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Cu cu ... e il denaro non c'è più!
Giovanni Mazzetti
Il fondo-sermone di Sartori, «L'idea dei soldi come manna», pubblicato qualche tempo fa dal Corriere della sera sembra essere la ripetizione dell'anatema di Brunetta: «Sgobbate gente, sgobbate ... perché solo la fatica e la sottomissione vi salveranno dal castigo economico». A voler essere benevoli, si può invece individuare un maldestro tentativo di abbozzare una morale. La tesi è semplice: siamo «peccaminosamente incappati nella crisi» perché, invece di confrontarci col problema di come si produce la ricchezza, abbiamo coltivato l'illusione che «i soldi cadessero come manna dal cielo». «L'economia come scienza avrebbe infatti cominciato a deragliare con la sua politicizzazione di sinistra che l'avrebbe indotta a anteporre il problema della distribuzione della ricchezza al problema della creazione della ricchezza, e a confondere i due». Ora, nessuno può negare che ci sia stata una sinistra (ma anche un centro e una destra!) che ha fatto del problema della redistribuzione del reddito il suo cavallo di battaglia. Ma era una frangia minoritaria, mentre la stragrande maggioranza di coloro che si dichiaravano di sinistra si è scervellata su un problema diverso: quello dei limiti propri del modo di produrre capitalistico e di come spingersi al di là di essi. E per esplorare questo spazio ha dovuto riflettere sul ruolo che il denaro ha avuto e ha nel favorire o nell'ostacolare il processo di soddisfazione dei bisogni. E' vero che, con il profilarsi della crisi del keynesismo, negli anni '80, e col crollo dei paesi comunisti nei '90, la maggior parte di quelle riflessioni sono finite su un binario morto; ma non è la prima volta nella storia che, per procedere sulla via dello sviluppo, si deve recuperare un sapere del quale si credeva di poter fare a meno.
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Allora, compagni
Mario Tronti
Allora, compagni. Come tutti avete potuto vedere, il mondo, a far data dal 4 novembre, è cambiato. Il cielo è sempre più blu, la terra sorride aperta finalmente all'audacia della speranza, le nostre notti non sono più cupe, rivisitati come siamo dal sogno americano. Il messia è tornato, come aveva promesso, cammina non sulle acque, ma sull'etere, narrazione di parabola in parabolica, questa volta per messaggini. Vi ricordate l'11 settembre? Nulla sarà come prima. Tutto è stato come prima. Questo è un 11 settembre rovesciato. Di nuovo, «siamo tutti americani». E non cambierà niente. Niente di quello che ci interessa cambiare.
Avete capito che sto gettando acqua sul fuoco, non per spegnerlo, ma almeno per circoscriverlo. Poi, speriamo sempre che la scintilla infiammi la prateria. Non ci saranno dunque conseguenze? Altroché se ce ne saranno! La soluzione questa volta è stata trovata quasi all'altezza del problema. Quasi: perché la crisi di fase capitalistica è più grave, più tosta, dell'invenzione di immagine, della risorsa simbolica, che si è messa in campo. Ma comunque, questa conta, e come se conta! Lo vediamo in queste ore, in questi giorni. Gli Usa di ieri, frastornati, disorientati, depressi, sono «rinati», come i ridicoli cristiani delle loro sette. Il fatto macroscopico, quello su cui dobbiamo prendere a ragionare, quello dentro cui dobbiamo mettere anche il successo Obama, è la chiusura del ciclo neoliberista, il crollo della finanziarizzazione selvaggia del capitale, la rivincita dell'economia reale, che si fa di nuovo viva come crisi della produzione materiale, con tutte le paure, le incertezze, i bisogni di voltare pagina, che essa porta con sé. E' questo che ha reso possibile, perché necessaria, la vittoria della parola change. Non la spinta dal basso di una partecipazione popolare, con i suoi appassionati volontari, espressione spontanea della vitalità di una meravigliosa democrazia. Questa c'è stata, ma come un'onda provocata, raccolta e orientata verso un volto nuovo di «personalità democratica», che abbiamo già altre volte descritto come corrispettivo aggiornato della adorniana «personalità autoritaria».
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Un monarca, per favore
di Rossana Rossanda
Quaranta anni fa, dopo il 1968, c'era a ogni assemblea una discussione su chi potesse aprirla, presiederla e chiuderla, nella generale presa di parola che dilagò in Italia e in gran parte d'Europa. Ognuno sentì che poteva e doveva parlare, esporsi, assumersi delle responsabilità, partecipare a una decisione rifiutando di delegarla ad altri, perché ogni mandato rappresentativo portava in sé il verme della gerarchia e della burocratizzazione.
Adesso, quegli ardenti giovani sono almeno cinquantenni e assieme alla loro prole non sembrano desiderare altro che dare una delega al più presto e a un leader che presenti un'immagine attraente, capace di decidere per tutti, perlopiù autocandidato dopo un vasto lavorio, sul quale discutere fra pochi e per un poco, e mandare al voto popolare affidandoglisi per cinque anni senza essere più seccati. In capo a quella scadenza si giudicherà se confermarlo o no, nel mandato. Questo è il sugo della democrazia moderna e, come dice Veltroni, semplificata e non si rompano ulteriormente le scatole.
Nel giro di una generazione s'è dissolta l'acerba critica che, nel nome di un bisogno e diritto assoluto di partecipazione di tutti e di ciascuno, investì la «forma partito» e ogni struttura organizzata.
Verso di essi la sfiducia era duplice: qualsiasi organizzazione cristallizza livelli di comando che depotenziano l'assemblea.
