Effetti culturali dell’economia neoliberista II
di Luca Benedini
(Seconda parte: una forma di patriarcato più sofisticata, oltre che una basilare occasione per rifocalizzarsi sull’incompatibilità strutturale che c’è tra pensiero socialista e cultura patriarcale)*
Ruoli di genere e neoliberismo
Oltre alla “novità” culturale costituita dalla combinazione tra la precarietà liberista sviluppatasi diffusamente nell’Ottocento e le aspirazioni consumiste divenute popolari in concomitanza col boom tecnologico ed economico novecentesco (boom che non casualmente è maturato proprio con l’allontanarsi dell’economia di mercato dal liberismo ottocentesco e che sempre non casualmente si è in buona parte dissolto proprio col ritornare del liberismo nella sua nuova forma collegata all’“edonismo reaganiano”...), vi è un altro aspetto culturale in cui l’attuale società neoliberista si è mostrata orientata fortemente alla novità: le modifiche che stanno avvenendo nei ruoli di genere sia nel modo di vivere delle classi dominanti sia soprattutto – fatto socialmente più significativo perché riguarda miliardi di persone – nell’ambito della “cultura di massa”.
1. Il nòcciolo della questione
Durante l’ultimo paio di secoli, moltissime voci nel movimento femminista hanno sottolineato come per millenni le società organizzate in modo patriarcale abbiano cercato di indurre nelle donne una tendenza alla dipendenza emotiva da figure maschili come il padre inizialmente e il marito poi, tendenza cui si affiancava il contraltare costituito nella vita pubblica da altre figure dominanti tipicamente maschili, come i capi politici, religiosi e militari e in tempi relativamente recenti i dirigenti d’impresa [40]. Nella vita pratica ciò si esprimeva in un’esistenza femminile incentrata sulla vita di famiglia (e in particolare sull’occuparsi dei famigliari, della casa e dei dintorni), mentre nel caso in cui per un motivo o per l’altro una donna operasse anche al di fuori di tale contesto la sua posizione avrebbe dovuto rimanere comunque subordinata – direttamente o indirettamente – a qualche figura solitamente maschile.
Solo negli ultimi decenni, dopo i considerevoli successi ottenuti dalle donne nella loro lotta per l’equità giuridica ed economica tra i sessi e nel mettere in discussione le mentalità maschiliste e androcentriche, sta prendendo piede anche un’altra strategia da parte delle élite correnti delle società patriarcali.
Nel libro La donna intera (Mondadori, 2000), Germaine Greer ha osservato con amarezza e causticità come nella cultura contemporanea il concetto di “liberazione della donna” (che era stato forgiato e sviluppato dal femminismo specialmente durante gli scorsi anni ’60 e ’70) fosse ormai sostituito solitamente col concetto di “uguaglianza tra i sessi”: «Le lotte di liberazione non hanno come scopo l’assimilazione, ma piuttosto l’affermazione della differenza [...]. Il movimento di liberazione delle donne non considerava le potenzialità femminili nei termini della realtà maschile: le femministe visionarie» allora «sapevano bene che le donne non sarebbero mai state libere se avessero accettato di vivere la vita di uomini non liberi. Quelle che rivendicavano l’uguaglianza chiedevano invece di avere accesso ai fumosi luoghi di ritrovo maschili»... «Dopo trent’anni [...] le donne hanno scontato i piccoli progressi ottenuti nel campo dell’uguaglianza sessuale con la negazione del loro essere femmine come carattere distintivo: se essere femmine non è più un segno di inferiorità, allora rimane un concetto vuoto. [...] Le donne reali sono superate; il primo passo, quello di persuaderle a negare la propria esistenza, è quasi completato»...
Alcuni anni dopo, nell’altro libro La scomparsa delle donne (Mondadori, 2007), Marina Terragni ha messo in evidenza l’ulteriore procedere di ciò che era stato denunciato da Germaine Greer: «La differenza femminile è sul punto di estinguersi [...]. Le ondate dell’emancipazione e dell’empowerment lambiscono anche le lande più remote del pianeta. Non c’è quasi più nessuna che voglia prendersi la briga di essere una donna. Siamo diventate tutte veri uomini [...]. Tutte veri uomini senza nemmeno avere saputo come sarebbe stato essere “vere donne”. È il più imponente tra tutti i fenomeni di globalizzazione: la definitiva riduzione del due all’uno – antica mania maschile –, all’unico conveniente tra i due sessi. [...] Le ragazze nascono già bell’e pari, si comportano socialmente e sessualmente come maschi [...]. Abbiamo le nostre soldatesse sadiche – ad Abu Ghraib [...] – e c’è una presidente degli Stati Uniti all’orizzonte [41]. Gli uomini continuano a picchiarci e ad ammazzarci, ma è un dettaglio»....
E proseguiva l’autrice: «Dice [...] Luce Irigaray che “la nostra cultura è costruita a partire da valori maschili” e che “i valori della soggettività femminile sono in larga parte ancora sconosciuti e da coltivare”» [42]. «Ci sono voluti molto tempo e molto dolore per convincermi del fatto che “donna libera” non è un ossimoro [...]. C’è voluta molta fatica, un calvario, una passione in tutte le sue stazioni, per capire che si può liberamente essere restando donne. Quella di diventare uomini, di gareggiare con loro sul lavoro e nel mondo non è l’unica libertà di cui disponiamo. In molti casi, anzi, non si tratta affatto di una libertà. Libertà non è sinonimo di emancipazione, e una non diventa più libera se diventa “un ometto”, come diceva Sigmund Freud. Libertà non è farsi fuori».... «Una cosa è certa: il modello dell’emancipazione obbligatoria ci è costato moltissimo e non ha reso a sufficienza. Non è stato un grande investimento. Deve pur esserci un modo di stare al mondo che ci somiglia di più e ci fa sentire meglio».
2. Parallelismi
Così come il neoliberismo ha formalmente ridotto gli episodi di corruzione e di clientelismo in molti paesi avendo ridotto di molto le attività della pubblica amministrazione (P.A.), ma in realtà è esso stesso una sorta di grado estremo della corruzione e del clientelismo poiché imposta l’intero Stato secondo gli interessi materiali delle lobby economiche più potenti [43], questa tendenziale accettazione istituzionale della parità giuridica tra i sessi – accettazione tendenziale in cui è però nascosto un fortissimo invito alle donne perché si uniformino agli uomini interiorizzando ancor più profondamente i valori della cultura maschile – è in realtà una sorta di grado estremo della dimensione patriarcale....
Come suggeriva anche Marina Terragni, c’è un parallelismo tra la globalizzazione neoliberista e questo tentativo culturale di provocare la “scomparsa delle donne”. Si tratta di due strategie parallele con cui le attuali élite stanno plasmando delle forme di classismo e di sessismo particolarmente sofisticate, mediante le quali riaffermare, rimpolpare e rinforzare il proprio dominio e il senso gerarchico strutturalmente patriarcale dopo i consistenti successi ottenuti dal movimento dei lavoratori e da quello femminista durante soprattutto i cinque decenni del ’900 che vanno dagli anni ’30 agli anni ’70.
A queste strategie i maggiori mass-media associano una “cultura di massa” accuratamente studiata e articolata. Se per quanto riguarda il classismo la logica è appunto quella di combinare varie tendenze basilari del liberismo ottocentesco con un forte individualismo e con un po’ di consumismo novecentesco, così da far tendere i lavoratori verso la ricerca di soluzioni individuali e/o famigliari – anziché collettive e politico-sociali – per le loro molte difficoltà, riguardo al sessismo si avverte il passaggio da una tendenza plurimillenaria incentrata sulla dipendenza emotiva delle donne da qualche famigliare maschio (dipendenza eventualmente evolvibile in una co-dipendenza a seconda della personalità del famigliare in questione) a una tendenza recente che prevede una co-dipendenza emotiva tra due soggetti giuridicamente alla pari e influenzati entrambi dai già citati valori individualistici di tipo maschile instancabilmente proposti dalla “cultura di massa” (e sarà sulla rispettiva personalità dei due partner che in ciascuna relazione si formeranno in pratica le modalità effettive di tale co-dipendenza) [44].
E, come in economia il “sistema” attualmente dominante nel mondo non si orienta sempre secondo i concetti neoliberisti “puri” ma – a seconda dei casi – può anche ricorrere a intensi interventi della P.A. e ad ampie forme di corruzione e di clientelismo (come è avvenuto ad esempio con gli enormi aiuti pubblici a favore di banche e altre imprese dopo la “crisi dei mutui” del 2008 e con le elevatissime spese militari ingiustificatamente previste da un gran numero di governi) [45], così nei rapporti tra uomini e donne convivono il “vecchio” orientamento storicamente incentrato sul potere maschile nei confronti delle donne e il “nuovo” orientamento che tende a trasformare le donne in copie degli uomini...
Con le parole di Marina Terragni, il fatto che «le ragazze nascono già bell’e pari» (e che numerosi dei ragazzi non ne sono stupiti né si oppongono a questa tendenziale parità) appartiene all’orientamento “nuovo”, mentre il fatto che «gli uomini continuano a picchiarci e ad ammazzarci» appartiene all’orientamento “vecchio” e anzi trae ulteriore virulenza proprio dal crescente atteggiamento non sottomesso che le donne continuano a esprimere e a rivendicare [46]. A seconda delle culture, delle dinamiche locali, della generazione cui appartiene una particolare persona e delle circostanze del momento, tende a imporsi di più un orientamento oppure l’altro.... Peccato che entrambi questi orientamenti siano decisamente sessisti [47], così come in economia sono decisamente classiste tanto l’impostazione liberista quanto l’impostazione che prevede vaste attività della P.A. accompagnate da abbondanti corruzione e clientelismo...
In un mondo così impostato, oltre tutto, le donne che volessero preservare in sé lo “spirito femminile” – e più in particolare la sua attenzione, sollecitudine e consapevolezza umana e sociale per chi ha un effettivo bisogno di cura, di vicinanza affettiva e/o di aiuto (come in special modo i bambini, i malati e per certi aspetti gli anziani, gli adolescenti e gli emarginati) – rischiano fortemente di doversi caricare personalmente di innumerevoli incombenze, responsabilità e fatiche, come notava già una ventina d’anni fa Rosella De Leonibus in La sindrome della donna trafelata (Rocca, 15 giugno 2003) [48]. Nel contempo, il voler mantenere (o recuperare dal passato) un tale spirito in maniera profonda – cosa che in una cultura di tipo patriarcale implica di fatto il mettere progressivamente tutto in discussione (come appunto rivendicava il movimento di liberazione delle donne mezzo secolo fa) – appare porre una persona nella posizione di una sorta di alieno nella società di oggi... E ciò riguarda pienamente non solo le donne ma anche gli uomini, in quanto – come hanno osservato esplicitamente per esempio Mary Daly in Al di là di Dio Padre (Editori Riuniti, 1990) e Marie Lise Labonté in Verso il vero amore - Come liberarsi dalla dipendenza affettiva e imparare ad amare in modo maturo (Corbaccio, 2009) – ciascun essere umano ha un lato definibile come femminile e uno definibile come maschile e, in questo, la vitalità psichica di una persona si basa anche sul riconoscere e apprezzare al proprio interno entrambi questi lati e sulla capacità di viverli come un tutt’uno, senza interporre “muri interiori” tra di loro.
