Alle radici della teoria marginalista. Una nota teorica
di Andrea Galeotti
Parte I
Il recente attacco della Corte Costituzionale Tedesca alla BCE può far “cadere dal pero” solo i più o meno consapevoli sostenitori della neutralità della politica monetaria. Sarebbe precisamente questa neutralità che le recenti misure (PEPP – Pandemic Emergency Purchase Programme) metterebbero, secondo l’accusa, fortemente a rischio. Come recentemente osservato da Brancaccio, il vero problema è che questa neutralità non esiste.
Tale neutralità è esclusivamente e rigorosamente difendibile se – e solo se – si è pronti ad accettare le fondamenta teoriche della macroeconomia neoclassica. Ovvero, la teoria marginalista del valore e della distribuzione.
Lo scopo di questa prima nota è quello di mettere a scrutinio le premesse teoriche necessarie per poter sostenere che esista una naturale tendenza a un equilibrio di piena occupazione. In una seconda nota, mostreremo come queste premesse siano necessarie anche per poter sostenere la stessa neutralità della politica monetaria. Come vedremo, in entrambi i casi, una condizione necessaria è la specificazione del capitale come un fattore di produzione omogeneo espresso in termini di valore. Ovvero, precisamente quella concezione del capitale che le controversie degli anni ’60 e ’70 hanno dimostrato essere teoricamente indifendibile.
Per rendere la discussione accessibile ma chiara, analizziamo quali siano tali premesse partendo dal caso più semplice e illustrativo di un’economia capitalistica, chiusa e competitiva.
Innanzitutto, vi è una imprescindibile premessa di partenza che riconosce l’esistenza un centro di gravità del sistema economico verso il quale, in un contesto di libera concorrenza, le forze di mercato dominanti sono spontaneamente in grado di muovere l’economia reale. Tale posizione è, dunque, il costante punto di attrazione del sistema economico attorno al quale l’economia reale gravita.
Per essere intesa come tale, questa posizione di equilibrio deve essere persistente e stabile. La persistenza garantisce che il processo di convergenza non influisca sulla posizione di equilibrio stessa. Qualsiasi sia la posizione momentanea del sistema economico e indipendentemente dall’ aggiustamento di disequilibrio che venga messo in moto, l’unico centro di gravità resta la posizione di equilibrio che la teoria può determinare a partire dei suoi dati iniziali. La stabilità, poi, completa la persistenza fornendo una giustificazione teorica alla tendenza alla posizione normale di equilibrio. Ovvero, un’analisi delle forze correttive che entrano in atto nel processo di mercato di aggiustamento verso l’equilibrio.
Quali sono i dati necessari per determinare l’equilibrio? La condizione di persistenza, come abbiamo detto, implica un’insensibilità dei dati rispetto al processo di convergenza. Ovvero, i dati devono poter essere assunti come sufficientemente persistenti. Questi, nella teoria marginalista, sono i gusti e le preferenze dei consumatori; i metodi di produzione dominanti, le dotazioni di fattori produttivi (terra, lavoro, capitale). Un’analisi in cui tali dati sono assunti come persistenti è chiaramente lo studio di un caso limite e puramente illustrativo, definito stazionario, che consente di isolare le forze di mercato dominanti e studiarne la direzione (1).
Quali sono, a partire da questi dati e in tale contesto stazionario, le forze dominanti che consentono alla teoria di argomentare la tendenza ad una posizione normale di equilibrio e che, per di più, tale posizione è una posizione di piena occupazione dei fattori produttivi?
Che l’equilibrio sia una posizione di piena occupazione (equilibrio concorrenziale) non è, infatti, come vogliamo chiarire, un’assunzione di partenza della teoria. La piena occupazione o, se vogliamo, la condizione di market-clearing non è un attributo implicito della nozione stessa di equilibrio. Al contrario, e questo sarebbe il suo vero merito, è un risultato che la teoria marginalista ritiene di poter dimostrare tramite le relazioni funzionali che essa individua come le “leggi naturali” di un sistema economico.
Quali sono queste leggi naturali? Senza correre il rischio di estrema sintesi, possiamo affermare che queste sono principalmente due, distinte ma interdipendenti.
La prima, già menzionata, è la libera concorrenza. Dobbiamo, tuttavia, sottolineare che la libera concorrenza si manifesta simultaneamente, nella teoria marginalista, in due modi distinti. Vi è la nozione di concorrenza orizzontale, condivisa a suo modo anche dagli autori classici, la quale sostiene che vi è una tendenza a una remunerazione uniforme di fattori produttivi di pari abilità (o qualità). Lavoratori di pari abilità, dunque, tendono a percepire uno stesso salario. Data tale orizzontalità, vi è, poi, la ulteriore nozione di concorrenza verticale che incontriamo esclusivamente nella teoria marginalista. Ed è questa, non a caso, ad essere fondamentale per la giustificazione teorica della tendenza alla piena occupazione.
