Il dibattito teorico-politico su Gramsci negli anni Settanta
di Guido Liguori*
1. Cagliari 1967
Per la comprensione del dibattito su Gramsci in Italia negli anni Settanta, conviene probabilmente dividere il decennio in due parti. Una prima parte, che arriva fino alla pubblicazione nel 1975 dell’edizione critica dei Quaderni del carcere a cura di Valentino Gerratana, è contraddistinta da una serie di studi per il tempo innovativi, che reagivano per alcuni aspetti al convegno gramsciano di Cagliari del 1967 (di cui dirò) e che fecero compiere alla conoscenza di Gramsci e soprattutto del suo pensiero un vero e proprio salto di qualità. Una seconda parte del decennio, invece, che è più rilevante dal punto di vista politico, ovvero del dibattito pubblico, e si interseca: a) con la cosiddetta “questione comunista”, cioè con la speranza di un sorpasso elettorale del Pci sulla Dc, e poi con i governi di solidarietà nazionale e le polemiche che ne derivarono; b) con la crescente polemica tra comunisti e socialisti del tempo, a partire dal “nuovo corso” craxiano, una polemica a tutto campo, in cui fu coinvolto anche Gramsci.
Alle spalle degli anni Settanta vi era l’onda lunga del secondo biennio rosso 1968-1969, che determinò in Italia una inedita e prolungata fortuna di tutti o quasi gli autori della tradizione marxista, e con essi anche di Gramsci. Sul piano degli studi gramsciani propriamente detti, l’antecedente più immediato era il convegno di Cagliari del 1967, i cui atti vennero pubblicati due anni dopo1. Un convegno che, benché non fosse stato in realtà univoco, fin dal titolo – Gramsci e la cultura contemporanea – rischiava di incasellare Gramsci in quel ruolo di “grande intellettuale” che gli era stato assegnato dopo la guerra e fino a metà degli anni Cinquanta, quando sia la pubblicazione degli scritti del Biennio rosso, sia le novità del XX Congresso avevano concorso a far ritornare sulla scena, giustamente e inevitabilmente, il Gramsci militante, dirigente e pensatore politico.
Anche Togliatti aveva sposato quella nuova stagione delle interpretazioni gramsciane, non solo coi celebri scritti del 1958 su Gramsci e il leninismo, ma anche spingendo a fondo sulla necessità della contestualizzazione storica del pensiero del grande comunista sardo, pena il rischio di non comprenderne appieno l’elaborazione teorica2.
Il convegno cagliaritano – pur proponendo di riportare di fatto Gramsci dentro una tradizionale divisione del sapere, di tipo accademico – aveva dato un contributo all’opera di storicizzazione del pensiero gramsciano, soprattutto grazie alla relazione di Ernesto Ragionieri (un grande storico comunista), che aveva cercato di inserire Gramsci nel contesto del movimento comunista internazionale: un salto di qualità notevole nella direzione di una corretta comprensione dell’autore dei Quaderni. Era probabilmente, quella di Ragionieri, anche una risposta (credo non del tutto sufficiente però) alla cultura marxista degli anni immediatamente precedenti, ad esempio alle posizioni teoreticiste di Louis Althusser, che avevano fatto breccia anche nel marxismo italiano: basti pensare a Cesare Luporini, che se ne fece alfiere, promuovendo la pubblicazione dell’althusseriano Pour Marx presso gli Editori Riuniti nel 1967, con una sua autorevole Nota introduttiva3.