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Quando la Cgil era autonoma da partiti e governo
di Dino Greco
La svolta nel sindacato che piace a Pd e Pdl
Il documento di Cgil Cisl Uil sulla riforma del modello contrattuale rappresenta uno spartiacque nella storia del sindacato italiano. Non si può far finta di non capire che quello che ci viene presentato non è un progetto qualsiasi, del quale si possa discutere in termini di maggiore o minore moderazione. Ciò con cui abbiamo a che fare è un vero salto di paradigma, un mutamento di indirizzo strategico che cambia - con un taglio netto - insieme al sistema delle relazioni industriali e alle regole della contrattazione la natura stessa del sindacato, mettendo radicalmente in discussione la sua originale, autonoma collocazione nell'assetto istituzionale del paese.
Vediamo di dare un fondamento ad un giudizio così perentorio. Quel testo si mette definitivamente alle spalle tanto le deliberazioni del XV congresso della Cgil, quanto lo stesso accordo del 23 luglio del '93 che - quale che sia il giudizio complessivo su di esso - ancora riconosceva al contratto nazionale una funzione redistributiva della ricchezza prodotta dal lavoro. La sola funzione che ora gli si attribuisce è quella della "difesa" del potere d'acquisto delle retribuzioni. Nessun aumento retributivo reale è più ammesso a quel livello. Nei contratti si dovrà semplicemente recuperare quanto l'aumento del costo della vita ha eroso nel corso del tempo.
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"Il porto delle nebbie"
Potere contemporaneo, sinistra e 11 settembre
di Franco Soldani
Pubblichiamo in anteprima la Prefazione del nuovo libro di Franco Soldani "Il porto delle nebbie", casa editrice Faremondo Edizioni. Questa casa editrice appena nata fa riferimento alla associazione culturale Faremondo, che da tempo si distingue, tra le altre cose, per le sue inziative in favore della diffusione della verità sull'11 Settembre
La convinzione che il mondo sia profondamente cambiato dopo l’11 settembre 2001, è ormai "conventional wisdom", come amano dire gli economisti, presso l’opinione pubblica internazionale e persino per la comunità accademica dell’intero Occidente. Nondimeno, come tutte le "saggezze convenzionali" anche quella in causa è invece sostanzialmente falsa nella specifica accezione in cui è largamente diffusa e viene ritenuta fondamentalmente vera. Tuttavia, diversamente da altre verità fabbricate ad arte, la convinzione in oggetto è illusoria non perché non sia reale, bensì perché non è quello che si vorrebbe far credere. Il mondo odierno, in altre parole, è in effetti intimamente mutato rispetto al passato, ma per ragioni altrettanto essenzialmente differenti da quelle di solito additate.
Quella data, in effetti, non è affatto uno spartiacque tra epoche diplomatiche differenti della storia più recente del pianeta, né una sorta di segnavia politico tra diversi orientamenti dell’ amministrazione statunitense rispetto alle relazioni internazionali, come se l’apparente multilateralismo e il fittizio approccio cooperativo dei democratici ai problemi fossero stati sostituiti dall’aggressivo decisionismo militare e politico – illegale e sovversivo, si noti la cosa, dal punto di vista della stessa Costituzione statunitense e dell’ordinamento giuridico internazionale (duplice violazione che del resto comincia sin dagli anni ’50 del Novecento) – dell’attuale governo Bush.
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L'Italia del 2 Giugno
Mario Tronti
Con la scelta repubblicana cadeva, insieme alla monarchia succube del fascismo, l'intera conquista regia del paese. Un mito fondativo della nostra storia
Il 2 giugno è mito fondativo del nostro Paese. I miti di fondazione stanno all'origine di tutte le grandi realtà politiche moderne. La Costituzione americana a Filadelfia, l'incendio della Bastiglia a Parigi, la presa del Palazzo d'Inverno a Pietroburgo. Roma antica costruiva il suo percorso repubblicano sul mito di fondazione dell'urbe. Sono momenti in cui si raggruma la storia di un'epoca. Poi quei momenti o si coltivano e restano, oppure si tradiscono e si perdono.
C'è sempre un prima e un dopo. Il momento mitico del 2 giugno, la scelta repubblicana del popolo italiano, viene direttamente dalla epopea della Resistenza. Senza la Resistenza non ci sarebbe stata la Repubblica. Su questa idea-forza si è costruito un blocco storico di masse popolari politicizzate che ha realizzato conquiste sociali e ha espresso egemonia culturale. Questa è l'immagine vera della cosiddetta prima Repubblica, che ha fatto decollare un capitalismo moderno in Italia, anche attraverso le lotte e le conquiste dei lavoratori. La prima Repubblica per noi sono i primi tre decenni repubblicani: il meglio forse dell'intera nostra, non esaltante, storia patria.
Il 2 giugno rappresenta infatti una frattura storica: e come tale va letto. Non fu una buona idea definire la Resistenza secondo Risorgimento. La Resistenza è stata una lotta armata di popolo, esattamente quello che il Risorgimento non è stato. Con la scelta repubblicana cadeva, insieme alla monarchia succube del fascismo, l'intera conquista regia del paese. Con un colpo solo crollavano l'italietta liberale e l'italiaccia fascista. I partiti di massa diventavano i nuovi protagonisti della vita politica. Le classi dirigenti, oligarchiche e notabilari, dovranno aspettare i fasti della cosiddetta seconda Repubblica per ricomparire, un po' sgangherate, sulla scena.
Se prima del 2 giugno c'è la Resistenza, dopo il 2 giugno c'è la Costituzione. Senza Repubblica non ci sarebbe stata Costituzione. Pensate: ci saremmo tenuto un aggiornamento dello Statuto albertino! La Costituzione è il capolavoro della "nostra" prima, e sola, Repubblica. Purtroppo, questa parola indica oggi niente più che...un giornale.
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