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La teoria marxista dello Stato socialista e del diritto
di Mario Cermignani
Il concetto di “democrazia socialista” e la funzione delle regole giuridiche in Marx, Lenin e nell'ottobre 1917
Processo rivoluzionario, questione della proprietà e Stato socialista. La visione marxista ed il ruolo del Partito comunista
Alla base della teoria marxista dello Stato vi è la contraddizione ultima ed insanabile (che, nella logica “dialettica” del reale, costituisce il fondamento oggettivo della necessaria e razionale evoluzione socialista del processo storico) fra sviluppo delle forze produttive della società e rapporti di produzione/proprietà capitalistici: cioè l'inconciliabile contrasto, scoperto dalla scienza marxista, tra l'oggettiva e progressiva “socializzazione” (interconnessione/correlazione/interdipendenza generale e “collettiva”) della produzione, della capacità e dei processi lavorativi, da un lato, e, dall'altro, i rapporti di appropriazione “privata”, da parte di una esigua minoranza dell'umanità, del prodotto sociale generato dal medesimo lavoro collettivo.
Sul punto è illuminante Lenin, in “Che cosa sono gli amici del popolo”:
“Le cose vanno in un modo del tutto diverso quando si giunge, grazie al capitalismo, alla socializzazione del lavoro. (…) Ne risulta che nessun capitalista può fare a meno degli altri. E' chiaro che il detto 'ognuno per sé' non è più applicabile in nessun modo ad un simile regime: qui oramai ognuno lavora per tutti e tutti lavorano per ciascuno (…). Tutte le produzioni si fondono in un unico processo sociale di produzione, mentre ogni produzione è diretta da un singolo capitalista, dipende dal suo arbitrio, e gli dà i prodotti sociali a titolo di proprietà privata. Non è forse chiaro che la forma di produzione entra in contraddizione inconciliabile con la forma dell'appropriazione? Non è forse evidente che quest'ultima non può non adattarsi alla prima, non può non divenire anch'essa sociale, cioè socialista?”.
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L’impossibile cambiamento
di Militant
Quando nel giugno 2016 Il Movimento Grillino riuscì a conquistare il Campidoglio con Virginia Raggi, grazie al massiccio consenso registrato nelle periferie della città, si pensò, con molti se, che la debacle del Pd e di quel sistema di potere pervasivo che aveva governato per alcuni decenni, si fosse scomposto, disarticolato. Non certo il partito degli affari ma almeno il referente politico bipartisan che aveva diligentemente portato avanti le politiche liberiste nella città. Sappiamo tutti com’è andata e nessuno nel nostro campo, nonostante l’evidente soddisfazione per la rovinosa sconfitta del PD, considerava la nuova giunta dell’onestà e della trasparenza”, una giunta che sarebbe stata amica dei movimenti e risolutrice di alcune grandi questioni sociali che affliggevano in particolare la metropoli romana.
Tanta acqua è passata sotto i ponti da quel 2016: abbiamo visto il Renzismo cadere nel giro di un anno, le elezioni del 4 marzo 2018, l’alleanza giallo verde, l’ascesa del Salvinismo (ancora in corso) in consistenti settori delle masse popolari e l’avvento dell’inedita alleanza di sistema Grillo Renzi. A tre anni di distanza occorre tracciare un bilancio di questo tempo trascorso, partendo da alcune premesse necessarie e non scontate che riguardano il governo della città liberista.
La prima riguarda il contesto, la cornice politica della crisi generale, che è in primis economica e sociale, senza cui è impossibile comprendere la crisi del governo della città. Questa premessa è necessaria per capire la sostanziale ingovernabilità del regime metropolitano, in assenza di una politica espansiva, in cui il diktat, mai messo in discussione, del pareggio di bilancio, è un totem intoccabile. Contro questo macigno posto sull’unica strada percorribile, nessuno, neanche la forza più popolare e di sinistra, sarebbe in grado di segnare quella famosa discontinuità o cambiamento.