Concorrenza verticale, infatti, implica che, dato l’impiego degli altri fattori (per esempio, terra e capitale), la quantità di un fattore (lavoro) domandata e occupata varia inversamente rispetto al suo prezzo (salario). Da qui, l’esistenza, nel mondo marginalista, di un prezzo di equilibrio (nel nostro esempio, un salario) in grado di assorbire l’intera offerta di un fattore (l’offerta di lavoro).
La seconda forza dominante è il principio marginalista di sostituzione fattoriale. Il meccanismo di sostituzione fattoriale opera direttamente nella sfera della produzione e indirettamente nella sfera del consumo. Tale meccanismo sostiene che, garantito un sufficiente grado di sostituzione tra i fattori di produzione, le imprese aumenteranno la domanda di quel fattore che risulti essere più economico o, nel caso indiretto, che i consumatori, a gusti e preferenze invariati, aumentino la domanda di quel bene per la cui produzione sia necessario un uso intensivo di quel fattore più economico.
Esiste, dunque, secondo la teoria marginalista, un sistema di prezzi relativi di equilibrio al quale ogni fattore di produzione troverà occupazione ed è precisamente questa posizione il naturale centro gravitazionale di un sistema economico. Vediamo come possa giustificarsi questa tendenza dell’economia al pieno impiego.
La tendenza alla piena occupazione di un fattore può essere giustificata come il risultato delle due forze dominanti che abbiamo messo in evidenza. Immaginiamo una situazione in cui alcuni lavoratori sono momentaneamente involontariamente disoccupati (l’involontarietà sottintende che essi sarebbero disposti a lavorare al livello di salario corrente), mentre gli altri fattori (capitale, terra) sono pienamente occupati.
In questa situazione, solo i lavoratori disoccupati, come suggerisce la concorrenza verticale, sono insoddisfatti e hanno un incentivo reale a cambiare la loro condizione. In accordo con il principio di sostituzione fattoriale, data la piena occupazione degli altri fattori, è possibile derivare una curva di domanda del lavoro la cui pendenza negativa e la cui sufficiente elasticità confermano ciò che in tale situazione la concorrenza verticale suggerisce: i lavoratori involontariamente disoccupati eserciteranno una pressione competitiva per una riduzione del salario. Questa riduzione sarà sufficiente per indurre le imprese a modificare la loro domanda di lavoro, risultando il fattore lavoro adesso più economico, e, così, ad aumentare il loro volume di produzione. Tale pressione e riduzione del salario continueranno fintanto che tutta la forza lavoro sarà pienamente occupata dal momento che solo in tale posizione cesserà la pressione al ribasso sul livello dei salari. Se tutti sono occupati, o meglio, se nessuno è involontariamente disoccupato, tutti sono soddisfatti.
Perché questa spiegazione sia teoricamente plausibile la teoria necessita fra i dati persistenti della specificazione in termini di quantità-valore del fattore capitale. Innanzitutto, questa è necessaria per poter dar credibilità al grado di sostituzione fattoriale che la teoria necessita. Dal momento che a differenti quantità di lavoro devono essere adattati nuovi ed eterogenei beni di capitale, se la teoria prendesse tale composizione fisica del capitale come data, il funzionamento del principio sarebbe drasticamente ridotto e non sarebbe più sufficiente per poterne derivare una tendenza dell’economia a una posizione di piena occupazione.
Inoltre, abbiamo visto come questa stabilità dell’equilibrio sia contingente alla sua persistenza. Dunque, se non si potesse specificare la dotazione del capitale come un dato permanente la cui composizione è però endogena e variabile, la teoria dell’equilibrio economico generale perderebbe appunto la sua generalità. La posizione di equilibrio diventerebbe sensibile al processo di convergenza e perderebbe la sua fondamentale proprietà di centro gravitazionale dal momento che ogni aggiustamento di disequilibrio sposterebbe il centro di gravità del sistema stesso.
Questa specificazione del capitale è stata dimostrata come teoricamente indifendibile (2). Oltre alle conseguenze radicali che essa ha per le premesse sulle quali si fonda l’intera teoria marginalista del valore e della distribuzione (3) – senza il capitale-valore non si ha più motivo di sostenere che il centro di gravità dell’economia sia una posizione di piena occupazione e che questo possa essere giustificato tramite il principio di sostituzione fattoriale – , vedremo nella seconda parte come tale nozione marginalista del capitale sia premessa necessaria per poter sostenere la stessa neutralità della politica monetaria.