Il convegno cagliaritano, tuttavia, passò alla storia (almeno alla piccola storia delle interpretazioni gramsciane) soprattutto per un aspetto diverso: il segno fondamentale che gli venne dato da Norberto Bobbio con una relazione – più volte ristampata e presto divenuta celebre – su Gramsci e la concezione della società civile. Lo studioso torinese vi vedeva una sorta di «rovesciamento» di Gramsci rispetto a Marx. Perché in Gramsci «il momento attivo» della storia starebbe sì nella società civile. Ma mentre per Marx tale «momento attivo» («il teatro di ogni storia») era nella struttura, per Gramsci esso era da ricercarsi, per il filosofo torinese, nella sovrastrutturale. Cioè la società civile comprenderebbe per Gramsci «non già “il complesso delle relazioni materiali” bensì tutto il complesso delle relazioni ideologico-culturali»4. Per Marx il «teatro della storia» era la struttura, l’economia, per Gramsci la sovrastruttura, la cultura, il mondo delle idee. Gramsci era dunque, per Bobbio, soprattutto il teorico delle sovrastrutture.
La lettura di Bobbio ebbe larga eco e ancora oggi si incontrano generosi riconoscimenti a essa tributati. Ma questa lettura di Bobbio – particolare non proprio secondario – era in buona parte sbagliata. In primo luogo perché presupponeva una visione semplificata del rapporto tra struttura e sovrastruttura: si fondava su una lettura meccanicistica del rapporto tra i due termini della celebre metafora marxiana, dove la determinazione di uno dei due era letta come determinazione forte e immediata dell’altro.
Tale distinzione in Gramsci, in realtà, era metodica e non organica. Gramsci è il marxista dialettico per eccellenza e per questo nella sua opera matura è centrale il concetto di «blocco storico», ovvero di unità dialettica di struttura e sovrastruttura5. È indubbio che in Gramsci vi sia un primato della soggettività e della politica, ma il suo tentativo di costruire una teoria della politica e delle forme ideologiche era pur sempre a partire da Marx.
Nel marxismo di Gramsci, inoltre, irrompevano le novità registrate nel rapporto tra economia e politica nel Novecento: l’allargamento dell’intervento statale nella sfera della produzione, l’opera di organizzazione con cui la politica si rapporta alla società. Bobbio non coglieva questo elemento fondamentale anche per il carattere fortemente dicotomico del suo pensiero antidialettico e per il carattere in fin dei conti idealistico del suo discorso, in cui si va da dottrina a dottrina, da teoria a teoria, senza che mai compaia il loro referente reale: la storia e la politica. Si restava sempre nella sfera della cultura.
La relazione di Bobbio diede luogo, già nell’ambito del convegno cagliaritano, a molte reazioni.
Alcune di queste critiche a Bobbio erano già presenti nell’intervento a caldo fatto da Jacques Texier, e poi nel 1968 in un suo saggio apparso su «Critica marxista», in cui si sosteneva che la categoria fondamentale dei Quaderni fosse appunto non quella di «società civile» ma quella di «blocco storico»: bisognava partire dall’unità dialettica di struttura e sovrastruttura per non cadere né nel determinismo né nel soggettivismo6.
In pratica Bobbio faceva di Gramsci un crociano nel momento in cui vedeva nella società civile del marxista sardo soprattutto l’insieme delle relazioni ideologiche e culturali. Invece, la società civile ha, in Gramsci, anche un contenuto economico. L’egemonia ha per Gramsci anche – viene detto esplicitamente – un fondamento economico e un contenuto economico e sociale, oltre che politico e culturale: le attività sovrastrutturali sono tutte segnate da un carattere di classe.
Ho voluto richiamare brevemente questa discussione del 1967-1968 per spiegare perché negli anni Settanta, e anche dopo, fino ai nostri giorni, si andarono diversificando le letture di Gramsci. Per alcuni egli sarà sempre bobbianamente soprattutto il teorico dell’egemonia culturale, e quindi fondamentalmente un crociano (di sinistra, va da sé). Per altri Gramsci era e resta un marxista dialettico.