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Liquidità BCE
Nella palude dell'UE
di Francesco Cappello
Draghi reimmetterà 20 miliardi al mese (creati dal nulla) nel circuito economico
Per statuto non può immetterli direttamente nell’economia reale in forma di investimenti pubblici, sostegno alle imprese, alle famiglie ecc… mette quindi delle condizionali nella “speranza“ che stavolta possano raggiungere il target desiderato. Nella Unione Europea è stata introdotta l’idea criminale che gli investimenti pubblici in deficit siano da evitare perché causerebbero debito. Ne sono conseguite pratiche malsane che stanno portando allo smantellamento della casa comune. Si fa avanzo primario dal ’92. Si spende cioè meno di quanto si incassi sotto forma di tasse così che rimanga sempre qualcosa da destinare al pagamento del servizio al debito. Non si investe nei servizi pubblici, che vengono piuttosto taglieggiati, si risparmia sulla previdenza, le infrastrutture al collasso vengono abbandonate al loro destino, si svende il patrimonio comune nel tentativo di far cassa, i trasferimenti dello Stato ai comuni sono stati ridotti al lumicino viceversa questi ultimi sono stati incoraggiati a diventare esattori delle tasse locali. Si fanno concessioni di sfruttamento coloniale del territorio svenduto, spesso a multinazionali straniere che fanno i loro comodi operando con finalità estrattive di ricchezza. Tali concessioni, compensate con due briciole e tre posti di lavoro… sono generalmente fatte passare per salvifici investimenti stranieri.
È vero che fare investimenti pubblici in deficit crea debito? No. Chi fosse interessato veda qui (1) [Ancora meglio se si riprendesse ad usare, in parallelo all’euro, moneta a non debito come si dirà più avanti]. Sappiamo che nel settore pubblico il vincolo di ideale saldo zero (spese=entrate fiscali) e in generale il Fiscal Compact, che nel 2012 ha sovvertito la costituzione economica (nuovo art. 81), ci impediscono qualsiasi politica fiscale espansiva (1).
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La libertà è solo nella verità
Trockij, Lenin, Stalin
di Salvatore Bravo
Democrazia e capitalismo assoluto
I processi di dominio ed alienazione sono la verità del capitalismo assoluto, la pratica del capitalismo assoluto agisce secondo due direzioni convergenti: la struttura e la sovrastruttura speculari l’una all’altra: il fine è non lasciare tempo e spazio per il pensiero e sostituirlo con il calcolo. La fase del rispecchiamento del capitalismo diviene così totalitaria, in assenza di discrepanze tra struttura e sovrastruttura non resta che il pensiero omologato e la necrosi della democrazia. Se la democrazia sopravvive perché è usata come mezzo ideologico contro i sovvertitori dell’ordine mondiale, la motivazione è da riscontrarsi nella sua riduzione a forma giuridica privata di ogni partecipazione sostanziale. La “democrazia del capitale” rende sostanziale i diritti delle merci ed il loro feticismo, infatti possono circolare senza limiti nello spazio concreto e virtuale, attraversano l’etere per colonizzare le menti mediante le tecnologie. L’”atmosfera” al tempo del capitalismo assoluto è inquinata dall’invisibile circolazione di frequenze che trasportano messaggi commerciali; il capitalismo non lascia nessuno spazio libero: visibile ed invisibile si ritrovano accumunati nella densità quantitativa e calcolante. Nel Timeo il Demiurgo soffiava nel corpo del cosmo per vivificarlo, donandogli un’anima unica che tutti accomuna, il capitalismo assoluto soffia nello spazio e nel tempo per dividere, per frammentare e lasciare dietro di sé un mondo di solo cose. L’effetto di tale pratica non è solo la divisione e la formazione di individui anticomunitari, ma una miriade di specializzazioni che consentono di acquisire un numero notevole di informazioni tecniche, ma inibiscono ogni pensiero della totalità. Democrazia senza verità e prassi e, pertanto, non resta che il calcolo nichilistico delle tecniche di produzione e controllo, a cui si è passivamente sussunti.
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Nazionalizzare. Cui Prodest?
di Andrea Genovese e Mario Pansera
Il capitale multinazionale si muove come vuole, si sposta cercando di ridurre i costi di produzione (uniche variabili, ormai, sono i salari e le politiche fiscali nazionali), delocalizza, sfrutta territori e persone e se ne va.
Ma oltre a questa dinamica, ormai consaputa, rispetto alla quale gli Stati nazionali si comportano da servi (per debolezza o per convinzione ideologico-corruttiva), c’è anche la saturazione di mercato per alcune merci, mentre sorgono (a ritmo sempre più lento) nuovi bisogni indotti e merci in grado di soddisfarli.
La fuga del capitale multinazionale ha come unica risposta possibile la nazionalizzazione degli stabilimenti che vengono abbandonati, con terribili conseguenze sull’occupazione, specie in territori che non presentano particolare densità industriale.
