Circa Emiliano Brancaccio, “Catastrofe o rivoluzione”
di Alessandro Visalli
L’economista Emiliano Brancaccio è sicuramente un punto di riferimento nel panorama dell’economia critica italiana ed un militante impegnato nel campo della sinistra radicale. Il testo che qui si commenta è stato pubblicato[1] dalla rivista “Il ponte” e nel libro “Non sarà un pranzo di gala”[2]. Si tratta di un testo sicuramente ambizioso e notevolmente denso, nel quale l’economista dell’Unisannio compie lo sforzo di sistemare la linea dei suoi studi recenti[3] e dargli uno sbocco politico più esplicito. Già in “L’austerità è di destra”[4], nel 2012, la tesi che in questo testo assume ruolo di gran lunga centrale, quella della tendenza alla concentrazione dei capitali, era presente con esplicito riferimento al classico marxista di Rudolph Hilferding[5], come una robusta critica dell’Unione Europea a guida tedesca e della logica dell’austerità. In quel testo Brancaccio prendeva anche posizione con decisione contro il “liberoscambismo di sinistra”, in parte a suo parere risalente allo stesso Marx del 1848[6], e contro quella che giustamente chiamava la “sudditanza verso il dogma liberista della totale apertura dei mercati”[7], contestando nell’ordine la tesi che l’apertura favorirebbe i paesi poveri (mentre ne aumenta la dipendenza) e quella che sarebbe garanzia di pace. Quale conclusione proponeva controllo del movimento dei capitali, standard europei sul lavoro e pianificazione per porre sotto controllo i meccanismi di formazione dei prezzi e di allocazione delle risorse e degli investimenti. Quindi la creazione da parte dello Stato di nuova occupazione “di prima istanza”. Tutte azioni per attuare le quali, scriveva, c’è bisogno di una “chiara esplicitazione di una strategia di uscita dal conclamato fallimento dell’Europa di Maastricht”[8].
Ad otto anni di distanza le soluzioni di “repressione finanziaria”, di controllo democratico della regola di solvibilità oggi nelle mani dei soli banchieri centrali, l’ingresso dello Stato negli assetti proprietari, il controllo della bilancia dei pagamenti sulla base di “standard sociali” (e dunque forme di protezione), proposte negli anni dal nostro[9], sono ormai viste come potenzialmente reazionarie. Dunque Brancaccio si ritrae e si rifugia nella speranza in quella che chiama una pratica yawara: rivolgere l’impeto dell’avversario contro lo stesso, rovesciandolo con la sua stessa forza.
La mossa è chiara nel caso della lotta, ma più di centocinquanta anni da quando è stata concepita dallo stesso primo Marx, e messo in dubbio dall’ultimo[10], non la rendono oggi più chiara nella sua applicazione ai sistemi sociali e politici. C’è un tono decisamente familiare nel modo di argomentare di Brancaccio, un tono che mi si scuserà ma leggo come scolastico. La via di uscita è sempre la stessa, aumentare la concentrazione del capitale, creare la classe rivoluzionaria come suo sottoprodotto necessario[11], e saltare con un balzo di tigre nella pianificazione generale delle forze produttive. Solo che ora, nelle ultime pagine, queste sono sia totali sia libere. Non molto chiaro come (probabilmente si allude ad un necessario impero mondiale).