2. Gramsci dal Biennio rosso ai «Quaderni»
Dopo queste discussioni gli anni Settanta iniziarono con una serie di opere rilevanti, in primo luogo dedicate al Gramsci degli anni torinesi: il libro di Leonardo Paggi, Gramsci e il Moderno Principe7, e quello di Franco De Felice, Serrati, Bordiga, Gramsci8. Soprattutto Paggi ebbe in quegli anni un ruolo rilevante, non solo col suo libro, ma anche con un ampio e ambizioso scritto del 1973 che si intitolava La teoria generale del marxismo in Gramsci9.
Vi era nel libro di Paggi una forte valorizzazione degli anni torinesi, dell’esperienza di giornalista militante, che nemmeno la Rivoluzione d’ottobre sembrava del tutto sovrastare, pur collocandola in un altro piano. L’autore metteva in evidenza l’influenza non solo di Croce e Gentile, ma della «Voce», di Bergson e Sorel, e anche del pragmatismo americano. Insomma, tutte le filosofie che avevano reagito contro il positivismo, che parevano a Gramsci armi contro il marxismo e il riformismo della Seconda Internazionale.
Paggi respingeva la datazione del pensiero gramsciano fondata su una forte cesura sia tra il periodo «consiliare» e quello dei primi anni del Pcd’I, sia tra gli anni della libertà e gli anni del carcere, che era stata la periodizzazione proposta da Paolo Spriano negli anni Sessanta.
Paggi stesso, nel testo del 1973, forniva una lettura di Gramsci che considerava tutta l’elaborazione gramsciana come un sistema teorico coerente e unitario, sostenendo anche chiaramente che il pensiero di Gramsci era connotato al fondo da una forte motivazione politica. Gramsci era stato un momento di rottura profonda anche con la storia degli intellettuali italiani. Perché il gruppo dei giovani intellettuali dell’«Ordine Nuovo» si erano rapportati non tanto ad altri intellettuali e pensatori e filosofi, ma alla storia reale e alla lotta tra le classi.
Al contrario di quanto aveva sostenuto Althusser, Gramsci nei Quaderni aveva criticato davvero Croce, si era rifiutato di ridurre tutto a cultura e a filosofia. E aveva rifiutato, d’altra parte, il modello delle scienze naturali o esatte. Che costituivano invece un paradigma forte per tutta una sia pure composita tendenza egemone nel marxismo degli anni Sessanta, da cui Paggi prendeva le distanze.
Aveva scritto Gramsci, ricordava Paggi, che «si può prevedere solo nella misura in cui si opera»10. Ecco lo spazio della prassi, per modificare il mondo. Per cui al concetto di previsione andava sostituito – sosteneva Paggi, sulla scorta di Gramsci – quello di possibilità oggettiva, che per diventare realtà deve vedere entrare in azione la politica11.
Franco De Felice, si è detto, è invece autore del volume su Serrati, Bordiga, Gramsci, studio pionieristico sul socialismo italiano del Biennio rosso, dunque dedicato (almeno in parte) soprattutto al primo Gramsci, ai due anni cruciali che avevano fatto seguito alla Rivoluzione d’ottobre, dove Gramsci era ben contestualizzato nelle lotte del Partito socialista del tempo. De Felice tuttavia è anche importante per un breve scritto di poco posteriore, apparso su «Rinascita» nel 1972, in cui per la prima volta si richiamava l’attenzione su uno dei testi fino ad allora più misconosciuti dei Quaderni, le note su Americanismo e fordismo12. Partendo dalla scelta modernissima di leggere tutto Gramsci alla luce della sua vicenda politica, l’autore esplicitava il nesso tra le note gramsciane sull’«americanismo» (il Quaderno 22) e i temi più generali dei Quaderni: egemonia, rivoluzione passiva, analisi del fascismo, ecc. De Felice indicava in Americanismo e fordismo il centro stesso della riflessione gramsciana del carcere, la prova più palese del fatto che essa costituiva non una lettura del passato, ma il tentativo di fondare un discorso teorico-politico nuovo rivolto al presente.
