Print Friendly, PDF & Email

eticaeconomia

Greed? No, thank you

di Maurizio Franzini

Schermata del 2023 07 09 17 46 12Maurizio Franzini riflette sul tema dell’avidità e dei suoi effetti, partendo dalla notissima affermazione ‘greed is good’. Franzini, richiamando anche alcuni studi recenti, considera la possibilità che l’avidità sia ‘brutta e cattiva’ (bad and ugly) e, dopo aver cercato di darne una definizione analitica, enuncia alcune conclusioni (provvisorie) tra cui quella che nel contesto istituzionale contemporaneo e date le caratteristiche di molte transazioni, l’avidità è facilmente ‘brutta e cattiva’.

“Greed, for lack of a better word, is good”, cioè, traducendo, “l’avidità, in mancanza di parole migliori (e, aggiungo, forse ve ne sarebbe bisogno) è una cosa buona”. Questa è la frase che Michael Douglas, nei panni dello spregiudicato finanziere Gordon Gekko, pronuncia a metà del film ‘Wall Street”. Siamo nel 1987 e la frase, come si direbbe oggi, è destinata a diventare virale. Ventidue anni dopo, all’inizio del 2012, Michael Douglas, interpretando solo se stesso, dichiara, sostanzialmente che ‘Greed is not good’. Lo fa in occasione del suo impegno per una campagna dell’FBI contro l’insider trading e le frodi delle società finanziarie, forse preoccupato (e stanco) di apparire lui stesso, e non solo Gekko, come il difensore di quelle pratiche truffaldine che la frase del 1987 voleva giustificare. Ma la frase del 2012 – e di certo non c’è da sorprendersi – non diventa virale.

Forse, in un’epoca nella quale l’avidità sembra – quanto meno – trovare forme nuove per manifestarsi (è interessante che si parli, rispetto all’inflazione di greedinflation riferendosi all’aumento dei profitti) vale la pena riflettere sulle due contraddittorie affermazioni di Gekko-Douglas magari ampliando l’orizzonte.

In questo compito ci aiuta un recente articolo in cui due psicologi, M. Zeelenberg e S.M.Breugelmans, riportano i risultati di una loro indagine su quella che chiamano ‘dispositional greed’, cioè l’attitudine a una sistematica avidità, misurata in base alle risposte fornite a 7 domande valutate secondo una “Dispositional Greed Scale”. I due ricercatori sostengono, mettendolo bene in evidenza anche nel titolo dell’articolo, che l’avidità può essere una cosa buona, una cosa cattiva e anche una cosa brutta (bad, good, ugly), ispirandosi alla terminologia usata molti anni prima da R. Tangney evidentemente ispirato a sua volta dal film del 1966 del nostro grande regista Sergio Leone.

Il buono sarebbe il vantaggio non soltanto per gli avidi ma per la società nel suo complesso, il cattivo sarebbe il male fatto agli altri dagli avidi e il brutto gli effetti negativi che l’avidità sembra avere sulla felicità degli stessi avidi. Cominciamo da quest’ultimo effetto, forse il meno considerato. I due psicologi trovano che molti dei più avidi che hanno partecipato alla loro indagine dichiarano di essere meno felici dei meno avidi. Se colleghiamo, come vari studi legittimano a fare, l’avidità alla ricchezza giungiamo alla conclusione che essere più ricchi non significa necessariamente essere più felici (e forse l’avidità aiuta a capire, almeno in parte, il perché). Un suggerimento, al riguardo, potrebbe darcelo la teoria dei giochi e in particolare il notissimo dilemma del prigioniero. L’avidità può spingere a comportamenti, all’interno di determinate interazioni e transazioni, di tipo ‘predatorio’ che limitano le possibilità di cooperazione e portano ad esiti peggiori (deludenti?) per tutti, anche per l’avido. Dunque, in situazioni di questo genere, l’avidità non avrebbe nulla di buono e molto di brutto e cattivo. L’infelicità degli avidi può, però, avere anche altre origini, come vedremo tra breve.

Ma torniamo al buono dell’avidità. Secondo un’opinione piuttosto diffusa, condivisa da un ampio numero di economisti, il buono dell’avidità consisterebbe nel fatto che essa induce comportamenti vantaggiosi anche, o forse soprattutto, per gli altri. È questa, in fondo, la narrazione della “mano invisibile” che spingerebbe gli avidi di profitto a ingaggiare tra loro una sorta di spietata concorrenza con il risultato di avvantaggiare i consumatori. L’originatore di questa narrazione sarebbe A. Smith, anche se di essa non vi è limpida traccia nelle 700 pagine della sua Ricchezza delle Nazioni. Così come non è facile attribuire a Smith l’idea che ‘greed is good’.

