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Nella situazione, più che mai

di Anselm Jappe

debord10Guy Debord ha detto spesso che, più di ogni altra cosa, egli si considerava come uno «stratega». E, in effetti, l'interesse che continua a suscitare, più di cinquant'anni dopo la pubblicazione della sua opera principale, La Società dello Spettacolo, ha molto a che fare con la sua capacità di ottenere con uno sforzo minimo quello che si proponeva. In questo modo, è riuscito a vincere la sua scommessa contro lo «spettacolo» senza apparire sulla scena, ed in modo che lo giudicassero indispensabile tutti gli altri nemici giurati dell'ordine esistente: Debord non si è mai esibito in pubblico, non ha mai concesso alcuna intervista, non ha mai scritto sulla stampa, ha comunicato unicamente attraverso i mezzi che egli stesso aveva scelto (la rivista Internazionale Situazionista, i suoi libri, i suoi film, promossi da produttori ed editori amici). In breve, era inaccessibile.

Tutto questo ha contribuito al mito che era riuscito a creare intorno a sé stesso. Fino al suo suicidio nel 1994, ha saputo difendere la sua «cattiva reputazione» (il titolo del suo ultimo libro, del 1993) di sovversivo infrequentabile. È stato un caso pressoché unico. Tuttavia, subito dopo la sua morte, ha avuto inizio una diffusione del suo pensiero che ha sfiorato perfino la "panteificazione", e che ha fatto di lui un «grande autore francese», in generale a spese del contenuto sovversivo della sua vita e della sua opera.

Oggi, gli ambienti più diversi lo reclamano, o ripetono le sue idee, senza arrivare nemmeno a conoscerne le origini. Ci sono artisti di ogni tipo che praticano la «psico-geografia», oppure la «deriva» (ne esiste perfino un App per smartphone!), e gli hacker rivendicano il «detournement», e abbiamo avuto i primi politici che sbraitano contro la «società dello spettacolo». Allo stesso modo, le forme più varie di contestazione basata sui media, dagli Yes Men alle Pussy Riots o ad Act Up, vengono spesso intervistate come successori dei situazionisti.

 

Il Capitale della sua Epoca

Sarebbe davvero inutile decidere chi continua davvero a portare la fiaccola situazionista e chi è invece solo un volgare «recuperatore». Ovviamente, l'influenza di Guy Debord si ritrova in mille discorsi che egli non avrebbe mai approvato. Si dovrebbe perciò concludere che anche il "grande refrattario" ha finito per diventare una figura dello spettacolo come gli altri, un ottimo soggetto per un simposio accademico, che farà parte ben presto del programma di aggregazione? Oppure, gli andrebbe concesso un ruolo di "profeta"? Del resto, ha previsto l'onnipresenza della televisione già in un'epoca in cui esistevano solo tre canali in bianco e nero. Ha predetto il collasso dell'Unione Sovietica quando, in Occidente, l'URSSS passava ancora per essere un minaccioso antagonista, geopolitico e tecnologico, degli Stati Uniti. Ha anticipato la convergenza delle vecchie democrazie e delle dittature verso nuove forme di autoritarismo (ciò che alcuni oggi chiamano "democrature"), oppure, anche, il diffondersi ed il proliferare di informazioni false o non verificabili, le ormai celebri "Fake News". Un profeta? Un visionario? Evidentemente, sì. E questo non è niente. Ma limitarlo a questo ruolo di "precursore" implica anche, subdolamente, l'idea che, dopo di lui, altri abbiano detto le stesse cose, ma l'abbiano fatto meglio.

Ci sono inoltre dei domini nei quali Guy Debord ha ancora qualcosa di nuovo da dirci, o nei quali ci può aprire dei percorsi non ancora esplorati? Innanzitutto, bisogna sempre tener presente che lo spettacolo di cui egli parla non è limitato solo ai media. Esso riguarda ogni forma di vita in cui ha luogo una separazione strutturale fra attori e spettatori, fra organizzatori e organizzati. Lo spettacolo consiste nella passività della maggioranza delle persone che si limitano a contemplare le immagini, in senso lato, di quella vita che il sistema economico impedisce loro di vivere realmente. E questo è il caso non solo del cinema, ma anche della politica, rispetto alla quale noi lasciamo che altri agiscano al nostro posto. Noi consumiamo le merci, non per il loro valore d'uso, ma per quella felicità che esse ci promettono in maniera illusoria. Ed anche l'arte e la cultura non fanno altro che mostrarci delle passioni e delle "situazioni" che noi non viviamo direttamente - e ciò non perché sarebbe impossibile, ma perché l'economia capitalista ci obbliga a passare la nostra vita a lavorare e ad adattarci alle sue esigenze. Lo spettacolo è una "alienazione" in senso marxista: una proiezione inconscia delle forze collettive umane su un fattore esterno che governa gli uomini che lo hanno creato. E, sotto questo punto di vista, la società attuale è indubbiamente ancora più "spettacolare" di quella del 1967.