Uscirono poi nella prima metà degli anni Settanta altri libri che ragionavano meritoriamente intorno al concetto di «egemonia», che fino a quel momento non era stato sufficientemente illustrato. Si pensi a tal proposito al libro di Giorgio Nardone su Il pensiero di Gramsci, influenzato da Bobbio13, per cui la lotta per l’egemonia si svilupperebbe nella società civile. O al libro del francese Hugues Portelli, autore di un libro del 1973 su Gramsci e il blocco storico14, che seguiva anche esso l’interpretazione bobbiana di Cagliari. Definendo il concetto di blocco storico in realtà come blocco sociale, il che in Gramsci non è.
O, ancora, al libro di Luciano Gruppi Il concetto di egemonia in Gramsci, che proponeva una interpretazione di segno diverso a partire dalla relazione tra il concetto di egemonia e la tradizione leninista15, opponendosi dunque a Bobbio. In realtà nei Quaderni il concetto di egemonia ha un insieme di sfaccettature notevole, che non permette di ignorare la sua matrice nell’ambito dei dibattiti della Terza Internazionale, ma neanche di non vedere subito come Gramsci vada al di là della concezione leninista dell’egemonia. Gruppi vedeva bene il nesso egemonia-ideologia in Gramsci, ma non vedeva le forme e gli apparati tramite cui si forma una «concezione del mondo», che non cala dall’alto, come i celebri caciocavalli di Labriola. Senza evidenziare il ruolo dello Stato, dell’«Apparato egemonico» di cui parla Gramsci, si rischiava di reintrodurre alcuni aspetti di quella lettura bobbiano-idealistica che l’autore voleva combattere.
Anche il libro di Giuseppe Vacca, Saggio su Togliatti e la tradizione comunista, rispondeva alla pretesa di Bobbio di riprodurre una visione dicotomica del rapporto Stato-società e politica-società, in un’epoca caratterizzata da nuove forme di rapporto reciproco, di intersezione, a volte di osmosi. Vacca però vedeva il rapporto Gramsci-Togliatti senza alcuna discontinuità, anche attraverso una sorta di lettura sintomale di Togliatti che sembrava forzare alcuni passaggi della sua elaborazione e della sua storia.
A risultati per molti aspetti diversi da quelli di Vacca, sul piano della lettura di Gramsci, perveniva Nicola Badaloni, che nel 1975 forniva alcune indicazioni interpretative che andavano in direzione opposta rispetto nel libro Il marxismo di Gramsci16. Il marxismo di Gramsci per Badaloni risultava essere una combinazione originale di elementi diversi. Un grande peso aveva l’influenza di Sorel. Poi Gramsci aveva incontrato Lenin, ed era stato un incontro determinante. Ma Gramsci – per Badaloni – era irriducibile a Lenin, anche perché tale incontro era avvenuto quando il comunista italiano aveva alle spalle una formazione e un bagaglio teorico già consolidato.
Gramsci aveva derivato dal Sorel teorico del sindacalismo l’antipositivismo, l’avversione per il riformismo, la critica radicale della democrazia parlamentare, l’esaltazione della «classe dei produttori», lo «spirito di scissione», che il proletariato deve avere rispetto alla borghesia. Attraverso tale rete concettuale Gramsci aveva tratto da Sorel una sorta di «primato del sociale» che veniva modificato, ma non andava perso, nell’incontro con Lenin e col suo «primato della politica». Gramsci vedeva nella democrazia il tramonto della vecchia formazione sociale, non il sorgere della nuova; mentre sarà Togliatti (ecco un importante elemento di discontinuità), nel secondo dopoguerra, a farne il luogo della transizione.
Tutti questi lavori a cui ho fatto cenno avevano un limite, oggettivo. Dovettero ancora basarsi sulla edizione tematica dei Quaderni del 1948-1951. Il primo libro a usufruire del lavoro di Gerratana, ancora allo stato di bozze – Gerratana immetteva nei Quaderni la fondamentale e indispensabile dimensione diacronica –, era quello di una francese allieva di Althusser, Christine Buci-Glucksmann, autrice di Gramsci e lo Stato17, che ebbe un notevole successo in Italia, dove orientò il dibattito su Gramsci.
