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La crisi economica italiana ai tempi del sovranismo

E come provare a invertire la rotta

di Guglielmo Forges Davanzati*

Questa nota è una sintesi del mio intervento al dibattito su “Sovranismo e populismo” tenutosi a Racale (LE) il 30 luglio 2019, nell’ambito del Festival “Filofollia”. Si articola in tre punti, che riguardano: (i) il c.d. declino economico italiano; (ii) l’accentuarsi degli squilibri regionali fra Nord e Sud del Paese, con particolare riferimento all’’autonomia differenziata’; (iii) l’individuazione di misure di contrasto alla recessione1.

populismo conflitto sociale sovranismo1. L’Italia non cresce perché continua a ridursi la produttività del lavoro, in una spirale che dura da oltre venti anni e che segnala valori della produttività quasi costantemente inferiori alla media europea nel periodo considerato. La bassa crescita della produttività del lavoro è imputabile a due fattori: il calo degli investimenti pubblici e privati e la continua riduzione della quota dei salari sul Pil. Proviamo a capire perché ciò è accaduto, a partire da alcune considerazioni sulla storia recente della nostra economia.

Terminato il ‘miracolo economico’ degli anni cinquanta-sessanta e dunque la stagione di una crescita trainata dalle esportazioni, negli anni settanta si registra un imponente ciclo di lotte operaie. Aumentano gli scioperi, diminuiscono le ore lavorate, aumentano i salari monetari, con conseguente inflazione conflittuale e peggioramento del saldo delle partite correnti. Le imprese del ‘triangolo industriale’, nel tentativo di contenere la conflittualità operaia e recuperare competitività di prezzo, avviano processi di decentramento produttivo, spostando la produzione in unità di piccole dimensioni inizialmente nel Nord Est.

Si indebolisce, per conseguenza, il potere contrattuale delle organizzazioni sindacali e l’inflazione – che negli anni precedenti era estremamente alta anche per il doppio shock petrolifero del 1973 e del 1979 – comincia a essere ridotta. Dopo il picco raggiunto nel 1982 (14.7%), per tutti gli anni ottanta il tasso di inflazione continua a scendere, arrivando al 4.7% del 1987. Ciò è imputabile, da un lato, alla fine della stagione del conflitto dentro e fuori la fabbrica, e dunque all’avvio di una fase di moderazione salariale, dall’altro, all’aumento dei tassi di interesse finalizzato ad attirare capitali speculativi per riequilibrare la bilancia dei pagamenti.

L’aumento dei tassi di interesse ha però effetti di segno negativo sulla dinamica degli investimenti privati, non compensati da significativi aumenti degli investimenti pubblici. Negli anni ottanta, l’aumento della spesa pubblica è prevalentemente dovuta a un aumento della spesa corrente (che passa dal 35% del 1980 al 45% in rapporto al Pil del 1990), finalizzata a neutralizzare – definitivamente – i residui di conflittualità ereditati dal decennio precedente.

L’ingresso nello SME nel 1979 – sistema di cambi fissi con banda di oscillazione fissata al 6% – introduce ulteriori rigidità per le imprese, dal momento che rende difficili svalutazioni competitive.

Si fa strada la necessità di dotarsi di un ‘vincolo esterno’, assunto necessario per avviare una stagione di riforme nel segno della ‘modernizzazione’ e soprattutto di tenere sotto controllo i conti pubblici. Il 1992 segna un anno di svolta. Le imprese italiane continuano a perdere quote di mercato nel commercio estero, a causa di una pressione competitiva sempre più globale, ed esauritosi ormai definitivamente il conflitto sociale, occorre ripristinare le condizioni affinché le imprese italiane recuperino competitività. In un contesto peraltro segnato da attacchi speculativi al nostro debito pubblico. Si sceglie la linea delle politiche “lacrime e sangue”, ovvero misure fiscali fortemente restrittive, ufficialmente finalizzare a ridurre il debito pubblico, di fatto funzionali a comprimere la domanda interna, con conseguente riduzione delle importazioni. Il potere contrattuale dei lavoratori si riduce come conseguenza dell’aumento del tasso di disoccupazione per l’intero periodo che va dal 1992 all’inizio degli anni duemila, comportando compressione dei salari.

