La nemesi migratoria
di Dino Raiteri
Il fatto nuovo circa gli ormai decennali flussi di migranti e rifugiati sta nell’essersi trasformati in vero e proprio esodo. Ad un certo punto è esploso un impulso collettivo verso un determinato obiettivo, come quando, ad esempio, una popolazione, prima passiva insorge tutta insieme, contro una certa situazione. Qui l’impulso è di fuggire da qualcosa, guerra, miseria o, semplicemente, vita quotidiana che non si vuol più vivere nel luogo d’origine: la guerra in Siria non è scoppiata ieri, né i migranti dal Mediterraneo o dalle porte orientali dell’Europa sono apparsi ieri. Ma oggi ha preso corpo un’ansia(quasi una frenesia) corale: verso l’Europa e il suo nord, terra promessa! Da pochi mesi un’improvvisa fiumana di Siriani si sta riversando in Europa. I movimenti sono caotici(gli stati e le varie organizzazioni internazionali paiono impotenti) e non si trova nessun Mosè a guidare l’esodo. C’è poi spazio per dietrologie? Ad es. la fiumana dei Siriani è manovrata da qualcuno? Fantasie? Come sempre lo rivelerà la storia.
Lasciamo stare il ruolo miserevole dell’Europa in questi ultimi anni, connotato da provvedimenti campanilistici, decisioni “Europee” confuse, accordi operativi controversi e di incerta efficacia(non si è stati in grado approntare, questo già da tempo, campi Europei di accoglienza alle frontiere del nostro continente ove far sostare in modo decente i migranti per controllarli e smistarli), paura di affrontare l’organizzazione dei trafficanti di esseri umani(non parliamo di affrontar l'Isis attestato in Libia; forse si arriverà, al massimo, a un accordo per far instaurare là un improbabile governo unitario). Evidentemente l’Europa non è una grande potenza: meno male che non ha forti nemici, altrimenti rischierebbe di venir conquistata!
L’argomento di queste righe è altro.
Un piccolo exursus su Siria e Iraq. Nessuna grande potenza militare, cioè USA e Russia, né potenze minori (ma agguerrite) come Gran Bretagna e Francia, hanno sin'ora voluto un vero intervento militare, benché la Russia abbia cominciato a muoversi soprattutto per puntellare Assad. La permanenza del califfato Isis, poi, pare enigmatica. Ad es. né Turchia (bloccando il contrabbando di petrolio, materiale bellico e altro e l’afflusso di volontari islamisti), né gli USA (distruggendo i pozzi petroliferi in mano all’Isis) hanno messo in atto, a suo tempo, la prima cosa che, agevolmente, potevano fare: soffocare economicamente il califfato, che oltre ai propri miliziani, deve mantenere alcuni milioni di persone residenti nei suoi territori. Il califfato entra dunque nel gioco economico-politico mediorientale e mondiale, piuttosto che esser soltanto una pericolosa entità da eliminare rapidamente. Non é assurdo pensare che esso venga stimato un tassello utile, da conservare sino a quando piacerà alle potenze.
Questo per quanto riguarda la gran parte dei profughi per causa bellica (cui vanno aggiunti i somali, uomini di una terra abbandonata a se stessa, forse perché senza ricchezze economiche). Ma nella maggior parte del mondo, pur essendovi turbolenze (e dittature, come in Eritrea), non vi sono vere e proprie guerre: anche in Afghanistan, pur con fatica gli scontri sembrerebbero tendere a diminuire.
Perché, allora, tanti esodi, anche dall’Africa?
Appare evidente che in genere si è emigrati (e si emigra) per motivi economici. Ricordiamo, per inciso, che le percentuali maggiori degli esodi africani si verificano entro l’Africa stessa. Egualmente avviene per l’Asia, mentre l’America Latina converge verso gli USA.
Credo che il nodo della questione risieda nell’attuale sistema economico.
