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Jean-Claude Michéa, “Il nostro comune nemico”

di Alessandro Visalli

Acid Red 80x80cmoil on canvas1Il libro di Jean-Claude Michéa è del 2017 e come corrisponde alle consuetudini dell’autore si compone di un breve testo in forma di intervista e di alcuni “scoli” che ritornano sui temi affrontati, approfondendoli in percorsi paralleli. Lo scopo del testo è sviluppare una serrata critica della confusione tra la logica del liberalismo, individualizzante e figlia di un universalismo astratto e razionalismo totalitario, e quella del socialismo, resistente alla riduzione dell’uomo a macchina di valorizzazione e desiderio subalterno e della comunità umana alla mera somma delle sue parti. Lo scopo è, in altre parole, aiutarci a “recuperare il tesoro della critica socialista originaria”. Ciò lavorando sia sulla tradizione che ci viene da Marx come da quella che scaturisce dalle altre fonti del pensiero socialista, come Proudhon, per il quale spende alcune belle pagine.

Ancorandosi alla lettura di Lohoff e Trenkle, e la loro “critica del valore”, Michéa sostiene che il problema di questa divergenza è molto profondo, che, cioè, c’è una coerenza radicale tra la società dei consumi, il modello umano che crea, e la spinta interna necessaria di ogni economia che sia liberale di orientarsi alla mera valorizzazione illimitata del capitale. L’estensione all’infinito del processo di valorizzazione del capitale determina necessariamente quello che Michéa chiama “il regno dell’assolutismo individuale” e quindi la perdita continua e progressiva di tutti valori tradizionali. Questi per l’autore sono organizzati da una logica di reciprocità che Mauss ha indentificato con il triplice legame del “dono”; una ‘istituzione totale’ che sta alla radice del legame sociale: un legame in cui l’attesa obbligante di restituire non soggiace ad una metrica astratta, quella del ‘valore’, ma fonda proprio nel legame che crea.

Lo scambio differito individua, in altre parole, un obbligo di natura sociale e morale che include in esso, in qualche modo formandola, l’intera “persona”. Come insegna Mauss, il valore del dono, lungi dall’essere astratto, sta proprio nell’assenza di garanzia da parte del destinatario, cioè nel controdono (che quando si verifica consolida il rapporto, quando è tradito lo lacera). Per capirlo bisogna uscire dall’economico e fare mente alla dinamica dell’amicizia, o dei rapporti sociali parentali allargati; la dinamica del dono crea ‘fratellanza’. Anzi nella logica del dono le fratellanze sono sempre presenti ed implicate, in ogni scambio che non è regolato immediatamente nella logica del contratto sono sempre persone morali che si incontrano e sempre rappresentano i legami sociali che li collegano e separano. Per questo Mauss, in “Saggio sul dono”, parla di “sistema di prestazioni totali”. Un “dare”, “ricevere”, “ricambiare”.

