
Il personale non è il politico
di Giulio Sapori
Note a Quanto lucente la tua inesistenza. L’Ottobre, il Sessantotto e il socialismo che viene
Nel suo ultimo libro Quanto lucente la tua inesistenza. L’Ottobre, il Sessantotto e il socialismo che viene (Jaca Book, 2018), Marco Maurizi compie una serie di riflessioni che - aiutandosi con le analisi di Marx, Rosa Luxemburg, Marcuse, Adorno e altri - cercano di ripensare criticamente l’esperienza ideale e storica del marxismo e del socialismo, per provare a ridefinirne, nel presente, la sagoma. Il socialismo non è infatti qualcosa che è stato realizzato nel passato, quanto piuttosto una “lucente inesistenza”, possibilità di una società altra dal dominio capitalistico.
In questo scritto cercherò di evidenziare, in modo schematico, una serie di punti che ritengo importanti per la riflessione politica presente:
1) Il presente. Il panorama sociale e politico che ci troviamo di fronte è segnato da un lato dal prevalere globale del liberismo, come progetto politico e filosofico che lega insieme il determinismo del mercato alle libertà individuali; dall’altro da un sostanziale “arretramento della lotta al capitale” (p.19). Questo panorama politico prende una forma definita nel corso dagli anni Ottanta, momento in cui si afferma in modo netto la controrivoluzione liberale, a detrimento delle classi subalterne. La nuova fase, caratterizzata da un modello tecnocratico, quindi a-democratico, di governo non è semplicemente un “balzo indietro” che elimina le conquiste sociali della fase fordista, poiché è animata da un “nuovo spirito” che incide sulla composizione delle lotte sociali. Il capitalismo si fa più consumista, libertario, antiautoritario, ‘ribelle’ mentre il blocco antagonista è investito da due processi: di conversione (da antagonisti a neoliberali) e di frammentazione.
2) Ricomporre l’antagonismo. Se i movimenti sociali antagonisti si sono scomposti in tanti frammenti (comunismi, femminismi, ecologismi, anarchismi, antispecismi, ecc.), il problema politico centrale del nostro tempo – se per politica intendiamo la capacità di influire sulla forma sociale in cui viviamo - sta nel ricomporre questo infranto. Detto in altri termini, è “il problema dell’organizzazione” (p.209). La “lotta di classe dall’alto” (per citare Gallino) spazza via tutto ciò che si è conquistato socialmente negli anni, se non ci si dota di una struttura in grado di reggere, rispondere e contrattaccare.
Il populismo non è il problema, ma un “sintomo” (p.11), in quanto forma disorganizzata di protesta alle politiche antipopolari che sono portate avanti dalle forze politiche istituzionali. In aiuto possono venire le lezioni di Lenin e Rosa Luxemburg che – seppur divisi sulla questione della forma dell’organizzazione – la ponevano al centro dell’urgenza politica. Sintetizza Maurizi: “Lenin sottolinea come noto l’importanza dell’organizzazione non contro la spontaneità, ma contro la sottomissione allo spontaneismo. Rosa Luxemburg, da parte sua, sottolinea l’importanza della spontaneità non contro l’organizzazione ma contro la burocratizzazione” (p.99).
3) Intersezioni. Uno dei modi per organizzare, nel presente, il conflitto sociale è quello dell’intersezione delle lotte. L’idea alla base è che i sistemi di oppressione - razza, classe, genere, orientamento sessuale, nazionalità, abilità e specie - sono tra loro interconnessi. Il potere agisce e transita in tutte queste relazioni come potere dell’uomo sulla donna, del bianco sul nero, del ricco sul povero, dell’etero sull’omo, dell’umano sull’animale. In questi rapporti il primo termine ha di norma uno status sociale privilegiato rispetto al secondo. Maurizi non nega l’esistenza di queste relazioni di potere, ma individua una mancanza di strategia: “il problema dell’intersezionalismo non sta nel tentativo di “unire le lotte”, come si dice, bensì del modo in cui lo si fa o si aspira a farlo” (p.20). L’aspetto critico della “microfisica del potere”, propria del metodo intersezionale, è che, essendo il potere situato un po’ ovunque e in nessun luogo in particolare, si perderebbe la specificità della lotta al capitale. Se da un lato la prospettiva intersezionale ha permesso di percepire meglio come il potere circoli in tutte le relazioni, dall’altro ha portato a una sorta di “liquefazione dell’agire politico” (p.21), dove i vari gruppi antagonisti più che aspirare ad un’unità, spesso rivendicano la frammentazione, fanno “della disorganizzazione un valore e una forma di lotta” (p.210).