Da quel movimento di liberazione e dall’insieme del suo orientamento emergevano congruamente, infatti, valori esistenziali di fondo ricollegantisi alle culture amanti della vita e del “conoscere se stessi” sviluppatesi nel tempo qua e là nel globo [49], valori tra cui spiccano i seguenti: la profondità intuitiva, percettiva e filosofica; l’empatia che in una persona rompe e dissolve qualsiasi classismo, sessismo, razzismo, ecc.; il senso della propria naturalezza che erompe vulcanica dalla propria esistenza stessa e che rifiuta di restare ingabbiata in schemi e modelli precostituiti; l’innovatività e l’autonomia personale sia sul piano del pensiero che su quello pratico; il vivere senza separare tra loro la fisicità, il cuore e l’interiorità.
Nell’attuale “cultura di massa” si trovano tipicamente tendenze di fondo lontanissime da quei valori: una meccanicistica superficialità consumistica e ripetitiva, mirante soprattutto al benessere materiale (come obiettivo o come miraggio) e accompagnata comunemente dal ritirarsi in un punto di vista individuale o famigliare; una sostanziale accettazione del classismo – e del suo strutturale cinismo – come parte integrante della società; una precarietà economica che col tempo finisce in pratica col minare il coraggio, la fiducia in se stessi e la creatività complessiva di ogni persona appartenente alle classi lavoratrici; un abituarsi della personalità umana a funzionare per “compartimenti stagni”...
Tanto più, dunque, avremmo bisogno oggi della libertà interiore e della rivoluzionarietà esistenziale insite in quel movimento e in quelle culture.
3. Ulteriori spunti e riflessioni
C’è un punto del tutto fondamentale che è da sottolineare riguardo a questa serie di dinamiche: la tendenza neoliberista che propone alle donne modelli di comportamento più maschili non è per niente un riconoscimento del fatto che la “vecchia” e rigida separazione patriarcale dei ruoli di genere (nella quale il ruolo maschile era stabilmente considerato dominante e più importante) era sbagliata e che la diversità esistente tra i due sessi – una diversità che è evidente sul piano complessivo ma è relativamente sfuggente sul piano individuale, in quanto ogni singola persona può avere particolari sfaccettature scarsamente incasellabili in qualsiasi schema precostituito – vada interpretata nel senso che nessuno dei due sessi è superiore all’altro essendovi tra i due semplicemente una certa differenza e nel contempo una sostanziale e paritaria complementarità. Tra l’altro, è proprio questo il senso che la realtà stessa e più specificamente la ricerca scientifica appaiono esplicitare ineludibilmente, alla prova dei fatti [50]... Invece, quella tendenza è semplicemente un riconoscimento del fatto che – dopo l’ampio ed estremamente creativo sviluppo novecentesco del femminismo – in molte parti del mondo per l’attuale “sistema di potere” non è più possibile trattare comunemente con successo le donne come un gruppo sociale esplicitamente subalterno: il sistema stesso, per non rimanere pesantemente spiazzato nella vita politico-sociale da questa crescita della consapevolezza delle donne, ha dunque spostato il predominio maschile dal piano principalmente sociale al piano principalmente culturale (che è anche alquanto più complesso, tanto più nel mondo odierno in cui vi è una fortissima componente mediatica, tra televisioni, stampa, Internet, cinema, radio, ecc.).
In tal modo, ora si cerca di far pensare, agire e sentire tutti – anche le donne – in base ai tipici orientamenti esistenziali della cultura maschile e patriarcale, negando quindi il più possibile alle donne non tanto una posizione sociale simile a quella maschile (posizione che ora esse possono anche raggiungere abbastanza spesso, a patto di “imparare” a comportarsi in maniera per lo più maschile...), quanto la loro cultura, la loro sensibilità, la loro creatività e spontaneità. In breve, non si è affatto usciti dalla società patriarcale, si è solo passati da una sua fase, contraddistinta da una forma di predominio, ad un’altra sua fase, contraddistinta da una forma di predominio leggermente differente. La negazione culturale della “sensibilità femminile” e la sostanziale esaltazione di atteggiamenti di fondo storicamente molto più maschili che femminili, come la competizione sociale e la tendenza alla gerarchia e all’uso delle armi (atteggiamenti che nella “cultura di massa” vengono presentati acriticamente come sostanzialmente naturali, astorici, spontanei ed eterni mentre sono invece specificamente caratteristici delle società patriarcali e maschiliste che si sono imposte con la forza in gran parte del pianeta nel corso dell’ultima manciata di millenni) [51], servono appunto, tra le altre cose, a tentare di “giustificare” il classismo e la presenza di intensissime e devastanti diseguaglianze socio-economiche nella società.
Oltre tutto, in questa situazione rimane sostanzialmente virtuale e irrealizzabile la parità tra i sessi sventolata come slogan da una parte dei neoliberisti (la parte formalista che esalta pubblicamente certi aspetti della vita sociale come l’egualitarismo strettamente giuridico e privo di valenze socio-economiche, il fatto che la legge è comunque “uguale per tutti” e le tipiche forme moderne di democrazia istituzionale viste banalmente e acriticamente come fondamentali e pressoché perfette a dispetto del fatto che – come viene mostrato dal tipico formarsi di una vera e propria “casta politica” in moltissimi paesi... – sono molto spesso ben più formali che sostanziali) [52], perché in linea di massima rimarrà sempre più faticoso, difficile, stressante e assurdo per una donna doversi comportare come un uomo, facendo propri degli atteggiamenti tipicamente maschili come l’esasperazione della competitività, dell’egocentrismo, delle ambizioni personali e della volontà di dominio e di controllo [53]....
In tal modo, questo concetto di parità è una finzione. È come se in una società di secoli fa il gruppo sociale dominante, costituitosi (come era tipico) sulla base della capacità militare di combattere con spade, armature, scudi, ecc., volesse dichiararsi egualitario, paritario con tutti e potenzialmente democratico e a questo fine invitasse tutti a competere – con gli esponenti del gruppo stesso – nella capacità di combattere in quel modo specifico: è ovvio che le persone strutturalmente non molto robuste e muscolose, o interiormente poco inclini all’aggressività, non potevano in realtà competere a quel livello, di modo che si trattava in pratica di una “competizione” iniqua sin dalla partenza proprio perché impostata su caratteristiche che erano peculiari solo di certuni...
Particolarmente interessanti dal punto di vista esistenziale appaiono diverse considerazioni presentate da Ilaria Consolo nel libro Il piacere femminile (Giunti, 2017), a partire dal fatto ben evidente che nella «vita delle donne, all’affacciarsi del nuovo millennio, [...] la maggiore libertà raggiunta e il diritto conquistato a fare scelte in autonomia non hanno eliminato alcune forme di discriminazione e hanno determinato nuovi conflitti non solo con il mondo maschile, ma anche con se stesse e le altre donne». In tal modo, le donne sono «investite da una crescente tensione provocata dalla compresenza di desideri e aspettative in contrasto tra loro, anche a causa di una società che non le supporta: per esempio, nel far convivere desiderio di procreazione e volontà di affermarsi nella carriera professionale. La donna del terzo millennio subisce, quindi, innumerevoli pressioni, che nella maggioranza dei casi generano angoscia, tensioni, stress, un vissuto di frustrazione e una costante ansia da prestazione». Come conseguenza, «ciò che più di tutto caratterizza la donna del terzo millennio è la sua aggressività, mutuata dal mondo maschile. Si tratta, è ovvio, di un meccanismo di difesa dei traguardi raggiunti nella lotta per la parità di genere, non ancora compiuta: per esempio, [...] nel mondo del lavoro, dove le donne continuano a guadagnare di meno e a dover dimostrare di più rispetto ai colleghi maschi. In questo stato di “guerra” perenne, le caratteristiche femminili di ascolto, creatività, dolcezza, mediazione finiscono per essere un limite, più che una risorsa. Si rivelano ben più utili doti quali la forza, l’assertività e l’aggressività»...
Un aspetto cruciale della questione – ha proseguito Ilaria Consolo in sintonia con le già ricordate riflessioni di Germaine Greer e di Marina Terragni – è che «il concetto di parità tra i generi è stato talmente citato da avere smarrito il proprio significato»: «la parità è di diritti e di doveri, ma essere alla pari nelle opportunità e nei percorsi non vuol dire dover livellare i generi e considerare uguale ciò che uguale non è. [...] Al centro dell’esperienza femminile ci sono sempre state la capacità di creare legami affettivi e la sapienza nel prendersene cura, mediando i conflitti ed esaltando la condivisione dei piccoli piaceri quotidiani e la sacralità dei momenti rituali». Più in particolare, «le donne sono empatiche forse grazie all’esperienza della maternità» e, «al di là delle molteplici attività nelle quali si impegnano, si realizzano principalmente nei rapporti interpersonali, la cui condizione primaria è una buona comunicazione. Privilegiano le relazioni, rispetto agli obiettivi di successo sociale ed economico». Sono tutte capacità – grazie alle quali le donne sanno tradizionalmente essere in moltissimi casi anche un collante della comunità in cui vivono – che la mentalità oggi predominante continua a sottovalutare e a “lasciare in un angolo”, chiedendo troppo spesso dunque alle donne di diventare sempre più simili agli uomini in cambio di un “avvicinamento” a quella parità...
A questo proposito – ha osservato ancora l’autrice – non si dimentichi che «l’uniformazione a tutti i costi è un rischio e uno spreco. Al contrario, il recupero di qualità che le sono proprie può consentire alla donna di abbassare la soglia aggressiva, recuperando tenerezza ed emozioni e valorizzazione dei doni di empatia e sensibilità. Il timore di essere prevaricate ha portato a sviluppare un estremo controllo su tutto e tutti. È la manifestazione di un’ansia che fa ammalare»... Alle prese con richieste sociali e modelli culturali non solo insistenti ma spesso anche molto esigenti, «le donne contemporanee [...] sono immerse in un clima di incertezza riguardo all’identità di genere [...]. Credo che l’incertezza identitaria della donna sia scaturita dall’aver voluto assomigliare troppo agli uomini, dal punto di vista fisico, sessuale, comportamentale, e che sia la conseguenza delle continue pressioni sociali e culturali alle quali sente tuttora di essere sottoposta e di doversi adeguare. Le donne vogliono e sentono di dover essere tutto: madri presenti e affettuose, donne sempre in ordine e in forma, attive e competitive sul lavoro, sexy ed empatiche nella vita di coppia ecc.. In questo senso, è importante arrivare a definire i contorni e i contenuti della nuova identità femminile proprio partendo dal presupposto che le donne possono – devono – essere pari agli uomini, ma che ciò non significa essere uguali a loro»...
