917, Lenin fece «trionfalmente» rientro nella stazione di Pietrogrado il 16 in un contesto oggettivamente e soggettivamente precario, denso di contraddizioni e di difficile decifrazione, che gettava la sua ombra di incertezza su ogni aspetto della situazione presente e futura2. Nei mesi che seguirono, con il pieno divampare di una guerra sempre più fallimentare per la Russia, la dura dialettica tra aspirazioni progressive di cambiamento e tentativi di restaurazione reazionaria volse a favore di mai sopiti propositi di colpo di Stato autoritario, costringendo il rivoluzionario russo, minacciato di morte e accusato di essere un agente provocatore, a lasciare Pietrogrado.

A seguito di un ordine di cattura emesso dal governo provvisorio il 6 luglio, la polizia irruppe nella casa di Lenin perquisendola in sua assenza. Il dirigente bolscevico, rifugiatosi nell’appartamento di Sergej Alliluev, inizialmente pensò di presentarsi in tribunale, ma i vertici del partito presero una decisione contraria, nella convinzione che in caso di comparizione Lenin sarebbe stato condotto dinnanzi al plotone di esecuzione. Per scongiurare questo epilogo, venne stabilito che l’operaio bolscevico N.A.Emel’janov organizzasse il suo trasferimento in una baita sulle rive del lago di Razliv a trenta chilometri da Pietrogrado, quindi, dopo essersi nel mentre spostati in una piccola casa più appartata, in Finlandia. Raggiunta Helsinki, dove ad accoglierlo e proteggerne il trasferimento nella propria casa si recò un esponente dalla milizia operaia di Helsingfors provvisoriamente nominato capo della polizia della capitale finlandese, Lenin approfittò di quella condizione di esilio forzato per tornare ai suoi recenti studi da esiliato bruscamente interrotti al momento di rientrare in patria:

«L’idea di riprendere il lavoro del quale aveva concepito il progetto all’estero alla vigilia dell’esplosione rivoluzionaria lo ossessionava ancora in casa di Emel’janov. La cosa si presentava allora materialmente impossibile: ora invece egli aveva a propria disposizione quasi tutti i libri necessari. Si mise al lavoro fin dal primo giorno della sua sistemazione in casa del capo della polizia finlandese. Così nacque Stato e rivoluzione, L’ultima delle grandi opere teoriche di Lenin»3.

Scritta tra l'agosto e il settembre del 1917, questa è probabilmente l'opera più influente, letta, apprezzata e forse pure equivocata di Lenin, la cui importanza è «indiscutibile anche per i biografi e gli analisti che la considerano insignificante e rudimentale dal punto di vista teorico. Nemmeno i critici che la esaminano a-storicamente, isolandola come una sorta di opera specialistica o che non è stata convalidata dalla storia ed è quindi priva di interesse, possono ignorarla. L'argomento fondamentale dell'opera è la sua area di interesse che copre l'intersezione tra Stato e relazioni di classe nella teoria marxista»4.

Il lavoro di stesura di Stato e rivoluzione ha il suo prologo negli studi attorno alla concezione marxista dello Stato realizzati in Svizzera annotati nel famoso quaderno blu, dal quale nelle successive peregrinazioni rivoluzionarie egli non si separò mai5. Come testimoniato da un biglietto trovato dalla polizia durante perquisizioni della sua casa di San Pietrogrado, abbandonata in tutta fretta nel culmine delle tumultuose giornate di luglio, Lenin, attribuendo grande importanza a questo quaderno, lasciò precise disposizioni affinché Kamenev lo pubblicasse in caso di suo assassinio6.

 

  1. La «durevole importanza» di Stato e rivoluzione

A partire dallo scoppio della rivoluzione di febbraio, le attenzioni di Lenin attorno al dualismo di poteri e all’esperienza del Soviet si orientano verso la questione dello Stato in quanto tale. In tal senso, rileva Gruppi,

«quando i compiti pratici spingono con maggiore urgenza, Lenin utilizza la pausa relativa della clandestinità per impegnarsi nello sforzo teorico più generalizzatore. È questo un tratto tipico della sua personalità di rivoluzionario: trarre dall’urgenza dei compiti pratici la necessità della riflessione teorica»7.

Se altri suoi scritti come il Che fare? e Imperialismo nascono con l’ambizione di innovare, questo saggio intende invece fare un consuntivo, liberando la teoria socialista dello Stato di Marx dalle successive incrostazioni evoluzionistiche del socialismo positivista, reso teoria ufficiale del movimento nella Seconda Internazionale. Essendosi fino ad allora occupato delle peculiari forme di sviluppo del capitalismo russo, della teoria attorno al partito in una simile realtà e delle trasformazioni imperialistiche nel capitalismo internazionale tra fine Ottocento e inizio del Novecento, Lenin giunge a occuparsi relativamente tardi dello Stato.

Da questo punto di vista, il periodo dell’esilio svizzero, nel quale egli compie le sue investigazioni attorno al diritto di autodeterminazione del socialismo e quelle sull’imperialismo come fase suprema del capitalismo, conducendo al contempo i suoi studi filosofici attorno a Hegel, è sicuramente uno dei più fecondi per l’attività politica e teorica di Lenin8. A partire da una simile immersione analitica, il dirigente bolscevico avvia le sue riflessioni attorno al problema dello Stato borghese intraprendendo un percorso analitico di estrema importanza per il marxismo. Già in Stato e rivoluzione, per molti versi la traduzione e sintesi degli studi condotti a Zurigo, Lenin coglie l’ambivalenza dei sistemi democratici e la loro tendenza a generare non solo conflitto tra capitale e lavoro ma anche crescenti contraddizioni tra la dimensione formale dell’uguaglianza, recintata nella dimensione negativa della libertà, e l’inertizzazione della sovranità popolare a vantaggio del «garantismo individualistico-proprietario» per mezzo del rapporto di rappresentanza. Proprio simili contraddizioni rendevano incomplete le prospettive di universalità dei sistemi liberali rappresentativi fino a favorire il decadimento burocratico dello Stato politico democratico.

Secondo Cerroni, la «durevole importanza» di Stato e rivoluzione consisterebbe nella capacità di sollevare con estrema chiarezza i termini essenziali dei problemi posti alla lotta politica da quel particolarissimo e irripetibile contesto storico, fornendo al movimento rivoluzionario una prospettiva teorica molto più complessa ed elevata di quanto generalmente venga rilevato in sede critica. Concentrando la sua attenzione sulle forme di consolidamento della macchina statale nell’epoca dell’imperialismo nei Paesi più avanzati dell’Occidente, Lenin per un verso sottolinea il rafforzamento degli strumenti repressivi contro la lotta di classe ma, per un altro, inizia già a fare i conti con altre forme più complesse e articolate di potere statale che vanno al di là del mero dominio9.