Ma andiamo con ordine, il mondo tende verso la “catastrofe”. E questa diagnosi è proposta dall’economia in quanto “scienza generale”, capace di previsione. Per sostenere questa tesi di sapore neopositivista il nostro si appoggia all’autorità prima di Milton Friedman[12], poi di Althusser. Fatto sta che con la prima di molte affermazioni dense di pretesa di autorità, il nostro “decreta” niente di meno che “la pretesa a pieno titolo dell’economia nell’empireo della scienza tout court”. La cosa gli serve perché intende porre alla base della sua costruzione politica un’affermazione forte di esistenza di una dinamica nel mondo e di “leggi” di sviluppo dello stesso meccanicamente necessarie. E, cosa importante e ben connessa con la proposta di Friedman, una spiegazione capace di produrre una previsione (invero eroica) sulla base di un numero molto limitato di assunzioni. Si tratta di quello che Paul Samuelson chiamò il “F-Twist di Friedman”: “per essere importante, quindi, un'ipotesi deve essere descrittivamente falsa nei suoi assunti; essa non tiene conto di, e rappresenta, nessuna delle molte altre circostanze presenti, sin dal suo stesso successo dimostra che esse sono irrilevanti per i fenomeni da spiegare”[13]. In altre parole, sembra di capire, la teoria è buona se attiva una semplicità performativa, o, con le stesse parole dell’economista di Chicago: “paradossalmente, la questione rilevante per chiedere sulle ‘ipotesi’ di una teoria non è se sono descrittivamente ‘realistiche’, perché esse non lo sono, ma se sono approssimazioni a sufficientemente buone ai fini in campo. E questa questione può essere risolta solo dal vedere se la teoria funziona, il che significa se si producono previsioni sufficientemente accurate”. Una concezione che Mark Buchanan, in “Previsioni”[14], giudica semplicemente “folle”. Una linea di giustificazione che, peraltro, e questo mi spiace dirlo vale anche per questo testo, scivola nella disciplina economica dal difficile criterio della verifico post-factum delle previsioni alla più confortevole “accettabilità” ante-factum delle conseguenze previste[15].
Ma in generale, sia nei riferimenti marxiani sia in quelli neopositivisti, l’intero argomento ha un sapore inconfondibilmente riduzionista, economicista e meccanicista, addirittura rivendicato. Collocandosi in questo modo, in effetti, nel solco del secondo internazionalismo che pure critica per alcune sue rigidità. Più che di Marx, che coltivava robusti dubbi, qui si è nella scia di Engels (che li teneva per sé).
Insomma, seguiamo le parole stesse, in quanto particolarmente chiare:
“è venuto alla luce uno snodo della moderna scienza economica critica che forse, una volta superato, consentirebbe di compiere qualche concreto passo avanti nell’ancora pressocché inesplorato continente della storia. Lo snodo a cui mi riferisco è l’esigenza di stabilire un collegamento fra la teoria della ‘riproduzione’ e della crisi capitalistica da un lato, e la teoria delle leggi di ‘tendenza’ del capitale dall’altro”[16].
Il punto di connessione tra la riproduzione del capitale e la tendenza alla crisi e la tendenza alla concentrazione, è rintracciato “al livello della struttura economica capitalistica” e quindi di qui risale a tutti i livelli sociali e politici. Con questa concettualizzazione, invero molto tradizionale, del rapporto tra “struttura” e “sovrastruttura” nel seguito spegnerà in un sol colpo ogni possibile obiezione e/o manifestazione di controtendenza. La legge è indefettibile e invincibile nei suoi effetti.
Per mostrare la tendenza alla concentrazione del capitale, invece di utilizzare metodi marxiani di carattere logico/empirico, ma riferiti evidentemente ad un’altra epoca del mondo[17], l’autore spende alcune pagine a ricostruire la proposta in tal senso di Thomas Piketty nel suo classico del 2014[18]. La disuguaglianza fondamentale creata dal differenziale necessario (ma dal nostro proposto sulla base di argomenti fondamentalmente empirici) tra il tasso medio di rendimento del capitale e il tasso medio di crescita del reddito. Il punto di connessione tra la teoria della riproduzione, fondata sulla solvibilità, e la tendenza alla concentrazione si colloca qui. Più alto è il differenziale (che per Piketty è necessario e comunque storicamente presente) tra il tasso di interesse e quello di profitto più, è evidente, i debitori saranno in crescente difficoltà a sostenere la solvibilità dei prestiti. Cioè sarà “più difficile onorare i debiti accumulati”.