È invece appunto questo il tentativo della cultura neoliberista: ridurre in gran parte le donne a tentativi di copie degli uomini, se non per quegli aspetti strettamente fisiologico-riproduttivi che sono peculiarità femminili... Ma anche questi aspetti vengono messi comunemente in difficoltà e, alla fin fine, a disagio: da un lato, la sessualità vissuta secondo stilemi relazionali storicamente di origine maschile (e concentrati di solito molto più sul lato della concretezza e della fisicità che su quello del comunicare reciprocamente e del profondo incontrarsi di due personalità e sulla qualità complessiva della relazione) tende a risultare – specialmente col tempo – alquanto meno appagante per le donne che per gli uomini; dall’altro lato, la prospettiva di condurre una gravidanza e crescere poi un figlio diventa sempre più una fonte di complicazioni e di preoccupazioni se la società non protegge adeguatamente le donne nel rapporto tra maternità e occupazione professionale e lascia gran parte della popolazione – come già si è messo in evidenza [54] – in una condizione di precarietà (non solo occupazionale, ma anche collegata a sfere come quella sanitaria e quella scolastica) che mette a repentaglio la capacità delle persone di mantenere dei figli e soddisfare le loro varie esigenze di fondo. Questa precarietà, col suo prolungarsi negli anni e nei decenni, spinge anche addirittura al formarsi e al diffondersi di una nuova “tendenza culturale”, che guarda ai bambini più che altro come a una problematica, un’incombenza, una difficoltà pratica, come ha suggerito acutamente e dolorosamente ad esempio Antonia Arslan già qualche anno fa in una sua raccolta di pensieri tra saggistica, narrativa, autobiografia e poesia: La bellezza sia con te (Rizzoli, 2018), nel quale si veda in particolare il capitolo “Tempi di Erode”. E sull’attualmente molto diffusa tendenza femminile ad un’insoddisfazione di fondo in campo sessuale nonostante le tante scoperte e puntualizzazioni che hanno avuto luogo dal punto di vista scientifico nella sessuologia in tempi relativamente recenti (una tendenza sistematicamente rilevata da una serie di indagini medico-statistiche in molti paesi) si veda anche ad esempio – in inglese – Dilemmas of Desire - Teenage Girls Talk about Sexuality, di Deborah L. Tolman (Harvard University Press, 2002), una ricerca sulla vita delle adolescenti negli Usa.
Oltre tutto, alcune delle impostazioni identitarie che l’attuale cultura dominante tende ad assegnare alle donne copiando dalle impostazioni maschili (e maschiliste...) sono in netta contraddizione con le capacità che – con le parole di Ilaria Consolo – «sono sempre state al centro dell’esperienza femminile»: ad esempio, essere troppo competitive sul lavoro spezza l’empatia e l’affettività con i colleghi; essere sempre in ordine spezza il senso esistenziale dei piccoli piaceri quotidiani; essere insistentemente sexy spezza l’autentica comunicatività e la spontanea sacralità che sarebbero insite nelle dinamiche interpersonali vissute in modo più intimo; essere costantemente attive e presenti porta all’ansia e alla “sindrome della donna trafelata” cui si è già accennato; l’adeguarsi conformisticamente alle pressioni sociali e culturali finisce con lo spezzare la sensibilità verso gli altri e il mondo.
Queste contraddizioni sono tipiche della vita degli uomini nelle società patriarcali, dove infatti quella parte della popolazione maschile che vuole rimanere conforme alle predominanti pressioni sociali e culturali si trova di fatto a dover rinunciare nei propri comportamenti a una parte molto ampia del proprio lato femminile (che è quello in cui si esprimono maggiormente caratteristiche come in particolar modo l’affettività, la comunicatività, la sensibilità e, più in generale, il senso del relazionarsi in maniera paritaria ed empatica). Non a caso, attraverso l’espressione artistica (letteratura, teatro, opere liriche, film, canzoni, ecc.), nel corso della storia molti uomini hanno messo in evidenza con varie sfumature l’eccessivo prezzo di tali contraddizioni nella vita quotidiana della società umana, o in altre parole il fatto che cose come la ricchezza, il successo professionale, il potere o la fama non bastano comunemente a una persona per sentirsi felice, specialmente se si tratta di una persona significativamente dotata – come del resto sembrerebbe “normale” e naturale a un’approfondita analisi della personalità umana – di sensibilità, di senso affettivo e comunicativo e di etica... Negli ultimi tempi, con l’allargarsi delle possibilità femminili di vivere “in modo maschile”, anche svariate autrici hanno messo in evidenza quell’eccessivo prezzo, dal punto di vista di donne che si sono conquistate un posto nelle modalità tipicamente maschili di vivere in una società basata su concezioni di fondo storicamente patriarcali (e senza che con ciò tali autrici trascurassero il fatto che un’insoddisfazione non molto dissimile tende, comunque, a caratterizzare generalmente anche quelle che storicamente sono state per secoli e secoli le modalità tipicamente femminili di vivere in quel tipo di società, a causa dei limiti comunemente opprimenti del dover vivere in una posizione socialmente subalterna e contraddistinta eminentemente da incombenze domestiche e bambini da crescere...).
4. Sfera occupazionale, paradossi politici, equivoci culturali
Peraltro, nella caleidoscopica molteplicità di sfaccettature che si possono trovare nella personalità umana, ci sono persone che in modo naturale e spontaneo amano e apprezzano vivere principalmente tra attività casalinghe e bambini da crescere. Quello che è opprimente non è in sé e per sé questa impostazione del vivere (che appunto non di rado è gradita, specialmente a delle donne, ma non solo), ma è il dover vivere in base a quest’impostazione – dunque quando la si vive non per libera scelta, ma per costrizione (collegata di solito a dei ruoli di genere che, in pratica, vengono imposti socialmente) – e il trovarsi forzosamente in una situazione di subalternità. Oltre tutto, il non dover scegliere rigidamente tra un’ampia vita professionale e un’ampia vita famigliare (o l’una, o l’altra) ma il poter fluidamente vivere sia l’una che l’altra – con la possibilità di mutamenti, di adattamenti e di adeguate trasformazioni tra un periodo della propria vita e un altro – contribuirebbe a risolvere la questione alla radice per moltissime persone. La vita è mutamento: perché dover vivere praticamente allo stesso modo per 30-40 anni o anche più...?
Per inciso, un discorso simile vale anche per la vita professionale in se stessa: perché mai deve essere impostata in modo rigido e non consentire a una persona, se le facesse piacere, di poter cambiare ripetutamente nel corso del tempo mansioni e tipo di lavoro (in questo senso, crescere con attenzione e affetto i propri figli potrebbe anche essere considerato dalla società un’occupazione lavorativa come tante altre, visto anche che quando crescendo si diventa degli adulti creativi, socievoli e partecipi della vita sociale questo può risultare vantaggioso per l’intera società) [55] o – in modo ancor più radicale – di poter avere contemporaneamente diverse attività vissute in modo fluido e dinamico secondo ovviamente modalità part-time (anche attività molto diverse tra loro, come ad esempio insegnare, coltivare la terra, fare il falegname, esprimersi a livello artistico, lavorare in fabbrica, appunto crescere bambini, e via di seguito) [56]...? Nell’arco di una giornata, di una settimana, e ancor più dell’anno con le sue diverse stagioni, oltre che nelle varie età dell’esistenza umana, potrebbe esserci spazio per molteplici e differenti occupazioni nella vita di una persona: molti ne sarebbero probabilmente molto più contenti che dovendo fare sempre le stesse cose per mesi, per anni o addirittura per tutta l’esistenza lavorativa.... E questo dovrebbe accadere non sotto il segno della precarietà lavorativa e reddituale e di una caoticità economica di fondo dagli effetti facilmente drammatici sul piano umano (come invece tende ad accadere in una certa misura dove impera l’impostazione liberista dell’economia), ma all’interno di una società caratterizzata da un’ampia attenzione per la qualità della vita di ciascuno. Oltre tutto, non poche attività professionali che all’inizio possono risultare anche interessanti, stimolanti, emozionanti e piuttosto piacevoli possono diventare invece col tempo sempre più ripetitive, noiose, stancanti, logoranti, complessivamente poco gradevoli (l’esempio più estremo appare rappresentato dalle situazioni di burn-out – cioè di logoramento molto pesante ed esplicito – che possono colpire specialmente chi fa professioni relazionalmente impegnative come l’insegnante o il medico). Quando col tempo si verificano circostanze di questo tenore nella vita di qualche persona, se a quel punto l’insieme della società non aiuta effettivamente queste persone a cambiare professione o modo di lavorare – e a prendere, così, nuove direzioni che le persone stesse trovino positive – è possibile che per non restare disoccupati si debba finire col mantenere controvoglia ancora per anni quella professione e quel modo di lavorare (specialmente se è una specie di “modo standard” in quel tipo di occupazione o se corrisponde specificamente agli intenti di chi ha una funzione dirigente dove si svolge il proprio lavoro), magari riducendo semplicemente il più possibile le proprie ore di lavoro se si ha la “fortuna” di poterlo fare sia dal punto di vista dell’organizzazione interna dell’attività in questione sia da quello del proprio reddito, o che in alternativa si possa in linea di massima soltanto “ripiegare” su qualche altra occupazione che nell’insieme appare ancor meno interessante e gradevole. Si tratta di un rischio tanto più esistente quando non si è più giovani, in quanto dai 40-50 anni in su trovare qualche nuova occupazione vissuta come piacevole tende a risultare sempre più difficile in qualsiasi economia orientata in senso liberista e/o dirigista...
Molte di queste considerazioni riguardanti le variazioni individuali che potrebbero esservi nella sfera occupazionale sono emerse più volte già durante l’Ottocento, in particolare quando si esaminava la prospettiva di un’eventuale società socialista futura (e della transizione da un’economia di mercato a una tale società) e se ne discuteva. Ma, a confronto con quella prospettiva (allora incentrata generalmente sull’attenzione per la qualità della vita delle persone e su un’impostazione profondamente democratica della società) e con quelle discussioni, nel cosiddetto “socialismo reale” novecentesco – proseguito anche nel nostro secolo in paesi quali Cina, Vietnam, Cuba, Laos e Corea del Nord – la qualità della vita delle persone e la democrazia stessa sono state comunemente sacrificate molto intensamente (con effetti spesso tragici per molti versi), e ciò nel nome di una semplificazione produttiva e di un accentramento del potere che in realtà sono stati solitamente molto più utili alla gerarchia politica e amministrativa del paese che alla “comune popolazione lavoratrice” e alla creatività dell’economia locale. Si tratta di qualcosa di molto simile a quanto avviene solitamente nel capitalismo, dal momento che anche in esso si tende a una tale semplificazione e a un tale accentramento (quest’ultimo, peraltro, in una forma spesso alquanto nascosta e sotterranea, poiché ufficialmente il capitalismo è accompagnato in molti paesi da pubbliche istituzioni molto democratiche): la semplificazione risulta personalmente vantaggiosa agli imprenditori e ai dirigenti nelle aziende private e alla gerarchia politico-amministrativa nelle aziende pubbliche (una tendenza che comunemente è tanto più forte quanto più in una particolare azienda vi è un’impostazione elitaria e dirigista); l’accentramento consente alla “casta politica” di trasformarsi in una sorta di oligarchia, di solito collegata molto strettamente alle élite economiche. Se nell’Ottocento dunque la società capitalistica non era certo favorevole alle esigenze dei lavoratori, in quel secolo però vi era almeno la prospettiva socialista – e più in concreto, ovviamente, il movimento che coltivava questa prospettiva – a tenere ampiamente conto di tali esigenze e, nel contempo, a incoraggiare i lavoratori stessi a lottare per i propri diritti, per una vita più in sintonia con la dignità umana e per un’impostazione sociale complessivamente democratica. Invece, nel ’900 e oltre, anche gran parte dei cosiddetti socialisti ha messo da parte la condivisione di quelle esigenze e ha sposato sia l’atteggiamento tipicamente capitalistico che considera sostanzialmente normali e ampiamente giustificati i vari aspetti dell’alienazione lavorativa che assale appunto i lavoratori attraverso le modalità operative di un’organizzazione del lavoro pesantemente disumana e sfruttatrice, sia lo scavarsi – tipicamente classista e patriarcale – di una netta separazione tra élite politiche e “cittadini comuni” nella società.