In tal senso, in uno scenario drammatico come quello descritto, Stato e rivoluzione tematizza nuovamente la questione della teoria marxista dello Stato, ribadendo l’impossibilità di un passaggio graduale e senza rotture dalla democrazia borghese al socialismo. Se in linea generale il suffragio universale non era in grado di intaccare la sostanza delle contraddizioni di classe immanenti alla società capitalistica, in una fase storica come quella, secondo Lenin, la via di uscita dalla barbarie responsabile di aver portato l’umanità al collasso andava ricercata con ancora più decisione in forme nuove, più dirette e meno mediate, di sovranità e partecipazione popolare. Gli interessi monopolistici dei diversi capitalismi nazionali erano riusciti a inertizzare politicamente gli effetti politici dell’allargamento del suffragio elettorale, trovando nelle forme rappresentative della delega parlamentare una trincea formidabile in difesa delle proprie necessità espansive. In un mondo corroso dallo spirito del nazionalismo imperialistico, tanto pervasivo da aver determinato la capitolazione della stessa Internazionale socialista, Lenin sentì la necessità di operare uno «spirito di scissione» dalle illusioni evoluzionistiche del movimento socialista utopisticamente persuase che sarebbe bastato cambiare la direzione dello Stato per mutarne la natura sociale.

«Questi due concetti [dittatura del proletariato e rottura rivoluzionaria] sono stati largamente dogmatizzati dagli apologeti di Lenin e, indirettamente anche dai suoi critici. Non li ha dogmatizzati però il politico Lenin che proprio nel 1917 – alla vigilia di Stato e rivoluzione – ci fornisce una interessante alternativa strategica che mira a raggiungere la distruzione del capitalismo in un modo molto originale che, se non si identifica con le proposte riformiste non si identifica neppure con la rivoluzione violenta10».

Fino alla rivoluzione di febbraio Lenin considera la prospettiva della Rivoluzione russa entro gli schemi di una tappa tipicamente democratico borghese, inscritta nel quadro generale della rivoluzione socialista europea. La rivoluzione del febbraio 1917 però, dopo tre anni di guerra, mutò profondamente il quadro tattico, bruciando rapidamente le tappe della rivoluzione democratico borghese e ponendo all'ordine del giorno la questione del passaggio del potere ai soviet. Questa transizione per Lenin non pone al socialismo immediatamente la questione della conquista del potere, ma determina le condizioni per un suo processo di affermazione entro un quadro istituzionale – che Lenin paragona alla Comune di Parigi – nuovo e più avanzato rispetto alla repubblica parlamentare: il sistema dei soviet.

Nel delineare questo passaggio, tuttavia, Lenin prende atto della posizione minoritaria dei bolscevichi, indicando nel lavoro teso alla conquista della maggioranza all'interno dei soviet e nella fine di ogni collaborazione con il governo provvisorio i compiti immediati dei bolscevichi. Nelle Tesi di aprile, al punto 4, Lenin scrive:

«Riconoscere che il nostro partito è minoranza, nella maggior parte dei soviet dei deputati operai, di fronte al blocco di tutti gli elementi opportunisti piccolo borghesi, che sono soggetti all'influenza della borghesia e che estendono quest'influenza al proletariato[...]. Spiegare alle masse che i soviet dei deputati operai sono l'unica forma possibile di governo rivoluzionario e che pertanto, fino a che questo governo sarà sottomesso all'influenza della borghesia, il nostro compito potrà consistere soltanto nello spiegare alle masse in modo paziente, sistematico, perseverante, conforme ai loro bisogni pratici, gli errori della loro tattica. Fino a che saremo in minoranza, svolgeremo un'opera di critica e di spiegazione degli errori, sostenendo in pari tempo la necessità del passaggio di tutto il potere statale ai soviet dei deputati operai, perché le masse possano liberarsi dei loro errori sulla base dell'esperienza11».

Ancora il 9 di aprile, nell’articolo Sul dualismo del potere pubblicato sulla “Pravda”, Lenin riafferma la necessità esercitare una direzione sulle grandi masse in modo da sconfiggere, per via consensuale e pacifica, il governo provvisorio:

«Per diventare il potere, gli operai coscienti devono conquistare la maggioranza: fino a quando non ci sarà violenza contro le masse, non c’è altro modo di giungere al potere. Noi non siamo dei blanquisti, non vogliamo la conquista del potere da parte di una minoranza. Siamo dei marxisti e sosteniamo la lotta di classe proletaria contro l'intossicazione piccolo-borghese, contro lo sciovinismo e il difensivismo, contro le frasi vuote, contro la soggezione alla borghesia12».

Le Tesi di aprile come è noto, suscitarono un ampio dibattito e profonde spaccature anche tra gli stessi bolscevichi, una parte dei quali non accettò la svolta operata da Lenin. Nelle Lettere sulla tattica Lenin precisa ulteriormente la sua linea e non perde occasione per polemizzare con quanti all'interno delle posizioni bolsceviche restano legati agli schemi astratti delle formule teoriche senza porsi il problema di verificarle nella realtà concreta. Le lettere sulla tattica costituiscono un documento assai importante che non solo chiarisce il senso tutt'altro che dogmatico o dottrinario del marxismo di Lenin, ma delinea il tema centrale della direzione da parte del proletariato delle grandi masse contadine; infatti, solo attraverso la stretta alleanza tra operai e masse contadine Lenin intravede la possibilità di sottrarre queste all'influenza della borghesia e creare con ciò le condizioni per il socialismo.

Richiamandosi alle polemiche di Engels contro «le formule imparate a memoria e ripetute meccanicamente», Lenin afferma che «il marxismo non è un dogma, ma una guida per l’azione», indicando la necessità sperimentale di tradurne i principi generali nella concretezza delle determinazioni reali:

«[le formule] nel migliore dei casi, possono tutt'al più indicare i compiti generali che vengono di necessità modificati dalla situazione economica e politica concreta di ciascuna fase del processo storico [...] il marxista deve tener conto della vita concreta, dei fatti precisi della realtà, e non abbarbicarsi alla teoria di ieri, che, come ogni teoria, indica nel migliore dei casi soltanto il fondamentale, il generale, si approssima soltanto a cogliere la complessità della vita13».