Certo, lo stesso Mauss dice chiaramente che su questa base non si può più organizzare una società complessa come la nostra, e che la trasformazione origina da molto lontano, dice nel suo libro principale: “sono stati infatti proprio i Romani e i Greci, forse imitando i semiti del Nord e dell’Ovest, a creare la distinzione tra diritti personali e diritti reali, a separare la vendita dal dono e dallo scambio, a isolare l’obbligazione morale e il contratto e, soprattutto, a concepire la differenza esistente tra riti, diritti ed interessi. Sono stati essi che, con una autentica, grande e rispettabile rivoluzione hanno superato tutta questa morale invecchiata e l’economia del dono troppo arrischiata, troppo dispendiosa e troppo suntuaria, ingombra di considerazioni riguardanti le persone, incompatibile con uno sviluppo del mercato, del commercio e della produzione e, in fondo, all’epoca, antieconomica” (Mauss, 1923, p.99). Ma, d’altra parte, la mentalità “fredda e calcolatrice”, che si è imposta poi con la modernità, in una lunga evoluzione, non contiene tutto l’umano. Come dice giustamente Mauss, lo sappiamo se lo guardiamo: il dono non ricambiato, anche per noi, ci rende inferiori, la carità anche per noi ferisce chi l’accetta e dunque richiede delle attenzioni, delle scuse; anche per noi il dono contiene un veleno (come dicevano i miti germanici), gli inviti devono essere ricambiati, le ‘cortesie’ generano legame. Anche noi dobbiamo ‘comportarci’ e non possiamo mostrarci completamente egoisti, individualisti e indifferenti ai legami sociali. Anche per noi gli uomini, noi stessi, non siamo separati dalle azioni. Ed il nostro lavoro non è separato dal legame sociale (se non in alcune inumane relazioni istituite attraverso le piattaforme tecnologiche). Lavorare significa, infatti, sempre anche donare, una parte della nostra vita stessa. E il dono chiede il riconoscimento che ci attendiamo in termini di lealtà. Siamo feriti quando questo non avviene (per questo, non da ultimo, è inumano, e reifica, lo stile di lavoro che il capitalismo realizzato contemporaneo impone, il lavoro debole e frammentato, precario). L’assenza di questa relazione crea quindi una ferita, la quale distrugge l’onore delle due parti e chiede una vendetta. Anche per Hegel, per tacere di Marx, il lavoro non ha a che fare solo con la sussistenza e non è solo contratto, ma vi è ancorato il valore dell’individuo e la sua dignità. Esso struttura le nostre vite, la nostra autocoscienza e le relazioni sociali che ci definiscono, insieme al rispetto di sé che ne promana.

Per capire meglio anche il riferimento teorico al quale Michéa si riferisce, quando parla di necessità intrinseca di ogni economia liberale ad una infinita valorizzazione, giova rileggere un intervento di Robert Trenkle del 1998 sul concetto di “valore”. Il valore di cui si parla non è la ricchezza materiale, tanto meno quella determinata dai rapporti sociali, anche se si connette al termine di un sistema totale di rapporti con entrambe. Questo ‘valore’ si crea invece dai rapporti sociali, parassitandoli, attraverso la mediazione del tempo astratto di cui fa merce. La determinazione del valore avviene perché rende funzionale il tempo e istituisce un rapporto di soggezione nella metrica del debito (tra creditori e debitori connessi in una rete generale di rimandi). Come mostrano anche, da diversa tradizione, Amato e Fantacci (“Fine della finanza”), o Mervyn King (“La fine dell’alchimia”) e Robert Kurz (“Le crepe del capitalismo”) determina un sistema che deve restare sempre in movimento, illimitato. Un sistema che, con il linguaggio di Amato e Fantacci, non può mai “fare pace” (ovvero pagare), perché il valore scaturisce dal debito, dalla obbligazione e dalla soggezione. La pace distruggerebbe immediatamente il valore che è, insieme, sia ‘fittizio’ sia concretissimo. È fittizio dove ci pare sia solido ed è concreto dove non lo vediamo.

Il ‘valore’ è quindi una sorta di effetto che esiste solo fino a che circola e fa merce del tempo (nel linguaggio di Amato e Fantacci, “è liquido”) e si dissolve repentinamente, precipitando nella “crisi”, quando la sua intrinseca fragilità si manifesta e quindi la fiducia evapora (allora si manifesta come ‘illiquido’ e perde la sua relazione con la ricchezza). Tutta la nostra società liberale, e da secoli, è centrata su questa preoccupazione: conservare liquido il sistema. Liquido significa conservare in piedi la piramide dei debiti, la gerarchia delle soggezioni (che coinvolge persone, società, nazioni), l’acquartieramento nei nodi sistemici del ‘valore’; consentirne l’accumulazione in sicurezza.