Ciò non toglie, comunque, che nel corso del ’900 vi siano state anche ricerche rivolte a migliorare l’organizzazione del lavoro dal punto di vista dei lavoratori, sia nella parte del mondo a economia di mercato (specialmente in paesi caratterizzati da un orientamento politico di tipo socialdemocratico, oppure in aziende indirizzate in senso alternativo rispetto alla tipica impostazione dominante, che mira pressoché esclusivamente ai profitti e a un ferreo “potere di classe” imprenditoriale e dirigenziale), sia nella parte del mondo a economia statalista impostata sulla base del cosiddetto “socialismo reale” (specialmente in esperienze lavorative contraddistinte da una stretta collaborazione tra operai e tecnici). Tuttavia, benché degli aspetti dell’uno o dell’altro di questi due insiemi di ricerche – e di concreti risultati operativi – risultassero ampiamente applicabili pressoché ovunque ci fosse un’organizzazione del lavoro poco attenta alla soggettività dei lavoratori, alla loro salute e/o alla qualità della loro “esperienza occupazionale”, gran parte del “sistema produttivo” mondiale ha tenuto ben poco conto di tali ricerche, proprio perché nelle varie parti del globo l’attenzione delle élite economiche e politiche continua ad andare di solito molto più agli interessi materiali personali delle élite stesse (guadagni, potere, privilegi) che al benessere delle classi lavoratrici [57]...
Durante il secolo scorso, inoltre, nei paesi capitalistici sono emerse delle possibilità evolutive dotate di effetti positivi per l’intera vita sociale ed economica di tali paesi, anche se non risolutrici – ovviamente – di tutte le contraddizioni interne del capitalismo stesso: da un lato, l’economia keynesiana e ulteriori particolari come in special modo il microcredito e la possibile realizzazione di joint-venture e di altre forme di collaborazione (ad esempio nel campo della ricerca tecnico-scientifica) tra settore pubblico e settore privato; da un altro lato, conquiste specifiche dei lavoratori come una serie di diritti generali collegati al lavoro e, più in particolare, i “Consigli di fabbrica” e il loro coinvolgimento nella definizione di numerose scelte operative aziendali; da un terzo lato, l’affermazione dei diritti umani in una prospettiva pienamente planetaria, che si è condensata in modo particolare nella “Dichiarazione universale” di tali diritti approvata nel 1948 dalle Nazioni Unite e nei suoi trattati applicativi messi a punto nei decenni successivi e che ha così dato corpo a una tematica giuridica evolutasi per molti versi parallelamente proprio all’affermarsi di tendenze economiche di tipo keynesiano (non a caso, con la successiva svolta neoliberista l’attenzione rivolta all’insieme di questi diritti dai governi e dalle istituzioni intergovernative è scemata clamorosamente, implicando di fatto in moltissimi paesi una continua disapplicazione di princìpi giuridici che pure hanno ineludibilmente un pieno valore di legge, o forse si dovrebbe dire “avrebbero”, constatando che il mondo politico e la magistratura stessa – che dovrebbe sorvegliare e garantire il rispetto delle leggi, e tanto più di quelle “di ordine superiore”, collegate alle norme costituzionali e al diritto internazionale riconosciuto – trascurano enormemente in diversi campi tale rispetto...); da un altro lato ancora, lo sviluppo di forme di “democrazia partecipativa” a integrazione della consueta “democrazia rappresentativa” [58]. Molti aspetti di tali possibilità sono tuttavia rimasti – o sono rapidamente ritornati – nella sfera delle potenzialità inattuate, e ciò dapprima a causa soprattutto di un diffuso dirigismo molto spinto e spesso preda di arrivismo, estremo egocentrismo, corruzione, clientelismo e/o incompetenza (dirigismo che ha anche fatto sì che l’applicazione concreta delle possibilità in questione non sia stata affatto impostata in modo congruo e generalizzato) [59] e poi a seguito appunto dell’imporsi del neoliberismo, con la sua fortissima tendenza a opporsi a qualsiasi presenza intensa di senso sociale nella gestione dell’economia di mercato e più in generale nell’insieme della politica. Nel contempo, dal punto di vista macroeconomico, un contraltare delle prospettive suggerite in Occidente da Keynes – e una sorta di parallelo con esse, mirante a forme molto interessanti di coordinamento e programmazione in campo economico – è stato sviluppato in Urss specialmente da Ivan Mikhajlovic Syroežin e dal suo gruppo di ricerca su cibernetica ed economia, collegato in particolar modo all’Università di Leningrado: si veda a questo proposito il volume di Syroežin Pianificabilità, pianificazione, piano: lineamenti teorici (originariamente pubblicato postumo nel 1986, ovviamente in russo), del quale una traduzione ampiamente commentata è stata avviata da Paolo Selmi nel 2018 nel sito di “Sinistra in rete” [60]. Anche ciò cui Syroežin si è dedicato per una ventina d’anni (prima della sua precoce scomparsa, avvenuta nel 1983) è rimasto in gran parte inattuato, per certi versi soprattutto per i pesantissimi limiti mostrati dai vertici politico-economici dell’Urss e degli altri regimi del “socialismo reale” e per altri versi ovviamente – nella prima metà degli scorsi anni ’90 – per la fine dell’Urss stessa, della sua economia statalizzata e del “Patto di Varsavia” che, dopo la “conquista” degli altri paesi dell’Europa orientale da parte dell’esercito dell’Urss nel corso della seconda guerra mondiale, aveva associato (in modo sostanzialmente forzoso) quei paesi a tale tipo di economia e all’autoritarismo staliniano.
Il fatto che i regimi del “socialismo reale” formatisi durante il ’900 siano rapidamente divenuti un “affare” (in tutti i principali significati della parola) profondamente patriarcale – e quindi connesso profondamente al potere, che storicamente appare essere il motore più determinante negli assetti sociali delle società patriarcali – è palese anche per il fatto che le donne hanno sistematicamente contato pochissimo nell’impostazione concreta di tali regimi. In Urss ad esempio il potere si accentrò soprattutto nell’Ufficio Politico – o Politburo – del partito bolscevico (un organismo estremamente ristretto che in certi periodi venne chiamato anche Presidium o “Ufficio del Presidium”). Ora, nel periodo tra l’ottobre 1917 e il primo semestre del 1930 (prima cioè del XVI Congresso e dell’avvento esplicito dello stalinismo in Urss), 17 esponenti del partito giunsero a far parte effettiva dell’Ufficio Politico, che in quel periodo era composto da un numero di membri compreso in sostanza tra 5 e 10: tra quei 17 ci fu un’unica donna, Elena Stasova, che però rimase in carica solamente per poco più di sei mesi, dal marzo al settembre 1919. Diversamente da quanto ci si potrebbe aspettare, la fine della guerra civile – nel 1920 – non portò affatto a una maggiore apertura alle donne. Tra il 1922 e il 1923, durante la grave malattia che portò poi Lenin alla morte, acquisì un certo peso politico Nadežda Krupskaja, ma semplicemente in quanto moglie e – in pratica – principale portavoce di Lenin in quelle ardue circostanze. Questo estremo predominio maschile si rafforzò ulteriormente con lo stalinismo e non mutò di molto neanche con la parziale “destalinizzazione” che ebbe luogo a partire dal 1956: nonostante il lento allargamento del Politburo nel corso dei decenni (negli anni ’70, ad esempio, si passò tipicamente da una dozzina di membri effettivi a 15-20), la prima donna a esservi eletta dopo la Stasova fu – quasi 40 anni dopo, nel periodo kruscioviano – Ekaterina Furceva, che rimase in carica dal 1957 al 1961; poi di nuovo nessuna fino al 1990, quando fu eletta Galina Semënova, nella parte finale del periodo gorbacioviano con cui si chiuse la storia dell’Urss. In Cina, dopo la rivoluzione del 1949, l’organismo politico nettamente dominante è stato il Comitato permanente dell’Ufficio Politico del partito al potere: un organismo anch’esso estremamente ristretto (composto da un numero di membri tra 5 e 9), del quale – in più di 70 anni di esistenza – neppure una donna ha mai fatto parte... L’unica donna ad aver avuto un certo peso politico in Cina nel periodo successivo alla rivoluzione è stata Chiang Ch’ing (o Jiang Qing, a seconda del sistema di traslitterazione della lingua cinese), l’ultima moglie di Mao, la quale durante gli anni ’70 fu coinvolta in aspre lotte di potere all’interno del partito e dello Stato, lotte in cui tenne una posizione considerevolmente vicina a quella del marito, che col passare dei decenni – con l’appellativo di “Grande Timoniere” – era stato quasi deificato nella cultura dominante del paese, nella quale si tendeva a fare del “pensiero di Mao Tse-tung” un dogma assolutistico. Subito dopo la scomparsa di Mao, nel 1976, Chiang Ch’ing si ritrovò sconfitta in quelle lotte e venne rapidamente imprigionata – per decisione dei nuovi vertici del partito – assieme agli altri membri della cosiddetta “Banda dei Quattro” e fu poi condannata all’ergastolo, morendo nel 1991 in ospedale, dove era stata trasportata per grave malattia. Nel 1969 era anche stata eletta nel Politburo cinese (del quale continuò a far parte fino al 1976): una partecipazione che nel corso dei decenni è stata raggiunta da pochissime donne, benché si tratti di un organismo politicamente piuttosto secondario e numericamente piuttosto ampio (comunemente di ben 25 membri). Dinamiche profondamente sessiste, simili a queste, si sono sviluppate anche dopo le altre rivoluzioni novecentesche di ispirazione socialista: a Cuba, in Vietnam, ecc…
Basterebbe questa fortissima e stabile divaricazione tra uomini e donne a mostrare l’estrema falsità del presunto socialismo concretizzatosi in questi paesi, specialmente – appunto – dopo che in ciascuno di essi la tendenzialmente caotica fase iniziale post-rivoluzionaria ha trovato una stabilizzazione politico-istituzionale. Se a questo si aggiungono altre caratteristiche sistematicamente presenti in tale presunto socialismo (tra l’altro anch’esse tipicamente patriarcali, a sottolineare la non casualità di tutto l’insieme) – quali l’autoritarismo, il senso pesantemente gerarchico, la tendenza alla repressione, le marcate diseguaglianze sociali non solo dal punto di vista del potere ma anche da quello delle possibilità economiche, il dogmatismo, le fortissime deformazioni attuate nei confronti delle elaborazioni marx-engelsiane in campi basilari come la prospettiva della “transizione al socialismo” e la filosofia dialettica a dispetto del costante e tronfio autodefinirsi rigorosamente e strettamente “marxisti” e, come risultato complessivo, un sostanziale “classismo di fondo” nei confronti delle masse lavoratrici – si ricava che in realtà il termine “socialismo” e anche, per chi conosce sufficientemente bene l’opera di Marx e del suo strettissimo amico e collaboratore Engels, il termine “marxismo” non hanno pressoché nulla a che fare con i regimi del cosiddetto “socialismo reale” [61]. Come si è già accennato in precedenza nella parte II di Storia e democrazia: alcuni nodi cruciali [62], un termine che potrebbe esprimere molto meglio l’esperienza complessiva di quei regimi è “statalismo”: un sostantivo che in sé e per sé non è affatto offensivo, in quanto l’aggettivo “statale” non indica affatto – in sé e per sé, appunto – nulla di aspramente negativo, anche se certo è molto meno affascinante, umanamente significativo, politicamente stimolante e culturalmente rivoluzionario di quanto possano suggerire sia l’aggettivo “sociale” sia l’opera effettiva di Marx ed Engels...