Non solo si sono esportate (o rapinate) dai paesi del terzo mondo enormi risorse minerarie e agricole, ma il commercio mondiale è impostato a favore dei paesi ricchi ( ad es. prezzi bassi delle materie prime e prezzi alti per i prodotti venduti a detti paesi). Addirittura gli stessi aiuti a favore dei paesi poveri si risolvono, non raramente, a vantaggio dei paesi industrializzati (oltre che di corrotte oligarchie dominanti gli stessi paesi poveri).
Trenta-quaranta anni fa nei paesi del terzo mondo la nascente industria e i servizi erano statali o in compartecipazione pubblica (mancando i capitali privati necessari), vi erano poi dazi che proteggevano sia la nascente produzione di beni e servizi, sia quella agricola, parte rilevante di tali economie, ancora di primitiva sussistenza, ma che consentiva di sopravvivere; tuttavia, però, i prodotti minerari e agricoli (nerbo delle esportazioni), venivano, artatamente, valutati assai meno dei manufatti importati dai paesi industriali.
L’evoluzione mondiale verso il pieno liberismo, spinta dall’Occidente, ha man mano costretto a privatizzare (con l’ingresso di capitali stranieri) le industrie pubbliche e ad abolire dazi protettivi in agricoltura: in tale settore, come risultato, le derrate agricole di questi paesi (specie africani) hanno oggi un costo maggiore di quelle prodotte dall’agricoltura industriale dei paesi occidentali, supportata da cospicui aiuti governativi agli agricoltori. Ricordiamo poi che, anche per tali ragioni, il debito pubblico del terzo mondo verso i paesi avanzati continua, da decenni, ad essere molto elevato.
In conclusione, la naturale evoluzione verso la modernità e l’affermarsi mondiale del liberismo, hanno sì creato in tali nazioni un ceto borghese benestante o ricco, ma (soprattutto in Africa) hanno anche impoverito buona parte della popolazione contadina(scardinando ampiamente la società tribale, primitiva ma a suo modo protettiva), una parte rilevante della quale ha cominciato a riversarsi nelle principali città, dando vita a orrende periferie ove si campa, anche, frugando nelle discariche.
Inoltre l’accentuato tribalismo (sotto la patina delle costituzioni importate dall’Europa) dei popoli africani ha causato una serie endemica di conflitti e turbolenze, sfruttati (quando non fomentati) dai paesi industriali per meglio accaparrarsi risorse minerarie e agricole e mantenere un lucroso commercio (legale o illegale) di armi.
Come non bastasse, durante l’ultimo decennio assistiamo ad una inedita forma di sfruttamento: l’accaparramento (land grabbing) di terre fertili (anche qui soprattutto in Africa) da parte di società dei paesi industrializzati; si calcola che solo negli ultimi cinque anni siano stati acquisiti ben 338 milioni di ettari! Poiché in molti paesi del Sud del mondo non esiste catasto è facile ai governi locali (in combutta con dette società) sfrattare i contadini, i quali possono scegliere se trasformarsi da proprietari in braccianti (quando sia consentito) o fuggire nella miseria delle periferie cittadine.
Quindi i paesi del Terzo mondo sono cresciuti economicamente, il benessere della popolazione è aumentato, la fame è in parte diminuita, ma molta gente non ha visto progredire le proprie condizioni, mentre una fascia consistente si è impoverita e non riesce più a mantenersi col proprio lavoro.
Chiaramente il liberismo fa il proprio corso e non si cura di questa consistente parte della popolazione mondiale, sgravandosi la coscienza col finanziare le varie organizzazioni non governative che fanno da buon samaritano. Tutto previsto, insomma, anche le migrazioni, che da sempre avvantaggiano le imprese dei paesi industrializzati: manodopera a buon mercato tale da abbassare i salari (e indebolire i sindacati), lavoratori che svolgono attività disertate dagli “indigeni” (anche in conseguenza dell’abbassamento dei salari), nuovi consumatori, ecc. Tutto previsto dunque: il cinismo è preveggente.