La base su cui poggiare un’azione politica condivisa e unitaria Maurizi la individua nell’anticapitalismo.
4) Cos’è il capitalismo. Per capire il capitalismo occorre riprendere l’analisi di Marx. A differenza di molte analisi anticapitaliste diffuse nel dibattito attuale, quella marxiana è ancora utile perché è specifica, non generica: riguarda la moderna società europea, non la storia in generale. Questo significa che Marx non critica la merce, il denaro o lo sfruttamento in generale ma la forma specifica che acquistano la merce, il denaro e il lavoro nel mondo moderno, un mondo caratterizzato dalla centralità dell’economico.
Il capitalismo, infatti, è quel sistema di produzione il cui scopo strutturale è la riproduzione del capitale. Il suo fine è questo: avere un profitto, avere più denaro rispetto al denaro investito. Per questo il conflitto centrale è nel meccanismo dell’auto-valorizzazione del capitale (motore dinamico della società moderna) e prende la forma di un conflitto storico tra due classi, che hanno interessi divergenti: quella dei capitalisti e quella dei salariati. Questo non significa che c’è una sola lotta ma che “senza tornare a teorizzare nella sua specificità il conflitto capitale/lavoro ogni forma di “unificazione” delle lotte resta illusoria e ingannevole” (p.25).
5) Privatizzazione del politico. Una delle novità benefiche della politica degli anni Sessanta è stata la politicizzazione del personale che poneva sul tavolo del discorso politico dominante una sfera rimossa, riguardante soprattutto l’appropriazione del lavoro domestico e di cura, e che è stata efficacemente sintetizzata nel motto “il personale è politico”. Ma, col passare degli anni, il politico ha subìto una metamorfosi – meglio: una “fagocitazione”, come scrive Maurizi – perdendosi nella proliferazione delle identità personali o, al massimo, di gruppo. Questo cambiamento – dal politico al personale - non è da imputare a qualcuno in particolare (anche se molti teorici politici degli anni Settanta hanno puntato molto su un diverso modo di fare politica, dove il singolo è centrale, vedi Foucault), ma soprattutto al ridimensionamento della forza sociale delle classi subalterne. I movimenti politici hanno deviato, giocoforza, verso rivendicazioni più accessibili come i diritti individuali o le modifiche del piano sovrastrutturale-egemonico (per esempio: l’attenzione all’uso inclusivo del linguaggio). Da ciò la valorizzazione dello “stile di vita” e la diffusione delle identity politics, nelle quali l’appartenenza identitaria - anche nella forma di gruppi, paradossalmente, “non identitari” - prende il posto dell’appartenenza al partito. La militanza politica ha sempre più coinciso con la “testimonianza individuale” (p.208). Tutto ciò pone dei problemi dato che il politico è sempre stato più-che-personale. E rivendicare ogni cosa – come spesso si fa - con l’aggettivo “politico” non la fa diventare magicamente politica, come rivendicare che siamo “contro” qualcosa non ci fa essere realmente contro la data cosa. Se facciamo attenzione solo al piano ideale (la rivendicazione) senza un’analisi dei rapporti di forza, pensando che il reale dovrebbe piegarsi all’ideale, si commette un errore non solo conoscitivo (di mancata analisi) ma anche pratico dato che, per un’ecologia dell’azione, l’attualizzazione del nostro ideale può andare a rinforzare (materialmente) quello che volevamo avversare (idealmente), come hanno mostrato Boltanski e Chiappello nel libro Il nuovo spirito del capitalismo, ma anche Marcuse (a cui Maurizi dedica un capitolo) quando ha parlato di “desublimazione repressiva”.
6) Il sociale è il totale. Maurizi individua nell’individualismo metodologico l’assunto sociologico implicito alla politica identitaria, dove la società esiste come mera somma di individui, ognuno dei quali è caratterizzato da una propria volontà in grado di autodeterminarlo. Questo aspetto antropologico, che molti potrebbero considerare secondario, in realtà è molto importante. L’idea che ci sia un’individualità prima del sociale e che il sociale sia solo un epifenomeno di interessi particolari è un punto centrale del ‘progetto’ liberale che, a partire da Hobbes e Locke, arriva fino ai giorni nostri.
Rispetto a questa prospettiva atomizzante Maurizi rivalutata la totalità (mai chiusa) come dimensione sociale entro cui ciascuno di noi nasce e si aliena. Il soggetto è cioè “costitutivamente non-proprio” (p.207), immerso in relazioni che lo fondano. L’alienazione non è ‘espropriazione’ di un sé intatto che la precederebbe ma ‘costituzione’ del sé.