Ma – è questo il merito della riflessione di Andrea Genovese e Mario Pansera – non tutti i settori produttivi sono uguali. Nazionalizzare uno stabilimento che produce merci “mature”, per cui esiste solo un mercato di sostituzione (peraltro rallentata dai bassi salari medi, che limitano i consumi) può avere un senso per tutelare l’occupazione, ma essere un fallimento nelle normali dinamiche “di mercato”.
Dunque si pone una domanda importante per chiunque non sia asservito ai desiderata del capitale: quali nazionalizzazioni sono strategiche e quali no? Una volta espropriata la fabbrica – senza indennizzo – bisogna sapere se quella produzione è ancora significativa (e in che misura) e cominciare a pensare a riconvertire su altri prodotti. Per cui in genere servono altri tipologie di stabilimento, ossia con nuovi investimenti
Insomma, salvaguardia dell’occupazione e utilità sociale della produzione debbono essere pensate come un tutto. Una volta era quasi normale chiedersi: cosa produrre e come, per soddisfare quali bisogni?
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L'euro-dittatura getta la maschera
di Leonardo Mazzei
Cosa ci dice la vergognosa risoluzione anticomunista del parlamento di Strasburgo
Quando si parla di totalitarismo eurista, ci si riferisce solitamente al retroterra ordoliberista da cui sgorgano quelle regole e quei "trattati europei" (in realtà dell'Ue) che imprigionano tanti popoli e nazioni del continente. Ma, come i carabinieri, l'ordoliberismo in campo economico non cammina da solo, andando invece a braccetto con una più ampia visione totalitaria del mondo. Da qui l'incredibile e vergognosa risoluzione adottata giovedì scorso dal parlamento europeo.
Una risoluzione obbrobriosa sotto ogni punto di vista, scritta male, con concetti fasulli ripetuti senza fine, basata su falsificazioni madornali, dove non si sa neppure se sia più la malafede che l'ignoranza, dove si tratta di storia come se si scrivesse una sentenza in un tribunale di quart'ordine. E tuttavia una risoluzione illuminante, con la quale fare i conti fino in fondo. Una risoluzione che ci dice alla perfezione cosa sia davvero l'Unione Europea.
I nostri critici che si vorrebbero di "sinistra" ritengono che l'Ue, per quanto imperfetta, sia comunque meglio del sovranismo, che per loro è sempre nazionalismo, dunque - da una semplificazione all'altra - inevitabilmente fascismo. Per loro lo scandalo (vedi, ad esempio il Manifesto) sta nel fatto che il Pd ha votato come Orban. Ora, a parte il fatto che il Pd in Europa governa - governa! - con il partito di Orban, la questione decisiva qui è un'altra. Ed essa risiede nella pretesa, questa sì totalitaria, di ostracizzare definitivamente chi si colloca fuori dalla cornice del pensiero dominante. In breve: o si è liberali, meglio se liberisti, oppure si deve essere cacciati ai margini della società. Da qui la riscrittura del passato, l'apologia delle forze e dell'ideologia che dominano il presente, l'ipoteca che si vorrebbe mettere sul futuro.
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Dallo spettacolo alla falsificazione
Tra Walter Benjamin e Guy Debord
di Antonio Mastrogiacomo
Il presente contributo rilegge le indicazioni elaborate dal movimento situazionista – ineludibile il riferimento a Guy Debord – in aperta sintonia con la chiusa del testo benjaminiano dedicato alla fotografia e al cinema, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica1. A partire da questa singolare prospettiva saranno indagati i rapporti tra il movimento situazionista e le teorie dell’arte a lui contemporanee: la corrispondenza biunivoca tra opera e artista delimita dunque i contorni dello spettacolo derivabili dal sistema di produzione capitalistico di accumulazione delle merci come occorso a partire dal Novecento storico: sul palcoscenico la vita quotidiana individuata a motivo permanente della realizzazione dell’arte e della rivoluzione. Nel solco dell’iniziazione benjaminiana, il movimento situazionista viene riletto altresì come concretizzazione della politicizzazione dell’arte individuata quale alternativa all’estetizzazione della politica fascista riflessa icasticamente nello specchio futurista; al netto della distanza cronologica, questi due movimenti dialogano in qualità di matrici possibiliste delle avanguardie storiche. Il riferimento al movimento situazionista anticipa infine il ricorso alla manipolazione delle immagini come occorre nella scrittura audiovisiva, emancipata dalla sola riproduzione e proposta come nuova linearità narrativa.