Ma il buono starebbe anche nei comportamenti degli avidi ipotizzati favorevoli alla crescita economica. E si tratta, se non interpreto male, di crescita indotta dalle innovazioni realizzate dagli avidi. Qui le questioni sono diverse. La prima è che implicitamente (molto) si assume che gli avidi (solo loro?) sono pronti ad affrontare i costi (privati) e forse anche i rischi (entrambi elevati) che l’innovazione comporta. Occorrerebbe, cioè, attribuire grande ‘utilità’ al reddito aggiuntivo che le innovazioni possono permettere. Ma, soprattutto, gli avidi non sembrano avere altri modi per arricchirsi se non attraverso le virtuose innovazioni.

La seconda è che dalle innovazioni scaturisce la crescita che è di vantaggio per tutti (o, almeno, per molti). Lo è, probabilmente, anche per effetto del mitico trickle-down che vede i maggiori redditi dei più ricchi ‘sgocciolare’ verso i più poveri.

Su entrambe le questioni c’è molto da dire e quelle che seguono sono solo prime considerazioni. Per affrontarle meglio è utile partire proprio dal significato di avidità, magari cercando anche di colmare il problema della mancanza di un termine migliore di cui parlava Gekko.

Sembra esservi generalizzato consenso sul fatto che l’avidità implichi (o coincida con) insaziabilità. Zeelenberg e Breugelmans parlano di un desiderio insaziabile di reddito, ma non solo di reddito. Anche di influenza, potere, privilegi e perfino sesso. Restiamo al reddito e traduciamo l’avidità- insaziabilità nelle categorie dei micro-economisti. La traduzione dà questo esito: l’avido ha un’utilità marginale del reddito (non del consumo, si noti) sempre positiva e tendenzialmente sempre crescente. In altre parole la soddisfazione addizionale che l’avido deriva da successivi aumenti del reddito non declina al crescere del reddito di partenza. Se la soddisfazione o utilità dipendesse esclusivamente dal consumo (presente o futuro) come nella tradizione microeconomica quella ipotesi apparirebbe piuttosto irrealistica ed infatti prevale l’idea che quando il reddito ha raggiunto un livello sufficientemente alto, incrementi ulteriori di reddito non provochino effetti marginali positivi sulla soddisfazione o sull’utilità. Quindi la fonte dell’eventuale incessante effetto positivo del reddito sull’utilità deve essere un’altra.

La ricerca delle possibilità può rivolgersi in più direzioni. Ad esempio quella della possibilità, al crescere del reddito, di ritagliarsi più tempo libero (in luogo del lavoro) per attività piacevoli. Ma una spiegazione più appropriata in presenza di avidità sembra essere la seguente. Un atteggiamento e un’aspirazione che sembrano piuttosto diffusi tra molti ricchi, specialmente quando operano come manager e nei settori della finanza è quella di guadagnare più dei propri pari. Se tutti coloro che condividono questa aspirazione anticipano un forte aumento di utilità al crescere del proprio reddito (soprattutto in rapporto a quello immaginato per i propri concorrenti) tutti cercheranno di avere più reddito ma, anche se lo ottenessero, la loro utilità ex post li condannerebbe a uno stato di infelicità perché sostanzialmente nessuno ha raggiunto lo scopo di sopravanzare gli altri. Quindi questo meccanismo potrebbe spiegare l’infelicità degli avidi ricchi di cui si è detto in precedenza.

Ma qui interessa soprattutto un’altra questione: se l’avidità sia necessaria (e anche sufficiente) per gli esiti buoni ad essa attribuiti, in particolare per la spinta che darebbe all’attività innovativa e le sue positive conseguenze sulla crescita e sul benessere di tutti. Torno, quindi, alle due questioni enunciate in precedenza.

Rispetto alla prima, i punti critici sono diversi. Anzitutto se, come sembra innegabile, le possibilità di arricchimento non passano soltanto per le innovazioni cosa preferirà fare l’avido? In particolare se alcune di queste possibilità consistono in una ‘estrazione’ di reddito dagli altri, attraverso forme di potere, facilità di manipolazione, sfruttamento di asimmetrie informative ecc. sembra chiaro cosa preferirà a meno che a temperare la sua avidità (intesa come relativamente innocente insaziabilità di reddito) non intervengono altri valori (rispetto delle norme sociali, rispetto delle persone, ecc.).

Ma se si è avidi – ecco una possibile qualificazione importante del termine – probabilmente si dà ben poco valore a tutto ciò; si attribuisce non soltanto un’elevata utilità marginale al reddito ma anche una bassissima utilità a quelli che qui chiamo genericamente ‘valori’’. L’avido non è per nulla other-regarding, è solo self-regarding. Questo aspetto è, forse, almeno altrettanto importante dell’alta utilità marginale attribuita al reddito (al limite, della insaziabilità). In conclusione, l’equazione avidità=innovazione appare del tutto inappropriata in un mondo che offre molteplici possibilità di arricchimento.