Dunque la necessità intrinseca di ogni economia liberale di infinita valorizzazione determina necessariamente la creazione di legami che sostituiscono, con la loro logica apparentemente razionale e fredda, quelli diversamente radicati delle società precedenti e la perdita dei corrispondenti valori. Ed è intrinseco a questo meccanismo, che il primo Lohoff chiamava ‘fittizio’, mentre successivamente lo identifica come una circolazione di ‘merci del secondo ordine’, la costruzione di legami e la loro sostituzione a quelli precedenti. Ma non è, come può sembrare, una liberazione dai legami precedenti (come vorrebbe il liberalismo), è invece una sostituzione, che fonda su piramidi di altri debiti che consentono di creare ordine e gerarchia. Bisogna precisare che lungi dall’essere “apparente”, l’accumulazione peculiarmente resa possibile dalla finanza nel momento in cui le tradizionali forme di estrazione di ‘valore’ dal lavoro astratto latitano, ha un suo radicamento nel rapporto che si istituisce tra venditori ed acquirenti di quella particolare “merce” che è il “capitale-denaro” (il capitale liquido). Un rapporto nel quale, per la particolare economia politica che si istituisce nella dinamica dei diversi attori specializzati nelle piazze finanziarie interconnesse gerarchicamente, la merce-denaro si moltiplica. È questa moltiplicazione ad essere al centro del sistema-totale nel quale viviamo.

Michéa individua una lunga storia in questa evoluzione, trovandone radici nella presunta neutralità assiologica (ovvero indipendenza da valori assiali, organizzativi) del capitale. Ritrovando in questa pretesa neutralità la sua forma puramente razionale. Una neutralità, per la quale si è fatto preferire, insieme alla ‘dolce’ logica mercantile nel crogiuolo dal quale è emerso il capitalismo, ovvero dalle guerre di religione, e che lo porta irresistibilmente ad emanciparsi da ogni limite naturale e morale. Questo discorso è particolarmente esplicitato ne “Il complesso di Orfeo”, ma è presente anche in “I misteri della sinistra”. La sinistra è infatti strutturalmente incapace di “guardarsi indietro” e cerca sempre il buono e giusto davanti a se, in ciò che verrà, interpretato indefettibilmente come progresso, per il semplice fatto che è il futuro. Si tratta di una sorta di spirito religioso (come ebbe a dire Walter Benjamin nel 1921 nel frammento “Il capitalismo come religione”) anche se, in parte, coinvolge anche la socialdemocrazia. Scrive infatti Benjamin nella 13° tesi di filosofia della storia:

“la teoria socialdemocratica, e più ancora la prassi, era determinata da un concetto di progresso che non si atteneva alla realtà, ma presentava un’istanza dogmatica. Il progresso, come si delineava nel pensiero dei socialdemocratici, era, innanzitutto un progresso dell’umanità stessa (e non solo delle sue capacità e conoscenze). Era, in secondo luogo, un progresso interminabile (corrispondente ad una perfettibilità infinita dell’umanità). Ed era, in terzo luogo, essenzialmente incessante (tale da percorrere spontaneamente una linea retta o spirale). Ciascuno di questi predicati è controverso, e da ciascuno potrebbe prendere le mosse la critica. Ma essa, se si vuol fare sul serio, deve risalire oltre questi predicati e rivolgersi a qualcosa di comune a essi tutti. La concezione di un progresso del genere umano nella storia è inseparabile da quella del processo della storia stessa come percorrente un tempo omogeneo e vuoto. La critica dell’idea di questo processo deve costituire la base della critica dell’idea del progresso come tale”

Il tempo della storia, invece, non è il tempo astratto e vuoto della valorizzazione, ovvero il tempo in ultima analisi del capitale che, trascinando davanti a sé lo sviluppo tecnologico in direzione della massima autovalorizzazione e continuamente dissolvendo gli ostacoli, si produce attraverso di esso; ma è il tempo, dice nella 14° tesi, “quello pieno di ‘attualità’”. Ovvero è il tempo di ciò che si fa attuale (ad esempio la Roma antica durante la rivoluzione francese per Robespierre). Si arriva a dire che (15° tesi) “la coscienza di far saltare il continuum della storia è propria delle classi rivoluzionarie nell’attimo della loro azione”, infatti dalla “selva del passato”, nell’area in cui comanda la ‘classe dominante’ (diremmo in cui si esercita la sua egemonia che la fa dominante), il balzo di tigre che attualizza un ‘passato’, rendendolo nuovamente presente, fa sì che si possa restare “signore delle proprie forze” (In “Angelus novus”, p.83 e seg.). Emerge la concezione di una sorta di tempo granulare e discontinuo, in cui l’atto che costituisce potere (e quindi valore) diventa la scelta di cosa considerare contemporaneo, cosa attuale. Un tempo, quindi, politico.