Parte II
Lo scopo di questa seconda parte (che completa il più ampio approfondimento teorico della prima parte) è quello di concentrarsi su un aspetto che ci consentirà di capire come i risultati teorici della controversia sul capitale siano rilevanti per comprendere le premesse teoriche necessarie della cosiddetta neutralità della politica monetaria.
La variabile di aggiustamento nel mercato del capitale è, negli autori marginalisti tradizionali (4), il tasso di interesse. Secondo la teoria dei fondi prestabili esisterebbe, infatti, un tasso di interesse naturale in grado di equilibrare il mercato degli investimenti, inteso come la domanda di nuovi beni di capitale, e il mercato dei risparmi. In breve, un eccesso di offerta nel mercato dei risparmi indurrebbe una diminuzione del tasso di interesse che, a sua volta, stimolerebbe l’investimento secondo l’elasticità inversa che appunto caratterizza, come abbiamo accennato, le curve di domanda dei fattori nella teoria marginalista. Il tasso di interesse è inteso come il costo del capitale e, come la curva di domanda predice, ad un minore tasso di interesse corrisponderà dunque una maggiore domanda di capitale(investimento) e viceversa.
La critica di Keynes (5) ha tentato precisamente di invalidare questo meccanismo di pieno aggiustamento del livello di investimento al livello dei risparmi. In Keynes, l’investimento è componente autonomo della domanda aggregata e il tasso di interesse non è più la variabile di aggiustamento tra investimento e risparmi. Al contrario, il tasso di interesse si determina nel mercato del denaro. Diventa qui quella variabile in grado di livellare la domanda di denaro speculativa con l’offerta di denaro disponibile nell’economia.
Tale tasso di interesse, poi, secondo la efficienza marginale del capitale induce un dato livello di investimento, che sarà maggiore (minore) se il tasso di interesse è minore (maggiore). Non c’è più nessun meccanismo a garantire che tale livello di investimento sarà precisamente quello in grado di generare una produzione e una domanda aggregata corrispondenti al livello di piena occupazione. La posizione di equilibrio è solo una delle possibili posizioni di equilibrio di un sistema economico. Equilibrio inteso appunto come centro gravitazionale e non, come abbiamo sottolineato altrove, come posizione di market-clearing generale.
Come Garegnani (6) ha sottolineato, l’errore di Keynes è, tuttavia, nel non aver rifiutato la relazione inversa propria della teoria marginalista tra variazioni del tasso di interesse e variazioni nel livello di investimento (o, per il fattore lavoro, tra domanda di lavoro e salario reale (7)). Relazione la cui giustificazione teorica, ricordiamo, consiste unicamente nel poter esprimere in termini di valore la dotazione del fattore capitale e poter derivare, così, curve di domanda di fattori decrescenti e sufficientemente elastiche. Questa rottura incompleta con la teoria marginalista ha concesso con relativa facilità quel processo di re-integrazione del pensiero di Keynes che oggi si definisce come la sintesi neoclassica.
Introduciamo qui come esempio quella fornita da Patinkin (8) con il suo real balance effect (effetto di reddito). Prendiamo questa in esame in quanto, come vedremo, essa mostra come la politica monetaria possa essere considerata, a breve termine, un sostituto dell’effetto di reddito in situazioni di crisi e depressione economica. Essa, infatti, agevolerebbe il processo di aggiustamento e consentirebbe in modo più rapido di ristabilire la posizione ottimale di equilibrio. Se è vero, come sostiene la teoria, che l’effetto di reddito tenderebbe a stabilire spontaneamente tale posizione, è altrettanto plausibile però che questo meccanismo di aggiustamento agisca più (se non troppo) lentamente con il rischio che la “fluttuazione fuori dall’equilibrio” dell’economia perduri e abbia effetti drastici e permanenti. In altre parole, che il centro di gravità del sistema economico e il suo raggiungimento vengano direttamente e irrimediabilmente compromessi.
L’effetto di reddito in un contesto di depressione economica è quello che in un’economia competitiva innescherebbe, secondo Patinkin, un processo deflazionistico in grado di restaurare una domanda aggregata, composta nel caso “semplice” qui considerato esclusivamente da consumo e investimento, tale da ristabilire una posizione di piena occupazione e, perciò, quel livello di attività economica in grado di equilibrare tutti i mercati, quello del prodotto e i mercati dei fattori. Vediamo come.
Una diminuzione del livello dei prezzi stimola direttamente la propensione al consumo. Data l’offerta di denaro in un’economia, se i prezzi calano noi, in quanto consumatori, possiamo permetterci, a reddito invariato, di comprare di più e quindi aumentare il nostro consumo di beni finali. In altre parole, aumenta il nostro reddito reale. Una deflazione indirettamente stimola anche il livello di investimento. Anche se assumiamo, come vorrebbe Keynes, che i risparmi non si traducano immediatamente in investimenti ma solo in un aumento della domanda di denaro per motivi speculativi, una caduta del livello dei prezzi creerà in ultima istanza un incremento di domanda nel mercato delle obbligazioni, anch’esso dovuto all’aumento del reddito reale.