Thomas Piketty, "Il capitalismo del XXI secolo", figura 10.9
Ma allora ne seguirà una tendenza alle insolvenze, alle bancarotte ed agli accorpamenti dei capitali più deboli, e il loro assorbimento da parte dei più forti. Questo è “per l’appunto, il moto della centralizzazione capitalista”.
Primo snodo dell’argomentazione:
“I dati indicano che questo moto di centralizzazione è ancora frastagliato, con varianti nazionali e geopolitiche, ma che almeno in potenza non ha limiti e confini. Ed è per questo in grado di estendersi all’intero pianeta”.
In questo passaggio, per ora mitigato prudentemente da un “almeno in potenza”, è contenuto l’intero modello mentale riduzionista proprio della disciplina economica. Intanto questa posizione, potentemente ricostruttiva e fondamentalmente intrecciata ad assunzioni morali (come risulta chiaro dalla lettura dell’insieme del testo) è fatta risalire “ai dati”. Quindi un fenomeno “frastagliato” (eufemismo per dire che è una mera ipotesi ricostruttiva per la quale non ci sono sufficienti evidenze) è senza limiti perché l’economico è la struttura cui sociale e politico devono adeguarsi.
E questi sono, niente di meno, “i tratti essenziali della legge di riproduzione e tendenza”. Ovvero la natura del mondo.
Quando si enuncia una tendenza, Marx docet, si ha cura di illustrare anche le “controtendenze” che la possono tenere sotto controllo e/o invertire. Dunque quali sono qui? Ovvero, in altre parole, la centralizzazione quali reazioni può indurre? È presto detto, si tratta del fenomeno più macroscopicamente presente sulla scena contemporanea ed alla radice stessa del mutamento di tono del nostro:
“i capitali più piccoli e più fragili, a rischio di liquidazione e assorbimento, possono tentare di organizzarsi per imporre al banchiere centrale e alle altre autorità di governo una linea politica orientata a mitigare le condizioni di solvibilità e a contrastare la dinamica della centralizzazione”.
Bene, si potrebbe dire; infatti se tutti gli alberghi italiani falliscono e vengono assorbiti dalla catena Hilton ne deriverebbe un’enorme espulsione di lavoratori, espropriazione di capitale di parte dei ceti medi italiani, svuotamento dell’indotto o sua centralizzazione in condizioni ancora più deboli e subalterne (essendosi formato un monopsonio[19]), e via dicendo.
Ma per Brancaccio non è bene contrastare questa tendenza naturale del capitale a concentrarsi. Infatti, da una parte la cosa è letta come “lotta tra capitali”, anzi è “tutta interna alla classe capitalista” (come se non ci fossero differenze tra il gestore di una pensione e la multinazionale Hilton), dall’altra le famose, ma mai esplicitate, “evidenze” mostrano che questa controtendenza non sarà mai in grado di “sovvertire la tendenza centralizzante di fondo”.
Liquidata in questo modo la “controtendenza” (in realtà ci tornerà, proponendo il vero argomento per il quale questa non deve prevalere: il suo carattere “reazionario”), Brancaccio sostiene che questa “legge” è sufficiente a diagnosticare la tendenza di sistema verso la “catastrofe”. Una catastrofe che va anche oltre l’economico, per coinvolgere il sociale ed il politico. L’argomento è semplice: man mano che il capitale si concentra con esso si polarizza la società e si creano regimi antidemocratici. L’economico è quindi il primum movens che produce effetti secondari sul sociale, creando come vedremo l’affossatore, e sul politico, neutralizzando altre possibili controtendenze. Il sociale ed il politico sono interamente sussunti nell’economico, o, almeno, nelle sue “leggi di tendenza fondamentali”.