Buci-Glucksmann rifiutava il giudizio di Althusser sullo storicismo di Gramsci. Soprattutto aveva il merito di rileggere le categorie dei Quaderni in modo da liberarle da ogni ipoteca idealistica (alla Bobbio): sottolineando cioè come Gramsci avesse sposato il concetto di egemonia con quello di apparato («apparato egemonico») – e cioè scuole, chiesa, biblioteche, informazione, giornali, ecc. Veniva così dato al discorso sull’egemonia una base materiale. La differenza con gli althusseriani «Apparati Ideologici di Stato» era individuata nel fatto che l’«apparato egemonico» è attraversato da contraddizioni, non è univoco. E poi Buci-Glucksmann vedeva bene come, mentre nella Quistione meridionale (1926) l’egemonia era un attributo (potenziale) del proletariato, nel Primo quaderno (1929) essa già riguardava soprattutto le pratiche delle classi dominanti. E così nei Quaderni, mediante la comparsa del concetto di «apparato egemonico», si passava per l’autrice da una analisi di egemonia in termini di costituzione di classe a un’analisi di egemonia in termini di Stato18. Gramsci respingeva ogni distinzione organica tra Stato e società civile, ma i due termini – precisava Buci- Glucksmann – neanche si identificavano (come nella concezione gentiliana dello Stato totalitario). «Stato integrale», che è l’espressione usata da Gramsci, non vuol dire che lo Stato «è tutto», ma che “integra” dialetticamente «società politica» e «società civile».
Un altro tema importante di Buci-Glucksmann è la convinzione che ci volesse una vera e propria «anti-rivoluzione passiva»19, per impedire che il partito rivoluzionario fosse catturato nella rete degli “apparati egemonici” e vincesse un modello blandamente riformista. Sembrò a molti un po’ il rischio che correva il Pci nel periodo della solidarietà nazionale. Rivoluzione passiva voleva dire in Gramsci, infatti, essenzialmente riformismo.
3. Una contesa politica
Siamo così già entrati, coi due interventi di Buci-Glucksmann, sul versante più immediatamente politico della discussione su Gramsci degli anni Settanta.
Dopo il 1975, anno dell’edizione Gerratana dei Quaderni, inizia infatti una fase diversa, almeno per alcuni aspetti, anche nel campo delle letture di Gramsci. Ha inizio una particolare stagione politica, col Pci, il partito di Gramsci, arrivato alle soglie del governo. Non è senza nessi reciproci che nel 1976-1977 si registra la massima espansione e, subito dopo, l’inizio di un lungo declino, sia delle fortune elettorali del Pci, sia della diffusione del pensiero di Gramsci in Italia, sulla scena pubblica nonché sul piano degli studi gramsciani. Le due cose sono ovviamente collegate.
In quegli anni vi fu una battaglia politica intorno a Gramsci. L’azione del Pci era stata il vettore principale della diffusione del pensiero gramsciano e tale pensiero era stato il medium grazie al quale il Pci era riuscito a parlare ad aree diverse di intellettuali e di militanti.
Il dibattito su Gramsci giunse – alla scadenza del quarantesimo anniversario della morte, nel 1977 – a un punto caratterizzato da un notevole politicismo.
Fu ancora una volta Bobbio ad avviare quel «dibattito sul pluralismo» che costituisce l’antefatto immediato delle discussioni teorico-politiche del 1977. In una relazione svolta a un convegno della rivista socialista ufficiale «Mondoperaio» nel luglio 1976 (lo stesso mese in cui Craxi veniva eletto Segretario del Psi), Bobbio si soffermava delle differenze di fondo che a suo dire rendevano diversi socialisti e comunisti, parlando di «una concezione laica della storia contrapposta a una concezione totalizzante [...] dove non vi è più posto […] per il nuovo principe cui Gramsci affidava il compito di trasformare la società»20.