Anche questo penso sia un punto importante visto che all’interno dei movimenti si favorisce l’idea di una soggettività libera in quanto “si libera” da ciò che non avrebbe attivamente scelto (dal nome al sesso, dal cibo al linguaggio). Lo schema è idealistico: il passato-tradizione è il male, il presente è redenzione e il futuro è salvezza-liberazione. Anche qui, senza un’analisi materiale (sociale, ma non solo) si rimane nel piano delle rivendicazioni astratte verso il sociale in generale, reo di non essere cucito sull’individualità del soggetto.
7) Altre conflittualità. Il conflitto tra capitale e lavoro – sebbene sia centrale – non è l’unico conflitto presente nella società. E neanche per Marx lo era: l’accusa di “riduzionismo economicista” rivolta a Marx e al marxismo è una “falsificazione della teoria marxiana” (p.213). Marx ed Engels individuano nella centralità dell’economico la specificità del moderno. La modernità “nasce dai processi di valorizzazione del capitale a partire dall’estrazione di forza-lavoro” (p.214) che modifica (ma non istituisce) la sottomissione della donna, lo sfruttamento della natura e degli animali.
Ciò significa che non basta modificare i processi di valorizzazione capitalisti per costruire una società più giusta. Ma se le nuove sensibilità politiche dimenticano la lotta al capitale, che è un “modo di produzione” (e non un’idea filosofica), a favore di un vago pluralismo in cui tutte le lotte si equivalgono, finiscono per risultare inefficaci e in parte (o completamente) assorbibili all’interno della valorizzazione capitalistica. Prendersela moralisticamente con la mercificazione del vegan, del gay pride, del sesso, rimanendo in un orizzonte di pensiero che non analizza seriamente, come hanno fatto nelle loro analisi Marx ed Engels, la potenza strutturante dell’economico, significa – lo ripetiamo - idealismo. Ed è idealismo anche quando si chiama in causa il “capitalismo”, vuota parola se non si analizza materialmente ciò a cui ci riferiamo. Certo, quindi, che “non tutto è economia”, ma se lo si dice per sostituire (più che integrare) l’analisi economica con l’analisi dei “regimi di verità” o “le norme”, la comprensione del presente diminuisce più che aumentare. Dal mio punto di vista, più che criticare Marx perché troppo materialista (interessato alla ‘volgare’ economia), bisognerebbe criticarlo perché non lo è stato abbastanza, scavando più a fondo il legame tra sistema economico e sistema ecologico.
8) Ecologia e soggettività animale. Nell’ultima parte del libro Maurizi considera la relazione ecologica come “relazione di potere tra società umana e natura” che “chiama in causa immediatamente la questione della relazione di potere all’interno della società umana stessa” (p.256). Questo significa che vanno ripensati insieme i rapporti all’interno della società umana e tra società umana e società non-umane.
Chi ha causato l’Antropocene non è l’umanità in generale ma il capitale per questo “l’antropocene è capitalocene” (p. 256) e non si può ridurre la crisi ecologica a problema tecnico perché se non si modificano le relazioni di sfruttamento dell’umano e del non-umano, ogni possibile intervento tecnico sarà solo palliativo e ingiusto.
Ripensare la relazione con il non-umano significa sia riconoscere la loro soggettività, sia mettere in questione la negazione dell’animalità che è al centro della costruzione del Soggetto occidentale. La presa di distanza dall’animalità è un processo materiale e ideale insieme: lo sfruttamento materiale della natura fa da humus alla costruzione ideale del Soggetto occidentale. La civiltà – essendo sempre natura - diventa così “natura che si dilania in sé stessa” (Adorno) e rende l’antropocentrismo occidentale la “macchina da guerra distruttiva che abbiamo oggi sotto gli occhi” (p.264).
Conclusioni.
Questi sono solo alcuni punti presi in considerazione da Maurizi nel libro, un libro non sempre di facile lettura, ma che si confronta con questioni centrali nel pensiero politico contemporaneo: il rapporto uomo-natura, personale-politico, società-individuo, uomo-animale. Un libro che più che dare risposte cerca di sostare sui problemi, mettendone in mostra i nodi. Sicuramente problematizzare non basta. Occorrerà cercare di porre alcuni obiettivi chiari per non rimanere immobilizzati dalla “lucente inesistenza” del socialismo a-venire.






































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