L’arrivo della crisi del 2008 fa deflagrare tutti i problemi sedimentatisi nei decenni precedenti e si innesta su una struttura produttiva divenuta progressivamente sempre più fragile e caratterizzata da piccole dimensioni aziendali, forte dipendenza dal credito bancario, specializzazione in settori tecnologicamente maturi (turismo, agroalimentare, beni di lusso). In estrema sintesi, si può comprendere la storia recente dell’economia italiana come la storia dei tentativi di accrescere la competitività di prezzo delle nostre imprese, attraverso manovre fiscali, politiche monetarie e accordi di cambio che hanno sistematicamente posto le nostre imprese nella condizione di competere riducendo i salari.

Negli anni più recenti, nessun Governo ha provato a invertire la rotta, ovvero a rendere il nostro sistema produttivo più forte e più competitivo su scala internazionale attraverso investimenti in innovazione. Per contro, la spesa pubblica in ricerca e sviluppo è stata drammaticamente ridotta (e la spesa privata ha assunto dimensioni irrisorie). Ciò è probabilmente da imputare all’estrema difficoltà di recuperare il terreno perso (è difficile re- industrializzare un Paese dopo decenni di politiche di de-industrializzazione), alla convinzione che l’Italia possa crescere in virtù della presunta eccellenza del ‘piccolo è bello’ e delle sue produzioni artigianali, alla scorciatoia politica di rinunciare a interventi sulla struttura produttiva con investimenti pubblici in ricerca e infrastrutture materiale e immateriali (il cui effetto si vedrebbe nel lungo periodo), aumentando la spesa corrente per l’acquisizione di consenso.

Si arriva al 2018. Il cosiddetto Governo del cambiamento fa propria la convinzione che questi problemi dipendano dai vincoli europei, sulla scia di una ormai decennale elaborazione teorica per la quale le condizioni materiali di vita dei cittadini italiani migliorerebbero se si potesse fare a meno dell’euro. Si tratta di una tesi errata e che non coglie la reale portata del problema (economico e politico). Come recentemente ricordato da Mario Draghi, le svalutazioni della lira (7 casi dal 1979 al 1992) si sono sempre accompagnate a cali di produttività, per effetto della possibilità accordata alle imprese di competere con un cambio favorevole rinunciando a innovare. A ciò si può aggiungere il fatto che, poiché soprattutto negli ultimi decenni le imprese italiane esportatrici sono localizzate prevalentemente a Nord, le svalutazioni della lira hanno di norma prodotto un ampliamento dei divari regionali.

Sebbene errata o comunque fortemente opinabile, questa tesi è alla base della lunga contrattazione con le Istituzioni europee per l’aumento del rapporto deficit/Pil, che dovrebbe portare (nelle intenzioni del Governo) a una radicale revisione dei Trattati europei, se non all’abbandono unilaterale dell’euro da parte dell’Italia.

I sondaggi disponibili – confidando nella loro attendibilità – ci dicono che la gran parte degli italiani è contraria all’abbandono unilaterale dell’euro. Ma, a fronte di ciò, vi è un diffuso consenso sulla manovra, anche da parte di intellettuali fino a poco tempo fa vicini alla sinistra. Un consenso che riguarda anche economisti che si definiscono keynesiani e che la interpretano come radicale inversione rispetto alle misure di austerità fin qui attuate. Si tratta di un’illusione ottica, dal momento che la manovra risente essenzialmente degli interessi della vera base elettorale della Lega (la piccola impresa del Nord), che vanno nella direzione di aumentare il deficit prevalentemente attraverso detassazioni – via flat tax – e di ampliare il mercato interno attraverso trasferimenti monetari – via reddito di cittadinanza. In tal senso, la manovra non può dirsi keynesiana, almeno nel senso che una politica economica propriamente keynesiana prevede incrementi di spesa innanzitutto per investimenti pubblici con finalità redistributive. La Legge di stabilità introduce, per contro, elementi che vanno nella direzione di aumentare le diseguaglianze.