A proposito della visione del rapporto uomo-donna negli scritti marx-engelsiani, si possono ricordare in modo particolare sia la ripetuta citazione tratta da Charles Fourier sul fatto che la qualità della posizione sociale delle donne in una società è un’eccellente misura del grado di civiltà che può essere associato a tale società, sia le osservazioni di Engels – in L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (del 1884) – secondo le quali la prima «oppressione di classe» verificatasi nella storia fu quella dell’uomo sulla donna [63]. E grazie appunto a Fourier, Marx, Engels e ad altri socialisti profondamente impegnati anche nella ricerca intellettuale come Robert Owen, Ludwig Feuerbach, Nikolaj Cernyševskij, August Bebel e donne militanti quali ad esempio Flora Tristan e Jenny d’Héricourt, così come grazie in generale alle intense aspirazioni alla libertà che percorrevano il movimento socialista ottocentesco, in quel movimento era ben diffusa anche l’aspirazione a lasciarsi alle spalle il sessismo tipico – da millenni – della cultura patriarcale (al contrario di quanto hanno fatto appunto nell’ultimo centinaio d’anni i regimi del cosiddetto “socialismo reale”). Più specificamente, la particolare significatività sociale attribuita in quegli scritti ai rapporti tra i sessi appare ampiamente connessa a un’osservazione fatta da Marx nei Manoscritti economico-filosofici del 1844: «Il rapporto immediato, naturale, necessario dell’uomo con l’uomo [e qui “uomo” ha ovviamente il senso di “essere umano”, N.d.R.] è il rapporto del maschio con la femmina. In questo rapporto naturale della specie il rapporto dell’uomo con la natura è immediatamente il rapporto dell’uomo con l’uomo, allo stesso modo che il suo rapporto con l’uomo è immediatamente il suo rapporto con la natura, cioè la sua propria determinazione naturale. [...] In base a questo rapporto si può dunque giudicare interamente il grado di civiltà cui l’uomo è giunto. [...] Il rapporto tra maschio e femmina è il più naturale dei rapporti che abbiano luogo tra uomo e uomo. [...] In questo rapporto si mostra anche sino a che punto il bisogno vissuto dall’uomo sia diventato bisogno umano, e dunque sino a che punto l’altro uomo in quanto uomo sia diventato per lui un bisogno: sino a che punto egli nella sua esistenza più individuale sia a un tempo un essere sociale». In altre parole, se un essere umano non ha un rapporto di qualità elevata, attento, sensibile, equo, con le persone dell’altro sesso che ha occasione di frequentare, appare tendenzialmente inutile aspettarsi che lo abbia davvero con gli altri in generale (nei quali sono inclusi ovviamente sia uomini che donne), dal momento che quest’ultimo rapporto generico è alla fin fine meno immediato, naturale e necessario di quello riferito direttamente alle persone dell’altro sesso con le quali si ha una vicinanza concreta...
Riguardo alla significatività sociale particolarmente spiccata che appare contraddistinguere i rapporti tra uomini e donne, Riane Eisler nella sua postfazione alla più recente edizione italiana di Il calice e la spada (Forum, 2011) si è focalizzata su alcuni nodali approfondimenti di tipo psicologico: «Finché rimane attivo» il «modello per il quale nella nostra specie il maschio è superiore e la femmina è inferiore, esso si rifletterà anche nella mappa mentale ed emotiva che i bambini interiorizzano precocemente, dove si equipara la differenza – a cominciare dalla fondamentale differenza fra maschio e femmina – al fatto di venire serviti o servire. Questo è il motivo per cui il dominio maschile è un aspetto così fondante» dei sistemi sociali caratterizzati da forme di predominio: «offre un prototipo emotivo» che «fa sembrare normali l’ingiustizia e l’essere subalterni sia nelle famiglie che nelle nazioni, sia in economia che in politica». È inoltre «un elemento chiave nella costruzione di quella mentalità che ha bisogno di un nemico per far perdurare» il sistema stesso, dal momento che chi sta in alto finisce spesso col vedere anche come pericoloso chi sta in una posizione subalterna [64]...
Per cogliere più profondamente e più sottilmente le varie sfumature delle dinamiche implicate nei mutamenti di ruolo sottolineati in modo particolare da Germaine Greer e Marina Terragni, va messo in evidenza che sono mutamenti riguardanti molto più la “cultura di massa” proposta alle classi popolari che la cultura delle classi dominanti. Nel corso della storia, le classi dominanti hanno accettato piuttosto spesso la presenza di qualche figura femminile in posizioni più o meno di vertice nell’ambito della società, a patto che si trattasse di figure capaci di comportarsi sostanzialmente come un uomo; inoltre, molte donne delle classi dominanti hanno comunque saputo incidere su numerose scelte generali di tali classi attraverso dinamiche come il dialogare con degli uomini “importanti” (specialmente con uomini con cui avevano una relazione di tipo sentimentale e/o sessuale, oppure qualche legame di tipo famigliare come ad esempio quello madre-figlio o sorella-fratello) ed eventualmente l’avere anche una certa influenza su di essi... È soprattutto alle donne del popolo che veniva insegnata, raccomandata e spesso imposta una posizione socialmente passiva, in modo parallelo al fatto che agli uomini del popolo veniva insegnata e spesso imposta una posizione socialmente subalterna alle classi dominanti... In tal modo, la recente (e sempre più diffusa) “scoperta” del fatto che anche le donne possono comportarsi in modo complessivamente maschile e che attraverso un tale modo di comportarsi possano accedere a posizioni di maggiore peso e riconoscimento nella scala sociale non è altro che una parziale riproposizione – su scala popolare – di quanto già da molto tempo le classi dominanti delle società patriarcali facevano sovente: già da tempo molti uomini delle classi dominanti erano giunti alla conclusione che il predominio maschile di fondo può benissimo accettare tra essi la presenza di qualche donna “simile a uomo” e che quest’accettazione non implica affatto una rinuncia all’idea che nel complesso il modo esasperatamente maschile (egocentrico, stabilmente competitivo, materialmente o psicologicamente aggressivo, ecc.) di vedere la vita e il mondo è superiore a qualunque modo ampiamente collegato al lato femminile della personalità umana.... Tra l’altro, è una situazione che tenderà già di per sé – dal momento che per le donne, come già si è accennato, è generalmente ancor più innaturale e difficile che per gli uomini comportarsi in modo esasperatamente maschile – a garantire il selezionarsi di una élite dominante (dai modi esasperatamente maschili, per l’appunto) composta in gran parte da uomini; in tal modo, si contribuirà a preservare non solo la continuità di una cultura dominante basata sull’egocentrismo, su una stabile competitività, sull’aggressività materiale e/o psicologica, ecc., ma anche il predominio complessivo del genere maschile (o meglio, di quella parte del genere maschile disposta – e incline – ad atteggiamenti stabilmente egocentrici, competitivi, aggressivi, ecc., mentre gli uomini non disposti a tali atteggiamenti vengono tipicamente emarginati in un modo o nell’altro, oppure addirittura pesantemente repressi e “messi in condizione di non nuocere al potere costituito”...) [65]. In altre parole, lo spostamento del predominio maschile dal piano principalmente sociale al piano principalmente culturale non ha affatto eliminato quel predominio, né nel suo aspetto sociale né in quello culturale: l’ha solo mascherato un po’ di più...
Dal punto di vista storico, va anche ricordato che sin dagli inizi del capitalismo (sostanzialmente tra ’700 e ’800) vi è stata una forte spinta verso la parità giuridica tra tutte le persone, indipendentemente dal sesso, dalla nazionalità, ecc., persino indipendentemente dall’età: ciò affinché fosse più semplice e meno gravata da ostacoli giuridici l’opportunità di poter “inserire” ogni persona nel “circuito economico” comprendente la produzione, il commercio e il consumo delle varie merci. Ad esempio, nelle prime fasi di sviluppo locale del capitalismo – dapprima in Europa e poi anche in altri continenti – è stato molto frequente il ricorso al lavoro abituale non solo di uomini definibili come adulti, ma anche di donne e bambini, in special modo in mansioni nelle quali non era particolarmente necessaria la forza fisica ma quello che serviva era invece costituito soprattutto o dalla destrezza e dall’abilità che potevano venire espresse da mani più piccole di quelle tipiche degli uomini adulti o da altri particolari “vantaggi operativi” come le dimensioni relativamente piccole del corpo infantile [66]. Nell’economia capitalistica il riconoscimento – umano e poi anche normativo – delle differenze effettivamente esistenti tra i lavoratori in base all’età e al sesso è stato così una (ri)conquista dei lavoratori stessi, che è avvenuta tipicamente in una seconda fase dello sviluppo del capitalismo: quella in cui i movimenti dei lavoratori hanno cominciato a lottare con decisione per salvaguardare sempre più la qualità della vita delle classi popolari. Si è giunti così a proteggere i bambini dal lavoro nelle fabbriche, nelle miniere, ecc., a proteggere generalmente le donne (strutturalmente meno muscolari degli uomini) dai lavori più faticosi, a proteggere la maternità mediante mesi di pausa dal lavoro (o anche anni, a seconda dei luoghi e dei momenti storici) nel periodo intorno al parto, e così via. Non si dimentichi dunque che la parità giuridica delle persone – specialmente nelle classi popolari – è per l’economia di mercato non solo una tendenza storica, ma anche una sorta di esigenza intrinseca avente il fine di allargare quanto possibile il mercato del lavoro, in modo da espandere le “risorse umane” disponibili per le imprese e tenere nel contempo maggiormente sotto controllo le richieste salariali dei lavoratori (grazie appunto a un più ampio mercato del lavoro, come si è già messo in luce in precedenza) [67], un’esigenza che spiega appunto tale tendenza.
Mentre il classismo precapitalistico si basava su capacità principalmente di tipo militare o politico-diplomatico e sulla trasmissione di titoli nobiliari – ottenuti mediante tali capacità e caratterizzati generalmente dalla proprietà di certi territori – soprattutto dal padre al figlio primogenito (eventualmente con la concessione di ulteriori privilegi, da parte della élite politica, a una casta religioso-sacerdotale spesso collegata alle medesime famiglie nobili mediante dei loro figli non primogeniti o delle loro figlie), il classismo borghese e capitalistico si basa sulla ricchezza, o in altri termini – come dice la parola stessa – sul capitale (e anche in questo caso è prevista in modo consuetudinario una trasmissione tra generazioni, di solito attraverso un semplice “passaggio di mano” nella proprietà delle ricchezze, attuato comunemente per mezzo dell’eredità che si lascia al termine della propria vita e che generalmente va soprattutto a dei famigliari). E, mentre i titoli nobiliari e la loro ripetuta trasmissione da una generazione all’altra erano in teoria e in linea di massima qualcosa di garantito e di pressoché inamovibile (a meno che non venissero messi a repentaglio mediante un intenso scontro diretto con un’autorità superiore), la ricchezza borghese è qualcosa di molto più volatile: anche se abbondante, la si può perdere anche completamente, ad esempio per investimenti poco riusciti, per un eccesso di spese o per altre forme di cattiva amministrazione. Come scrisse Marx già nel 1847 in Miseria della filosofia, il sostanziale svuotamento sia dei titoli nobiliari e degli eventuali privilegi religioso-sacerdotali sia del loro contraltare sociale rappresentato dagli obblighi di tipo giuridico riguardanti certi strati popolari – obblighi come ad esempio, a seconda del tipo di società, la servitù della gleba e la schiavitù – ha costituito uno dei punti fondamentali del mutamento della società portato con sé dalla classe borghese e dalla sua principale attività economica: quella manifatturiera e industriale. Un mutamento indirizzato dunque, per l’appunto, verso una parità giuridica di fondo tra le persone. In altre parole, al classismo precapitalistico e ai suoi meccanismi occorreva la presenza di una secca diseguaglianza giuridica tra le classi (che stabilisse stabili privilegi per le élite e limitanti obblighi per il popolo); diversamente, al classismo borghese bastano le diseguaglianze economiche, mentre quelle giuridiche tendenzialmente non servono (e risultano anzi facilmente fastidiose).