Ripercorrendo questa sorta di manualistica marxista (alquanto tradizionalista, a dirla tutta[20]) Brancaccio attacca la possibilità stessa che il politico prenda una rivincita, mettendo in campo il mix di politiche di maggiore successo storico per affrontare crisi di questo genere: quello keynesiano. L’autore che al tempo del suo testo con Passarella non sembrava completamente ostile a politiche di controllo anticiclico ora sostiene un curioso argomento: autori come Blachard e Summers accoratamente richiedono una svolta nelle politiche economiche di sapore keynesiano (politiche fiscali e monetarie espansive, controlli sui capitali, estensioni del welfare e forme di reddito di esistenza) che potrebbero essere “di non poco conto”, ma che, sostiene, non sono oggi praticabili perché all’epoca erano state messe in campo come controtendenza nel contesto del conflitto con il modello sovietico[21]. Insomma, nel periodo 1930-70 queste erano state “un oggetto politico, prima che teorico” (e politico prima che economico, aggiungerei). In definitiva seguendo questo esempio storico prolungatosi per oltre un quarantennio e in buona parte del mondo si potrebbe ricavarne una confutazione del determinismo pikettiano e brancacciano. E’ al fine possibile che la politica sopravanzi e sussuma l’economico, almeno in parte.
Ma per i nostri ora non può più succedere.
Bisogna soffermarsi perché il punto è cruciale: il vero e proprio interdetto politico intorno al quale il nostro fa girare il suo testo risalta in questo passaggio. Perché ora non può succedere? La risposta vorrebbe essere fattuale, ora non c’è più una sfida strategica a quel livello. Tuttavia, in un testo del 2020, scritto nel corso della pandemia da Covid-19 resterebbe da chiedere che ne è della Cina. È impossibile dimenticare il macrofenomeno epocale di transizione di potenza in corso e la ripresa crescente del clima di contrapposizione da guerra fredda. Infatti, Brancaccio, alle prese con un elefante in uno sgabuzzino, lo chiede. Ma la risposta è semplice, netta e apodittica “per adesso di quel grande conflitto di sistema non c’è traccia nel mondo”. Punto.
Con ciò la possibilità che vengano messe in campo politiche di controtendenza espansive è liquidata.
Non esistono controtendenze possibili e di successo. O meglio, ci sono o ci potrebbero essere. Tuttavia le seconde potrebbero ma non sono (l’insorgere di un mondo multipolare e di uno scontro di sistemi) le prime sono, proprio ora e qui, ma hanno segno “reazionario”. Ecco che compare il nemico contro il quale è speso l’intero testo. È comparso un rischio tra il 2012 ed il 2020. La politica keynesiana potrebbe presentarsi in senso diverso: “non rivoluzionaria ma reazionaria”. Ovvero potrebbe essere messa a servizio dei capitali più deboli e fragili, per rallentare la centralizzazione da parte dei capitali più forti. In altre parole, siamo alle viste di un possibile mutamento delle politiche economiche, ma queste sarebbero usate dal capitale (come sempre, del resto).
Da qui il testo fa uno scarto. Lavorando sul margine di una contraddizione interna all’assiomatica posta, infatti, per Brancaccio “il tasso di rendimento del capitale ed il tasso di crescita del reddito non è la risultante di un equilibrio ‘naturale’ ma è piuttosto l’esito di decisioni macroeconomiche”. Insomma, la “legge” non è tale. O, almeno, non è una “legge” in senso delle scienze naturali, come l’autore sembrava porre all’avvio, ma è a questo punto una “legge” nel senso delle scelte politiche. Secondo la vecchia distinzione di Neville Keynes, ripresa da Friedman, normativa e non descrittiva. Scopriamo ora che la tendenza può essere contrastata efficacemente, vittoriosamente, se il banchiere centrale manovra per tenere sempre il tasso di interesse sotto il tasso di crescita. Che è quel che sta accadendo. Questa operazione sarebbe, insomma, una sorta di elicopter money per la borghesia e non per il popolo.
Questo passaggio del testo è difficilmente armonizzabile con l’insieme. Tutta la prima parte era rivolta a fondare una “legge di tendenza” del capitalismo in quanto tale, lungo i suoi cinque secoli e i cinque continenti. La seconda a escludere o interdire moralmente le possibili controtendenze. Ora si scopre che non è “legge” nel secondo senso di Friedman, ma nel primo normativo e quindi frutto della politica. Ma di una politica malata, che va a vantaggio dei soli capitali arretrati (come vedremo) e non del “popolo”. Come se l’alternativa della indefinita concentrazione di tutte le attività in poche mani fosse per il popolo. O si?