Una volta che si sarà creato un eccesso in tale mercato, il tasso di interesse diminuirà e in tal modo verrà stimolato l’investimento. Questo processo deflazionistico, tuttavia, potrebbe essere inerentemente instabile in quanto una caduta continua e prolungata del livello dei prezzi (e dei salari, e del tasso di interesse) potrebbe portare a un punto di non ritorno. Per esempio, se noi imprenditori ci aspettiamo che domani i salari o il tasso di interesse saranno più bassi di quelli di oggi, rimanderemo a domani quell’espansione dell’attività economica necessaria per stimolare la domanda aggregata. Domani faremmo lo stesso e così via fino a un punto di non ritorno. La depressione economica, perciò, si auto-alimenterebbe anziché correggersi.
Per evitare questa instabilità del processo di aggiustamento che l’effetto di reddito suggerisce, dunque, Patinkin propone l’intervento attivo di una Banca Centrale come sostituto equivalente per superare una temporanea situazione di depressione economica. La Banca Centrale, tramite le sue operazioni a mercato aperto e acquisto di titoli, può direttamente anticipare quella diminuzione del tasso di interesse necessaria per stimolare il livello di investimento. Diminuzione che non deve più aspettare che si inneschi un processo deflazionistico che, abbiamo detto, rischierebbe di allontanare irrimediabilmente i prezzi dal loro livello normale di equilibrio.
Tramite le sue operazioni la Banca Centrale può artificialmente modificare l’offerta di liquidità disponibile nell’economia, la quale, come abbiamo visto, comporta keynesianamente variazioni del tasso di interesse. Variazioni che poi, in accordo con la teoria marginalista, inducono spontanee variazioni inverse sul livello di investimento. Mantenendo la stabilità dei prezzi, quindi, il merito di tale politica monetaria intrapresa da una Banca Centrale sarebbe soltanto quello di accelerare un processo che in un’economia perfettamente concorrenziale (no incertezza, no influenza delle aspettative) l’effetto di reddito non avrebbe nessun ostacolo a mettere rapidamente in atto. Ovvero quel processo di aggiustamento in grado di restaurare una domanda aggregata al suo livello di piena occupazione:
by a primary reliance on a manipulated lowering of the rate of interest, aggregate demand might be raised to its full-employment level without any prior decline in prices. […] such a decline would itself be taken as evidence that the rate of interest had not been lowered sufficiently
(Patinkin, D. Money, Interest and Prices, p. 336).
L’azione di una Banca Centrale, dunque, ha sì un effetto correttivo che influisce sull’attività economica reale in quanto permette di uscire da una depressione e tornare al normale livello di piena occupazione, ma tale effetto reale non è permanente. In altre parole, è solo uno strumento tecnico che non altera il centro di gravità del sistema economico. Da qui la sua neutralità, da qui la legittimazione di una Banca Centrale indipendente.
Ma tale neutralità è il risultato precisamente di quella relazione inversa tra il tasso di interesse e il livello di investimento giustificata esclusivamente dalla premessa che sia possibile derivare la tradizionale curva di domanda di capitale. Curva di domanda la cui derivazione si basa necessariamente sulla specificazione del fattore capitale in quei termini di quantità-valore che le controversie degli anni ’60 hanno da tempo dimostrato come teoricamente indifendibile. Se, dunque, siamo pronti a riconoscere l’inconsistenza della teoria marginalista dell’investimento, allora dobbiamo anche simultaneamente riconoscere la agognata neutralità della politica monetaria come teoricamente infondata.
Questa neutralità della politica monetaria è plausibile solo se ci accettano le premesse di cui la controversia del capitale nega la plausibilità teorica. Ovvero:
- l’esistenza di un centro di gravità del sistema economico caratterizzato da un equilibrio di piena occupazione dei fattori produttivi
- l’esistenza di un tasso di interesse naturale in grado di garantire un livello di investimento tale da mantenere la domanda aggregata al livello di piena occupazione
Per concludere, se siamo pronti a riconoscere questo apparato teorico come l’unica possibile giustificazione, per quanto implausibile, all’indipendenza della BCE come organo imparziale il cui unico scopo è quello di perseguire la stabilità dei prezzi, allora dobbiamo concludere che la questione non è se una misura eccezionale come il PEPP possa superare o meno il limite della pattuita “neutralità” ma, a ben vedere, che questo limite non esiste, ora come sempre. Dobbiamo mettere in discussione, pertanto, le fondamenta teoriche di un’istituzione come la BCE per poterne comprendere le misure. Sono le prime, infatti, a giustificare e legittimare quest’ultime.