E in una successiva intervista a «la Repubblica» il filosofo torinese affermava, nel settembre successivo:
Gramsci parla di egemonia della classe attraverso il partito che la rappresenta [...] paragona il partito al “principe” […] Ora, come potrebbe un principe, che per definizione è uno solo, ammettere la molteplicità? [...] se affermiamo che il pluralismo è necessario in questo momento e in questa società, allora dobbiamo rinunciare al concetto del partito egemone21.
Bobbio dunque attaccava il Pci contrapponendo egemonia e democrazia. La “discussione” (in realtà una carrellata di articoli critici verso Gramsci) che si svolse su «Mondoperaio» tra l’ottobre 1976 e il maggio 1977 rappresentò la ripresa e lo sviluppo del discorso di Bobbio sul presunto carattere autoritario del concetto di egemonia e quindi sulla non legittimità dei comunisti a governare, se non recidendo le proprie radici storico-teoriche e diventando in poche parole… socialisti!
Intervennero accanto a Bobbio intellettuali allora vicini al Psi come Massimo Salvadori, Lucio Colletti, Galli della Loggia, Luciano Pellicani. Il dibattito fu concluso da una tavola rotonda con i socialisti Amato, Diaz e Salvadori, e due intellettuali comunisti: Gerratana e Spriano22. Mentre Spriano sembrò accogliere alcune delle posizioni socialiste, il curatore dei Quaderni Gerratana ribatteva ai socialisti che il pluralismo non è incompatibile con l’egemonia, perché c’è sempre una egemonia nella società, solo che si tratta di vedere quale sia quella prevalente23. Detto in altre parole, il soggetto dell’egemonia è una classe, più che un partito. E vi è sempre una classe egemone.
Vi sono poi nel 1977, in campo comunista, due momenti importanti: a inizio anno il seminario organizzato a Frattocchie su «Egemonia, partito, Stato in Gramsci»24; e a fine anno il convegno di Firenze su «Politica e storia in Gramsci». Furono due appuntamenti molto partecipati, in cui teoria e politica si mescolano fin troppo strettamente. Impossibile ricordare tutti gli interventi o molti degli interventi (rimando necessariamente chi voglia approfondire al mio Gramsci conteso, già citato). Il richiamo a Gramsci era presente soprattutto in quella parte di dirigenti e intellettuali comunisti che vedevano lo scontro politico in atto come scontro di egemonie e che erano tesi a elaborare una possibile via di fuoriuscita dal capitalismo. Uno scenario, quello della transizione, considerato allora possibile, credibile, anche se in realtà erano già iniziati i processi (anche strutturali) che determineranno la rivoluzione neoliberale e neoconservatrice degli anni Ottanta.
Ricordo solo due o tre spunti che emersero in quella occasione e che mi sembrano tra i più rilevanti. In primo luogo, quanto sostenuto da Leonardo Paggi25 a Frattocchie su Gramsci (il Gramsci pre- carcerario soprattutto) e la democrazia: è vero che in Gramsci non è tematizzato il pluralismo, ma vi è la proposta di una democrazia più ricca di questa della società borghese, la quale non può essere assunta come l’unica democrazia possibile e pietra di paragone. Era un richiamo alla democrazia dei Consigli, di cui Gramsci fu forse il massimo teorico europeo-occidentale. E che solo pochi anni prima, nel “secondo biennio rosso”, sembrava essere tornata di nuovo attuale o comunque fonte di rinnovata ispirazione.
