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Si può davvero scegliere tra Galilei e Bellarmino?

di Enrico Galavotti

galileo y la iglesiaLa diatriba tra lo scienziato Galilei e il cardinale Bellarmino era sin dall’inizio impostata male. Basteranno alcune considerazioni per convincersene.

Che la Bibbia non potesse dir nulla sulla verità razionale degli esperimenti scientifici, laboratoriali, di Galilei, appare oggi pacifico. Solo una concezione integralistica della fede religiosa, che fa della teologia un’imposizione politico-istituzionale, cui un’intera società deve attenersi, poteva sostenere il primato “scientifico” della Bibbia su discipline come la matematica, la fisica e l’astronomia.

Una diatriba del genere non avrebbe mai potuto esserci là dove la Chiesa non pretende di avere un ruolo politico. Senza un tale ruolo, infatti, non si ha neppure la pretesa di egemonizzare la cultura e la scienza. Sotto questo aspetto Galilei avrebbe potuto avere seri problemi anche se avesse avuto a che fare non con la Chiesa romana, profondamente controriformistica, ma semplicemente con uno Stato confessionale (cattolico o protestante che fosse), ivi incluso quello ideologico e ateistico del regime staliniano.

Idee scientifiche così innovative come le sue e, per molti aspetti, chiaramente favorevoli a una visione laica della vita, potevano trovare, a quel tempo, ampi consensi solo se la borghesia si poneva il compito di difenderle. Cosa niente affatto scontata. Copernico, ad es., diede alle stampe le sue analisi rivoluzionarie solo poco prima di morire.

E nessun testo degli scienziati del XVII e XVIII secolo mette in dubbio l’esistenza di dio. Tutti hanno paura di spiacevoli conseguenze per la loro carriera e persino per la loro incolumità, siano essi cattolici o protestanti.

È noto che Lutero, Melantone e Calvino giudicarono assai negativamente le idee di Copernico: non accettarono neppure la riforma gregoriana del calendario (che tra l’altro si basava proprio sui suoi calcoli matematici). Se gli scienziati dell’Europa protestante ebbero maggiore libertà d’azione, fu solo perché qui la borghesia era notevolmente più sviluppata, come lo era stata quella italiana prima del Concilio di Trento. Questo per dire che se anche la Chiesa romana si fosse astenuta dal criticare le idee scientifiche di Galilei e Copernico, rinunciando ad avvalersi della propria autorità politica, non avrebbe comunque potuto esimersi dal criticare le conseguenze laicistiche di quelle teorie.

Tuttavia è proprio su questo punto, relativo alla critica del laicismo implicito in quelle teorie scientifiche, che l’azione della Chiesa romana si è rivelata del tutto inadeguata. Cosa, d’altra parte, naturale quando si vuole sostenere una visione altamente ideologica della vita, la quale, peraltro, non permette neppure di capire sino in fondo le implicazioni di teorie opposte a quelle dominanti.

Da un lato infatti la Chiesa era tutta preoccupata di dimostrare che la Bibbia non poteva essere letta, là dove si voleva, avvalendosi di allegorie o metafore, poiché così si sarebbe potuta facilmente sostenere una qualunque interpretazione. Dall’altro però non riusciva a capire che la concezione della natura che aveva Galilei era pericolosa non tanto perché vicina all’ateismo, quanto perché profondamente “borghese”, cioè connessa a una concezione della vita e dei rapporti con la natura tutt’altro che democratica.

Galilei amava fare scienza secondo un preciso scopo, ch’era quello di tutti gli scienziati dell’epoca: dominare la natura. Secondo lui la scienza doveva essere posta al servizio delle esigenze di dominio di una classe sociale particolare. La Chiesa romana non lo contesta mai su questo aspetto, né vede che quelle teorie possono diventare pericolose per l’integrità della natura, per il rispetto dell’ambiente. Lo contesta semplicemente per il fatto ch’egli vuole sostenere delle idee contrarie a quelle dominanti.

In altre parole la Chiesa, come istituzione avente un determinato potere politico, teme che se la società si convince che quelle teorie scientifiche, così diverse da quelle ufficiali della teologia, risultano essere più credibili, allora è il suo stesso potere istituzionale che rischia d’essere minacciato. Bellarmino critica ideologicamente Galilei perché in realtà si sente rappresentante di una Chiesa preposta a gestire un potere politico. Più volte infatti aveva sostenuto che l’Inquisizione non avrebbe avuto nulla da eccepire se gli scienziati si fossero limitati a dire che le loro teorie erano semplici ipotesi interpretative, prive di qualunque attendibilità: cosa che sul piano fisico-matematico era quanto meno una richiesta irricevibile.