Peraltro, e forse fortunatamente, per innovare – compiendo, cioè, un’azione costosa ma di vantaggio per tutti (se di questo si tratta) – non è necessario avere un’elevatissima utilità marginale rispetto al reddito. Le motivazioni possono essere di altra natura ed è estremamente significativo ricordare che Schumpeter assumeva che il suo imprenditore, il mitico protagonista della distruzione creatrice, fosse motivato soprattutto dal mero desiderio di innovare e anche per questo Schumpeter non trovava necessario proteggere i profitti dell’innovatore con brevetti e diritti di proprietà. I temporanei profitti monopolistici, perduranti fino alla comparsa degli imitatori, gli apparivano più che sufficienti per dare al suo imprenditore una soddisfazione monetaria che era solo parte di quella complessiva, grazie alla sua motivazione intrinseca: riuscire ad innovare.

Sulla seconda delle questioni prima poste e cioè se, ammesso che l’avido vi contribuisca, la crescita sia di per sé cosa buona per tutti (o per molti) la risposta sembra piuttosto facile. Alla crescita si accompagnano così tante esternalità negative (a iniziare da quelle ambientali) da poter considerare quanto meno dubbia quella ipotesi. Naturalmente se, come si è detto, l’avido può arricchirsi con comportamenti poco virtuosi, la questione non si pone nemmeno.

In definitiva, nell’epoca della concentrazione del potere economico, (e non solo), della manipolazione dei consumatori, del diffondersi di beni immateriali e di crescenti esternalità sembrano esservi pochi dubbi che l’avidità è soprattutto cosa brutta e cattiva.

Perché i mercati (ma non soltanto i mercati) conducano a esiti buoni per molti se non per tutti oggi più che mai servirebbero attori con appropriati valori morali. Ma non si tratta certo di un’assoluta novità storica. Contrariamente a quanto troppo spesso si legge, di questa necessità sembrano essere stati ben consapevoli anche economisti certamente liberisti ma con un pensiero decisamente più articolato di quello che sembra essere divenuto dominante per difendere il mercato. Vale la pena riportare qualche frase di Hayek: i valori che oggi contano meno sono “i ‘valori morali’ – libertà e indipendenza, verità e onestà intellettuale, pace e democrazia e rispetto per l’individuo come uomo invece che solamente come membro di un gruppo organizzato” (F.A. Hayek, The Road to Serfdom: Text and Documents, a cura di B. Caldwell, University of Chicago Press, 2007 p. 218) e, ancora nel 1961 parlando al Congress of American Industry ebbe a dire che la libera impresa richiedeva ‘non soltanto standard morali, ma standard morali di un tipo particolare” (F.A. Hayek, “The Moral Element in Free Enterprise”, in Studies in Philosophjy, Politics and Economics, Simon & Schuster, 1967 p. 230).

Quanto si è fin qui detto dovrebbe provare che le questioni da affrontare e precisare sarebbero molte e su almeno alcuno di esse potremo tornare. Ma è tempo di concludere. E le conclusioni principali sono queste: l’avidità non è coincidente con l’insaziabilità. Si può essere insaziabili (nel senso di trarre utilità molto elevata e anche crescente dal reddito) ma non per questo essere avidi. I valori morali (e altro) possono spiegare questo apparente paradosso. L’insaziabilità non è necessaria per le azioni economiche considerate benefiche per tutti: quelle che si usa chiamare motivazioni intrinseche (spesso nutrite di valori morali) possono essere altrettanto e forse più efficaci. Ancora, nel mondo contemporaneo le occasioni per arricchirsi con comportamenti dannosi per gli altri sono molteplici e quindi l’avido ben difficilmente potrà fare cose buone per gli altri, anzi cercherà di arricchirsi ai loro danni come è nella logica di quello che si può chiamare capitalismo ‘estrattivo’.

In definitiva, oggi più che mai non abbiamo bisogno di mera avidità ma di valori morali e di atteggiamenti other-regarding che, lo si è accennato, possono anche evitare alcune delusioni da avidità. Ne abbiamo bisogno per il mercato, ma non soltanto per il mercato. E ne abbiamo bisogno allo stesso modo in cui abbiamo bisogno di istituzioni che limitino i premi che oggi affluiscono agli avidi. Volendo potremmo concedere che abbiamo bisogno di un’avidità (intesa come alta utilità del reddito) temperata da valori other-regarding. Di fronte a tutto questo appare quanto meno singolare che molti (economisti e non solo) continuino a tessere le lodi dell’avidità tout court. Dunque, a fornirle giustificazioni con l’esito probabile e demoralizzante di aiutare a perpetuare comportamenti di cui non si avverte davvero alcun bisogno.

Add comment

Submit