In tal senso, non è il segno della manovra (espansivo) a destare preoccupazione in Europa, ma il tentativo di questo Governo di ribaltare la logica che guida le politiche dell’eurozona e che corrispondono agli interessi delle grandi imprese con elevata propensione alle esportazioni: creare cioè le condizioni per favorire la crescita aumentando le vendite all’estero – attraverso moderazione salariale e compressione dei prezzi – e riducendo le importazioni – attraverso riduzioni di spesa pubblica. In altri termini, la fondamentale incompatibilità fra Governo e istituzioni europee sta nel fatto che il Governo mira a espandere la domanda interna per far recuperare margini di profitto a imprese italiane che non riuscirebbero a recuperali tramite esportazioni, mente le Istituzioni europee fanno propria una linea di politica economica finalizzata alla crescita per il tramite dell’aumento delle esportazioni nette. Si è quindi in presenza di un tipico conflitto inter-capitalistico, fra grande e piccola impresa, fra impresa esportatrice e impresa che opera sul mercato interno sul quale si basa il fragile equilibrio politico interno e l’ancor più fragile equilibrio nelle trattative fra il Governo e le Istituzioni europee.

La linea di politica economica che si sta perseguendo negli ultimi mesi in Italia sembra, in definitiva, basarsi su una riproposizione della vecchia tesi del “piccolo è bello” – associata alla convinzione della superiore efficienza delle piccole imprese a vocazione artigianale – combinata con la sostanziale rinuncia a posizionare l’economia italiana in un segmento alto della catena globale del valore, consentendo alle nostre imprese (alle piccole, in particolare) di sopravvivere vendendo sul mercato interno.

Questa linea di politica economica è strettamente connessa con misure che, in piena continuità con quanto realizzato dai governi italiani degli ultimi (almeno) dieci anni, hanno sistematicamente penalizzato il Mezzogiorno, avvalendosi di due motivazioni.

Primo. L’economia italiana può crescere solo se cresce la locomotiva (il Nord nel suo complesso), secondo un effetto di ‘sglocciolamento’ che genererà crescita anche per le aree più deboli del Paese.

Secondo. Il Mezzogiorno è un’area che, per la bassa dotazione di capitale sociale (inclusa la presenza di criminalità organizzata), ha semmai necessità di minori trasferimenti pubblici, dal momento che questi genererebbero esclusivamente clientele e sprechi.

 

2. Già agli inizi del Novecento, uno dei massimi economisti italiani di quel periodo – Francesco Saverio Nitti – aveva avvertito che l’istituzione delle Regioni avrebbe comportato costi difficilmente sostenibili per le finanze pubbliche italiane senza effetti apprezzabili sulla crescita né delle aree più ricche né delle aree più povere del Paese. A distanza di oltre un secolo, considerando il fatto che la loro istituzione – come documentato da molti studi – ha contribuito all’esplosione del debito pubblico italiano, appare difficile dargli torto. E ciò nonostante le spinte autonomistiche, in Italia, non solo non si sono ridotte, ma hanno subìto una notevole accelerazione negli ultimi anni. La motivazione è sempre la stessa: maggiore autonomia comporta scelte politiche più efficaci a ragione del fatto che vengono realizzate su una scala più prossima alla collettività di riferimento. In altri termini, si ritiene che il decisore politico locale conosca meglio di quello nazionale i problemi delle aree che governa, ne interpreta meglio le necessità e, per conseguenza, effettua scelte di allocazione di fondi pubblici con maggiori informazioni.

Negli anni più recenti, la convinzione che un assetto federale in Italia sia quello che maggiormente risponda alle esigenze dei territori si è rafforzata, in modo trasversale fra partiti politici, a partire dalla riforma del titolo V della Costituzione realizzata nel 2001. Si ribaltò, in quella sede, il principio costituzionale in base al quale le competenze non espressamente attribuite agli enti locali dovessero rimanere competenze dello Stato. Si stabilì, invece, il principio opposto: ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato doveva spettare alle Regioni e non più allo Stato.

L’ultimo tassello di questa traiettoria, in ordine di tempo, è la richiesta di maggiore autonomia (la cosiddetta autonomia differenziata, definita anche ‘secessione dei ricchi’) da parte di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna: richiesta che è stata sottoposta a referendum consultivo regionale nell’ottobre 2017 per poi essere ratificata nel febbraio 2018 dal Governo Gentiloni. Nella sostanza, le Regioni proponenti chiedono di avocare a sé numerose materie prima di competenza dello Stato (istruzione in primo luogo) e soprattutto di trattenere in loco il cosiddetto residuo fiscale, ovvero la differenza fra quanto i cittadini versano allo Stato centrale per il pagamento delle tasse e quanto ricevono come trasferimenti dello Stato centrale.