In secondo luogo, vorrei ricordare quanto argomentato da Valentino Gerratana26 sempre a Frattocchie. Il curatore dei Quaderni richiamava l’attenzione su come fossero varie, nel Gramsci maturo, le forme dell’egemonia, a seconda delle forze sociali che la esercitano. In altre parole, al variare dei soggetti mutano anche i modi concreti in cui si deve esercitare l’egemonia: borghesia e proletariato non possono esercitare il potere nello stesso modo. I caratteri di fondo dell’egemonia proletaria devono essere peculiari, democratici ed espansivi. Anche qui si trattava di favorire una espansione della democrazia reale, della reale partecipazione alla politica e alla democrazia di quanti più soggetti possibile.
In terzo luogo, nelle relazioni di Firenze27 (ancora una volta si pensi al contributo di Franco De Felice, ma non solo) emerse per la prima volta la grande importanza che era assunta dal concetto di rivoluzione passiva, che da quel momento sarebbe diventato uno dei principali concetti dei Quaderni. A questo proposito nel suo intervento Remo Bodei avanzava l’ipotesi che l’ampio spazio analitico riservato alla categoria di rivoluzione passiva riflettesse il fatto che si avvertivano in quel momento soprattutto i limiti della possibilità di «avanzata» del Pci, impantanato nella politica della solidarietà nazionale. Rivoluzione passiva poteva indicare, sosteneva ad esempio Remo Bodei, la corresponsabilizzazione» del Pci «nella gestione fallimentare di una crisi divenuta endemica o altrimenti ingovernabile»28. Bisognava evitare il rischio – sosteneva ancora Nicola Badaloni – di cadere in quella che Gramsci chiama statolatria, cioè un’enfasi troppo accentuata sullo Stato piuttosto che sulla «socializzazione della politica».
Infine, più di uno (Paggi, Tortorella e altri) mettevano in guardia dal cercare in Gramsci la soluzione dei problemi contemporanei. Oggi diremmo: senza una adeguata opera di traduzione, categoria gramsciana ormai tra le più diffuse e utili, o assegnando alla teoria una valenza «normativa». Il problema era quello di sapere se le categorie-chiave di Gramsci servissero ancora per leggere le grandi modificazioni del capitalismo. La risposta di tutto il convegno di Firenze, sostanzialmente, era affermativa, anche nella consapevolezza che l’esperienza del Pci era andata oltre il pensiero di Gramsci29, su diversi terreni, come il pluralismo, ma anche la concezione del partito. (Di convesso potremmo aggiungere però che anche il pensiero di Gramsci, su molti piani, era oltre il Pci, come il tempo avrebbe mostrato). Va ricordato però che nessuno dei protagonisti di allora credo potesse immaginare la brusca svolta politica mondiale, in direzione neoliberista, destinata a relegare Gramsci per non pochi anni – gli anni Ottanta e parte dei Novanta – in secondo piano.
Perché all’epoca dell’allargamento dello Stato stava per seguire quella del suo restringimento. E dunque le strade del ritorno di Gramsci sulla scena mondiale, come autore italiano più diffuso, citato, famoso nel mondo, passeranno in parte per strade diverse da quelle degli anni Settanta.
Allora un segnale di questo mutamento generale di clima venne dato nel 1978 da una famosa intervista di Luciano Lama30, potente capo della Cgil, a Scalfari su «la Repubblica», nella quale si dichiarava che i lavoratori dovessero rinunciare a benefici salariali per favorire in futuro l’occupazione. Questa linea sindacale – sostenuta e teorizzata nel Pci anche da Giorgio Amendola, faceva riferimento a una certa lettura della teoria dell’egemonia: la classe operaia doveva per Amendola favorire la ripresa economica rinunciando al proprio interesse, compiendo sacrifici in vista di un beneficio futuro dovuto allo sviluppo capitalistico che essa stessa avrebbe così favorito.
Questa lettura del concetto di egemonia non trova però in Gramsci un reale fondamento: la «politica dei due tempi» (come si chiamava quella di Amendola e Lama, tra l’altro in forte dissenso con Berlinguer31) era piuttosto un caso di dialettica falsata, che non vede, come dice Gramsci, che «ogni membro dell’opposizione dialettica debba cercare di essere tutto se stesso e gettare nella lotta tutte le proprie “risorse” politiche e morali»32.