Attraverso queste annotazioni storiche si può comprendere meglio come è avvenuto che i regimi del “socialismo reale” sono divenuti ancor più patriarcali e maschilisti di gran parte delle altre impostazioni socio-politiche e istituzionali che sono riuscite a imporsi durante l’ultimo centinaio d’anni. Tra i principali motivi di questo fatto appaiono esserci proprio le originarie radici notevolmente popolari di questi regimi, il vissuto in grandissima parte precapitalistico di ciascuno di questi paesi all’epoca della propria rivoluzione e il mancato superamento culturale del pesante sessismo maschilista che, tipicamente, si era prodotto in tali radici anche come effetto dei vari tipi di pressioni storicamente esercitati sul popolo dalle classi dominanti: radici nelle quali appunto l’insistenza specifica sulla passività sociale delle donne – a paragone con il posizionamento sociale degli uomini – era alla fin fine alquanto superiore a quanto avveniva nelle classi dominanti stesse... E, se si seguono le illuminanti citazioni qui già riportate di Friedrich Engels e di Riane Eisler, appare evidente che quel sessismo maschilista diffuso ancor più tra le classi popolari che tra quelle privilegiate – col suo essere già una vera e propria forma di oppressione e, nel contempo, col suo abituare ed “educare” in vari modi le persone a forme sia di dominio che di subalternità e all’ingiustizia nei rapporti sia sociali che interpersonali – abbia favorito e incoraggiato nella “nuova” società post-rivoluzionaria il persistere del “vecchio” classismo (esperienza dei secoli precedenti), trasformato gattopardescamente in una forma “nuova” che però ha continuato in pratica a veicolare molti aspetti della “vecchia” sostanza...
In pratica, tutto ciò conferma anche la giustezza di diverse considerazioni di Marx ed Engels: in particolare, di quelle sulla tipica tendenza «rozza» e culturalmente «reazionaria» dei primi movimenti politico-rivoluzionari proletari formantisi agli albori della società borghese [68], oltre che sul fatto – già notevolmente discusso in questo sito in interventi più o meno recenti [69] – che l’esigenza di una consistente evoluzione tecnico-produttiva è uno dei fattori storici di fondo che entrano in gioco per la concreta possibilità di un autentico affermarsi di un socialismo moderno, “non primitivo” (cioè tecnologicamente ed economicamente molto più complesso delle società – generalmente tribali e dotate soltanto di tecnologie molto semplici – che, in passato o ancora oggi in ambienti molto particolari come soprattutto le foreste pluviali, hanno sviluppato delle forme efficaci di “socialismo primitivo”). In breve, i movimenti politico-rivoluzionari in questione – non avendo vissuto un ampio affermarsi della cultura borghese e in particolare dei suoi lati “progressivi” collegati specialmente al senso dell’individualità umana, alla sete di sviluppo tecnologico e di conoscenze e alla parallela spinta alla dissoluzione sia delle istituzioni nobiliari sia di miti e superstizioni – hanno finito col sottovalutare in buona parte tali lati e soprattutto i loro significati intrinseci e col rimanere legati a forme politico-culturali tipicamente precapitalistiche come il “culto della personalità” di un singolo al di sopra di tutti (cosa che è avvenuta in special modo con Stalin in Urss, Mao in Cina, Tito in Jugoslavia, Kim Il-sung in Corea del Nord, Fidel Castro a Cuba, Hô Chí Minh in Vietnam, Enver Hoxha in Albania, Pol Pot in Cambogia, e così via, ma anche chi dopo di loro è assurto in questi paesi al vertice dello Stato ha mantenuto una tale posizione dominante, simile a quella degli zar e degli imperatori di un tempo), un forte dogmatismo culturale e – appunto – un maschilismo diretto, aspro, sfrontato e pressoché assolutistico... Ovviamente, si tratta semplicemente della conferma di una tendenza che era stata messa in evidenza dal pensiero marx-engelsiano, ma l’estensione di questa conferma è estremamente ampia. Addirittura, l’esperienza di numerosi dei paesi derivanti dalla dissoluzione dell’Urss e del “patto di Varsavia” suggerisce che si tratti di una tendenza politico-culturale così diffusa e solida che storicamente può proseguire ancora per diversi decenni dopo la fine di uno di quei regimi: basti vedere come la Russia sia stabilmente diventata preda del “nuovo zar” Putin (quanto mai dittatoriale, guerrafondaio, violento e crudele), come in Asia diversi di quei paesi siano amministrati di fatto in modo simile a quanto facevano i satrapi millenni fa, o come anche diversi altri paesi dell’Europa orientale siano elettoralmente inclini a premiare politici autoritari e antidemocratici... Tra l’altro, il sostanziale rifiuto opposto in particolar modo da Stalin e da Mao alla “negazione della negazione” intesa come uno dei momenti nodali delle dinamiche reali e della filosofia dialettica (non solo nella versione marx-engelsiana di quest’ultima, ma anche in versioni storicamente precedenti come specialmente quella hegeliana e – nell’antico Estremo Oriente – quella taoista), con tutti gli addentellati culturali e politici che tale rifiuto portò con sé (come in particolare una forte tendenza al dualismo), appare esser stato proprio un aspetto di quella rozzezza e di quella complessiva reazionarietà culturale [70]...
Per amore di una certa completezza, va aggiunto che nell’insieme non è che la cosiddetta “sinistra moderata” – che è l’altra principale corrente in cui si è articolata e concretizzata la sinistra novecentesca – sia andata davvero meglio dei regimi con i quali si è manifestato il “socialismo reale” e dei partiti che, in altri paesi, hanno sostenuto l’approccio politico di tali regimi [71]... Più in particolare, nei rapporti uomo-donna, sia sul piano sociale che su quello personale la differenza principale tra la cultura della “sinistra moderata” e l’esperienza di quei regimi durante i secoli XX e XXI appare analoga alla differenza tra la forma borghese di potere e la forma di potere tipica dei regimi in questione: la forma borghese è tipicamente più sfaccettata, indiretta ed esteriormente melliflua, anche perché lascia appunto l’azione classista e gerarchica soprattutto all’economia (nella quale, per di più, il potere è diffuso in uno strato d’élite relativamente ampio e chi fa parte di questo strato è spesso nascosto agli occhi dei “cittadini comuni”, tra società per azioni, manager d’impresa, finanza speculativa, società di comodo, paradisi fiscali, e via dicendo), mentre la forma di potere di quei regimi è tipicamente più diretta, dura e tagliente, anche perché in essi le redini dell’economia sono sempre – sotto sotto – nelle mani del potere politico, e quindi è quest’ultimo che in ultima analisi dirige “tutta la baracca”, nella quale è inclusa, proprio come nelle società di tipo borghese, una fortissima presenza di aspetti gerarchici e alla fin fine classisti. L’aggettivo “classista”, essendo un aggettivo con ampie sfaccettature, appare qui pienamente adatto e corrispondente alla realtà anche se tra gli studiosi di politica si è discusso a lungo – trasformando spesso queste discussioni in pressoché inutili questioni di “lana caprina” – se l’oligarchia al potere in tali regimi potesse essere propriamente definita come “classe”, oppure come “ceto burocratico”, come “casta politica” o in qualche modo ulteriore... Tra l’altro, benché a degli osservatori poco documentati riguardo ai lati della politica più complessi e più “di alto livello” la società nei paesi “sviluppati” possa essere sembrata poco classista e poco gerarchica durante la ventina d’anni di boom economico che ha preceduto il ’68 (durante i quali quella società è stata orientata in ampia misura proprio dalle idee della “sinistra moderata” e in particolare dalla sua tipica accettazione di una “versione manipolata” – fortemente elitaria e clientelare – delle politiche proposte dal celebrato economista “progressista” Keynes, accettazione che in tal modo ha finito col diffondersi largamente anche all’interno delle classi lavoratrici), e benché magari tale società possa anche esser stata sostanzialmente così sul piano strettamente locale specialmente in regioni che – pur cominciando a industrializzarsi in maniera considerevole – stavano mantenendo nella loro organizzazione economico-produttiva una notevole componente rurale contraddistinta dal superamento della tendenza al latifondismo che solitamente era stata tipica di secoli precedenti, va sottolineato che su un piano più generale la situazione era comunque estremamente diversa, come appunto il ’68 rivelò con grande chiarezza e ampiezza [72]. In breve, anche nel suo periodo più riuscito la “sinistra moderata” ha fortemente contribuito a indebolire e “inquinare” la consapevolezza politica delle classi lavoratrici – svuotandola di significato e di lucidità – e a rendere tali classi culturalmente subalterne al tipico “pensiero borghese”.
Ciò che in sintesi si può dire dell’idea che, dal punto di vista delle forme di società, possano effettivamente esservi dei socialismi sessisti (come sessisti sono divenuti in particolare tutti i regimi del cosiddetto “socialismo reale” impostisi durante il ’900) e, dal punto di vista delle forme di cultura e di pensiero politico, possano esservi dei marxismi maschilisti e contemporaneamente autentici nel loro ispirarsi al pensiero e alla vita di Marx (come si è pensato comunemente in una grandissima parte delle correnti politiche novecentesche che si siano autodefinite “marxiste”) è che si tratta di assurdità che l’intero mondo sta pagando, proprio perché queste assurdità hanno “aiutato” l’intero mondo a pensare che il socialismo possa essere autentico e contemporaneamente sessista e che il modo di pensare di Marx facesse parte delle mentalità maschiliste e patriarcali: in tal modo, la gente – di tutte le classi sociali, ma specialmente proprio di quelle popolari – è stata spinta a pensare che il sessismo, il maschilismo e l’impostazione sociale patriarcale possano essere qualcosa di naturale, “normale”, persino sano, giusto, giustificato e opportuno... Niente di più erroneo, per lo meno per quanto riguarda Marx e, più in generale, l’originaria fioritura del pensiero socialista prima che – con la sostanziale accettazione della prima guerra mondiale e delle logiche nazionaliste da parte della “sinistra moderata” europea e poi con la trasformazione del socialismo in una questione concreta di enorme potere e in un “affare” anche economico dopo il successo della rivoluzione russa e in particolare l’ascesa al potere di Stalin – le ambizioni personali, la superficialità e la mentalità semplicistica di molti leader politici della cosiddetta sinistra inquinassero tragicamente tale pensiero.