Smontata la neutralità assiologica, e la temporalità lineare, del capitale bisogna anche capire, però, che questo è tutto meno che reazionario. La vecchia battaglia, ed il sempiterno equivoco, che vide la sinistra borghese allearsi con le forze socialiste dei lavoratori, all’avvio del secolo scorso, davanti l’offensiva della reazione (durante l’Affaire Dreyfus) è per Michéa ormai superata. Il capitalismo è ormai liberalismo pienamente attuato, ne incarna lo spirito rivoluzionario. Il capitalismo va sempre avanti, come l’Angelus Novus di Benjamin. Facendolo, sistematicamente lascia indietro, come passato, coprendolo quindi con lo stigma derivante dalla sua filosofia della storia, le forme di vita ed i mondi vitali che gli resistono. Che sono cioè incompatibili con la costante, illimitata, valorizzazione.

Il capitalismo dunque non è reazionario (p.204). In un certo senso il capitalismo, in quanto forza che sempre rinnova il mondo, spingendolo avanti e disgregando le forme solidali, è sincrono con un certo “dna della sinistra” che è incapace di “rimettere radicalmente in causa la subordinazione integrale della vita umana – a partire da quella dei lavoratori – alle sole esigenze impersonali dell’accumulazione senza fine del capitale (perché la schiavitù viene sempre definita, nell’ideologia liberale dei ‘diritti dell’uomo’, come un rapporto di dipendenza personale, concepito sull’unico modello delle relazioni feudali)” (p.42). Questo capitalismo, di fatto, e non solo nella “fase finanziaria”, può riprodursi solo colonizzando senza sosta nuovi territori o nuovi ambiti della vita. Il capitale infatti non è una cosa, “ma un rapporto sociale tra persone mediato da cose” (Marx, “Il Capitale”).

D’altra parte i primi socialisti, nelle condizioni specifiche di ogni luogo e tempo, erano uniti da un’altra istanza di base: “la comune volontà di promuovere l’emancipazione sociale dei proletari”, protestando sia contro “l’incessante meccanismo del guadagno sempre rinnovato” (Marx, Il Capitale, libro I”), sia contro quella forma di società atomizzata, disumanizzata che ne è il necessario esito. La critica socialista era parimenti diretta, e contemporaneamente, contro la sete insaziabile di profitto e la messa in concorrenza di tutti contro tutti che ne deriva, ma anche contro la visione astratta della libertà, imperniata sul dominio del diritto privato, che era emersa nella rivoluzione francese.

Ma su questa base, sostiene Michéa, poi divergono due schemi di interpretazione diversi circa la direzione di una desiderata società post-capitalista: quelli che semplificando risalgono a Marx ed a Proudhon. Il primo ha messo a punto uno straordinario strumento analitico, che al massimo livello di astrazione ha distillato le tendenze del capitalismo ed è ancora utilissimo per comprenderne direzione e dinamica, ma “allo stesso tempo era letteralmente affascinato dalle molteplici implicazioni ‘rivoluzionarie’ di quella realtà, allora del tutto nuova, costituita dalla grande industria” (p.158), inserendosi quindi nella linea di continuità di Henry de Saint Simon. Il ragionamento è noto: il modo di produzione capitalista, distruggendo le forme sociali precedenti, determina, attraverso la centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro, una base materiale e tecnologica in grado di porre le “premesse materiali di una sintesi nuova e superiore”.

Su queste basi Walter Benjamin individua, “nella teoria e ancora di più nella prassi”, una compromissione del socialismo nella logica lineare del progresso.