In quelle convulse e drammatiche giornate, nei fatti, si determinò il passaggio dalla prima alla seconda tappa della rivoluzione, ponendo all’ordine del giorno un problema oramai ineludibile: superare il dualismo di poteri tra governo provvisorio e soviet, uscire immediatamente dalla guerra e intraprendere senza più esitazioni la strada della democrazia sovietica. Per Lenin la vecchia formula bolscevica della «dittatura democratica rivoluzionaria del proletariato e dei contadini» si era inverata in un'istituzione storica concreta, il Soviet; la vecchia formula, secondo cui al dominio della borghesia doveva seguire quello del proletariato e dei contadini, aveva trovato nella realtà effettuale una traduzione in cui coesistevano simultaneamente, in un intreccio originale, l'uno e l'altro dominio ben rappresentati da quel dualismo di poteri che il governo provvisorio e i soviet esprimevano.

Pur avendo chiara coscienza di una transizione già impostasi alla realtà, Lenin esortava i bolscevichi a non cercare scorciatoie blanquiste, «giocando alla presa del potere da parte di un governo operaio», indicando l'obiettivo programmatico della conquista della maggioranza all'interno dei soviet tra i deputati degli operai, dei salariati agricoli, dei contadini e dei soldati. I compromessi raggiunti dai socialisti-rivoluzionari con le forze borghesi, nel quadro del governo provvisorio, rendevano impossibile l'attuazione del loro programma agrario, tutto ciò creava delle contraddizioni tra questo partito e la sua base sociale, appunto composta da piccola proprietà contadina e salariati agricoli, e ciò proprio in un momento nel quale si apriva un fossato sempre più grande tra queste categorie sociali e la grande proprietà contadina. Compito dei bolscevichi era dunque inserirsi in questa contraddizione e porsi nelle condizioni di esercitare un ruolo di direzione politica, portando egemonicamente dalla propria parte le grandi masse contadine.

Lenin avanza in questa fase un’ipotesi più graduale di transizione al socialismo all’interno di una condizione nella quale i bolscevichi accettino la coesistenza competitiva con le atre forze politiche per la conquista del consenso. Tuttavia, sebbene quasi sempre questo dato venga rimosso, chi realmente prese l’iniziativa della svolta violenta furono il governo provvisorio e i gruppi avversari dei bolscevichi coinvolti nelle trame golpiste contro le opposizioni che, per salvarsi da morte certa, costrinsero Lenin alla fuga.

 

  1. «Non ho avuto il tempo di scrivere una sola riga sulla rivoluzione»

Come è noto, nel vivo della stesura dell’ultimo capitolo di Stato e rivoluzione, dedicato alle rivoluzioni in Russia, il suo lavoro fu interrotto dal sopraggiungere degli eventi dell’ottobre del 1917, dunque Lenin dovette passare dallo scrivere sulla rivoluzione al farla concretamente. Come lui stesso chiarì, «all’infuori del titolo non ho avuto tempo di scriverne una sola riga, nei fui “impedito” dalla crisi politica (…). Non c’è che rallegrarsi di un tale impedimento»14. Per questa ragione, nonostante il titolo, quest’opera si occupò essenzialmente di Stato, mossa dalla necessità di prendere le distanze dalla statolatria del riformismo socialdemocratico e, al tempo stesso, non lasciare il tema della critica dello Stato borghese nelle sole mani del movimento anarchico.

In Stato e rivoluzione Lenin scrive che la Repubblica democratica, anche con il suffragio universale, rimane «il miglior involucro possibile per il capitalismo», e ciò per le possibilità egemoniche che «l’onnipotenza della ricchezza» rende disponibili alla borghesia. Tuttavia, Lenin afferma anche di essere a favore della Repubblica democratica perché, in un quadro di relazioni sociali di produzione capitalistiche, questa rappresenta comunque la forma migliore di Stato per il proletariato. «Lenin non è per il tanto peggio, tanto meglio», al contrario, egli ritiene che fino a quando sopravvive il capitalismo la Repubblica democratica garantisce migliori condizioni di vita, lavoro e soprattutto di lotta alle masse popolari:

«Per il passaggio del potere occorre la “violenza rivoluzionaria”, per la democrazia nuova occorre un potere già cambiato. Ma Lenin ha già detto prima che la stessa presa violenta del potere non può essere che operata dalla maggioranza, se non si vuole cadere nel putschismo blanquista. E l’azione per la conquista della maggioranza include tanto la stimolazione della lotta economicosociale per la soppressione del salariato, quanto la diffusione della critica della democrazia meramente rappresentativa e la conquista di consensi attorno a nuove forme di gestione diretta o controllata dell’organizzazione politica: una lotta per trasformare subito anche le istituzioni politiche15».

Secondo Lenin «l’inversione dell’uomo in cosa e del fine in mezzo non si realizza soltanto nel rapporto di produzione della ricchezza, ma anche nelle relazioni politiche che ne derivano»16. La costruzione rapporti sociali diversi da quelli borghesi, pertanto, deve partire dal rovesciamento del rapporto tra l’uomo e l’oggetto da lui prodotto, tanto nella sfera delle relazioni sociali ed economiche quanto nella dimensione spirituale. La lotta per Lenin deve svilupparsi su entrambi i versanti, senza dogmatismi, né scorciatoie:

«E comunque vietare che lo si cominci da tutti e due i lati contemporaneamente, erigendo il dogma della iniziativa violenta e quello della dittatura del proletariato come una forma di Stato (monopartitismo) anziché come un tipo di società (eliminazione del capitalismo e della borghesia come classe) può significare (ha significato storicamente) che non lo si incominci mai né dall’uno né dall’altro. Così è stato in Occidente dove riformismo ed estremismo continuano a contendersi la verità»17.

In tal senso, sfuggendo dall’assolutizzazione del mezzo, sia esso il cammino graduale delle riforme socialdemocratiche o la palingenesi sociale della violenza rigeneratrice, Stato e rivoluzione assume una certa importanza soprattutto perché indica l’impossibilità di una rivoluzione sociale in assenza di una radicale trasformazione delle istituzioni politiche rappresentative. Lenin, come su altri versanti della sua iniziativa teorica e politica, rifiuta di incatenare il movimento per l’emancipazione a una concezione rivoluzionaria malata di «dogmatismo ripetitivo».

Già nella prefazione alla prima edizione, Lenin scrive che il problema dello Stato, in una fase di inasprimento dei conflitti imperialistici come quella che aveva portato alla guerra mondiale, assume una centralità non solo teorica, ma politica. Ciò vale soprattutto per uscire dagli schemi evolutivi della socialdemocrazia internazionale che anche in una fase di sviluppo relativamente pacifico ha finito per adattarsi, farsi assorbire molecolarmente dagli interessi delle classi dominanti fino a subirne la direzione anche sul piano politico-istituzionale, tanto da affermare la non superabilità delle forme rappresentative parlamentari borghesi.