5. Un presente prevalentemente semplicistico e “settorializzato” che continua a emanare molte più perplessità che risposte
Per quanto riguarda i ruoli di genere nelle odierne società influenzate in una maniera o nell’altra dal neoliberismo e/o più in generale dall’industrialismo (che tende ad attrarre nella sua sfera lavorativa anche un’ampia parte della “metà femminile del cielo”, in modo da allargare – per vari motivi, come già si è ricordato – il mercato del lavoro), in sintesi le donne stanno dunque rischiando di passare da un “vecchio” ruolo in gran parte bloccato nei confini dell’ambito domestico a un “nuovo” ruolo molteplice, esageratamente esigente e portatore comunque di insoddisfazione, di divisioni interiori, di forzature e di altri “effetti collaterali” collegati ai rapporti interpersonali e alla sfera sociale [73]. Oltre tutto, da un lato l’eventuale accesso di donne a ruoli che in precedenza erano storicamente riservati agli uomini conserva comunque un’aura di concessione, di favore misurato e centellinato, di benevolenza calata dall’alto da parte del mondo maschile (che infatti in tali società mantiene in gran parte il potere – come si è già visto – sia dal punto di vista numerico, in quanto tra le “élite che contano” permane la presenza di molti più uomini che donne, sia dal punto di vista culturale, in quanto la cultura espressa e portata avanti da tali élite rimane pressoché stabilmente all’interno dei tipici atteggiamenti che sono storicamente maschili da secoli...), e da un altro lato presenta anche un’aura di richiesta, di pretesa, persino di minaccia: “avete voluto il lavoro fuori casa, la carriera, un cambiamento complessivo verso la parità con gli uomini; adesso datevi da fare e non lamentatevi se cominciate ad avere tutte queste cose, inclusi lo stress da lavoro, le diseguaglianze retributive ed eventualmente pure la disoccupazione, proprio come capita da tempo appunto anche agli uomini...!”.
Anche questo “nuovo” ruolo è pertanto sostanzialmente bloccato nei confini di una maniera di pensare e di fare tipicamente patriarcale: eccessivamente competitivo, egocentrico, insensibile, ecc.. Più che un ruolo veramente nuovo, si tratta dunque di un ruolo fintamente nuovo, in quanto è semplicemente una sommatoria – alquanto caotica e comunque funzionale alla sostanziale autoconservazione del potere da parte delle “solite” élite economiche e politiche – di aspetti del “vecchio” ruolo maschile e di aspetti del “vecchio” ruolo femminile... Più in particolare, di quest’ultimo si è mantenuta la tendenza alla passività politico-sociale, che adesso si cerca di affibbiare alle classi popolari nella loro interezza (uomini e donne, tutti ora spinti verso una estrema subalternità politico-sociale nei confronti di quelle élite), mentre in precedenza agli uomini era generalmente riconosciuta almeno una certa responsabilità e una certa partecipazione attiva al farsi della vita sociale, come “capifamiglia” orgogliosi di questa loro posizione sociale.... Per di più, dal punto di vista sia sociale che esistenziale, il fatto che nella quotidianità neoliberista predomini in modo estremo una cultura di tipo pressoché univocamente maschile (fatta eccezione appunto per tale estrema passività e subalternità politico-sociale, che oltre tutto proviene dal “vecchio” ruolo femminile imposto alle donne dagli uomini ma non fa affatto parte dell’autentico “spirito femminile”) e che verso questa cultura si cerchi di indirizzare tutti, appunto sia uomini che donne, mette in profonda difficoltà tutto ciò che è genuinamente femminile o che è basato su una genuina condivisione col femminile, incluso in pratica dal punto di vista biologico il mettere al mondo figli e allattarli: in tal modo, la società nel suo stesso essere è sempre più squilibrata, scricchiolante, innaturale, forzata, alla fin fine soffocata in aspetti fondamentali del vivere... In breve, lo spostamento del predominio maschile dal piano principalmente sociale al piano principalmente culturale non solo non ha eliminato quel predominio, ma per vari aspetti nodali lo sta rendendo ancor più esasperato e insostenibile...
È da mettere in evidenza che il movimento di liberazione delle donne sviluppatosi nella seconda metà del ’900 appariva aver sostanzialmente risolto le problematiche identitarie che traspaiono da questa situazione e che sono state messe recentemente in rilievo da autrici molto sensibili al presente come appunto Ilaria Consolo. Si tratta di una soluzione di fondo che si è espressa attraverso una visione integrata capace di apprezzare e accogliere nel vivere sia il lato corporeo e fisiologico della personalità umana che quello intellettivo e spirituale, sia la fondamentalità della “sfera privata” che quella della sfera sociale, sia l’interessamento per tematiche come lo studio, la professione e la carriera che quello per la maternità e la crescita di figli, sia l’attenzione per la libertà interiore, per la leggerezza dello spirito e per il senso ludico che quella per la profondità interiore, per la ricerca esistenziale e per il senso di responsabilità, sia il rivolgersi verso stili di vita personali più naturali e salubri (alimentazione sana, amore per la natura e per la naturalità, ecc.) che l’espandere la qualità della propria vita relazionale (attraverso gruppi di autocoscienza, una sessualità più autentica e comunicativa, un forte senso dell’amicizia e della comunità, ecc.). Molte scrittrici, oltre che in generale moltissime donne impegnate nel movimento femminista o semplicemente nella concretezza della loro vita, hanno partecipato a elaborare in quegli anni una tale visione integrata, che – come si è già sottolineato – riprendeva anche temi caratteristici di precedenti culture “amanti della vita e del ‘conoscere se stessi’”. La stessa Consolo fa ampio riferimento all’esigenza che si ha di una maniera integrata di rapportarsi con la propria personalità, per gestire e – soprattutto – superare le contraddizioni e gli altri effetti che possono essere considerati tipici del vivere nella società odierna, come la tendenza al prodursi di insistenti tensioni interiori. E a quest’esigenza fanno comunemente riferimento anche non poche altre donne – così come uomini – che cercano efficaci risposte esistenziali e sociali di fronte all’attuale proliferare e moltiplicarsi di tali contraddizioni e tensioni: un eccellente esempio di questo è stato costituito negli ultimi decenni dal pensiero olistico.
Si può aggiungere che per certi versi si è trattato di una soluzione forgiata in anticipo, dal momento che è a partire dagli ultimi due decenni del ’900 che il fenomeno del neoliberismo ha trovato spazio concreto nella società e si è espanso sempre più, in una sorta di convulsa e irata reazione delle classi privilegiate di fronte all’organizzarsi, alle rivendicazioni e ai successi dei vari movimenti alternativi fioriti nel periodo intorno al ’68. Questi movimenti stavano in effetti mettendo in pericolo il dirigismo che – nella forma del keynesismo fasullo o manipolato qui già ricordato – aveva “sostituito” il liberismo ottocentesco prolungatosi sino ai primi decenni del ’900 e aveva predominato senza grandi contestazioni durante il cosiddetto boom economico, mantenendo in tal modo in atto il pesante senso classista e gerarchico che da millenni caratterizza in varie forme le società patriarcali. Il neoliberismo – che ha progressivamente “risostituito” così il dirigismo impostato in uno stile simil-keynesiano – è stato in altre parole il modo in cui le classi privilegiate hanno ridato vigore e persistenza al plurimillenario senso classista e gerarchico che era stato messo in pericolo – e in aperta e pubblica discussione – da quei movimenti alternativi, tra i quali in particolar modo il movimento femminista, quello studentesco, quello operaio, quello per i diritti civili, quello pacifista e quello ambientalista, spesso profondamente intrecciati l’uno con l’altro.
Le ultime generazioni nel loro complesso sembrano tuttavia aver dimenticato, o addirittura ignorare, tutta la fioritura di movimenti, di spinte sociali, di idee innovative e di felici riscoperte creative di correnti di pensiero dal passato che si è sviluppata intorno al ’68 – incluso quel movimento di liberazione delle donne – e sembrano vivere in una sorta di dimensione atemporale influenzatissima dalla società presente e dalla sua “cultura di massa”: una società e una cultura che, come si è già messo in rilievo, sono segnate molto profondamente dal neoliberismo e spingono costantemente le classi popolari – e tanto più i giovani di tali classi, i quali ovviamente non hanno fatto un’esperienza diretta di quella fioritura, ormai risalente a diversi decenni fa – verso una mentalità semplicistica, aspirante al consumismo, sempre più assuefatta all’informatica e ai social network oppure alle televisioni, abituata a subire un “mercato del lavoro” basato sulla precarietà occupazionale e sulla scarsità di diritti dei lavoratori (un mercato nel quale ciascuno è spinto a cavarsela per conto proprio), praticamente priva di interesse personale per la politica, facilmente cinica soprattutto come effetto pratico di tale vuoto di interesse, tendenzialmente individualistica come risultato di tutti questi fattori, e via dicendo. Per di più, le élite economiche e politiche (affiancate da un coacervo di economisti e giornalisti da esse retribuiti) presentano spessissimo la precarietà occupazionale e la scarsità di diritti dei lavoratori come degli aspetti praticamente ineluttabili della modernità globalizzata, addirittura come delle esigenze stesse della dinamicità economica – e dunque della capacità concorrenziale – di un paese nel complicato oceano della globalizzazione planetaria... E così, bombardati mediaticamente da questi discorsi di un’amplissima coalizione di figure significative dell’economia, della politica e del cosiddetto mondo intellettuale, molte persone che fanno parte delle classi lavoratrici finiscono col crederci, o per lo meno col ritenere plausibili e accettabili tali discorsi [74]...
L’orientamento sociale e culturale che accompagna questa mentalità, pilotata attentamente da quelle élite, cerca di relegare nella sfera strettamente interpersonale dinamiche come l’empatia, la sensibilità umana, l’affettività e la solidarietà, cancellandole letteralmente invece dalla sfera politico-economica, intesa in effetti come il dominio assoluto delle ambizioni personali, della competitività, dell’egocentrismo e della ricerca di controllo sugli altri, anche se per motivi di consenso e di esigenze elettorali le élite in questione cercano con grande continuità di far credere alla “popolazione comune” che esse gestiscono l’economia e la politica in un modo che è per tutti il migliore possibile [75]... In ciò si mira ovviamente sia a mantenere le classi popolari in una condizione di estrema ignoranza riguardo ai meccanismi interni di questa sfera sia – per certi versi – sostanzialmente a istupidirle, così che infastidiscano pochissimo la gestione generale dell’economia da parte di tali élite. È evidente che persino queste ultime riconoscono comunemente che nella sfera strettamente interpersonale (o, in altre parole, in rapporti come quelli tra famigliari, tra amici e tra conoscenti) una certa quantità di quelle dinamiche può risultare effettivamente utile al mantenimento pratico di un tessuto produttivo stabile, capace e funzionale, ma nell’impostazione economica complessiva che le medesime élite intendono dare al mondo – e che produce gli effetti socialmente orrendi (tra precarietà lavorativa, disoccupazione, supersfruttamento, ecc.) e spesso ambientalmente distruttivi che da decenni vediamo da un capo all’altro del pianeta – tali dinamiche invece “non servono” affatto...
