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Il freddo inverno della sinistra italiana
Marco Revelli/Alessandro Dal Lago Emiliano Brancaccio
Ci sono almeno due milioni di elettori orfani – quelli che alle ultime europee hanno votato per le due liste che gli avversari definiscono di sinistra radicale – senza contare i tanti astenuti. Un patrimonio andato sprecato per l’insipienza delle classi dirigenti, che non hanno saputo mettere in campo un progetto concreto e credibile. Tre intellettuali a confronto per provare a uscire dal lungo e freddo inverno della sinistra
Marco Revelli:
Se proprio devo fare outing, ammetto la mia colpa. Prima delle elezioni avevo dichiarato che questa volta non sarei andato a votare. Devo confessare che però, purtroppo, non ho mantenuto fede al mio proposito. Ho votato Rifondazione comunista, «facendomi pena!» – questa è l’espressione giusta – e tuttavia l’ho votata, con un voto di autentica disperazione, legato solo al desiderio (molto egoistico, me ne rendo conto) di non sentirmi troppo male con me stesso il giorno dopo di fronte ai risultati.
Considero comunque il mio voto un «errore» da un punto di vista strettamente politico. Perché credo che la stupidità in politica non debba godere dell’immunità. Che chi compie degli atti stupidi sia giusto che paghi. E quello che è stato posto in essere dalla sinistra, dalle diverse componenti della sinistra cosiddetta radicale negli ultimi mesi, nessuna esclusa, è sicuramente un comportamento segnato da profonda, grave dissennatezza politica.
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Gli smemorati di sinistra
di Alberto Asor Rosa
Il 15 gennaio 2005, preceduta da una campagna di stampa sul manifesto durata sei mesi, alla quale parteciparono le personalità più rilevanti della sinistra italiana, politici e intellettuali, si riunisce alla Fiera di Roma una grande Assemblea nazionale.
Un'assemblea, affollatissima ed entusiastica, che darà vita a quella che qualche giorno più tardi si definirà, - modestamente e ambiziosamente insieme - «Camera di consultazione della sinistra».
Compiti espliciti e teorizzati del neonato organismo sono: a) la riformulazione di un organico programma della sinistra radicale italiana, quale non era ancora uscito dalla fase convulsa post-1989; b) l'intenzione di mettere a confronto continuo ed organico società politica e società civile, politici e intellettuali, partiti e associazionismo, secondo una modalità, da tutti a parole auspicata, di «democrazia partecipativa»; c) l'avvio di un processo di fusione delle forze organizzate della sinistra radicale, allora molto più consistenti di oggi (nel titolo redazionale del mio articolo del 14 luglio 2004, con cui il manifesto dette inizio alla campagna suddetta, vi si accennava in forma interrogativa ma chiara: «Che fare di quel 15%?»). Aderirono in maniera attiva, oltre a molte associazioni politiche e culturali di base (mi piace ricordare con particolare rilievo il fiorentino «Laboratorio per la democrazia»), Rifondazione comunista, i Comunisti italiani, una componente significativa dei Verdi (Paolo Cento e altri). Vi svolsero un ruolo non irrilevante la Fiom e l'Arci. Vi partecipa attivamente Occhetto. Dà un contributo insostituibile Rossanda. Alle riunioni tematiche intervengono o collaborano Rodotà, Tronti, Ferrajoli, Dogliani, Magnaghi, Ginsborg, Serafini, Bolini, Lunghini, Gallino e altri.
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Una storia italiana
di Guido Viale
Mauro Rostagno è stato ammazzato dalla mafia ventun anni fa. E' stato ammazzato per far tacere le sue trasmissioni con cui tutti i giorni denunciava amministrazioni locali e malavita organizzata. E' stato ammazzato alla vigilia di un potenziamento del segnale della sua stazione trasmittente che avrebbe esteso il suo ascolto dalla provincia di Trapani a tutta la Sicilia. E' stato ammazzato, verosmilmente, anche perché era sulle tracce di un gigantesco traffico di armi che coinvolgeva mafia e servizi segreti. Ma è stato ammazzato soprattutto all'indomani della sua pubblica e conclamata incriminazione comemandante, insieme ad altri ex dirigenti di Lotta Continua, dell'omicidio, avvenuto diciassette anni prima, del commissario Luigi Calabresi. Questo è stato sicuramente l'elemento scatenante che, delegittimandolo come ex-terrorista agli occhi dell'opinione pubblica, ha messo la mafia sull'avviso che il «momento giusto» per mettere a tacere Mauro era arrivato.