La richiesta di autonomia differenziata si fonda su alcune convinzioni che sembrano essere smentite dai fatti o comunque estremamente discutibili.

La prima convinzione è che il Mezzogiorno sia un’area nella quale le risorse pubbliche vengono gestite in modo improduttivo e clientelare. È una convinzione radicata in una lunga e spesso taciuta vulgata anti-meridionalista, che, tuttavia, raramente e con scarsissimo successo è riuscita a dare un fondamento oggettivo a questa tesi. In ambito accademico, si è provato a farlo utilizzando la categoria del ‘capitale sociale’, inteso come propensione al rispetto delle norme formali, informali e morali prevalenti, nonché come propensione alla cooperazione e a instaurare relazioni fiduciarie, ma la sua misurazione è oggetto di non poche criticità. Gli indicatori più frequentemente utilizzati per quantificare il capitale sociale di un territorio (la presenza di associazioni sportive e culturali, i lettori di quotidiani) appaiono in larga misura arbitrari e, per conseguenza, resta tutta da dimostrare la tesi per la quale il Mezzogiorno ha una più bassa dotazione di capitale sociale.

La seconda convinzione si riferisce al fatto che la rivendicazione fa propria l’idea che l’intero Mezzogiorno sia più povero dell’intero Nord d’Italia. Come certificato dalla Banca d’Italia in numerosi Rapporti, e come ampiamente noto in ambito accademico, è del tutto improprio far riferimento all’intero Mezzogiorno come area meno sviluppata del Centro-Nord e, più in generale, ragionare su valori medi non è un buon metodo per realizzare politiche economiche efficaci. Si registra, a riguardo, che a sud di Roma esistono aree definite “di maggiore vitalità” – ovvero aree che negli anni recenti hanno rapidamente recuperato la produzione persa negli anni della prima crisi – nella quali sono collocate imprese che hanno una dinamica della produttività del lavoro non inferiore a molte imprese localizzate a Nord. Sono imprese che operano non solo in settori tecnologicamente maturi (abbigliamento, agroalimentare) ma anche in settori con maggiore intensità tecnologica: aerospaziale, apparecchiature elettroniche e della misurazione, in particolare nelle province di Napoli e Bari.

La terza convinzione è che il cosiddetto residuo fiscale è sempre negativo per le Regioni del Nord (ovvero i cittadini lì residenti danno allo Stato più di quanto ricevono dallo Stato). Si tratta di una questione tecnicamente controversa, a proposito della quale possono valere queste considerazioni.

Primo. Mentre il residuo fiscale complessivo delle Regioni del Nord è, al momento, tendenzialmente superiore rispetto a quelle del Sud, il residuo fiscale pro-capite sembra essere significativamente inferiore, a ragione del fatto che, in media, nelle regioni del Nord il numero dei residenti è maggiore rispetto alle Regioni del Sud

Secondo. Il calcolo del residuo fiscale deve ovviamente escludere il pagamento di tasse per competenze statali (per esempio, la difesa) e per spese che lo Stato centrale sostiene indipendentemente dalla residenza dei suoi cittadini (p.e. il pagamento degli interessi sui titoli del debito pubblico). Diversamente, queste competenze dovrebbero essere assegnate alle Regioni: ipotesi palesemente incostituzionale.

Terzo. Il calcolo dovrebbe anche tener conto delle produzioni intermedie meridionali che entrano nelle produzioni finali delle imprese del Nord.

A fronte di queste criticità e di altre (per esempio, come contabilizzare la spesa pubblica per il finanziamento di un’Università settentrionale con elevata presenza di studenti meridionali?), vi è il rischio di quantificare il residuo fiscale con trucchi contabili al fine di dare più risorse a Regioni politicamente più forti (se non altro perché i loro interessi sono tutelati da un partito di governo).

E non è neppure certo che questa operazione avvantaggi le Regioni del Nord e tutti i cittadini che lì risiedono, per una duplice ragione. Innanzitutto, quella che viene definita secessione dei ricchi è tale non perché è secessione delle aree più ricche, ma perché è secessione dei gruppi sociali più ricchi. È sufficiente, a riguardo, considerare che le élite del Mezzogiorno hanno sempre usufruito di servizi di welfare (Università, sanità) delle regioni del Nord. In secondo luogo, la secessione può non essere conveniente per molte imprese e cittadini settentrionali a ragione di queste circostanze:

a) il residuo fiscale subisce significative oscillazioni nel tempo correlate al ciclo economico e alle politiche economiche ed è peraltro molto differenziato all’interno dei territori più ricchi.