Su questi temi si potrebbero scrivere interi trattati, sia perché quando si sostiene (e gli scienziati lo facevano) che tra fede e scienza non vi è contraddizione, in quanto sono separati i loro ambiti e diversi i loro obiettivi, si sta in realtà sostenendo una posizione ambigua, di compromesso, che è poi chiaramente falsa, poiché uno sviluppo della scienza è sempre incompatibile con una posizione religiosa (almeno con una teologia tradizionale, chiaramente definita). Ma anche perché lo sviluppo “borghese” della scienza è straordinariamente somigliante a quello della religione cattolica e protestante (la prima sul piano politico-istituzionale, la seconda su quello socio-economico); nel senso che sia la teologia che la scienza hanno sempre avuto la concezione dell’uomo come “dominatore” della realtà, libero di usare gli strumenti più opportuni (quindi anche quelli più arbitrari) per affermarsi.

In Bacone (al servizio dei Tudor, una dinastia particolarmente sostenuta dalla borghesia inglese) è evidentissima l’equazione di scienza e potere. Né l’una né l’altro, nella sua filosofia, possono essere dati dai sillogismi della logica aristotelica o dalle magie e astrologie dell’Umanesimo del Quattrocento, ma solo dalla matematica e dalle scienze naturali con cui si scoprono le leggi della materia.

Ecco, sotto questo aspetto la differenza tra teologia cristiana (cattolica o protestante) e scienza borghese verteva soltanto sui mezzi o sugli strumenti da usare. Gli scienziati del Seicento portano alle più logiche conseguenze le filosofie laico-umanistiche sviluppatesi nei secoli precedenti, le quali, a loro volta, non avevano fatto altro che laicizzare ulteriormente le posizioni dell’ultima Scolastica, soprattutto di quella francescana presente in Inghilterra, chiaramente favorevole al sensismo e all’empirismo.

Questo sviluppo “borghese” della scienza è potuto avvenire in Europa occidentale proprio perché qui era maturata una teologia che di “umano” aveva assai poco: sia perché non conosceva in alcun modo il senso della “democrazia” (che si ritrova a quel tempo nello spirito conciliare della chiesa ortodossa), sia perché il rispetto della natura non era intrinseco alla teologia cattolica ma semplicemente relativo al fatto che ancora non si era compiuta la rivoluzione industriale.

A partire da Copernico (che peraltro era un ecclesiastico!) la scienza borghese non si poneva affatto (nonostante si pensasse il contrario) come un’alternativa alla teologia fondamentalista della Chiesa romana, ma si poneva come la sua immagine speculare, privata semplicemente di quegli orpelli mistici che il tempo aveva reso obsoleti. Tant’è che gli stessi scienziati erano così affascinati dalle loro scoperte che non tardarono a fare della nuova scienza una nuova “religione”. Il fatto stesso di voler tradurre tutta la realtà in rapporti matematici, lo dimostra; e anche il fatto di voler trascurare la qualità delle cose a tutto vantaggio della quantità.

Tutti, nessuno escluso, sono convinti che la nuova scienza debba servire per “dominare” la natura; e, pur di realizzare questo obiettivo, compiono cose che oggi giudichiamo eticamente discutibili, come ad es. il fatto di riprodurre in laboratorio condizioni ambientali private di tutte quelle imperfezioni, eccezioni, incongruenze… che nella realtà quotidiana sono del tutto naturali e che generalmente si accettano come facenti parte di una vita normale, in cui le contraddizioni vengono giudicate inevitabili.

La scienza da laboratorio, quella tipica di Galilei, pretendeva (e lo pretende ancora oggi) d’essere “pura”, aliena da condizionamenti socio-ambientali. Invece di chiedersi come superare “scientificamente” le contraddizioni sociali, la scienza borghese si poneva al servizio di quella classe che, in mezzo a quelle contraddizioni, ambiva soltanto a cercare un’affermazione personale, esclusiva, ch’era sì ostile ai poteri dominanti, ma soltanto per ottenere un proprio spazio nell’ambito di quegli stessi poteri. Per questa scienza non contava più chiedersi il “perché” delle cose ma solo il “come”. L’essenza stessa dei fenomeni veniva ridotta a un’operazione di calcolo. Si voleva far credere che un approccio alla realtà di tipo matematico potesse essere esente da valutazioni ideologiche, e quindi condivisibile da chiunque.