Nell’insieme odierno di circostanze, effettivamente, sviluppare di nuovo una tale visione integrata che possa di nuovo risolvere problematiche identitarie come quelle in questione appare essere una prospettiva particolarmente complessa, in particolar modo perché – mentre il periodo intorno al ’68 era culturalmente assetato sia di storia e di approfondimenti che di capacità innovative e nei paesi a economia di mercato aveva anche, attraverso le “politiche keynesiane”, uno sguardo generale che indicativamente teneva conto sia del punto di vista delle élite privilegiate che di quello delle classi lavoratrici [76] – il mondo attuale appare trovarsi in una situazione estremamente diversa. Una parte molto grande della società presente sembra richiusa nei parametri caratteristici di quest’ultima, profondamente condizionati dal neoliberismo, e sembra quasi “disprezzare” (e quindi voler anche continuare appunto a sostanzialmente ignorare) tutto quello che è accaduto prima di quest’ultima ventina d’anni, con le due “bandiere culturali” che la contraddistinguono: la globalizzazione economica del pianeta condotta – ormai senza più ostacoli, dopo che il “movimento di Seattle” ha raggiunto il proprio apice nel 1999 e ha poi sperimentato rapidamente una pesantissima “caduta politica” [77] – sotto il segno della gerarchia socio-economica dominante, che continua senza posa a impostare la concretizzazione pratica dell’ideologia neoliberista in base ai propri immediati interessi materiali, divenendo nel contempo sempre più ricca, dominante, pressante, pretenziosa e autoreferenziale; il boom dell’informatica, con in particolare l’uso egocentrico di questa che è stato favorito da svariati social network, l’ulteriore suo uso divistico e/o carrieristico che è stato stimolato da specifici meccanismi inseriti nei medesimi social network (meccanismi come specialmente i follower, i cosiddetti influencer e le sponsorizzazioni che gli influencer di successo possono facilmente ricevere aprendosi così la possibilità di grossi guadagni) e la spinta che viene data alla superficialità delle persone dal fatto di trovare in rete brevi informazioni praticamente su ogni cosa (informazioni oltre tutto non necessariamente accurate, ma questo pare non importare molto, in quanto il semplificare e rendere sbrigative le cose sembra divenuto una sorta di vera e propria “necessità culturale”), così che l’approfondire ampiamente gli argomenti appare essere diventato una sorta di surplus riservato soltanto agli specialisti e a pochi “studiosi” ed essere visto dalla “gente comune”, per quanto riguarda la propria vita, come una sorta di anticaglia di quel periodo preistorico, antiquato e indesiderabile in cui non c’era ancora Internet [78]... E per di più le estreme lacune politico-filosofiche, storiche e umane che hanno caratterizzato la sinistra novecentesca hanno finito col trascinare in quella scarsità di interesse personale per la politica e in quel conseguente “cinismo facile” anche le generazioni precedenti, che avevano vissuto in una certa misura le tematiche sociali, politiche ed esistenziali risvegliatesi appunto col ’68: in tal modo, non solo per i giovani ma anche per una grandissima parte delle altre generazioni attualmente presenti nella società ha finito col sembrare ormai morto tutto quello che ha preceduto l’ultima ventina d’anni [79]...
L’unica corposa eccezione a tutto questo (un’eccezione limitata peraltro da vari evidenti fattori) sembra costituita attualmente da una serie di comunità locali che vivono di solito in territori – forestali, montani, glaciali o semidesertici – sostanzialmente marginali dal punto di vista strettamente economico, nelle quali sopravvive e si evolve il loro tradizionale spirito solidale e collaborativo (collegato in svariati casi a culture di tipo tribale) e nel contempo non si è imposta la vera e propria mania odierna dell’informatica e dei social network né si è creata quella sorta di frattura culturale tra il presente neoliberista e informatizzato e tutto il passato [80]... Una certa contestazione (talvolta anche vivace) dello stato di cose presente viene anche da diversi movimenti alternativi, soprattutto sindacali o ambientalisti, ma – anche se tra alcuni loro esponenti possono esserci sfumature più complessive, collegate ad esempio al pensiero olistico, al “femminismo della differenza”, alla “teologia della liberazione” o a correnti di pensiero aventi un’origine più antica come in particolar modo il taoismo, la scuola dialettica della Grecia classica, lo yoga, lo Zen, l’umanesimo europeo fiorito specialmente durante il ’500 e i tre secoli seguenti (nel quale può essere inclusa anche gran parte del movimento socialista ottocentesco) e alcune “arti marziali” impegnate anche nella ricerca filosofica – rimane comunque molto pesante quello che può essere considerato il principale limite attuale di tali movimenti, cioè la loro predominante tendenza alla settorialità e a uno scarso collegamento con i movimenti alternativi incentrati su altri campi [81]. In tal modo, al di fuori di certe “nicchie intellettuali” particolarmente creative e interessanti come quelle qui appena ricordate (dal pensiero olistico a certe “arti marziali”), l’impostazione neoliberista della società viene criticata molto poco dal punto di vista della “visione d’insieme”, nonostante le quotidiane e pressanti lamentazioni e imprecazioni di miliardi e miliardi di persone...
A sua volta, quella tendenza alla settorialità appare fortemente collegata al fatto che – come si è già osservato nella parte III di Storia e democrazia: alcuni nodi cruciali – «l’attuale sistema scolastico e universitario», che è profondamente influenzato dagli atteggiamenti neoliberisti, è caratterizzato da una «tendenza alla iper-specializzazione» che contribuisce a rendere difficile alle persone dotarsi sul piano intellettuale e culturale di «strumenti davvero efficaci e adeguati di fronte all’enorme massa di informazioni che passa attraverso i media al giorno d’oggi». Anche l’odierna tendenza settoriale dei movimenti alternativi appare, in sostanza, come un segnale di una scarsa capacità generale di andare oltre il tipo di mentalità promosso dal neoliberismo e – da un punto di vista più specificamente culturale – dai tanti mass-media che lo appoggiano spinti dal denaro delle élite economiche e/o dal potere amministrativo delle attuali élite politiche. Diversamente, molti dei movimenti alternativi del periodo intorno al ’68 cercavano genuinamente sia ampi collegamenti e collaborazioni con movimenti alternativi incentrati su altri campi, sia l’elaborazione di una dinamica “visione d’insieme” che potesse essere condivisibile su una scala molto ampia (e in effetti il moderno pensiero olistico può essere considerato in buona parte proprio come un frutto vitale e fecondo di questo orientamento indirizzato a una tale ricerca interdisciplinare, da condurre a 360 gradi e senza preconcetti).
Si può così comprendere anche che la “lotta per la parità giuridica tra i sessi” che è in voga attualmente nella “metà femminile del cielo” è in parte una finta lotta, perché l’economia stessa – che è la forza sociale più trainante nelle moderne società “tecnologicamente avanzate” – preme sotterraneamente in quella direzione, pur senza includervi la questione della parità economica tra i sessi (in quanto tale questione, in ossequio alle tipiche modalità del capitalismo, viene lasciata alla competizione, al mercato e al “braccio di ferro” tra le forze sociali, come succede in ambito capitalistico più o meno a tutti gli aspetti economici della società) [82]... La “lotta per una società e una cultura non patriarcali” che era condotta tendenzialmente dal movimento di liberazione delle donne era in effetti molto più avanzata, umana, radicalmente libertaria e strutturalmente profonda. In altre parole, la lotta per la parità (una lotta appunto non solo un po’ finta, ma pure perdente per certi versi, anche perché – come osservava Germaine Greer già un quarto di secolo fa – finisce di fatto col non prendere in esame la qualità intrinseca del vivere e della cultura ma si limita quasi solo ad alcuni loro aspetti “quantitativi”, prendendo quindi sostanzialmente come scontati gli altri loro aspetti) tende a rimanere strettamente all’interno della società e della cultura attuali, che in quasi tutto il mondo sono estremamente influenzate dal capitalismo e più specificamente dal neoliberismo [83], mentre quella lotta per la liberazione guardava oltre e, senza essere strettamente ed esplicitamente anticapitalistica tout court, poneva lo stesso tipo di domande e di prospettive di cui si occupava in generale già nell’Ottocento il movimento socialista (le cui idee e proposte sono state poi clamorosamente “tradite” nel secolo successivo dall’attrazione di gran parte dei leader socialisti o comunisti novecenteschi per le ambizioni personali e per il potere...) [84]. Non a caso, nemmeno i socialisti ottocenteschi erano generalmente degli anticapitalisti tout court, in quanto anche la loro prospettiva non era affatto l’abbattimento del capitalismo a qualunque costo e in qualsiasi maniera, ma era il suo superamento per costruire una società migliore e profondamente democratica dove – soprattutto – le persone potessero vivere e sviluppare le proprie potenzialità in maniera più creativa, felice e libera. Come emblematico esempio di questo basti vedere, appunto, la critica di Marx ed Engels non solo alle concezioni socialiste di tipo utopistico perché praticamente inattuabili e politicamente confuse, ma anche – e in modo ancor più intenso – a quelle di tipo rozzo e culturalmente reazionario perché inadeguate umanamente, povere di interiorità e di sensibilità e scarsamente creative e liberanti [85].
In effetti, la cultura neoliberista appare radicalmente incompatibile con i principali aspetti di ciò che il movimento di liberazione delle donne aveva compreso ed elaborato specialmente durante la seconda metà del ’900. Anche per questo, ciò che il neoliberismo appare richiedere alle donne risulta riassumibile esistenzialmente come l’accettazione di una propria identità che a prima vista potrebbe forse sembrare innovativa e potenzialmente vincente, ma in realtà strutturalmente è ancora pesantemente scombinata e sbilanciata, è associata a dolorose forzature e – oltre tutto – in fondo è impostata dagli uomini che fanno parte di quelle élite economiche che mirano egocentricamente, miopemente e presuntuosamente a dirigere il mondo in base ai propri presunti interessi materiali...
Comments
Mi riprometto di leggerti con molta più calma perché il tuo è un lavoro denso, assolutamente impossibile da scorrere "in diagonale", come dicono i russi per indicare quella lettura veloce dall'angolo superiore sinistro della pagina a quello inferiore destro...
Su URSS e RPC potrei risponderti... "ci voleva del tempo", oppure "tra la Kollontaj e la Tereshkova ci sono stati progressi evidenti e, soprattutto, RIVOLUZIONARI (donne sovietiche prime al mondo A... )", piutosto che, passando oltremuraglia, "le donne prima della rivoluzione le mandavano in giro coi piedi fasciati o le ammazzavano appena nate" (avere un figlio femmina era una iattura perché la figlia seguiva il marito -> nessun sostegno ai genitori anziani, e comportava una spesa di dote praticamente inaccessibile alla maggioranza della popolazione cinese).
Ma non è questo il senso del tuo ragionamento, da quel che ho capito. Prendila per quello che è, ovvero un'obiezione che parte dalla constatazione che, prima del lavoro di fino, di lima, scalpello e cartavetrata, spesso e volentieri ci vuole la motosega.
I passi da gigante rivoluzionari sovietici hanno dato forma non solo alla loro, di rivoluzione, in termini di parità di diritti, di opportunità e di tutela, maternità inclusa, ma alla condizione della donna ovunque, compreso il "nostro" (inteso quello in cui noi viviamo, più che appartenenza), di mondo.
Un bel film del 1979 si intitola "Mosca non crede alle lacrime" (Moskva slezam ne verit). E' stato STRANAMENTE doppiato in italiano. Te lo giro qui sotto:
https://vk.com/video233923_141304328
In quanto abbastanza indicativo della condizione della donna in URSS in quello che, storiograficamente, era da loro definito il "periodo del socialismo maturo".
Poco prima che finisse tutto, insomma. Mi ci ritrovo abbastanza, con le "dominae Sovieticae" (ex-sovieticae...) che ho conosciuto personalmente in questo mezzo secolo: ex-direttrici d'azienda, ex-direttrici scolastiche, ex-responsabili di uffici.
A parte tutto, un bel film.
Un abbraccio
Paolo