1. Tra Walter Benjamin e Guy Debord
Il testo sulla riproducibilità tecnica è caratterizzato da un andamento la cui segmentazione ricorda la scansione dei brani di un qualsiasi long play di popular music. Diviso, a seconda delle diverse edizioni, tra diversi paragrafi, proprio l'ultimo custodisce il riferimento diretto al futurismo, individuato quale rovesciamento tra mezzi e fini nella tecnica.
“Fiat ars – pereat mundus”, dice il fascismo, e, come ammette Marinetti, si aspetta dalla guerra il soddisfacimento artistico della percezione sensoriale modificata dalla tecnica. È questo, evidentemente il compimento dell’arte per l’arte.2
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La parziale riscoperta della politica fiscale al tempo della stagnazione secolare
di Davide Cassese
Nel 2014 Larry Summers, durante un discorso presso l’FMI, sosteneva che l’economia mondiale avrebbe corso il rischio di essere impigliata in una stagnazione secolare (Summers, 2014; 2015), vale a dire in una situazione di bassa crescita e di contestuale incapacità delle banche centrali di agire nella direzione di invertire il trend dell’economia, dato il livello dei tassi di interesse già eccezionalmente basso.
Da quel momento la questione della stagnazione secolare è entrata nel dibattito scientifico e sta acquisendo molta importanza presso gli addetti ai lavori. Su questa rivista una fedele ricostruzione del dibattito è stata fatta da Di Bucchianico (2018).
Rispetto a questo fenomeno, oltre alla ricerca delle cause che possono determinarla, diventa rilevante anche la ricerca di soluzioni per superare la stagnazione stessa.
La stagnazione secolare e il ruolo della politica monetaria
Secondo Summers le cause della stagnazione secolare dovrebbero essere ricercate nel fatto che il tasso di interesse naturale – quello che metterebbe in equilibrio risparmi ed investimenti – si trovi in territorio negativo. Dato che il tasso di interesse di mercato non può essere negativo, essendo quindi superiore a quello naturale, l’economia si trova ad operare in un contesto di deflazione, in cui gli investimenti ristagnano. Come soluzione Summers sostiene che le banche centrali debbano mantenere i tassi di interesse nominali a zero per lungo tempo, così da generare aspettative di inflazione future. L’aumento dell’inflazione attesa avrebbe un effetto espansivo, attraverso la riduzione dei tassi di interesse reali: modificherebbe le decisioni di consumo ed investimento e darebbe vigore alla dinamica dell’economia.
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Il Nord sbuffa, sotto il peso della crisi tedesca
di Guido Salerno Aletta
Il dibattito politico è pesantemente viziato dalla ricerca del consenso facile. “Vincono” quasi sempre i falsari di bassa lega, perché è difficile controbattere le stronzate propagandistiche discutendo di dati, strutture produttive, scelte strategiche (anche di collocamento internazionale). Ci vorrebbero molte lauree a testa per esprimere pareri non campati in aria.
Quindi le “emergenze” che riescono ad assumere centralità sono quelle che non esistono, o vengono create ad arte, per solleticare il pensiero corto, le reazioni da Napalm51. Gli immigrati, ma solo quelli di pelle scura, sono il bersaglio preferito, perché facile da indicare. Se questi inviti arrivano da forze rappresentate in Parlamento, automaticamente si promuove l’instupidimento di massa, in una corsa sempre più veloce verso il fondo.
Naturalmente, non si può pensare di contrastare questa deriva nazi-imbecille con il finto “buonismo” rivestito in slogan altrettanto semplici ma di presa infinitamente minore. Bisogna sapere come sta messo questo paese, quali comparti reggono e quali no, quali regioni soffronto di più la crisi, quali figure sociali ne sono investite inmisura maggiore e quali se ne rendono conto meglio.
Bisogna studiare la situazione, altrimenti si dicono fesserie. Magari di buona volontà e piene di comprensione umana, ma efficaci come preghiere in tempo di guerra.
Dietro gli slogan ci sono organizzazioni politiche labili, fatte soprattutto di “contoterzisti” senza alcuna progettualità di lungo periodo. A muovere queste organizzazioni sono interessi strutturati, molto diversi tra loro e, in parte, indifferenti anche agli slogan che i “propri campioni” usano quotidianamente.