A fronte di questa cultura della mediazione a tutti i costi, si lasciava un ampio varco a quella cultura dell’immediato, del «tutto e subito», dell’iper-soggettivismo, del desiderio, della critica della ragione e della storia, che fu una delle componenti che causarono il divaricarsi del Pci e di ceti soggettivamente anticapitalistici (la «seconda società», si disse nel 1977).
Il limite dell’intellettualità gramsciana fu allora quello di guardare poco ai processi reali che stavano già cambiando la società, il che avrebbe richiesto quanto meno una rapida «riforma» del concetto di egemonia, per consentire alla classe operaia di non perdere alleati proprio nel momento in cui iniziava un suo forte declino numerico (e politico); e in secondo luogo di appiattire Gramsci sulle esigenze politiche del presente, rinchiudendone la capacità espansiva entro i confini angusti e destinati alla sconfitta del «compromesso storico».
Dopo di che, la classe operaia, sconfitta sul terreno politico, sarà nel decennio successivo detronizzata anche sul piano della teoria. Non che vengano meno, nel decennio seguente, studi gramsciani anche importanti. Ma il dibattito su Gramsci non sarà più al centro della scena teorica e politica. Marx e Gramsci saranno sostituiti da altri autori, anche nella sinistra.
Il cambio di paradigma, l’abbandono dell’analisi in termini di «lotta per l’egemonia», fu la prova dell’affermarsi di un’altraegemonia, quella neoliberale e individualistica. E si passerà in pochi anni alla crisi e quasi alla dissoluzione della cultura gramsciana come cultura di massa, anche all’interno del Pci.
* Università della CaThis email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it. This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.
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30 Lama (1978).
31 Mi si consenta su questi temi il rinvio al mio Liguori (2014).
32 Gramsci (1975, 1768).
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Note
1 Cfr. Rossi (1969).
2 Per gli scritti togliattiani delle varie stagioni interpretative sull’antico compagno dell’«Ordine Nuovo» cfr. Togliatti (2013).
3 Althusser (1967).
4 Bobbio (1969, 85).
5 Voza (2009), (sub voce).
6 Texier (1968).
7 Paggi (1970); (il «volume secondo» uscirà in realtà col titolo Le strategie del potere in Gramsci solo nel 1984, presentandosi, sia dal punto di vista formale che da quello sostanziale, come un volume a sé).
8 De Felice (1971).
9 Paggi (1974).
10 Ivi, 1354.
11 A mio avviso, in Gramsci il concetto di praxis non è da accostare a quello labrioliano (e marxiano) di lavoro, ma va inteso soprattutto come politica.
12 De Felice (1972).
13 Nardone (1971).
14 Portelli (1973).
15 Cfr. Gruppi (1972), nel quale l’autore pubblicò lezioni tenute presso l’Istituto Gramsci di Roma nel 1970. L’origine dell’opera spiega il suo carattere divulgativo e forse anche schematico.
16 Badaloni (1975).
17 Buci-Glucksmann (1976).
18 Ivi, 63-4.
19 Cfr. Buci-Glucksmann (1977). Cfr. su questi temi Liguori (2022, 45 ss).
20 Bobbio (1977, 247).
21 Bobbio (1976).
22 Egemonia e democrazia, tavola rotonda con G. Amato, F. Diaz, Valentino Gerratana, M. L. Salvadori, P. Spriano, in «Mondoperaio», 1977, n. 5, ora in Egemonia e democrazia, cit., 199-222.
23 Ivi, 201.
24 Gli atti del seminario sono raccolti in (de Giovanni, Gerratana, Paggi 1977).
25 Paggi, ivi.
26 Gerratana, ivi.
27 Ferri (1977 e 1979).
28 Bodei (1979, 229-230).
29 Ivi, 212.
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