Questa scienza fisica e astronomica rappresenta le premesse culturali di quella scienza che di lì a poco sarebbe stata l’economia politica classica. Si vuol fare della scienza un qualcosa di asettico, di neutrale, indipendente da ogni valutazione etica (che quella volta coincideva con la religione); e, così facendo, si pongono le basi per una qualsivoglia scoperta o invenzione, privando la scienza di un criterio che possa stabilire quando una ricerca è “sensata” (cioè a misura d’uomo) oppure no.

La scienza borghese è tutto meno che scientifica, proprio in quanto rifiuta di confrontarsi con l’etica. Infatti solo a posteriori, dopo che sono avvenuti immani disastri, la borghesia si chiede come porvi rimedio. Un criterio per stabilire i limiti della ricerca viene rifiutato categoricamente, come se la scienza fosse un dio da adorare in maniera indiscutibile. Infatti quando avvengono i disastri (che oggi sono sempre più di carattere internazionale), non si mette mai in discussione la scienza in sé, ma solo il metodo con cui la si è applicata. Si pensa cioè di poter risolvere i suoi difetti semplicemente rendendo gli uomini migliori, più umani, e non si pone mai all’ordine del giorno il problema di come rivedere i criteri con cui si fa “scienza”.

E così, come sempre accade, gli uomini, eticamente migliorati per necessità oggettive, determinate dalle varie devastazioni, si trovano nuovamente a gestire dei criteri e dei mezzi tecnologici per i quali la loro eticità continua a rivelarsi del tutto insufficiente. Tant’è che dopo un certo periodo di tempo avvengono nuovi disastri, nuove apocalissi, in una spirale senza fine. Guarite le ferite, si torna a combattere una battaglia persa in partenza. Andando avanti di questo passo si rischia soltanto di porre delle condizioni sempre più autodistruttive, per le quali sarà impossibile trovare dei rimedi efficaci alle nostre assurde pretese di dominio.

Comments

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Enrico Galavotti
Tuesday, 18 October 2016 19:02
Galilei poteva professare il proprio ateismo proprio perché già lo stava professando la chiesa romana. La differenza, sul piano ideologico, stava nel fatto che l'ateismo cattolico dichiarava dio una conseguenza della logica astratta scolastico-aristotelica (con le sue dimostrazioni fasulle circa l'esistenza di una divinità assoluta, perfetta ecc.), mentre l'ateismo di Galilei voleva fare della scienza sperimentale la nuova logica moderna, la quale poteva fare a meno di qualunque dimostrazione dell'esistenza di dio (con lui l'uomo stesso, padrone di scienza e tecnica, diventa dio, padrone della natura). L'altra differenza era tutta politica: una determinata affermazione di ateismo, quella ecclesiastica, sostenuta da un potere politico autoritario, non può sopportare un'affermazione diversa, concorrenziale, che può mettere in discussione lo status quo.
Ma il vero problema è un altro, ed è che Galilei fa della propria scienza una nuova religione, in quanto la separa nettamente dall'etica (non solo dalla religione), e la pone al servizio di una classe sociale che, questa sì, vuole avere un atteggiamento strumentale nei confronti della scienza, finalizzato alla realizzazione di profitti economici, in totale dispregio delle esigenze riproduttive della natura, la quale, come lui stesso afferma più e più volte, va semplicemente “dominata”.
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Spartaco
Tuesday, 18 October 2016 04:09
* interessante
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Spartaco
Tuesday, 18 October 2016 04:08
@ Enea Bontempi