Vedremo dove salta fuori il coniglio.
Dunque la “tendenza” può essere soverchiata. Indefinitamente? Brancaccio crede di no (del resto cosa è infinito ed illimitato?). Potrebbe essere rallentata, ovvero trasformata in una contesa violenta tra nazioni (qui il nostro si deve essere dimenticato che nel 2012 contrastava l’argomento che la piena liberalizzazione, e dunque concentrazione, fosse vessillo di pace, mentre la protezione di guerra). Accadrebbe ora che, da una parte, “capitali mediamente solvibili, più grandi e sempre più ramificati a livello internazionale” e dall’altra “capitali più piccoli ed in affanno che operano invece maggiormente entro i confini della nazione e per questo tendono ad identificarsi più facilmente in essa” entrerebbero in scontro. I primi (evidentemente basati su Marte[22]) sarebbero “progressisti” ed i secondi revanscisti, reazionari, xenofobi e al limite fascistoidi. Si tratterebbe di un “rinculo keynesiano” nel quale “la reazione può farsi nazione”, o quanto meno “può chiudere la tendenza alla centralizzazione del capitale entro gabbie geopolitiche”.
Ma che cosa è successo all’autore che otto anni fa criticava la mondializzazione capitalista e la “mezzogiornificazione”? E’ accaduto che, per usare una formula sintetica a suo parere “nello scontro tutto interno alla classe capitalistica, Keynes può muovere contro Marx”. Ovviamente contro il Marx del 1848 e anni immediatamente seguenti[23].
Eppure per il nostro la legge di tendenza enunciata è mossa dalla logica speculativa del capitale, produce sistematicamente inefficienza sistemica, distruzione dell’ambiente e della natura, soffoca le libertà. Il moto profondo, descritto dallo schema di struttura altamente astratto e scheletrico proposto, minaccia, in altre parole, la stessa sopravvivenza delle istituzioni ed è autoprogrammato. Punta alla catastrofe, identificata con la proletarizzazione generale e con la plutocrazia imperante, e induce come unica risposta, ma da rigettare anche essa, una svolta keynesiana di tipo “reazionario”, in quanto volta a salvare ceti medi e piccoli capitali dalla rovina.
Come se ne esce? Con quello che chiama un “vincolo epistemologico” (è interessante che lo schematismo sia “epistemologico”):
“in ultima istanza tutto deve scaturire dallo schema: come la linea verso la catastrofe è una risultante della legge di riproduzione e tendenza, così dovrebbero esserlo anche i suoi eventuali sovvertimenti”[24].
Una simile mossa, appunto di judo, avviene perché la tendenza alla concentrazione, quando indefettibilmente prevale, distrugge i ceti intermedi e polarizza la società (è la vecchia tesi marxiana della proletarizzazione, solo con parole leggermente diverse). E quindi distruggendo i “piccoli capitalisti, ceti medi più o meno riflessivi, borghesia minore, esponenti delle professioni, quadri privati e pubblici, padroncini e rentiers marginali”, li spinge nei ranghi dei ceti subalterni. Un moto che “sul piano della logica è destinato ad imporsi”.
Ma se tutti diventeranno proletari, allora diventeranno omogenei. Ecco il passaggio.
“infine la polarizzazione sembra assumere anche i tratti di una tendenziale uniformizzazione delle condizioni della classe subalterna. È una dinamica che avvicina le condizioni di vita e di lavoro a livello internazionale, generalmente dando luogo ad una convergenza verso il basso”.