Si possono trovare oggi dei critici sociali radicali, come quelli della "critica del valore", i quali, pur senza discendere direttamente dalla teoria situazionista, ne riprendono l'esigenza di una critica della totalità sociale fatta senza concessioni. La sua categoria analitica centrale, il "feticismo della merce", si basa su un'interpretazione di Marx spesso simile a quella di Debord. Il Comitato Invisibile - che all'inizio è stato all'origine dell'opuscolo "L'Insurrection qui vient" (2007) - è un'altra delle forme contemporanee di critica globale che si propone di riprendere lo spirito situazionista, in particolare sul piano stilistico. Fatto sta che Debord porta avanti un'analisi della società capitalista a partire da una rilettura di Marx che rimane uno dei modi migliori per poter servirsi ancora dei suoi concetti. Apre La Società dello Spettacolo con la prima frase de Il Capitale, pubblicato esattamente un secolo prima, ma sostituendo alla parola "merce" quella di "spettacolo". Procede per mezzo di quello che egli definisce un « détournement ». In questo modo, si prefigge di attualizzare la teoria di Marx, addirittura di scrivere Il Capitale della sua epoca, tenendo conto dei cambiamenti intervenuti in quella che continua ad essere una società capitalista. Descrive le nuove forme di "lotta di classe", le quali non ruotano più necessariamente intorno a delle rivendicazioni economiche: i nuovi proletari vogliono riprendere il controllo sulle proprie vite. Si oppongono non solo allo sfruttamento classico, ma anche alle nuove gerarchie guidate dalle burocrazie; il che implica il rifiuto dei partiti e dei sindacati "operai".

 

Capitalismo Estetico

Debord si è dimostrato innovativo soprattutto nel porre al centro delle sue analisi le categorie marxiane della merce, del valore di scambio, del denaro e del lavoro che il marxismo tradizionale aveva quasi del tutto trascurato. Mentre i marxisti ortodossi pensavano in termini di distribuzione dei frutti del lavoro, Debord è tornato alla base produttiva dove tali frutti vengono creati. E, a partire da questo, svolge una critica senza concessioni della "società dei consumi" occidentale, dove l'abbondanza delle merci - siano esse materiali oppure assumano la forma dell'immagine - sostituisce la vita direttamente vissuta (lo «spettacolare diffuso»). Con una perspicacia rara per la sua epoca, ha potuto così dedurre che i regimi totalitari (fra i quali conta anche la Cina di Mao) erano solo delle versioni più povere dello spettacolo mondiale, e non erano poi così radicalmente diversi dal mondo "democratico" (lo «spettacolare concentrato»).

Naturalmente si potrebbe obiettare che, anche se ha evitato di poter essere "recuperato" sul piano personale, le sue idee, così come quelle di numerosi altri autori ed attori del Maggio '68, hanno contribuito allo sviluppo del capitalismo postmoderno. A posteriori, il movimento globale del '68 appare infatti soprattutto come una modernizzazione delle sovrastrutture arcaiche dell'epoca, soprattutto per quanto attiene al dominio dei "costumi" e della libertà individuale, e per il loro adattamento ai dati creati dalla fase "fordista" dell'economia. Negli anni '60, la sintesi situazionista fra una "critica artistica" ed una "critica politica" (le quali, per un secolo, avevano seguito piuttosto dei percorsi separati - da un lato il surrealismo e dall'altro il Partito Comunista, in quanto forme più tipiche) era rivoluzionaria e sembrava essere il risultato e la realizzazione di una lunga storie di avanguardie sia politiche che artistiche. Col senno di poi, avrebbe potuto essere visto come il precursore (in questo caso, involontario) del "capitalismo estetico" attuale, o del "terzo spirito del capitalismo" (secondo l'espressione dei sociologhi  Luc Boltanski e Éve Chiapello), basato su una valorizzazione della "creatività" e della "autonomia" individuale, che sostituiva le rigide gerarchie piramidali ormai obsolete.