Si calcola, a riguardo, che ben il 60% del Pil lombardo viene prodotto nella sola città di Milano. La spinta secessionista potrebbe diventare incontrollabile, producendo istanze di rivendicazione di risorse sempre più localistiche;

b) l'autonomia differenziata, in quanto sostanzialmente irreversibile, potrebbe alla lunga non essere neppure conveniente per la gran parte delle imprese del Nord, dal momento che si troverebbero a operare in una condizione di forte incertezza normativa: una condizione nella quale si associano leggi statali e leggi regionali, nell’alternarsi di partiti di orientamenti verosimilmente diversi al Governo nazionale e ai centri decisionali locali, è forse la condizione meno desiderabile perché vi sia una ragionevole stabilità normativa che consenta l’attuazione di investimenti.

Vi è infine da considerare che le Regioni italiane più ricche sono tali perché le loro imprese (quantomeno quelle più innovative e di maggiori dimensioni) sono legate tramite rapporti di subfornitura al capitale tedesco e dell’Europa continentale. È evidente che un rallentamento della crescita in quei Paesi – peraltro già in atto - produrrebbe, a cascata, un impoverimento delle aree, al momento, più ricche e, per conseguenza, minore capacità contributiva.

Si può poi considerare che il progetto di autonomia differenziata riguarda principalmente il settore dell’istruzione (che verrebbe gestito in modo autonomo dalle Regioni). Occorre quindi interrogarsi sul ruolo che questo settore svolge in relazione all’occupazione giovanile.

 

3. L’aumento della disoccupazione giovanile, secondo la visione dominante, è da imputarsi al mancato incontro fra la domanda di lavoro espressa dalle imprese e l’offerta di lavoro proveniente dai lavoratori. Questi ultimi – si sostiene – ricevono da scuola e Università una formazione generalista, eccessivamente calibrata sull’acquisizione di conoscenze e poco attenta alla trasmissione di competenze. Le competenze – il saper fare – sono (o sarebbero) quelle di cui le imprese, in un’ottica di breve periodo, hanno bisogno. La linea di politica economica che ne discende fa riferimento alla necessità di riformare i sistemi formativi per renderli funzionali alla produzione di forza-lavoro ‘occupabile’.

Il fatto che alcune imprese, in alcuni particolari segmenti del mercato del lavoro, trovino (o denuncino) difficoltà nel reperire manodopera con il livello e la qualità della formazione richiesta non implica che l’intera disoccupazione giovanile in Italia (superiore al 60% in alcune regioni del Sud) dipenda dal mismatch fra competenze offerte e competenze richieste. Per smentire questa tesi, può essere sufficiente considerare che oltre il 40% delle imprese italiane dichiara di non occupare – o non intendere assumere – laureati, a fronte del 18% della Spagna e del 20% della Germania.

La disoccupazione giovanile italiana – da molti anni superiore alla media europea – dipende essenzialmente dal combinato di un calo di lungo periodo della domanda aggregata (calo si è manifestato con la massima intensità a seguito dello scoppio della prima crisi, nel 2007-2008, e che ha avuto impatti anche sulla disoccupazione di individui in età adulta e anche sulla disoccupazione di lungo periodo) e dalla crescente fragilità della nostra struttura produttiva, particolarmente nel Mezzogiorno. La disoccupazione giovanile è aumentata sia perché le imprese hanno trovato conveniente, in una fase recessiva, non licenziare lavoratori altamente qualificati per non dover sostenere i costi della formazione dei neo-assunti, sia per il blocco delle assunzioni nel pubblico impiego.

La teoria del mismatch fa propria una visione della formazione economicistica, funzionalista e di breve periodo: il sistema formativo – stando a questa visione – deve essere sottostare a vincoli propriamente economici. O vincoli relativi al bilancio pubblico, nel qual caso è chiamato a fare a meno di risorse per contribuire a generare risparmi dello Stato (come è accaduto con la straordinaria contrazione dei finanziamenti alle Università nell’ultimo decennio) o vincoli posti nel mercato del lavoro, nel qual caso è chiamato a ‘produrre’ laureati occupabili.