Nel momento della rivoluzione del febbraio 1917, quando si pose il problema istituzionale, sia i menscevichi che i socialisti rivoluzionari caddero secondo Lenin nella teoria piccolo borghese della conciliazione tra le classi ad opera dello Stato:

«Noi siamo per la repubblica democratica, in quanto essa è, in regime capitalista, la forma migliore di Stato per il proletariato, ma non abbiamo diritto di dimenticare che la sorte riservata al popolo, anche nella più democratica delle repubbliche borghesi, è la schiavitù salariata18».

Richiamandosi a Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte Lenin ripercorre il processo di perfezionamento dello Stato borghese attraverso le diverse rivoluzioni che lo hanno riguardato, indicando alla base del potere statale centralizzato, affermatosi con la caduta del feudalesimo, essenzialmente due istituzioni parassitarie: la burocrazia e l’esercito. Attraverso queste due articolazioni, la classe dominante riesce a sottomettere anche la piccola e media borghesia offrendo loro impieghi nell’apparato statale e uno status sociale che li distingue dal resto del popolo, fino ad assorbirli molecolarmente nel proprio blocco sociale.

«Da un lato, l’elaborazione di un “potere parlamentare”, tanto nei paesi repubblicani (Francia, America, Svizzera), quanto in quelli monarchici (Inghilterra, Germania fino a un certo punto, Italia, paesi scandinavi ecc.); dall’altro lato, la lotta per il potere dei diversi partiti borghesi e piccolo-borghesi che si dividono e si ridistribuiscono il “bottino” degli impieghi statali, mentre immutate restano le basi del regime borghese; finalmente un processo di perfezionamento e di consolidamento del “potere esecutivo”, del suo apparato burocratico e militare»19.

L’evento storico della Comune di Parigi, secondo Lenin pose a Marx e Engels la necessità di emendare il Manifesto del partito comunista con una frase che emblematicamente campeggia nella prefazione dell’edizione tedesca del 1872: «La Comune specialmente ha fornito la prova che la classe operaia non può impossessarsi puramente della macchina statale già pronta e metterla in moto per i suoi propri fini»20. Lenin la interpreta come necessità di superare lo Stato borghese, non semplicemente di impossessarsene per via graduale e pacifica, come affermavano invece i socialdemocratici. A sostegno di questa tesi egli cita una lettera a Kugelman del 12 aprile 1871 nella quale Marx affermava che il tentativo rivoluzionario non sarebbe consistito nel «trasferire da una mano all’altra la macchina militare e burocratica, ma nel demolirla». Rifacendosi ad alcuni passaggi de Il 18 Brumaio, inoltre, Lenin richiama la necessità di pensare la rivoluzione a partire dalla costruzione di blocchi sociali popolari ben più ampi rispetto alla sola classe operaia. In tal senso la Rivoluzione russa del 1905, al di là dei suoi risultati deludenti, per Lenin non fu né borghese né proletaria, ma una «rivoluzione popolare» perché intimamente segnata dal sollevamento insurrezionale di ampi strati sociali inferiori.

«Nell’Europa del 1871, il proletariato non formava la maggioranza del popolo in nessuna parte del continente. Una rivoluzione poteva essere “popolare”, mettere in movimento la maggioranza effettiva soltanto a condizione di abbracciare il proletariato e i contadini. Queste due classi costituivano allora il “popolo”. Queste due classi sono unite dal fatto che la macchina burocratica e militare dello Stato le opprime, le schiaccia, le sfrutta. Spezzare questa macchina, demolirla, ecco il vero interesse del “popolo”, della maggioranza del popolo, degli operai e della maggioranza dei contadini, ecco la “condizione previa” della libera alleanza dei contadini poveri con i proletari. Senza questa alleanza non è possibile una democrazia salda, non è possibile una trasformazione socialista»21.

Viceversa, i socialdemocratici si adattarono così bene alle istituzioni della società borgese da affermare al massimo la loro perfettibilità non certo il superamento, lasciando agli anarchici il monopolio della critica ai limiti del sistema rappresentativo parlamentare classico. Nuovamente, per Lenin, una teoria realistica della rivoluzione doveva evitare accuratamente rinchiudersi dietro le certezze dogmatiche tanto della vuota fraseologia rivoluzionaria quanto della statolatria parlamentarista. Non casualmente, rileva Lenin, Marx sottopose a severa polemica anche gli anarchici proprio «per la loro incapacità a utilizzare anche la stalla del parlamentarismo borghese, specie quando è manifesto che la situazione non è rivoluzionaria; ma seppe in pari tempo dare una critica veramente rivoluzionaria al parlamentarismo»22. Pensare di risolvere i problemi dell’istituto parlamentare limitandosi a sopprimerlo, anziché ipotizzare una sua radicale trasformazione tale da renderlo realmente espressione della sovranità popolare era indice di superficialità e infantilismo politico.

«La Comune sostituisce a questo parlamentarismo venale e corrotto della società borghese istituzioni in cui la libertà di opinione e di discussione non degenera in inganno; poiché i parlamentari debbono essi stessi lavorare, applicare essi stessi le loro leggi, verificarne essi stessi i risultati reali, risponderne essi stessi davanti ai loro elettori. Le istituzioni rappresentative rimangono, ma il parlamentarismo, come sistema speciale, come divisione del lavoro legislativo ed esecutivo, come situazione privilegiata per i deputati, non esiste più»23.

Se non è possibile eliminare improvvisamente e completamente la burocrazia, è però necessario sostituire la vecchia macchina amministrativa con la nuova, come punto di partenza di una nuova organizzazione dello Stato edificata sulla centralità delle masse lavoratrici. La sostituzione, nella amministrazione come nelle aziende, dei vecchi funzionari borghesi con il “controllo operaio” è la via indicata da Lenin per produrre una radicale riorganizzazione in senso socialista della società. Lenin era convinto che, una volta abbattuto il capitalismo, i lavoratori avrebbero potuto assumere tutte quelle funzioni tecniche fino ad allora svolte da funzionai e quadri della borghesia. Una convinzione che, dopo il 1917, si scontrerà con una realtà ben più complessa, dominata dall’impreparazione del proletariato russo ad assumere un reale ruolo dirigente della società russa.

Proprio questa si rivelò essere una delle ambizioni più mortificate dal quadro politico post-rivoluzione, quando il giovane Stato sovietico si trovò costretto a richiamare i vecchi tecnici alla guida della macchina amministrativa e nelle imprese. Il fallimento del «controllo operaio» e il contestuale pericolo di burocratizzazione della società russa furono tra le maggiori ragioni di delusione e rammarico degli ultimi anni di vita di Lenin, anche se in verità nemmeno in Stato e rivoluzione il processo di transizione è prefigurato in termini semplici e lineari.