Le idee di Guy Debord sono tuttavia troppo radicali, e riguardano troppo la totalità del capitalismo, per avere potuto contribuire alla sua modernizzazione. Già nel 1967, egli affermava che lo spettacolo lascia ai "lavoratori" solo «l'alternativa di rifiutare la totalità della propria miseria, o niente», e nelle sue opere successive il tono non è mai cambiato. Alcuni anni dopo questa pubblicazione, scoprirà l'importanza della questione e ecologica, e romperà definitivamente con la sua vecchia fede nel progresso tecnico come fondamento di una emancipazione sociale possibile. Fino alla fine della sua vita, denuncerà, soprattutto nei suoi Commentari alla Società dello Spettacolo (1988), l'insensatezza sempre più folle e sempre più autodistruttiva dello spettacolo. Fra gli aspetti più "profetici" del suo pensiero, c'è infatti la sua sensibilità riguardo la catastrofe ecologica. Nelle "61 tesi sull'IS e il suo tempo", pubblicato nel 1972 e che venne anticipato l'anno prima in un dibattito pubblico dal titolo Il Pianeta Malato. è fra i primi a comprendere che la logica capitalista conduce inevitabilmente alla devastazione delle basi naturali della vita. Secondo lui, nessun aggiustamento parziale, come quelli che venivano proposti dai movimenti ecologici emergenti, poteva porvi rimedio, ma poteva farlo solo un'uscita autonomizzata dall'economia. Dal momento che l'economia è fatalmente destinata a produrre il più possibile: "l'usura integrata" permette il rinnovamento ciclico della produzione e del consumo, ma «la realtà cumulativa di una simile produzione indifferente all'utilità o alla nocività, ed in realtà del tutto indifferente al proprio potere che vuole ignorare, fa sì che non ci si possa dimenticare di tutto questo e torna sotto forma di inquinamento».

 

Catastrofe Ecologica

Nel momento in cui, in seguito alla pubblicazione del rapporto del Club di Roma (1972), i media cominciano ad evocare appena quelli che sono i "limiti della crescita", Guy Debord in questi scritti traccia un quadro impressionante delle "nocività" prodotte dall'economia spettacolare, Ed afferma che sarà la lotta contro la catastrofe ecologica, il motore principale dei movimenti rivoluzionari, poiché si tratterà di una battaglia per la sopravvivenza dell'umanità stessa. Se nel 1972, egli attribuisce ancora al "proletariato" il ruolo storico di porre fine a tutto questo, negli anni e nei decenni che seguono, tuttavia non identifica più un attore specifico, un "soggetto rivoluzionario", capace di abolire lo spettacolo e i suoi disastri. Non è certamente arrivato a spingere le sue analisi fino a riprendere la formula marxiana del valore in quanto "soggetto automatico" che governa la società al posto dei soggetti umani, ma aveva tuttavia constatato la scomparsa delle forme sociali che potevano ostacolare lo spettacolo. Ecco perché le sue ultime opere spesso passano per essere "pessimiste". In lui, l'idea di catastrofe ecologica si avvicina ad una critica radicale delle tecnologie, come dimostrato fra l'altro, negli anni '80, dalla sua collaborazione con la rivista Encyclopédie des Nuisances. Secondo lui, è la scienza stessa ad aver abdicato al suo vecchio ruolo emancipatore per mettersi al servizio di un'economia diventata del tutto irrazionale ed incontrollabile, anche rispetto alle precedenti fasi del capitalismo. Da qui, ai suoi occhi, l'energia nucleare costituiva un esempio particolarmente impressionante.

Che cosa farne perciò di Guy Debord? Costruire una "ortodossia" a partire dalle sue intuizioni sarebbe controproducente, e ridurlo ad un accessorio sempre più da supermercato culturale della postmodernità sarebbe un insulto alla sua memoria. È meglio piuttosto pensare alla realtà contemporanea servendosi degli strumenti che egli ha preparato per noi. Il compito principale che egli assegnava all'umanità è stato quello di uscire da un'economia che si è staccata dagli uomini che l'avevano costruita. E questa esigenza sembra essere oggi più urgente che mai, in un tempo in cui la crisi economica, la crisi ecologica e la crisi energetica si sono unite in una sola vasta Crisi maiuscola che per il suo superamento richiede un pensiero radicale (in grado di andare profondamente, secondo l'etimologia, alla radice delle cose), come il suo. La grande attualità di Guy Debord deve ancora venire.


Pubblicato sul n°4 del Nouveau magazine littéraire - Aprile 2018 -

fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

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