La concentrazione, qui sembra proprio di leggere Marx che scrive centocinquanta anni fa:
“inesorabilmente, tanto tende a concentrare il potere di sfruttamento in poche mani quanto tende a livellare le differenze tra gli sfruttati. Che si tratti di nativi o di immigrati, uomini o transgender, man mano che si sviluppa il capitale tratterà questi soggetti in modo sempre più indifferenziato, come pura forza lavoro universale”.
Insomma, sembra che stia parlando della concentrazione degli ex artigiani e contadini nelle fabbriche a Manchester. Segue del resto un breve passo ripreso, pari pari, dal famosissimo brano de “Il Manifesto” sulla dissoluzione dei legami comunitari. La conclusione è quella cui siamo abituati: il movimento di proletarizzazione e di universalizzazione del lavoro mette in crisi le vecchie istituzioni, disintegra i legami di famiglia, allenta i confini nazionali, abbatte gli antichi equilibri sociali basati su genere e razza, intensifica lo sfruttamento ma rende tutti eguali. Quindi ha un aspetto “progressivo e universalistico”.
Perché, si capisce, essere tutti eguali è per definizione “progressivo”.
Inoltre, appunto come Marx al suo tempo e al suo stato delle tecniche vedeva, la legge del capitale “implica un progressivo assorbimento di nuova forza lavoro nel processo di accumulazione”. Come fa Brancaccio a scrivere questo, quando la concentrazione in occidente sta facendo a tutta evidenza da decenni l’esatto contrario (e per questo tende a ridurre i ceti medi)? Tenta questa magia, necessaria all’ordine del suo discorso, perché, con un inavvertito trucco, sposta subitaneamente il focus e lo allarga alla “macchina capitalista mondiale”. Peraltro, da tempo non è più vero neppure a questo livello, dato che la classe lavoratrice mondiale è ormai da tempo la maggioranza dell’umanità tutta, ma non fa nulla. Ci sarà pure qualche “sperduto angolo del mondo” non ancora raggiunto…. Ecco lì ci sarà un assorbimento.
E quindi “con questo ingresso nel sistema, la forza lavoro muta in ingranaggio, pezzo indistinguibile della macchina, operaiato”. Richiamando in pochi righi toni post-operaisti fuori tempo massimo ne deriva la diagnosi che siamo tutti “attaccati alla macchina” e tutta la nostra vita diventa tecnica. Si attiverebbe una “colonizzazione capitalistica delle esistenze”. Ne emergerebbe un uomo nuovo.
Un uomo preso e creato da un “grande meccanismo” (lo chiama proprio così), che ha “ingranaggi” ben attaccati “all’albero motore” della legge di riproduzione e tendenza e alla sua “logica di movimento”. Una logica che non ammette esodo ed è “insensibile alle correzioni di rotta”. In realtà, andando in fondo al testo, come abbiamo visto, l’argomento decisivo non è che sia “insensibile”, o non si possa dare, quanto che la logica in specie è “progressiva” e queste sarebbero “regressive”, dunque va rigettata. La diagnosi è netta:
“nel grande meccanismo la rivoluzione keynesiana si riduce a mera reazione piccolo borghese, e con essa le propaggini del reddito di esistenza o della moneta per il popolo”.
E’ qui, dunque, quando tutto è perduto, tra completa vittoria del capitale nell’immane concentrazione per la quale alla fine uno solo possederà l’intero pianeta, e tutti gli atri ne saranno servi (peraltro poverissimi), e la reazione retrograda e guerrafondaia, che Brancaccio inserisce la sua mossa di judo.
“Adeguarsi alla forza avversa, quindi sfruttarla per piegarla in avanti, fino ad ottenere il suo rovesciamento e il suo controllo.”
Chiaro quando si assiste ad un saggio ginnico. Mossa elegante, subitanea, decisiva.
Ma cosa significa in questo diverso contesto? Il testo di Brancaccio da questo punto si fa allusivo, evanescente. Si tratterebbe in sostanza di utilizzare il fatto che il movimento del capitale “oggettivamente erode le eterogeneità tra i subalterni, concretamente rideterminando la loro universalità” e quindi per questa via “apre opportunità politiche inedite”.