Mauro è stato ammazzato dalla mafia e per qualsiasi persona onesta e di buon senso non c'era, fin da subito, alcuna possibilità di ipotizzare un movente del suo omicidio diverso dalla volontà di interrompere le sue denunce svolte con l'intelligenza, la creatività e il rigore che lo avevano sempre caratterizzato. Ma ci sono voluti ventun anni perché questa verità evidente venisse fatta propria dal documento giudiziario che da ieri prescrive la «custodia cautelare» per due mafiosi già in carcere.
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Un dibattito, dentro (e fuori) Liberazione
Domenico Losurdo Stalin, storia e critica di una leggenda nera
di Guido Liguori
Il socialismo alla prova del gulag. Tanti drammi per un simile risultato? [Con interventi di Giuseppe Prestipino, Dino Greco, Domenico Losurdo e André Tosel]
"Stalin. Storia e critica di una leggenda nera" di Domenico Losurdo. La biografia del dittatore tra scelte violente e politiche realiste
Stalin mostro sanguinario o politico realista costretto dalla storia a scelte obbligate? Nel suo ultimo libro ( Stalin. Storia e critica di una leggenda nera , con un saggio di Luciano Canfora, Carocci, pp. 382, euro 29,50) Domenico Losurdo opta per la seconda risposta. E' una tesi controcorrente e già per questo il libro è da leggere: opponendosi al "senso comune" prevalente fa pensare e induce a problematizzare ipotesi storiografiche che si danno ormaiper acquisite.
Quale è l'idea di fondo di Losurdo? Le tesi interpretative del fenomeno staliniano che più hanno inciso - Trockij, Chruscev, Hannah Arendt - sono state determinate dalla lotta politica interna al campo comunista o dalla Guerra fredda. Da qui un «ritratto caricaturale» di Stalin che sottovaluta radicalmente il contesto concreto del suo operare. In questo contesto l'autore fa rientrare non solo la "lunga durata" della storia russa (i conflitti medioevali nelle campagne, l'odio per gli ebrei, il banditismo nato dalle carestie), non solo lo "stato d'eccezione" in cui si collocò l'esperienza sovietica, ma anche i lati deboli dell'ideologia marxista, un «universalismo incapace di sussumere e rispettare il particolare», le tendenze escatologiche che volevano abolire in tempo rapidi proprietà privata, nazione, famiglia, ecc.
Lo stesso Gulag si espande con la «collettivizzazione forzata dell'agricoltura».
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Senza conflitto dalla crisi si esce a destra
di Emiliano Brancaccio
Da un secolo e mezzo ad oggi, questa è la prima crisi del capitalismo che esplode nel pressoché totale silenzio politico del lavoro e nell’assenza del conflitto di classe di cui un tempo le organizzazioni operaie si facevano portatrici. Nelle epoche passate lo scontro di classe suscitato dal movimento operaio agiva profondamente sul corso degli eventi storici, ed interveniva in modo più o meno diretto su quelle fondamentali emergenze rappresentate dalle crisi economiche. Non solo la minaccia sovietica ma la stessa morsa dei fascismi costituivano gli estremi riflessi del protagonismo politico del lavoro e delle istanze di emancipazione di cui esso si faceva portatore, soprattutto nei momenti di crisi. Un fantasma insomma si aggirava davvero per l’Europa e per il mondo. E quel fantasma, soprattutto durante i terremoti economici, aveva molte carte decisive da giocare.