«Noi non siamo degli utopisti. Non “sogniamo” di fare a meno, dalloggi al domani, di ogni amministrazione, di ogni subordinazione; questi sono sogni anarchici, fondati sulla incomprensione dei compiti della dittatura del proletariato, sogni che nulla hanno in comune con il marxismo e che di fatto servono unicamente a rinviare la rivoluzione socialista sino al giorno in cui gli uomini saranno cambiati. No, noi vogliamo la rivoluzione socialista con gli uomini quali sono oggi, e che non potranno fare a meno né di subordinazione, né di controllo, né di sorveglianti, né di contabili»24.

L’insieme di tali questioni riemerse, assumendo una prospettiva analitica e programmatica inedita, quando all’ordine del giorno non c’era più il problema della rottura rivoluzionaria, ma la difesa delle trincee conquistate nell’ottobre del 1917. In particolare, La questione dello Stato nella prospettiva della transizione socialista è al centro degli articoli scritti tra il dicembre 1922 e il febbraio del 1923, tutti accomunati dalla necessità di operare profondi mutamenti nella sua articolazione politica, in modo da superare le disfunzioni dell’incipiente burocratizzazione sovietica e limitare le pretese di risoluzione amministrativa delle contraddizioni politico e sociali immanenti al socialismo. Uno dei significati più importanti dell'«alleanza economica» varata con la NEP è esattamente il tentativo storico di superare l'utilizzo dei mezzi coercitivi dello Stato per imporre il socialismo alle masse contadine. Dopo la fine della fase contraddistinta dal «comunismo di guerra», attraverso la NEP Lenin tentò di percorrere una strada che avrebbe dovuto condurre consensualmente la maggioranza dei contadini a comprendere la superiorità della produzione cooperativa o della grande azienda di Stato rispetto alla piccola proprietà della striscia di terra e questa presa di coscienza avrebbe a sua volta dovuto spingere i contadini verso il socialismo volontariamente e senza metodi «amministrativi». Da questa preoccupazione, che richiamava l’esigenza di una profonda riforma culturale necessaria alla realizzazione di forme nuove e più democratiche di gestione economica cooperativa, tentando di limitare le forme arbitrarie di prevaricazione burocratica, scaturì la proposta della riforma incentrata sull’ispezione operaia e contadina del gennaio 1923, pensata con l’obbiettivo di radicare il socialismo attorno al ruolo della direzione operaia, ponendosi il problema di conquistare consenso e la fiducia (non il terrore) dei contadini, eliminando ogni spreco, burocratismo e inefficienza dell’apparato statale.

 

  1. Lenin teorico dello «Stato ristretto»?

All’interno delle sue famose Lezioni di filosofia politica, tenute nel 1958 all’Istituto Gramsci di Roma di fronte ai quadri dirigenti del PCI, Lucio Colletti dedicò importanti riflessioni a Stato e rivoluzione affermando che la concezione della democrazia esposta in quest’opera, sebbene frutto di «una frattura e di un salto profondo», si pone per certi versi in rapporto di continuità con quella rappresentativa borghese, come se fosse una sua estensione o dilatazione. Se quella tradizionale, fondata sulla difesa della proprietà privata, si configurava come una democrazia per pochi fondata sullo sfruttamento di molti, quella nuova avrebbe dovuto incarnare l’idea di una volontà generale attiva, liberata dalle contraddizioni generate della distinzione in classi della società:

«Nella misura in cui procede alla modificazione della struttura della società, creando realmente degli interessi comuni, essa è una democrazia mobilitante, plasmatrice dell’opinione pubblica, quindi una forma di democrazia dinamica, che spinge le classi lavoratrici e la maggioranza dei cittadini al riconoscimento di quegli interessi generali e al concreto esercizio degli stessi»25.

Fondato sul principio della universale dignità umana, pertanto, sull’estinzione del particolarismo giuridico feudale, lo Stato borghese sarebbe il primo a evocare, sia pure in forma formale e astratta, la tutela di un interesse generale, «come possesso comune a tutti di alcune fondamentali libertà giuridiche, il cui espletamento è però condizionato dal concreto possesso di una proprietà, senza di che esse non significano nulla. Lo Stato di diritto, quindi, si rivela uno Stato in cui l’esercizio di una dittatura di una classe sull’altra si realizza attraverso la forma specifica della partecipazione indiretta di tutti alla vita politica, che si attua riconoscendo a tutti una personalità giuridico-politica»26.

La radicale trasformazione delle relazioni sociali fondamentali farebbe venir meno la scissione tra sfera economica e sfera politica, fra disuguaglianza reale e disuguaglianza formale o legale. A partire dal superamento di questa contraddizione, il nuovo Stato renderebbe superflua la dimensione formale e rappresentativa di interesse generale incarnato dal Parlamento, inteso come depositario unico della sovranità popolare delegata. La rappresentanza non sarebbe più espressione di una sovranità alienata dal popolo, «ma la commessa di un’autorità delegata del popolo, che viene però mantenuta dal popolo stesso» che esercita un suo mandato imperativo sui propri rappresentati mantenendo il diritto alla revoca del loro mandato. «Si tratta quindi di un’autorità esercitata dai delegati sotto il costante controllo del popolo»27. In tal senso, l’estinzione dello Stato si oggettiverebbe attraverso la riappropriazione popolare delle funzioni politiche, reso possibile dal superamento della distinzione tra sfera economica e sfera politica.

Nel suo intervento al Convegno Internazionale Lenin e il Novecento, tenutosi a Urbino nel 1994, Texier evocò una «faccia nascosta» del pensiero di Marx ed Engels: «la distinzione tra “il continente” in cui la rivoluzione violenta è necessaria per il fatto che esiste un apparato burocratico civile e militare oppressivo, e l’Inghilterra e più in generale il mondo anglosassone, dove si può intravvedere un passaggio legale e pacifico al socialismo»28. A questa distinzione corrisponderebbero quelle tra Oriente e Occidente, guerra manovrata e guerra di posizione, al centro delle riflessioni dei Quaderni, che, prefigurano in termini nuovi il tema della Rivoluzione in Occidente.