Si consideri che non è, questa, la sola visione possibile del ruolo dei sistemi formativi. Questa visione origina – o comunque si rafforza – a seguito dell’ingresso nelle aule universitarie italiane della cosiddetta teoria del capitale umano e, più in generale, di una visione della formazione orientata al mercato. Siamo negli anni novanta e questa teoria prova – riuscendoci – ad accreditare l’idea che l’accumulazione individuale e collettiva di istruzione è un fattore rilevante di crescita economica. Di per sé, si tratta di una tesi difficilmente discutibile. Lo diventa, tuttavia, quando viene declinata in termini di politiche formative, ovvero quando viene declinata in termini normativi: l’istruzione deve contribuire alla crescita economica. E lo diventa anche quando assume che l’istruzione sia unicamente un investimento, che gli individui effettuano in vista di benefici futuri in termini di reddito e posizionamento nel mercato del lavoro.

Una visione alternativa ovviamente esiste. Un’istruzione diffusa è desiderabile in quanto tale e non occorrerebbe trovare motivazioni per finanziarla. In più, un’istruzione diffusa è comunque desiderabile anche per gli effetti indiretti e di segno positivo che essa produce sullo sviluppo economico, in termini di maggiore propensione al rispetto delle norme e minore propensione a delinquere.

La ritirata dello Stato dal settore della formazione è una delle maggiori cause della lunga recessione italiana, dal momento che – proprio a ragione di questo e data l’incapacità o l’impossibilità della gran parte delle nostre imprese di produrre innovazioni – il tasso di crescita della produttività del lavoro (che dipende essenzialmente dalla dinamica degli investimenti) è in caduta libera da oltre vent’anni.

L’economia italiana, per contro, avrebbe bisogno – nei limiti dello spazio fiscale disponibile – di investimenti pubblici in ricerca, che attivino un percorso potenzialmente virtuoso di crescita trainata dalla domanda interna e da innovazioni. Si tratterebbe di una misura fattibile ed efficace per l’obiettivo di rilanciare la crescita economica e ridurre la disoccupazione giovanile, per le seguenti ragioni.

- La spesa per ricerca e sviluppo in Italia, su fonte OCSE, è ferma da oltre un decennio all’1% in rapporto al Pil, a fronte di una media nei Paesi industrializzati superiore al 2% (e del 4% circa della Germania). In più, come certificato dall’OCSE, essa è inferiore alla spesa che lo Stato italiano sostiene per il pagamento degli interessi sui titoli del debito pubblico. La spesa privata per ricerca è prossima allo zero. Le poche innovazioni che le poche imprese private fanno sono per lo più innovazioni incrementali e la gran parte delle innovazioni di cui fanno uso derivano da importazioni di beni capitale ad alta intensità tecnologica.

- Si stima che i giovani laureati disoccupati o sottoccupati residenti in Italia sono circa 1 milione. Si tratta di individui le cui conoscenze sono non utilizzate o sottoutilizzate (si pensi ai casi sempre più frequenti di laureati camerieri) e potenzialmente occupabili in centri di ricerca pubblici. L’assunzione di giovani qualificati nel settore pubblico avrebbe effetti positivi nel breve periodo di espansione della domanda interna e di lungo periodo sul tasso di crescita della produttività del lavoro. In più, l’aumento degli occupati con elevata qualifica avrebbe ragionevolmente effetti sull’aumento dell’occupazione di lavoratori non qualificati, come risultato dell’aumento della domanda interna conseguente a un aumento dei consumi.

- Il settore pubblico italiano è notevolmente sottodimensionato e, per numero di dipendenti, più piccolo della media europea, a causa di lunghi periodi di blocco delle assunzioni; blocco motivato con l’idea (non saggia, almeno in una prospettiva di lungo periodo) di generare risparmi pubblici tagliando stanziamenti per il settore della ricerca scientifica. Non è una buona idea: è agevole intuire che le inefficienze della pubblica amministrazione italiana derivano anche dalla carenza di personale, peraltro con età media sempre più alta e più alta della media europea.