Ora, quando Marx scriveva queste cose eravamo alla metà del 1800, sono passate parecchie cose. Abbiamo avuto l'espansione imperialista dell'ultima parte del secolo, le guerre mondiali, la trasformazione del capitalismo imperniato sulla fabbrica e il mercato in capitalismo monopolistico, lo sviluppo delle tecniche, la risposta keynesiana e la controrivoluzione liberale, la prima finanziarizzazione di fine ottocento, il crollo degli anni venti e la rifinanziarizzazione degli anni settanta e seguenti, la democratizzazione e la post-democratizzazione, la disgregazione del lavoro, la terziarizzazione, la rivoluzione informatica e il post-fordismo (prima avevano avuto il fordismo), l'espansione e ora il declino dell'impero americano (e prima di quello inglese). Insomma acqua ne passa sempre sotto i ponti.
Ma oggi, 2020, non è chiaro in che senso:
“man mano che il capitale si ammassa nelle mani di un manipolo sempre più ristretto di capitalisti, man mano che il loro potere si concentra e ci si avvicina alla catastrofe della liberaldemocrazia, diventa al contempo sempre più difficile frastagliare gli interessi della classe subalterna, e risulta sempre più oneroso l’antico esercizio macedone del dividere per dominare. In una impersonale eterogenei dei fini, mentre cresce la potenza del capitale centralizzato, monta al contempo la fragilità del suo monopolio politico. Più vicina la catastrofe, più vicina è l’occasione di una svolta”.[25]
Ma se questo è posto allora si tratta di costruire una nuova intelligenza avanguardista. Nemica di ogni “codismo”, sia di quello che va dietro a “l’ammorbante, continuo vezzeggiamento del cosiddetto ceto medio”, e quindi alle “reazioni” piccolo borghesi, “con le sue tipiche suggestioni bigotte, familiste, ultranazionaliste, intrise di illusioni del populismo interclassista, e che conduce fuori delle contraddizioni di fondo del sistema”. Va dietro “al passato che resiste”. E che resiste proprio alla polarizzazione, all’uniformizzazione di classe e allo sviluppo di un nuovo capitale umano che “creano le condizioni concrete per il cambiamento”.
Nemica anche dell’opposto “codismo” che va dietro ai grandi capitali (la strada della sinistra mainstream).
Come si esce da questo ginepraio? Evocando appunto un’avanguardia ed una pratica: la “pianificazione”. Anzi la “pianificazione collettiva”. Una Pianificazione che è sia “collettiva” sia “moderna”, ovviamente. Anzi specificamente “moderna” (dato che è l’idea centrale del socialismo reale che certo il nostro non ama) perché sintetizza la “pianificazione collettiva” con la “libertà individuale”.
Per cercare di descriverne il senso, ancora una volta Brancaccio si limita a citare Marx e il suo noto concetto di controllo collettivo della totalità delle forze produttive, e suo completo dispiegamento, come condizione necessaria per lo sviluppo della totalità delle capacità individuali. “Critica al programma di Gotha”[26], insomma.
Nel momento in cui il capitale ormai completamente centralizzato (presumo a livello mondiale) si socializza in un piano collettivo, allora, il giorno della simultanea rivoluzione mondiale, cambia il rapporto tra la storia e la natura umana. “Viene raggiunto il limite estremo della legge di riproduzione del tipo umano capitalistico, e si creano le condizioni per la produzione sociale di una nuova umanità, in grado di fare dello sviluppo della materialità corporea e psichica un esercizio ludico complesso, raffinatissimo, liberato”.
Insomma, siamo a metà tra il Marx del 1875 e il Keynes del 1933.
Questa per Emiliano Brancaccio “la via per l’unica rivoluzione capace, in prospettiva, di scongiurare la catastrofe”.
Detto in modo più chiaro, non pensiate che si abbia qualcosa per evitare a tutti un destino di povertà, umiliazione e sfruttamento, è dal dolore che viene la salvezza.
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