Rispetto a questo, tema che secondo Texier è presente nelle riflessioni dei due teorici del materialismo storico dal Manifesto fino all’ultimo testo di Engels, ci sarebbe stato un problema di trasmissione parziale o deformata, responsabile di aver privilegiato esclusivamente le questioni strategiche della conquista violenta del potere, trascurando o non omettendo quelle della transizione pacifica e democratica al socialismo. Nelle note su Stato e rivoluzione, a suo dire, tale problematica non risulta del tutto ignorata sebbene i testi di Marx ed Engels che la illustrano sarebbero praticamente assenti. In tal senso, Lenin avrebbe volutamente omesso tanto le considerazioni di Marx contenute nella Critica del programma di Gotha che indicano nella repubblica democratica il terreno della lotta di classe sul quale si sarebbe dovuto impegnare il movimento operaio, quanto quelle presenti nella introduzione del 1895 alle Lotte di classe in Francia, dove Engels «sente il bisogno di tratteggiare una nuova tattica rivoluzionaria per il movimento operaio alla fine del secolo» dando corso a «un esame critico della tattica rivoluzionaria tra il 1848-1871»29. Per questa ragione, conclude Texier, «se c’è un’opera che autorizza a parlare della faccia nascosta del pensiero marx-engelsiano è proprio Stato e rivo- luzione», ciò nonostante, essa costituisce un passaggio decisivo nella storia del partito bolscevico e del leninismo30.

Proprio in ragione di una simile omissione, quest’opera è stata sovente citata per affermare la differenza se non l’incompatibilità tra la «concezione ampliata dello Stato» di Gramsci e quella presuntamente «ristretta» di Lenin. Secondo Coutinho, ad esempio, caratteristica comune alle differenti correnti del marxismo sarebbe un’idea della transizione al socialismo che comunque implica l’instaurazione un nuovo tipo di Stato liberato dal dominio del capitale sul lavoro. Al di là di questa convergenza, tuttavia, il diverso modo di concepire la natura dello Stato porterebbe anche a una diversa valutazione circa la «dualità di poteri nella transizione al socialismo»:

«Indicherò come, a seconda del modo «stretto» o «largo» di concepire lo Stato, la storia della teoria politica marxista abbia portato allo sviluppo di due diversi paradigmi della rivoluzione socialista, che definirei schematicamente «esplosivo»e«procedurale»»31.

Sebbene la concezione ristretta dello Stato e il paradigma esplosivo del processo rivoluzionario, avessero trovato più di una correzione negli scritti più maturi di Marx ed Engels, tale impostazione si troverebbe sviluppata soprattutto in Lenin, particolarmente in Stato e rivoluzione, fino a essere dogmatizzata, come teoria definitiva, nei due bolscevichi che si consideravano suoi eredi: Stalin e Trockij.

A nostro avviso, non solo una simile affermazione risulta inadeguata per inquadrare Stato e rivoluzione, ma, più in generale, non tiene conto che questo scritto, nato per rispondere a particolari esigenze politiche congiunturali, non può essere considerata la sintesi della concezione dello Stato di Lenin. Al contrario, tra il 1918 e il ’22 egli inizierà a rielaborare tanto il problema dello Stato quanto quello della transizione socialista orientando la sua indagine sulla differenza di contesto tra “Oriente e Occidente”, fino a comprendere tra le funzioni di uno Stato moderno anche le molteplici articolazioni della direzione culturale delle classi dominanti32.

Secondo Bobbio, dopo Marx, nel XX secolo, la teoria della rivoluzione non avrebbe fatto passi in avanti, «rimanendo marxiana o marxista»33. Con questa riflessione il filosofo piemontese intendeva affermare che tanto i grandi teorici della II quanto quelli della III Internazionale,

Lenin in testa, si sarebbero occupati più di «strategia» che di «teoria della rivoluzione», «non più la teoria, ma la prassi»34:

«Una volta che è stato impostato il problema teorico della rivoluzione – cioè quali sono le condizioni, qual è il soggetto rivoluzionario ecc., -, si tratta non soltanto più di teorizzare la rivoluzione, ma di farla. In realtà Marx l’aveva teorizzata, ma non l’aveva mai fatta; non l’aveva mai fatta perché riteneva che i tempi non fossero maturi. Si tratta di farla sulle indicazioni teoriche di Marx»35.

In tal senso il filosofo piemontese definisce il leninismo «non tanto una teoria della rivoluzione, quanto una prassi, una strategia»36, perché i temi affrontati dal rivoluzionario russo, «grande ammiratore di Carl von Clausewits», sarebbero quelli dell’organizzazione dell’esercito, cioè il partito, e della scelta del momento opportuno per dare inizio alla rivoluzione.

A sua volta, nonostante la dichiarata ammirazione per la natura dinamica e rivoluzionaria della borghesia, Marx si sarebbe rapportato alle istituzioni liberaldemocratiche solo ed esclusivamente in termini negativi, non riconoscendo mai fino in fondo il valore progressivo delle istituzioni rappresentative e, in esse, il valore positivo dei diritti e delle libertà fondamentali. A supporto di questa tesi, il filosofo piemontese cita la nota frase sullo Stato moderno come comitato d’affari della classe borghese e le affermazioni contenute nella Questione ebraica attorno al limitato valore emancipatorio dell’uguaglianza formale37. A partire da questa incomprensione delle libertà moderne nate dalle dichiarazioni dei diritti dell’uomo e del cittadino, secondo Bobbio, Marx sottovalutò costantemente il significato democratico delle istituzioni liberali, pertanto, si dimostrò incapace di rapportarsi seriamente ai problemi costituzionali posti dell’affermazione dello Stato moderno, fino a elaborare su questo versante una teoria estremamente povera.

Avendo un simile patrimonio alle spalle, secondo Bobbio, «non si può rimproverare a Gramsci di non aver affrontato un problema, come quello della validità delle istituzioni liberaldemocratiche, né più in particolare il problema delle istituzioni attraverso cui si sarebbe dovuta esercitare l’egemonia della nova classe. (…) problemi estranei alla tradizione del pensiero politico marxistico in cui egli si riconosceva, se pure, senza alcun irrigidimento dogmatico»38.

La dottrina marxista dello Stato, pertanto, si baserebbe su tre assi interpretativi: 1) inteso come apparato strumentale, che monopolizza e concentra in forma organizzata la violenza della società; 2) la concezione dello Stato come comitato d’affari della classe dominante; 3) l’idea negativa dello Stato, riflesso ed espressione organica dei rapporti sociali di produzione e momento secondario o subordinato della società civile. Lo Stato, quindi, non sarebbe il momento massimo e insuperabile dell’eticità universale, né l’oggettivazione giuridica della libertà nel divenire storico, ma l’apparato particolaristico e subordinato di un dominio storicamente determinato, in quanto tale non eterno ma destinato a essere superato da altre forme di convivenza umana organizzata. In questo solco si muoverebbe pure la concezione dello Stato di Antonio Gramsci, tanto negli scritti giovanili quanto nelle pagine dei Quaderni del carcere, sebbene nelle sue riflessioni possiamo rintracciare un’indubbia originalità e complessità di pensiero.