Oggi invece viviamo l’esperienza inedita di una crisi che si dispiega nel silenzio del lavoro e nella conseguente assenza del conflitto di classe. Quali sono allora le implicazioni principali di questa crisi senza conflitto? La prima implicazione è che in mancanza del contrappeso rivendicativo del lavoro lo stato è lasciato in balia degli interessi del capitale, e tende quindi a scimmiottarne anche i comportamenti più destabilizzanti e autodistruttivi. A questo riguardo sappiamo che un’azione razionale dal punto di vista del singolo capitale può risultare disastrosa a livello di sistema.
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Le tesi di Bertinotti
Rossana Rossanda
Le tesi che Bertinotti ha presentato in questi giorni (cfr. Matteo Bartocci sul manifesto del 13/11) tentano di superare la collisione tra le due anime di Rifondazione comunista. Lo scoglio su cui urtano non è soltanto loro. E' un punto diventato problematico per tutte le sinistre, moderate o radicali, negli anni '70 e '80, e precipitato con la caduta del muro di Berlino: l'implosione del «socialismo reale» non rende obsoleto il paradigma marxiano della lotta di classe?
Esso aveva sorretto tutto il movimento operaio e pareva confermato dalla rivoluzione del 1917. L'implosione dell'Urss e il capitalismo divenuto sistema unico mondiale davano per finito anche il conflitto sociale. Fine è parola gravida di emozioni. Non alludeva a una attuale impossibilità, ma alla verificata insostenibilità di un errore del concetto stesso che aveva innervato la lotta politica in Europa per oltre cento anni.
«Fine della storia» proclamava Francis Fukujama negli Stati Uniti, «Fine di un'illusione» scriveva Francois Furet in Europa, fine del Novecento hanno scritto in molti, e non solo come del «secolo breve» ma come venir meno delle idee che lo avevano retto, prima di tutte l'affermazione marxiana secondo la quale la libertà politica di ogni cittadino non è possibile finché ne restano disuguali le condizioni. Al contrario, non pochi si sono spostati a sostenere che la libertà di impresa, luogo di condizioni disuguali per definizione, sarebbe la sola garanzia di tutte le libertà.
Non sarà mai sottolineata abbastanza l'influenza che questa ottica, in forme più o meno sottili, ha esercitato su tutte le sinistre. Tanto più che la messa in dubbio del conflitto di classe si dava mentre emergeva la percezione di altri conflitti, due dei quali innovativi: il femminismo, che andava oltre l'emancipazione e l'ecologia come scoperta della devastazione del pianeta ad opera dello sviluppo industriale.
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Operaismo, non confondiamo tutto
Ferruccio Gambino
"L'assalto al cielo" di Steve Wright, studioso australiano dei movimenti della seconda metà del '900
Dobbiamo a Steve Wright, noto studioso australiano dei movimenti della seconda metà del Novecento, questo volume che disegna la parabola di Classe Operaia (1964-67), Potere Operaio (1969-73) e dell'Autonomia operaia (1973-79): L'assalto al cielo. Per una storia dell'operaismo (postfazione di Riccardo Bellofiore e Massimiliano Tomba, Edizioni Alegre, Roma 2008, pp. 334, euro 20).
Alla prima edizione inglese del 2002 è seguita l'edizione tedesca del 2005 e adesso quella italiana, nella traduzione di Willer Montefusco, grazie al rinnovato interesse per l'operaismo, come osservano Bellofiore e Tomba nella loro postfazione. Steve Wright ricostruisce questa vicenda che troppo a lungo era rimasta affidata alle arringhe di vari magistrati, a parte il notevole contributo di Franco Berardi ( La nefasta utopia di Potere Operaio , Castelvecchi, 2003) e ci offre un'interpretazione documentata e originale del dibattito che ha segnato l'operaismo negli anni '60 e '70.
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Perché una sinistra senza aggettivi?