La direzione è di fare del mondo “una vasta fabbrica”, risolvendo le inefficienze ed irrazionalità derivanti dalla frammentazione del capitale in lotta con se stesso e quindi “privato”, nel sistema ‘socialista’. Per questo marxismo la socializzazione del lavoro, che è inaugurata proprio dal capitalismo, è, una volta abolita la proprietà privata dei mezzi di produzione, condotta da produttori ‘associati’ e tramite la pianificazione razionale che non necessiti più di scambi commerciali; si tratta di quella che Michéa chiama “la produzione planetaria di tutti i beni e i servizi necessari alla vita umana” (p. 141). Come scrive Lenin in “Stato e rivoluzione”, alla fine “l’intera società sarà un grande ufficio e una grande fabbrica con uguaglianza di lavoro e uguaglianza di salario”, dunque il socialismo si realizza tramite un’indefinita estensione dell’organizzazione tayloriana del lavoro (immaginata come tecnica neutra, su questo punto si veda l’ultima parte del libro di Bruno Trentin “La città del lavoro”).

Ne segue che anche il macchinismo industriale è immaginato come assialmente neutro e quasi sempre (fa eccezione importante la riflessione intorno ai populisti russi) la prassi propende per un socialismo dall’alto, ovvero gestito da una forte classe tecnica.

C’è, però, anche un’altra tradizione, che risale a Leroux, e trova piena espressione in Proudhon: un socialismo antiautoritario, che proceda “dal basso verso l’alto e dalla periferia verso il centro”. Una organizzazione “federale”.

Per Michèa (come per Trentin o per Sennett in “Insieme”) è questo il “tesoro perduto”.

Uno scolio (J) è affidato allo spinoso tema “dell’internazionalismo e la manodopera straniera”. Una dinamica la cui principale caratteristica è di “mettere i lavoratori sistematicamente in concorrenza tra di loro”, cosa che ha sempre “costituito l’arma più efficace in mano ai capitalisti” (parallelamente a quello che Marx chiamava ‘esercito industriale di riserva’, ovvero un margine permanente di disoccupati da ricattare e quindi chiamare alla bisogna) per esercitare una costante pressione al ribasso dei salari e quindi la tenuta dei profitti. Il tema è sempre stato come contrastare questa strategia. È su questo tema che si forma l’Associazione Internazionale dei Lavoratori, nel 1864. Il tema, come scrivono in un appello appena precedente alla costituzione, è “la fraternità tra i popoli, che è assolutamente necessaria nell’interesse degli operai. Perché ogni volta che cerchiamo di migliorare la nostra condizione sociale mediante la riduzione della giornata lavorativa o l’aumento dei salari, ci rivolgono regolarmente la minaccia di far venire dei francesi, dei tedeschi, dei belgi che lavoreranno più a buon mercato” (p.122). Lo scopo del coordinamento che viene tentato, tra organizzazioni dei lavoratori, è quindi di determinare un “collegamento sistematico”, che prevedeva concreto sostegno reciproco. Nell’intervista che il giornalista americano Landor fa a Karl Marx il 3 luglio 1971 su questo tema (appena quattro anni dopo la fondazione della Internazionale), questi nega assolutamente che si tratti di una sorta di “governo centralizzato”, presentandola piuttosto come un “patto associativo” invece che un “potere politico”. L’associazione, come dice, dunque “non impone la forma dei movimenti politici, si limita a richiedere un impegno in vista dei loro scopi. Si tratta di una rete di società affiliate che abbraccia l’intero mondo del lavoro”. Il punto è che, naturalmente,

“In ogni parte del mondo si presenta un aspetto speciale del problema, e gli operai che vi abitano affrontano il problema a modo loro. Le associazioni di lavoratori non possono essere assolutamente identiche nel dettaglio a Newcastle e Barcellona, a Londra e Berlino. In Inghilterra, ad esempio, la via per conquistare un potere politico è aperta alla classe operaia. L’insurrezione sarebbe una follia là dove un’agitazione pacifica raggiungerebbe lo scopo in modo rapido e sicuro. In Francia, un centinaio di leggi repressive e un antagonismo morale fra classi sembrano rendere necessaria la soluzione violenta di una guerra sociale. La scelta di una simile soluzione spetta alla classe operaia di quel paese. L’Internazionale non pretende certo di dettare il da farsi in merito, e neppure di dare consigli. Ma accorda in ogni momento la sua simpatia e il suo aiuto entro i limiti fissati dal suo stesso regolamento”.