Ma ecco che qualcosa s’incrina: la fuga dai paesi poveri e dalla guerra va ingrossandosi, sino ad esplodere, oggi, in Europa; tutti vogliono entrare in questo benestante luogo, sebbene anche qui la povertà vi continui a crescere: ma pur impoveriti noi restiamo un miraggio.
Vediamo, molto sommariamente, la situazione economica dei paesi di vecchia industrializzazione.
Da almeno tre decenni la crescita è andata sempre più rallentando, facendo calare l’occupazione. Il calo è poi divenuto strutturale per questi motivi: a) spostamento di molte industrie(e anche servizi) nei paesi asiatici, sudamericani e anche africani; b) tecniche di produzione e organizzazione del lavoro che richiedono minori lavoratori(anche se specializzati): siamo, da tempo, nell’epoca dell’informatica e della robotica(rivoluzione microelettronica); c) nonostante i progressi tecnico-organizzativi l’accumulazione (media) dei profitti tende a calare, tanto che parecchi economisti ritengono che l’economia mondiale svolga il proprio ruolo (se non addirittura, sopravviva) solo grazie al credito e all’immissione massiccia di denaro da parte delle banche centrali; d) enorme aumento della finanza, segno questo, anche, della sua maggior redditività rispetto agli investimenti in industria e in servizi; e) perdita di slancio (se non inizio di crisi) da parte delle economie emergenti con relativi contraccolpi sulle esportazioni dei paesi di vecchia industrializzazione (oltre di quelli esportatori di materie prime, rappresentati in gran parte dai paesi poveri); f) limiti ecologici sempre più evidenti, che mettono in crisi il concetto tradizionale di sviluppo e progresso. In conclusione si può citare quanto osservava Robert Kurz attento studioso della situazione “La razionalizzazione che fa sì che il lavoro umano diventi superfluo é, per la prima volta nella storia del capitalismo, maggiore e più veloce della diminuzione del prezzo delle merci e della corrispondente espansione dei mercati. L’offerta di merci si gonfia in maniera drammatica e l’offerta di lavoro si riduce in maniera altrettanto drammatica”.
In tale critico contesto delle nazioni sviluppate, che richiederebbe politiche di distribuzione della ricchezza, si mantengono (quando non si accentuano) politiche che invece la polarizzano: ricchi sempre più numerosi (ovviamente una parte minima della popolazione) e sempre più ricchi, aumento della povertà, verso cui sembra tendere anche parte della classe media.
Emblematico del crescente disagio economico-sociale è la trasformazione del lavoro da più o meno stabile in temporaneo e/o precario (che in parte assume la veste dell’imprenditoria singola o di piccoli gruppi), perdita di garanzia, per i laureati, di impieghi adeguati. Tanto per fare un esempio, in Germania, paese con il maggior benessere fra le potenze industriali, alcuni milioni di persone vivono con salari sotto i mille euro, mentre da qualche tempo le assunzioni sono formalmente non a posto fisso.
Di fronte a situazioni negative la strategia più praticata dalle imprese di ogni dimensione è (ed è sempre stata) quella di comprimere i salari e ciò può effettuarsi anche favorendo l’immigrazione, così da poter avere persone disposte a lavorare per un compenso minore (e spesso a peggiori condizioni): vecchio metodo, che convive con le attuali sofisticate tecniche manageriali.
Sullo sfondo che ho cercato di delineare si è abbattuta (mi riferisco all’Europa) questa alluvione umana, improvvisa come tutte le alluvioni. Quali canali di derivazione possiede l’Europa, ove convogliare queste acque tumultuose? Si potrebbe rispondere, notando che il terreno è già da tempo imbevuto d’acqua e che i canali di derivazione non si son potuti scavare (forse qualcuno in Germania). Fuor di metafora, l’Europa da decenni è approdo di migranti e profughi: sono ormai milioni. Quanti si sono integrati, ossia han trovato un lavoro più o meno continuativo, tale da permetter loro una casa e una famiglia? Molti senz’altro e sono un sostegno per i paesi europei (sebbene abbiano contribuito ad abbassare i salari), ma quanti sono quelli che tirano a campare con lavoretti saltuari e con un abitare di fortuna? Si sono mai fatte inchieste in merito?