Alberto Burgio
Nei giorni scorsi (il 9 e il 17 settembre) Marcello Cini ha pubblicato su queste pagine un ampio intervento che mette a fuoco nodi teorici cruciali e dimostra come una riflessione autonoma e spregiudicata sia condizione necessaria affinché la sinistra torni capace di incidere sul piano politico e culturale. Si tratta di un contributo rilevante non soltanto per gli argomenti, esposti con la passione e la lucidità alle quali Cini ci ha da lungo tempo abituato, ma anche per l'implicito suggerimento che lo sottende.
O compiamo lo sforzo di cimentarci con le sfide della ricerca teorica, o non usciremo da questa gravissima crisi. O ci occupiamo, oltre che di cronaca, anche di storia, oppure verremo travolti da mutamenti che non saremo stati in grado di decifrare. La qualità di questo intervento raccomanda, credo, di non archiviare il discorso come una generica esortazione. Cini afferma cose impegnative e formula interrogativi pressanti, offrendo una preziosa occasione per avviare la riflessione, in effetti sempre più urgente, sui compiti della sinistra e sugli strumenti a sua disposizione. La tesi di fondo è incontrovertibile. Il capitalismo sta conducendo l'umanità e il pianeta verso la catastrofe.
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Parole scomode
Rossana Rossanda
Ci pesa chiedere soldi ogni due o tre anni a chi ci legge, ma siamo soffocati non soltanto dalla abolizione da parte del governo di ogni diritto della stampa scritta e dai nostri probabili errori (perché anche i poveracci ne fanno, per quanto stringano la cinghia). Da venti anni in qua siamo soffocati dal fastidio che provano i più nell'ascoltare una voce fuori dal coro. Fa impressione oggi sentir dire da Tremonti in Italia e da Sarkozy in Francia quel che fievolmente non abbiamo smesso di dire mai e cioè che deregulation e finanziarizzazione dell'economia avrebbero portato la medesima allo sfascio. A scriverlo, l'epiteto più gentile che si riceveva era: «siete arcaici». Simpatici ma fuori dal mondo. Il mondo, dicevano quelli che se ne intendono, era globalmente capitalistico, finalmente fuori dal controllo dell'inaffidabile politica, finalmente consegnata alla mano invisibile e giusta del mercato. Meno stato più mercato è stata la parola d'ordine della destra, della sinitra detta riformista, e della sinistra radicale, magari per opposte ragioni ma con il medesimo risultato. Persino uno Scalfari, che all'inizio metteva in guardia dall'economia del farwest s'è azzittito, per non dire della sufficienza con cui sono stati trattati gli Stiglitz e i Fitoussi o i Krugman che osavano aprir bocca davanti al monetarismo delle banche centrali e ai prodigiosi disastri del Fondo monetario internazionale. E il lavoro? Le imprese avevano giurato che, con il progresso della tecnologia era ormai una voce insignificante del loro bilancio. E invece da vent'anni è diventato il terreno della caccia più feroce dei padroni per strozzarlo ai minimi, e quando non ci sta, delocalizzano. L'Europa, solo continente in cui esso aveva conquistato dei diritti, s'è andata formando dando addosso alla sua «rigidità» e avanti con flessibilità e precariato, e basta con i contratti nazionali, negli applausi non dico dei Fassino, Veltroni, Epifani ma fin del meno azzardoso D'Alema. E noi, ne siamo usciti indenni?
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Undici tesi dopo lo Tsunami
Proteo o Anteo? La sinistra sulle proprie tracce
Centro Studi per la riforma dello Stato
Quando la politica non sa più parlare, il ceto politico parla solo a se stesso di se stesso, non interpreta la società e ne rincorre le pulsioni
1. CAMBIO DI PASSO
Aprile 2008: va rilevato il tratto di discontinuità, forse di salto. Non si può riprendere il discorso dall'heri dicebamus. Occorre un cambio di passo, nella ricerca e nell'iniziativa. Non stava scritto che la transizione si chiudesse a destra. Ma così è avvenuto. E tuttavia non è la sorpresa il sentimento dominante: i segni c'erano, nel paese, e anche a Roma. Perché non siano stati letti, è il problema. D'altra parte, non è la paura il sentimento che ci deve dominare. Non c'è Annibale alle porte, non ci sarà un passaggio di regime. C' è una nuova destra, di governo, e di amministrazione, da sottoporre ad analisi e da contrastare nella decisione, con uno scatto di pensiero/azione.