E qui si arriva alla questione del coordinamento contro l’importazione dei lavoratori, promossa dal capitale al fine di far abbassare i salari e spezzare la forza delle organizzazioni dei lavoratori (creando in effetti ovunque le condizioni di un esercito di riserva anche dove localmente non ci fossero).

“Per darle un esempio, una delle forme più comuni del movimento per l’emancipazione è costituita dallo sciopero. Prima, quando si effettuava uno sciopero in un dato paese, esso veniva sconfitto importando lavoratori da un altro. L’Internazionale ha quasi posto fine a tutto questo. Non appena viene avvisata del- lo sciopero in programma, dirama l’informazione fra i suoi aderenti, i quali fanno subito in modo di trasformare la sede dell’agitazione in terreno proibito. I padroni vengono così lasciati a fare i conti da soli con i loro operai. Nella maggioranza dei casi, questi ultimi non hanno bisogno di altro aiuto. Essi utilizzano i fondi provenienti dai loro stessi versamenti o da quelli delle società cui sono più immediatamente affiliati, ma se l’onere cui sono sottoposti dovesse farsi troppo gravoso, o nel caso in cui lo sciopero fosse approvato dall’Associazione, alle loro necessità si provvederà con la cassa comune”.

Lo scopo dell’internazionale è dunque di “prendere in mano il proprio destino [cosa che] è diventato un imperativo. Devono riesaminare i rapporti al loro interno e fra loro e i capitalisti e i proprietari terrieri, e ciò significa che devono trasformare la società”, e per farlo deve mantenere rapporti di forza tra i lavoratori e il capitale favorevoli ai primi. Interrompere l’immigrazione competitiva è il mezzo per ottenerlo.

Come dice Michéa, “evidentemente, il costante invito della sinistra e dell’estrema sinistra moderne a rimuovere definitivamente tutti gli ostacoli alla ‘libera circolazione dei lavoratori’ del mondo intero si basa su una comprensione dell’internazionalismo assai differente rispetto a quella del movimento socialista originario” (p.125). E’ uno dei terreni sui quali l’abbraccio con il liberalismo ha confuso notevolmente le acque.

Il liberalismo, che opera per i fini del capitale in un senso molto profondo, come si è detto, è sistematicamente per la libertà di movimento, il cosmopolitismo, e per rompere ogni resistenza alla valorizzazione. La massima creazione di valore, ma nel senso prima ricordato, è elemento cruciale del progetto. Contrariamente a quanto spesso si sostiene i due progetti sono reciprocamente opposti.

Il socialista H.G.Wells ha lasciato una denuncia in codice di questa logica e del suo esito necessario: il suo libro “La macchina del tempo” (1895). Nel lontano futuro la razza umana si è evoluta dividendosi in due specie, gli “Eloi”, che vivono sulla superficie e i “Morlocks” che abitano il sottosuolo. I primi sono belli ma vivono vite inutili, nell’abbondanza ed in quella che sembra una società utopica, completamente liberi dal lavoro. Vivono in palazzi e come in “News from nowhere” di William Morris (1890) non c’è denaro e non sembrano esserci classi. Ma la divisione c’è, ed è radicale, la classe inferiore si è del tutto separata ed è diventata i Morlocks. Di questi gli Eloi hanno sempre paura, la prima descrizione è vivida “Vidi una piccola e bianca creatura in movimento, con brillanti occhi che mi fissarono mentre retrocedeva. Mi fece sussultare. Somigliava così tanto a un ragno umano!”.  Wells mette in scena il timore ed anche l’odio della piccola borghesia suburbana, dalla quale proviene, per il proletariato verso il quale teme sempre di scivolare.