Interessi che “badano al sodo”, ovvero alle politiche economiche possibili (con grande competizione sulle poche risorse disponibili all’arbitrio politico nazionale), all’occupazione delle postazioni politiche che possono determinarle (governo, autorithy, regioni, comuni metropolitani e non).
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Marxismo creativo, libertà e "linea rossa"
di Alessandro Pascale
[Quella che segue è la relazione tenuta da Alessandro Pascale in occasione dell’assemblea pubblica sull’effetto di sdoppiamento svoltasi al Centro culturale Concetto Marchesi (Milano), il 14 settembre 2019 a Milano. All’assemblea, moderata da Massimo Leoni, hanno partecipato come relatori anche Roberto Sidoli, Giorgio Galli, Marco Rizzo. Nella foto da sx a dx: Sidoli, Leoni, Rizzo, Galli, Pascale]
Contro il determinismo economico
La teoria dell’effetto di sdoppiamento pone la questione di una rivalutazione della Politica sull’Economia. Ad un primo sguardo superficiale sembrerebbe una messa in discussione del materialismo storico ma questa, per l’appunto, non è altro che una visione volgare della questione. In realtà, come emerso in maniera netta dalla relazione di Roberto Sidoli, tale teoria non è altro se non un’adeguata interpretazione che si innesta nel solco tracciato dal pensiero dei grandi classici del socialismo scientifico.
Per mostrare queste affermazioni leggiamo un breve estratto del Dizionario dei termini marxisti, curato da Ernesto Mascitelli nel 1977 e disponibile gratuitamente sul sito Resistenze.org. Alla voce “determinismo economico” ecco quanto si riporta:
«È la concezione che ritiene che lo sviluppo storico sia rigidamente ed esclusivamente determinato dallo sviluppo delle forze produttive e delle componenti “tecniche” della società. Il determinismo economico esclude la possibilità che l’organizzazione cosciente della classe operaia possa in qualche modo influire sullo sviluppo storico. È il fondamento teorico di alcune delle più importanti correnti opportuniste della II Internazionale. La teoria secondo cui avrebbe dovuto verificarsi “il crollo inevitabile del capitalismo” per motivi esclusivamente economici, ampiamente diffusa nella socialdemocrazia tedesca negli ultimi anni dell’Ottocento, fu una delle espressioni più classiche di questa concezione. Il determinismo economico fu criticato dai principali esponenti del movimento comunista in quanto rappresentava un’incomprensione dei fondamentali principi del materialismo storico. Spesso si accompagnava all’affermazione della necessità di una “revisione” del marxismo. Inoltre, dal punto di vista politico, si manifestò come rinuncia alla difesa degli interessi della classe operaia».
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Perché le critiche del prof. Perotti alla “moneta fiscale” sono sbagliate
di Enrico Grazzini
Gentile prof. Roberto Perotti,
vorrei approfondire la discussione sulla cosiddetta “Moneta Fiscale” che lei ha criticato nel suo scritto “La sirena della moneta fiscale”[1] pubblicato sul sito web lavoce.info, e desidero dimostrare che le sue obiezioni e le sue tesi sono fallaci.
Nel suo articolo spiega che
“La moneta fiscale è essenzialmente un Certificato di Credito Fiscale (CCF), cioè un titolo emesso dallo stato che può essere usato, alla scadenza, per pagare tasse, multe, ed altre obbligazioni finanziarie verso lo stato, per un valore pari al valore facciale del titolo stesso. Il titolo è trasferibile a terzi”. Lei sostiene che la moneta fiscale è un tentativo di “aggirare il monopolio della produzione di moneta da parte della Bce, senza dover uscire dall’euro”.
Ma a suo parere questo tentativo è inefficace e sbagliato perché la moneta fiscale non sarebbe affatto diversa da un normale titolo di debito pubblico, per esempio da un BOT e quindi, come tale, provocherebbe un incremento di deficit pubblico. Ne deriva logicamente che l'emissione di moneta fiscale produrrebbe uno sforamento dei parametri fissati dall'Unione Europea, e che l'aumento del debito pubblico potrebbe perfino portarci fuori dall'euro. Da qui -secondo lei - il sostanziale fallimento della proposta di Moneta Fiscale.
Io vorrei dimostrarle che le sue tesi sono quasi totalmente sbagliate. Le mostrerò che, contrariamente a quanto lei indica nel suo scritto, grazie all'emissione di Titoli di Sconto Fiscale il governo italiano può fare crescere rapidamente e notevolmente l'economia reale senza fare deficit, anzi diminuendo il rapporto debito pubblico/PIL. Tutto questo rispettando necessariamente le (peraltro rigide, antiquate e restrittive) regole dell'eurozona e della UE.