Detta in altri termini, Marx e i suoi discepoli non avrebbero inteso il significato progressivo del processo di democratizzazione delle società liberali tra Ottocento e Novecento, che, grazie all’universalizzazione del suffragio elettorale, avrebbe reso possibile l’estensione delle basi sociali dello Stato attraverso l’inclusione di tutti i cittadini nelle funzioni passive e attive dei diritti politici connessi alla cittadinanza. All’interno di questo processo di socializzazione delle prerogative politiche, il sistema democratico rappresentativo è caratterizzato da una serie di regole di legittimazione popolare, attraverso il voto, dell’agire governativo. Le funzioni esecutive e legislative non sono esercitate direttamente da tutto il popolo, ma da una maggioranza delegata a rappresentare il popolo. Ciò significa ovviamente che, nel rispetto delle regole democratiche comuni, pure le minoranze sono tenute a rispettare le decisioni adottate dalla maggioranza. Non prefigurando un quadro di unanimismo, la determinazione delle maggioranze incaricate di governare deve avvenire attraverso la libera dialettica tra opzioni anche radicalmente contrapposte tra di loro, ciò presuppone la salvaguardia delle libertà fondamentali (di parola, pensiero, stampa e associazione), connesse ai diritti inviolabili dell’individuo, in via preliminare costituzionalmente definite. Le moderne società istituite attorno a questi principi necessitano vicendevolmente dei valori storicamente espressi dal liberalismo e da quelli della tradizione democratica: «occorrono certe libertà per l’esercizio corretto del potere democratico» e, al contempo, «occorre il potere democratico per garantire l’esistenza e la persistenza delle libertà fondamentali. (…) La prova di storica di questa interdipendenza sta nel fatto che stato liberale e stato democratico, quando cadono, cadono insieme»39.

Il paradigma democratico ha sicuramente mostrato limiti e contraddizioni prontamente segnalate da critici e detrattori, tuttavia, anche tenendo conto delle tante difficoltà e promesse mantenute, secondo il filosofo piemontese si dovrebbe parlare di «trasformazione» più che di «crisi» irreversibile della democrazia, lasciando intendere tendenziosamente che tale sistema sarebbe irrimediabilmente prossimo al collasso. Tale approccio pessimistico è per Bobbio inadeguato, perché sebbene non goda di ottima salute, la democrazia non sarebbe affatto «sull’orlo della tomba».

«Checché se ne dica, nessuno dei regimi democratici nati in Europa dopo la Seconda guerra mondiale è stato abbattuto da una dittatura, come era invece accaduto dopo la Prima guerra mondiale. Al contrario, alcune dittature sopravvissute alla catastrofe della guerra si sono trasformate in democrazie. Mentre il mondo sovietico è scosso da fremiti democratici, il mondo delle democrazie non è seriamente minacciato dai movimenti fascisti»40.

Se la staticità è caratteristica dei regimi dispotici, il dinamismo è immanente al paradigma democratico, naturalmente proteso verso una sua costante trasformazione. Entrando nel merito della bipartizione tra approcci realisti o normativi alla filosofia politica, Bobbio cita Hegel e Weber rispetto ai compiti ontologici della filosofia. Lo studio di «ciò che è eternamente, ossia, spiegare razionalmente la realtà esistente per come essa effettivamente è», costituisce già in sé un impegno gravoso, mentre il «mestiere di profeta», oltre a essere pericoloso, è poco consono al ruolo del filosofo. Le proiezioni sulla realtà futura, infatti, comportano una serie di rischi, perché, sebbene la storia prosegua il suo corso indifferente alle nostre preoccupazioni, ognuno (anche i filosofi) tende più o meno consapevolmente a proiettare arbitrariamente sull’avvenire le proprie aspirazioni e inquietudini soggettive. Da questo punto di vista, una delle critiche più dure a Stato e rivoluzione riguarderebbe non solo il suo utopismo potenziale, ma il fatto di essere stato concretamente smentito dalla realtà post-rivoluzionaria, dominata non da un processo di progressiva estinzione dello Stato, ma dal suo esatto opposto.

Il mito dell’estinzione statale accomuna il liberalismo all’anarchismo, ma è ampiamente presente pure nella tradizione del marxismo, tra le cui fila non è certo raro imbattersi in semplificazioni e condanne degli accidentati processi reali di transizione al socialismo proprio a partire da questa concezione. Non solo nel mondo liberale, ma anche a sinistra, la principale accusa di tradimento a tutte le rivoluzioni inveratesi sarebbe da ricercare nella mancata estinzione dello Stato. Al contrario, il moltiplicarsi delle sue funzioni e attività, necessarie a dirigere questo inedito processo storico, sarebbe l’origine della natura liberticida del «socialismo storico»41. Nel suo ultimo lavoro pubblicato postumo, Domenico Losurdo segnala come, dopo le tragedie del Novecento e la disfatta subita dal socialismo, non sono poche le voci che invitano a ritornare all’utopia, ad aggrapparsi alla tradizione del messianismo populista. Inviti che sollecitano a compiere a ritroso quel percorso dall’utopia alla scienza e dalla scienza all’azione di cui parla Gramsci. Il primo passo consisterebbe nel ripudio dello Stato e del potere in quanto tale, considerato fonte di contaminazione dalla quale occorre tenersi a distanza.

L’esigenza di conciliare la dimensione formali delle libertà democratiche con i valori di uguaglianza e giustizia sostanziale resta un tema ineludibile che chiama in causa gli evidenti limiti e i mancati sviluppi del socialismo storico. Il necessario approccio critico, tuttavia, non deve nemmeno tradursi nel suo opposto, ossia nel rifiuto aprioristico che impedisce di cogliere un qualsiasi significato progressivo dietro alle vicende del socialismo novecentesco.