Ora, che integrazione potranno avere questi nuovi arrivati (quest'anno son già centinaia di migliaia) e quelli che arriveranno l’anno prossimo e l’anno prossimo ancora?
Un luogo comune afferma che in Europa saranno necessari milioni di lavoratori, sia per rimpiazzare quelli che man mano vanno in pensione, sia per sostenere la spesa pensionistica. A parte la domanda perché allora sussista una disoccupazione così alta, visto che si dovrebbero coprire tanti posti, non si riflette sul fatto che quelli che oggi lasciano il lavoro vi erano entrati quando la situazione economica era molto migliore e quando meccanizzazione e organizzazione lavorativa richiedevano più manodopera. Si commette quindi un errore di prospettiva, in quanto, come si diceva sopra, il fabbisogno di lavoro tende costantemente a calare (si creano ovviamente posti di lavoro, specie nelle nuove professioni, ma il saldo resterà ampiamente negativo). Neppure la Germania, la più forte economia europea, sfugge a tale situazione, sebbene un certo fabbisogno esista, ma non nella quantità prevista(tra l'altro i tedeschi devono vedersela con la tegola Volkswagen).
La conclusione mi pare semplice: se vi sono tendenzialmente maggiori difficoltà di impiego (non precario e adeguato) per gli Europei e gli immigrati qui residenti da tempo, come si potrà integrare la fiumana che ci arriva addosso?
Altro aspetto problematico (che influenza anche l’assunzione al lavoro) è dato dalle notevoli diversità culturali dei migranti (pensiamo ad es. ai mussulmani, in cui il fattore religioso influisce sovente sul loro comportamento pubblico): il peso delle culture d’origine (sovente ancora arcaiche) é in molti di loro ancora determinante quanto a modo di agire e pensare, appena ricoperto da uno strato di “occidentalizzazione”, riferito soprattutto alle esteriorità. Armonizzare (o, più cinicamente, omologare) tante culture e mentalità con il nostro mondo sarà tutt’altro che agevole; non bastano certo i corsi di alfabetizzazione.
Grandi interrogativi ci sono sempre stati nella storia. Ci si chiedeva il perché. Dobbiamo farlo pure noi, oggi. Facciamo un’ipotesi.
La massa di migranti ci viene forse a presentare il conto del nostro agire politico-economico?
Se l’economia liberista tende a impoverire noi Europei, lo fa (e lo ha fatto) ancor di più per molti deboli paesi del terzo mondo, in particolare africani. Più sopra abbiamo tratteggiato rapidamente i rapporti Nord-Sud del mondo, di cui lo sfruttamento rappresenta un connotato essenziale, che, bisogna tragicamente riconoscere, ha contribuito (e continua a farlo) a reggere forza e prosperità del Nord. Anche le guerre nel Sud sono una specie di sfruttamento, non solo e non tanto per le vendite di armi da parte dei paesi industrializzati, ma per l’inerzia, l’indifferenza, i giochi diplomatici e le rivalità delle varie potenze, che potrebbero con la loro forza politica e militare mettervi fine. Invece le relazioni internazionali si sono sempre mosse, ove lo si ritenesse utile, su morti, distruzioni e (appunto) fuggiaschi. Uno degli spettacoli più desolanti sono da sempre le file di profughi laceri e spaventati che si lasciano indietro la guerra.
Sino a non molti anni fa le popolazioni percosse da eventi bellici e dalla povertà non avevano orizzonti molto vasti: o si fuggiva nei luoghi più vicini al riparo dal cannone, oppure ci si rassegnava a continuare a vivere nell’indigenza. Per inciso, le grandi migrazioni dell’800 e primo 900 verso le Americhe avevano una dinamica diversa: bisogna varcare gli oceani ed esse erano richieste dai paesi di arrivo, che le regolavano comunque a loro piacimento.