2. DOPPIO FALLIMENTO
Si conferma il dato, che viene da lontano, di una maggioranza di centro-destra nel paese reale. Negli ultimi quindici anni, l'opinione di centro si è avvicinata all'opinione di destra. Se la Dc era un centro che guardava a sinistra, Forza Italia è un centro che guarda a destra. Questo ha dato l'illusione che ci fosse un residuo di centro da conquistare a sinistra.
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Una 'rivoluzione copernicana' non impossibile
di Dino Greco
Intervento di Dino Greco alla presentazione della I Mozione
L’esito del voto è così eloquente da non lasciare margini di equivoco. Il cartello della Sinistra Arcobaleno, unita sotto il nuovo simbolo, raccoglie a Brescia e provincia il 2,6%, la Lega il 27,2: dieci volte tanto. E sono, in gran parte, voti di popolo, voti operai. Ma non è un fulmine a ciel sereno. Di eclatante c’è l’annientamento della rappresentanza parlamentare dell’intero arcipelago rosso-verde, ma il processo politico è da tempo sotto gli occhi di tutti. Anche se si è fatto di tutto per esorcizzarlo, per sovrapporre alla realtà una comoda (ma quanto autolesionistica!) interpretazione ideologica: quella per cui gli operai -e qui ce ne sono tanti- non possono che stare a sinistra. Dunque, abbiamo a che fare con un sommovimento profondo della società che ha ridislocato parte consistente di quegli strati sociali che la sinistra avrebbe l’ambizione di rappresentare. Oggi lo si scopre attraverso il trauma elettorale che di quel processo è l’espressione contabile, l’effetto, non la causa. Ma se la crisi della sinistra ha questa dimensione, non provvisoria e perciò non transitoria, sarebbe letale attendersi resurrezioni a breve.
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Le mozioni di Rifondazione
Rossana Rossanda
Non si può dire certo che si siano precipitati in molti a leggere le mozioni per il congresso di Rifondazione Comunista che si terrà a luglio. Forse il fatto che sarà un congresso, e drammatico, a deciderne a maggioranza le fa considerare più pretesti che testi. Ma a torto. Sono la prima riflessione, bruciante, su se stessa della sinistra che è stata esclusa dalla rappresentanza politica e della quale Rc è stata per diciasse anni la parte maggiore e determinante. Il congresso dovrà decidere - si è detto e scritto - se Rc si dovrà confermare come partito o mettersi in discussione in una costituente con le altre parti della sinistra sconfitta che ne sentano il bisogno. In verità si è già deciso: sarà il partito stesso a definire la sua sorte, il che ha una sua logica.
Tutti sappiamo però che cosa è il congresso di un partito e quali altri meccanismi, non inerenti alle mozioni, prepotentemente vi giochino, quali che siano in partenza le intenzioni delle parti in causa.
D'altra parte, non conosciamo altre forme del far politica che non ne ripetano, e non sempre in meglio, le liturgie: femminismi, ambientalismi, movimenti non sono riusciti a risolvere il dualismo fra pluralità e unità, e a non frammentarsi, con ferite e strida.
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I veri nodi in gioco nell'agenda di Rifondazione
Alberto Burgio
Se Rifondazione comunista non riesce a essere sede di un «lavoro comune di indagine e proposta» per l'elaborazione di una «visione comune» alle forze della sinistra; se non riprende il cammino della Sinistra Arcobaleno, bruscamente interrotto dalla disfatta elettorale, allora il suo travaglio è sterile e insignificante. In questo caso, «che ci importa del suo congresso?». Così Rossana Rossanda chiude la sua lettera a Rifondazione (il manifesto, 17 maggio 2008). Provo a rispondere non eludendo la questione. Cruciale, ma alquanto dilemmatica.