Che la storia apertasi con l’assalto al cielo nell’ottobre del ’17 abbia vissuto contraddizioni e limiti è fuori discussione, altrimenti non saremmo chiamati a fare i conti con la sconfitta del socialismo storico e il trionfo planetario del capitalismo. Tuttavia, anche tenendo conto di questo epilogo per molti versi fallimentare, una maggiore storicizzazione tanto del socialismo in generale quanto dei processi rivoluzionari che hanno infiammato il pianeta nel Novecento aiuterebbe a comprendere meglio questo secolo segnato da grandi drammi, ma pure da conquiste epocali nella storia della lotta per l’emancipazione dell’umanità. Nel rapportarsi alle contraddizioni incontrate dal processo rivoluzionario di cui Lenin fu indiscusso protagonista, Domenico Losurdo si serve della metafora di Cristoforo Colombo che parte alla ricerca delle indie ma si imbatte nell’America42. Ogni rivoluzione, scontrandosi con la realtà concreta (con le azioni e reazioni previste o impreviste), finisce per creare un quadro nuovo sempre differente rispetto a quanto era stato precedentemente teorizzato e idealizzato. È inevitabile, così è stato per la Rivoluzione francese (ciò nonostante continuiamo a considerala un fondamentale atto di liberazione universale), così è per tutte le rivoluzioni liberali che, al di là dei principi, hanno sulla coscienza inaccettabili rapporti di dominazione coloniale, lo schiavismo e le guerre di rapina, così come forme di povertà sconfinata e relazioni di sfruttamento disumane non messe in conto dai padri nobili del liberalismo e in gran parte non considerate dagli apologeti della religione della libertà a noi contemporanei.


Riferimenti bibliografici
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Leninoggi, Ponte delle Grazie, Milano.

Note
1 CLARK 1990, p. 213.
2 «Il ritorno di Lenin a Pietrogrado fu apparentemente trionfale. Da alcune settimane gli esuli rientravano accolti ogni volta da folte delegazioni del governo e del soviet che li riceveva festosamente. Ma per Lenin, l’accoglienza fu eccezionale. (…) Musica militare, bandiere di ogni tipo, delegazioni, nulla mancò quel giorno alla stazione di Finlandia. La cerimonia si svolse senza incidenti. All’arrivo del treno, Lenin uscì per primo. Si trovò Čkeide che pronunciò il discorso di benvenuto a nome dei soviet degli operai e dei soldati»: CARRÉRE D’ENCAUSSE 2000, p. 190.
3 WALTER 1974, p. 378.
4 KRAUSZ 2017, p. 247.
5 SERVICE 2001, p.272
6 WALTER 1974, p. 378.
7 GRUPPI 1971, p. 199.
8 LABICA 1997, p. 220-222.
9 LENIN 1975, p. 68.
10 Introduzione a LENIN 1975, p. 29.
11 LENIN 1966, p. 14.
12 Ivi, p. 31.
13 Ivi, pp. 36-38.
14 LENIN 1975, p. 153.
15 CERRONI 1975, p. 33.
16 Ibid.
17 Ivi, p. 35.
18 Ivi, p. 56.
19 Ivi, p. 68.
20 Ivi, p. 73.
21 LENIN 1975, p. 74
22 Ivi, p. 81.
23 Ivi, p. 83.
24 Ivi, p. 84.
25 COLLETTI 2017, p. 171.
26 Ivi, p. 173.
27 Ibid.
28 TEXIER 1997, p. 315.
29 Ivi, p. 321.
30 Ivi, p. 322.
31 COUTINHO 1994, p. 13.
32 FRESU 2017, pp. 82-107.
33 BOBBIO 2021, p. 440.
34Ibidem.
35 Ibidem.
36 Ibidem.
37 Curiosamente, come se la produzione teorica di Marx su questo tema fosse terminata nel 1848, Bobbio fa riferimento al Manifesto e a uno dei suoi primi scritti giovanili, nel quale peraltro egli non negava il valore e significato delle libertà borghesi, limitandosi, semmai, a sottolineare quanto la mancata risoluzione delle contraddizioni economico sociali tra sfruttatori e sfruttati rendesse incompleta la liberazione dell’uomo.
38 BOBBIO 1990, p. 77.
39 BOBBIO 2014, pp. 6-7.
40 Ivi, p. XVII.
41 In tal senso Slavoj Žižek tocca un punto abbastanza rivelatore. Žižek afferma la necessità di problematizzare il concetto di totalitarismo, sostenendo che «il terrore politico» sarebbe da ricercare nella «subordinazione» della sfera produttiva materiale alla «logica politica», che in definitiva ne «negherebbe l'autonomia»: ŽIŽEK 2017, p. 272. L’idea di un rapporto inversamente proporzionale tra sfera delle libertà e estensione delle attività dello Stato è uno dei più duraturi miti del liberalismo, che accomuna la concezione del “governo limitato” di Locke alle teorie sul totalitarismo di Hannah Arendt.
42 LOSURDO 2021, p. 187.
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romke
Monday, 03 February 2025 11:45
La verifica pratica della possibilità del passaggio al socialismo, cioè della presa del potere da parte del proletariato con la riduzione e/o demolizione dell'apparato statale di pari passo all'estensione del controllo e modifica della produzione e dei rapporti culturali e politici tra le classi si è concretizzata nella Grande Rivoluzione Culturale Proletaria cinese.
Il riferimento alla Comune di Parigi e a Stato e Rivoluzione (ovviamente alla rivoluzione dei Soviet) era costante presso gli operai e le masse popolari cinesi.
L'esperienza in particolare del proletariato di Shanghai e della Manciuria è stata la punta di quel processo rivoluzionario che era sintetizzato nella parola d'ordine "Sviluppare la produzione e fare la rivoluzione". Le forme politiche che si erano create nel corso del processo rivoluzionario avevano costituito la forma di espressione dell'autonomia del potere proletario che andavano a sostituire pezzi della struttura statale (direzione collettiva della produzione nelle fabbriche; milizia operaia, ben armata, a fianco dell'esercito popolare; chiusura di molte carceri con trasferimento dei compiti di rieducazione alle unità produttive di provenienza dei detenuti; filo diretto fabbriche-campi per mettere a punto prodotti necessari ai contadini. Questi sono solo pochi esempi) In sostanza la GRCP sperimenta l'utopia di Stato e Rivoluzione e ne riscontra la praticabilità a condizione che siano le masse ad impegnarsi, cosa che purtroppo non avverrà, per tanti motivi, in Unione Sovietica.
L'esperienza rivoluzionaria cinese viene bruscamente interrotta dal colpo di stato di Hua Guofeng meno di un mese dopo la morte del Presidente Mao e poi dalla presa del potere da parte del revisionista Deng Xiaoping. Scampato il pericolo, la borghesia cinese e mondiale condanna all'oblio quella esperienza, oggettivamente patrimonio del proletariato mondiale, cancellandone tutte (o quasi) le tracce.
Partendo dalla Comune di Parigi e da Stato e Rivoluzione il proletariato mondiale dovrà quindi indagare l'esperienza dei proletari cinesi, capirne le caratteristiche, il motivo della caduta senza quasi resistenza all'attacco finale revisionista. E' il punto di partenza per preparare il prossimo salto in avanti verso il socialismo
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