Recentemente gli orizzonti si sono ampliati: telefonia, televisione, internet hanno, virtualmente, portato i paesi industriali nelle case del terzo mondo e dei paesi in guerra; noi siamo quindi diventati, mentalmente, a portata di mano. I moderni mass media hanno così aperto la strada verso il Nord , sebbene il viaggio (effettivo) si compia quasi sempre lentamente e faticosamente come nei secoli passati.
L’Occidente (nel caso nostro l’Europa) sta ora, con timore sempre crescente, constatando che l’emigrazione gli sta sfuggendo di mano e ciò proprio sulla scorta delle tecniche da esso approntate. Tali tecniche, a differenza di una volta, fanno veder chiaramente ai popoli del Sud cosa siano abbondanza e pace: allora siamo davvero un mondo unico, pensa il Sud.
Guerra/povertà + informazione sembrano aver provocato la rottura del ritmo più o meno equilibrato su cui l’Europa faceva affidamento riguardo all’emigrazione: siamo stati presi in contropiede. Così, senza che questi migranti ne siano veramente consapevoli, essi ci chiedono conto della storia passata e recente. Pare dicano: ci avete derubato di risorse, ci avete lasciato massacrare dalle guerre senza intervenire (o facendolo al momento in cui vi conveniva): ora veniamo ad esigere il risarcimento.
La storia ci mostra come gli autori del danno si diano da fare per sottrarsi al discredito e al pagamento. E’ quanto cerchiamo, inconsapevolmente o meno, di fare, sia auspicando di selezionare/allontanare la marea, sia di integrarla (perché, si dice, c’è necessità di lavoratori e di versanti i contributi pensionistici).
Riterrei che, al di là della faccia ostile o sorridente (e relativi profluvi di parole stupide o suggestive), nessuno sappia veramente che fare. Infatti, come dicevo, non si tratta solo di gestire le emergenze degli arrivi (sempre più difficile), ma soprattutto di amministrare il lungo periodo: come stabilizzare presso di noi queste masse che affluiscono a ritmo ininterrotto? Come evitare che i migranti diventino una sorta di sottoproletariato e/o una fattore destabilizzante, che va ad aggiungersi agli altri?
Non esiste risposta perchè con gli attuali parametri economici, cioè culturali, il problema appare insolubile.
Invece nei confronti dei paesi poveri occorrerebbe attivare da parte dei paesi industriali (quindi non solo dall’Europa) tre obiettivi: a) rinunzia allo sfruttamento tramite rapporti commerciali impostati secondo equità, nonché abbuonamento(totale o parziale) dei debiti contratti verso i medesimi; b) interventi diretti (tramite capitali, invio di tecnici ed istruttori ecc.) per risollevare le loro economie e mirando innanzitutto a portarli all’autosufficenza alimentare tramite il rafforzamento dei piccoli agricoltori, puntando anche sulle produzioni tradizionali (oggi compromesse dall’agrobusines e dal land grabbing delle multinazionali agricole, quelle che han supportato l’Expo di Milano); c) interposizione, anche armata, per risolvere conflitti e guerriglie e, ove necessiti, tramite l’appoggio a quelle parti che perseguono giuste cause.
E’ chiaro che il liberismo (alias capitalismo), al di là di discorsi sulla giustizia-pace-progresso-ecc., non acconsentirà mai a vere azioni in tal senso.
Quindi se la cultura socio-economica oggi in gran parte prevalente non concepisce (pur con illusori correttivi) altro che il libero mercato, la libera impresa, la libera circolazione dei capitali, la crescita produttiva, la competitività, ecc. l’esito del fenomeno migratorio non potrà che avere (già nel breve-medio periodo) due alternative: o il blocco degli arrivi, ricacciando nei loro paesi chi viene da guerre e povertà, oppure l’insorgere di nuovi gravi problemi sociali (anche destabilizzanti), vista l’impossibilità di un’integrazione su larga scala.
Perciò anche l’esplodere dell’emigrazione evidenzia l’insostenibilità del liberismo economico.