Rossanda mette in chiaro quel che a lei, «vecchia comunista», sta più a cuore. Il problema dei problemi è il lavoro, la solitudine del lavoro dipendente. Sul piano materiale, il problema si chiama precarietà, basso salario, disoccupazione. E ancora: peggioramento delle condizioni di lavoro (ritmi, orari di fatto, carichi, ripetitività, infortuni); non riconoscimento delle prestazioni reali; aumento delle differenze normative e salariali, oggi tra segmenti della stessa filiera, domani tra singoli dipendenti della stessa impresa. Queste alcune delle questioni essenziali.
Che cosa comporta una simile impostazione? Forse che ci si disinteressi degli altri terreni di conflitto: delle questioni ambientali e istituzionali, delle differenze di genere e dei diritti civili, della guerra e dei diritti umani? Naturalmente no. Certo però porta con sé, questa impostazione, una prospettiva influente sulla lettura della realtà: una direzione dello sguardo, suggerita da un principio ordinatore. Se si ritiene cruciale un terreno di conflitto, ciò non deriva da opzioni personali di gusto o di interesse, ma dal modo in cui si leggono processi e conflitti. E questo modo rimanda a sua volta a un quadro di riferimento, a una ipotesi teorica, a una cultura politica.
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Lettera a Rifondazione
di Rossana Rossanda
Si può capire che dopo la batosta la ex Sinistra arcobaleno sia in sofferenza. Dovrebbe esserlo anche il Pd, dato che il disegno di prendere voti al centro è fallito, ma il suo leader è inossidabile, fa le fusa con Berlusconi perché quel che in primo luogo preme a tutti e due è riconoscersi l'un l'altro come il solo interlocutore su piazza. Per la Sinistra arcobaleno non c'è invece conforto possibile. La scomparsa dal parlamento ha mandato a pezzi il progetto di rimescolare le sinistre residue, e il fatto che ognuna soffra e se ne vada per conto suo dimostra che era davvero fragile. Quel che non è comprensibile è che si domandino così poco il perché del fallimento. Tutti lamentano di non essere stati capiti o non essersi fatti capire; si fa la festa ai gruppi dirigenti dei quali si chiedono le dimissioni o si hanno addirittura senza chiederle. Tutti scoprono l'ombrello, cioè che la Lega è radicata nel territorio, mentre in nome della modernità ci si è affidati più alla tv che alla frequentazione di coloro cui si chiedeva il voto.
In convulsione è soprattutto Rifondazione: perché la sciagurata ha partecipato al governo? Non ci doveva andare, doveva appoggiarlo dall'esterno. Ma non vedo che cosa sarebbe cambiato: o ne votava volta per volta le leggi, rinunciando a portarvi dall'interno anche quel poco che è riuscita a introdurvi, oppure non le votava, e il governo sarebbe caduto fra gli strepiti contro la sua «irresponsabilità».
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E’ saltato il tappo
Diciamocelo con grande franchezza: con le elezioni e i ballottaggi del 13 e 18 aprile e la dissoluzione della sinistra storica, almeno così come l’abbiamo conosciuta in Italia negli ultimi venti anni….è saltato il tappo. Questo non può essere ritenuto un risultato negativo, al contrario.
Fatta eccezione per qualche lettore del Manifesto e per i molti che perderanno il loro status sociale acquisito negli anni, non si avverte in giro alcuno psicodramma, tutt’altro. Si avverte invece con una certa razionalità (in alcuni casi fredda, in altri euforica) come sia stata salutare questa dovuta e attesa sconfitta storica di un ceto politico autoconservativo oltre ogni limite e oggi ridotto ad una imprevista dimensione extraparlamentare. Una dimensione decisamente innovativa per chi fino a qualche mese fa aveva accusato di “essere fuori dalla comunità politica” i movimenti che si sono opposti alla politica militarista e antisociale del governo Prodi nonostante che il governo potesse contare sulla partecipazione piena ed attiva di tutti i partiti della sinistra “radicale”.
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