Naturalmente la paura degli Eloi è ben giustificata, perché i Morlocks vivono proprio mangiandoli. In qualche modo i duri conflitti di classe dell’epoca vittoriana, nei quali si consolida il socialismo, si radicalizzeranno e porteranno ad una divisione violenta. Una divisione nella quale anche gli spiriti utopici del socialismo saranno pervertiti (cfr. questa interpretazione dell’opera).

Il libro di Michéa ha anche un esito politico: predilige la soluzione a questi dilemmi tentata da Podemos, aggiornamento per i nostri tempi di quell’ “andare al popolo”, che i socialisti populisti russi tentarono e verso i quali l’ultimo Marx spese benevola attenzione.

Di fronte al fallimento dell’alleanza tra liberalismo e socialismo, e la completa cattura (p.51) del secondo nello spirito progressista del primo, resta di riorientarsi sulla linea di separazione tra “chi sta in alto e chi sta in basso” (p.60) e cercare di “unire gran parte delle classi popolari – comprese quindi quelle che oggi votano a destra o che trovano rifugio nell’astensionismo – su un programma di transizione al tempo stesso realistico e coerente, e che si avvii fin da subito nella giusta direzione. Quindi non è certo esortando queste classi popolari a schierarsi docilmente solo sotto il vessillo della ‘sinistra radicale’ e del suo liberalismo culturale senza limiti che diventerà possibile ‘federare il popolo’ (per riprendere l’espressione molto podemosiana di Jean-Luc Mélenchon)” (p.235).

La direzione da recuperare, il presente da rendere “attuale”, è un altro.

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Eros Barone
Wednesday, 16 May 2018 20:29
Visalli così definisce il significato del libro di Jean-Claude Michéa: "Lo scopo è, in altre parole, aiutarci a 'recuperare il tesoro della critica socialista originaria'. Ciò lavorando sia sulla tradizione che ci viene da Marx come da quella che scaturisce dalle altre fonti del pensiero socialista, come Proudhon, per il quale spende alcune belle pagine".
Già, Proudhon, alla rinascita del cui pensiero, definito da Marx ed Engels nel "Manifesto" come prototipo del 'socialismo conservatore o borghese', anche il buon Visalli reca il suo tributo. D'altra parte, lo stesso intento di conciliare l'analisi di Marx e le proposte di Proudhon anima l'autore del libro recensito da Visalli, il quale sembra non accorgersi, nel suo congenito eclettismo, che una simile sintesi altro non è, in realtà, se non una mera giustapposizione di elementi allotri e reciprocamente ripugnanti, come l'acqua e l'olio. E seguendo le orme di Proudhon (ma anche quelle di Trenkle, di Kurz, di Benjamin e così via mescolando nella zozza eclettica), pretende, al fine di non accettare lo stato attuale della società, che la forza-lavoro stessa non sia una merce, ossia che non abbia un valore. Dimentica così, e prova a far dimenticare a chi si mette sulla sua strada, che è la forza-lavoro come merce l’unica fonte immediata del reddito dei lavoratori. E sulla sua strada, ahinoi, ci si sono messi in tanti, nel socialismo piccolo-borghese di ieri e di oggi come nella filantropia utopica e miserabilista di varia estrazione sociale (non solo piccolo-borghese, ma anche borghese, pretesca e aristocratica). Osserva Marx: “Proudhon vuole librarsi come uomo di scienza al di sopra dei borghesi e dei proletari, e non è che il piccolo borghese, al di sotto degli economisti e al di sotto dei socialisti, poiché non ha né sufficienti lumi né sufficiente coraggio, sballottato costantemente tra il capitale e il lavoro, tra l’economia politica e il comunismo”. Se Proudhon fosse finito lì, nei suoi anni di metà Ottocento, non ci interesserebbe più di tanto. Sennonché i suoi avatar fanno capolino sempre più diffusamente nei programmi di diverse componenti della sinistra, a partire dai vari Keynes o Gorz o Trentin o Rifkin del momento per giungere sino alle rivalutazioni di Michéa e al pancotto mutualistico di Potere al Popolo. Tutti seguaci di Marx...ma non di Karl, bensì di Reinhard, attuale presidente della conferenza episcopale tedesca.
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