Si tratta di uno scenario che si pone in radicale controtendenza rispetto a quanto fatto dai Governi italiani degli ultimi decenni, incluso l’attuale, non solo perché gli investimenti pubblici (particolarmente nel settore della ricerca) sono stati irrisori e in notevole riduzione nell’ultimo decennio, ma anche perché – anche quando un aumento degli investimenti è stato previsto nelle Leggi di bilancio – a consuntivo il loro importo si è rivelato di gran lunga inferiore rispetto a quanto stimato. Una stima del costo del provvedimento viene presentata a seguire. Per semplicità di esposizione e di calcolo, si confronterà il costo a carico delle finanze pubbliche del reddito di cittadinanza con il costo a carico delle finanze pubbliche di un intervento finalizzato all’assunzione di giovani laureati nel pubblico impiego e nei centri di ricerca.

La Legge di Bilancio 2019 stanzia un finanziamento pari a 7.100 milioni di euro per l’anno 2019, a 8.055 milioni di euro per l’anno 2020 e a 8.317 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2021. All’interno del fondo, un importo fino a 1 miliardo di euro per ciascuno degli anni 2019 e 2020 è destinato ai centri per l’impiego al fine del loro potenziamento e un importo fino a 10 milioni di euro per l’anno 2019 è destinato al finanziamento del contributo per il funzionamento dell’ANPAL.

Il bilancio pluriennale 2019-2021 potrebbe finanziare un investimento in ricerca di dimensioni significative, attraverso un programma di assunzioni nel settore pubblico di ricercatori e giovani altamente qualificati.

Lo stipendio di un ricercatore italiano a tempo pieno al primo scatto di stipendio triennale (ovvero dopo 3 anni dall’assunzione) di circa 2000 euro lordi mensili. Una stima di prima approssimazione porterebbe a quantificare in oltre 300 mila unità i neo-assunti nel settore pubblico, con una spesa complessiva per il triennio 2019-2021 di circa 20,5 miliardi e un risparmio – rispetto allo stanziamento previsto per il reddito di cittadinanza - di circa 1 miliardo all’anno per i primi tre anni.

L’importo complessivo di un programma decennale di ammodernamento della pubblica amministrazione e di investimenti in ricerca ammonterebbe dunque a circa 66 miliardi di euro. Ciò comporterebbe l’assunzione di 300.000 unità nel settore pubblico tra ricercatori e giovani altamente qualificati e con un risparmio di circa 4 miliardi e mezzo nei primi 6 anni rispetto alla spesa prevista per il reddito di cittadinanza.

Vi è poi da considerare un ulteriore effetto di segno positivo, che riguarda la spinta inflazionistica derivante dall’aumento dei salari. La crescita delle divergenze nell’Eurozona è in larga misura spiegabile alla luce della più intensa moderazione salariale nei Paesi periferici e, per conseguenza, alla luce della minore inflazione relativa. Le imprese italiane pagano salari più bassi rispetto alle imprese tedesche e, in media, sono meno produttive. Il più basso livello dei prezzi in Italia può essere dunque spiegato considerando il fatto che i margini di profitto sono minori: il che deriva principalmente da un più alto tasso di sottoutilizzazione del capitale e da forme di mercato nelle quali le imprese hanno minore potere di fissazione del prezzo.

Sussiste una correlazione fra salari e produttività che passa per i seguenti effetti. In primo luogo, più bassi salari si associano a minore produttività per l’operare del cosiddetto effetto Kaldor-Verdoorn: bassi salari implicano bassi consumi, bassa domanda e ridotta divisione tecnica del lavoro, con conseguenti effetti di segno negativo sul tasso di crescita della produttività del lavoro. In secondo luogo, salari bassi vengono di norma pagati da imprese di piccole dimensioni, la cui propensione all’innovazione è tendenzialmente bassa. La minore inflazione produce riduzione del Pil nominale e un aumento dei tassi di interesse reali sui titoli di Stato, generando crescita del debito/Pil.

Da ciò segue che un programma di lungo periodo che preveda un intervento pubblico finalizzato a promuovere innovazioni:

- Accresce l’occupazione qualificata e non qualificata;

- Tiene alta la domanda interna e la produttività del lavoro;

- Modera la spirale deflazionistica, con effetti positivi sul tasso di crescita.

Va tuttavia riconosciuto che l’attitudine breveperiodista, finalizzata all’immediata acquisizione di consenso, dei governi che si sono succeduti negli ultimi anni, combinata con la convinzione della superiore efficienza del privato, rende difficile l’attuazione di questa misura.


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* This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.

Note
1Questo testo è una rielaborazione di miei articoli pubblicati su www.micromega.net e “Il nuovo Quotidiano di Puglia”.
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