Ho trovato utile ed interrssante il suo intervento. Grazie.
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Enea Bontempi
Monday, 17 October 2016 16:01
L'autore dell'articolo, fuorviato dalla propensione verso una critica romantica della scienza, non coglie il punto cruciale della questione, vale a dire il "compromesso bellarminiano". La scienza moderna è nata infatti da una duplice rottura: rispetto al dualismo ontologico di derivazione platonico-aristotelica, per cui esistono due mondi, quello celeste e perfetto, la cui sostanza è l’etere, e quello sublunare, terrestre e imperfetto, costituito dai quattro elementi (aria, terra, acqua e fuoco); rispetto all’interpretazione strumentalistica della scienza moderna, sostenuta dalla Chiesa e dal suo rappresentante teologico e filosofico, il cardinale Bellarmino. Come ha spiegato con la consueta chiarezza Ludovico Geymonat, il vero nodo epistemologico e filosofico del conflitto tra Galileo e la Chiesa non fu la contrapposizione tra geocentrismo ed eliocentrismo, ma la scontro fra l’interpretazione realistica della scienza moderna, difesa dal grande scienziato pisano, e l’interpretazione strumentalistica, sostenuta da Bellarmino e dal papa Urbano VIII, nonché anticipata, in campo protestante, dal teologo luterano Osiander nella prefazione del 1543 al capolavoro di Copernico, il trattato “De revolutionibus orbium coelestium”. Il processo a Galileo e la conseguente abiura a cui l’autore del “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo” fu costretto segnarono la vittoria del “compromesso bellarminiano”, ossia del connubio tra una concezione strumentalistica della scienza moderna, che depotenziava il suo intrinseco significato materialistico, e l’ontologia religiosa creazionistica desunta dalla Bibbia. Ecco perché i ‘moderni Simplici’, che operano la separazione fra strumento e fine, si trovano esattamente nel solco tracciato dal “compromesso bellarminiano”, e pertanto sono da considerare, filosoficamente, degli ermafroditi: in parte tolemaici e in parte copernicani, essendo per loro le due concezioni (non descrizioni vere della realtà ma) strumenti utili e, quindi, intercambiabili in ragione dell’efficacia pratica. Anche se si trovano in compagnia della maggioranza della comunità dei fisici contemporanei, all’interno della quale i realisti sono una minoranza, questa collocazione non li rende meno subalterni alle direttive della Chiesa che ripropone una visione strumentalistica della scienza e ne nega conseguentemente la portata intrinsecamente filosofica, orientata verso il materialismo.
È superfluo ricordare, a questo proposito, che l’unificazione ontologica del mondo e il superamento del dualismo antico e medievale, se ha privato l’universo del suo fascino ‘antropocentrico’, ha messo in moto, da un lato, un processo di disantropomorfizzazione della natura, che continua ancora oggi e che è la base di ogni indagine sperimentale, e, dall’altro, ha reso possibile l’applicazione della matematica alla fisica generando lo straordinario progresso scientifico e tecnico, di cui l’umanità contemporanea è, ad un tempo, creatura e creatrice.
Concludo queste considerazioni con due postille. La prima riguarda, per un verso, la natura controintuitiva della concezione eliocentrica, fattore, questo, che rese particolarmente forti e insidiose le obiezioni dei filosofi aristotelici, i quali, fedeli all’osservazione diretta dei fenomeni naturali, si rifiutavano, ad esempio, di guardare nel cannocchiale di Galileo le macchie solari e la superficie accidentata e tutt’altro che perfetta del suolo lunare (ben a ragione, se si pensa che quello strumento tecnico era una ‘teoria materializzata’); per un altro verso, concerne la persistenza, riscontrabile anche nel nostro linguaggio, della concezione tolemaica: infatti, sono correnti ancor oggi espressioni come “il sole nasce” e “il sole tramonta”, che riflettono (non la concezione copernicana ma) la concezione tolemaica.
La seconda postilla è ricavata, per chiudere il discorso con una ‘boutade’ filosofica, da un apologo che Terry Eagleton, critico letterario inglese aperto alla riflessione teorica, racconta nel libro “Che cos’è l’ideologia”. Tale apologo attesta la genialità logico-linguistica, non priva di un sottile ‘sense of humour’, di uno dei massimi pensatori del ventesimo secolo, Ludwig Wittgenstein. Questi, un giorno, domanda a un collega perché la gente consideri più naturale che il Sole ruoti intorno alla Terra che non il contrario. Al collega il quale gli risponde che semplicemente sembra così, domanda, a sua volta, che cosa sembrerebbe se la Terra si movesse intorno al Sole. Laddove è palese che la nuova domanda, basata anch’essa su un’ipotesi controintuitiva, con cui Wittgenstein replica alla tranquillizzante risposta del suo collega, mostra che non è possibile derivare semplicemente un errore dalla natura delle apparenze, poiché in entrambi i casi le apparenze sono le stesse, e apre così la via ad un’indagine critica delle apparenze che può anche giungere a configurarsi come critica dell’ideologia fondata sulla spontaneità della coscienza e sulla immediatezza della percezione.
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