Esso non può che venir sostituito dal socialismo: lo si dica chiaramente, al di là di reticenze e circonlocuzioni sciorinate proprio davanti alla chiave di volta del problema (quale visione alternativa?). Il discorso di Marx, rivisto e ripensato per la società e il capitalismo contemporanei, rimane il fondamento delle analisi e delle ipotesi di costruzione di una società nuova, ben diversa, certo, dalle sciagurate attuazioni staliniste e maoiste (il c.d. socialismo reale).
E’ facile bollare questa visione come puro utopismo. Ma si può allora chiedere, a chi ritiene di aver i piedi ben piantati in terra, in quale maniera venir a capo del fenomeno migratorio, o della povertà crescente anche nei paesi ricchi, o del lavoro sempre più irraggiungibile, della finanza sempre più protagonista dei destini mondiali, delle megalopoli sempre più grandi ed invivibili, degli inquinamenti crescenti e così via. Bisogna rendersi conto che il sistema liberista (del tutto anonimo, autoreferenziale e autoperpetuantesi) si regge sempre più a fatica, come dimostrano da una parte le crescenti difficoltà di accumulazione dei capitali in buona parte delle imprese, dell’altra i disastri sociali che esso origina e che ricadono sul nostro quotidiano. L’aspirazione a un cambiamento radicale non può che basarsi su questa utopia, paradigma cui debbono guardare analisi critiche della società e costruzioni di movimenti
Si dovrà cominciare da qualcosa, perché un crollo del sistema, non porta di per sé al socialismo, bensì a regressioni ancor più gravi delle attuali. Allora, da cosa? Un’avanguardia che si tiri poi dietro moltitudini? L’affermarsi di una concezione del lavoro come attività e non come produzione? Situazioni drammatiche che, destandoci dal torpore, provochino rapidi cambiamenti di mentalità? Disastri che mostrino a tutti il vero volto del capitalismo?
Come sempre nella storia, dipenderà da noi e dalle circostanze.
Potrebbero comunque porsi in essere segmenti di storia che possono far intravedere qualcosa del socialismo. Ad esempio, tornando al tema di come affrontare la fiumana migratoria, si potrebbe dire
che i profughi dalla guerra vadano accolti, sfamati, alloggiati decentemente, anche se di un lavoro (vero), così da divenir autonomi, beneficerà solo una piccola parte di loro, mentre i c.d. migranti economici andrebbero rimpatriati. Due compiti tutt’altro che agevoli da realizzare.
Ma per i rimpatriati non potrà certo considerarsi chiuso il problema; essi andranno aiutati con strategie lavorative, supportate da adeguate risorse dei paesi ricchi (risorse che in non pochi casi andranno salvaguardate dalle tasche delle oligarchie e burocrazie locali). Occorrerà un efficiente piano Europeo. Tutto questo potrebbe stare entro il sistema liberista: non lede gli interessi fondamentali del capitalismo, che tollererebbe tali azioni. C’è da chiedersi se vi sarà volontà e forza per attuarle: lo scetticismo pare d’obbligo.
Ma anche l’effettiva soluzione del problema migratorio (flussi compatibili/condizioni adeguate di vita nei paesi d’origine/pacificazioni) non può che trovarsi nel socialismo (nell’utopia).
Negli anni Cinquanta un gruppo di intellettuali francesi richiamò questa proposizione, “Socialismo o barbarie”. Poteva parere eccessiva, perché allora l’Occidente vedeva la crescita del benessere, l’affermarsi dei movimenti sindacali e l’inizio di politiche sociali, l’intervento dello Stato a regolare l’economia. La frase era invece premonitrice. Oggi lo si comincia a constatare sempre più chiaramente, se non ci si intorpidisce in egoismi e ottusità.
A fronte di quanto si svolge sotto i nostri occhi è bene ricordare quella battuta che circolava durante il 68 Francese: “Sii realista, chiedi l’impossibile”. Parrebbe solo una barzelletta surreale, ma forse l’impossibile significa semplicemente un mondo nuovo. Solo un mondo nuovo può salvare la realtà: la realtà si salva solo se si oltrepassa il realismo.