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Città per turisti
di Alessandro Barile
Sarah Gainsforth, Airbnb città merce, DeriveApprodi, 2019, pp. 191, € 18,00
Bisognerebbe riflettere sul ritardo che l’Italia – e Roma in particolare – sconta riguardo ai temi della gentrificazione, della “turistificazione” dei centri urbani, degli stravolgimenti che in questi decenni recenti hanno sconvolto la morfologia delle sue principali città d’arte. Un paese pioniere della riflessione urbanistica si è trovato improvvisamente impreparato di fronte alle tormentate sfide che distinguono il volto di città e metropoli dei nostri giorni. A dire il vero gli ultimi anni hanno visto un inevitabile recupero: la trasformazione della città si è imposta quale motivo di analisi di un nuovo modello estrattivo, al tempo stesso produttivo, finanziario e parassitario. Il libro di Sarah Gainsforth si inserisce precisamente in questo movimento di attivismo politico-culturale: recuperare il tempo perduto, aggiornando interpretazioni sfocate, ormai incapaci di comprendere i fenomeni sociali che investono l’ambiente urbano. Come ogni lavoro di questo tipo, si presenta immediatamente interessante e inevitabilmente parziale. Interessante perché l’autrice coglie il motivo decisivo: smascherare le retoriche del capitalismo parassitario che travolge i centri urbani e li trasforma in qualcos’altro (ma cos’altro? Questa rimane la domanda inevasa); parziale perché, per l’appunto, pioneristico – almeno, come detto, nel nostro paese – e che quindi non può servirsi di una mole dignitosa e condivisa di studi italiani rilevanti sull’argomento. Si presenta dunque come lavoro dal quale partire, ed è la sua inequivocabile importanza.
Proviamo a centrare subito il tema, liberandoci dalle pastoie sociologiche o urbanistiche che ingarbugliano il problema dentro punti di vista troppo ristretti per svelare pienamente la complessità della vicenda: la città attuale è il prodotto della crisi economica.
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Metropoli e rapporto uomo-ambiente nella transizione al comunismo
di Mario Lupoli
Nella teoria e nella prospettiva attuale della transizione dal capitalismo contemporaneo al comunismo possibile, è essenziale oggi riprendere criticamente la riflessione attorno a quelle coordinate produttivistiche, tecno-idolatriche e antropocentriche che hanno caratterizzato ampia parte della teorica comunista tra fine Ottocento e Novecento. L’esigenza che emerge oggi è muoversi in orizzonti nuovi che più radicalmente affrontino la necessaria coniugazione di umano e naturale. L’articolo che segue vuole essere uno spunto per avviare un confronto su questi temi, ed è a sua volta il primo prodotto di un dibattito in corso
Nella sua riflessione sulla transizione dal capitalismo al comunismo, Trotsky[1] affronta la questione di una riprogettazione di massa di uno spazio di vita integrato umano-naturale sulla terra.
Trotsky prospetta infatti un coinvolgimento di massa – e non solo di architetti e ingegneri - nella progettazione di città-giardino, in una dinamica sociale che tende all’estinzione della divisione del lavoro.
Significativamente è in gioco la ricomposizione dell’uomo, che il capitalismo scinde al massimo grado (a livello individuale e di specie) fino a svuotarlo completamente della stessa capacità di dotare di senso la propria vita, le proprie relazioni e la propria prassi.
Questa ricomposizione si coniuga in un orizzonte nel quale la partecipazione crescente – anche alla riprogettazione urbanistica e quindi degli spazi e dei tempi di vita – consiste, da una parte, nell’esito del passaggio dal modo di produzione capitalistico alla società comunista, che, appunto, supera la divisione sociale del lavoro, l’alienazione e il feticismo delle merci, fenomeni tra loro fortemente correlati e co-determinati; dall’altra si identifica nella condizione e, insieme, nel progressivo radicale ampiamento della democrazia consiliare, fino a determinarne la perdita dei caratteri politici, giacché la scomparsa delle classi sociali renderà superflua la politica (ovvero, comunque sia, qualunque forma di potere, nelle sue varie articolazioni e configurazioni, di una classe su un’altra). Una volta persi tali caratteri, sarà necessaria esclusivamente una funzione amministrativa delle forme di coordinamento dell’associazione di liberi individui del comunismo. I due aspetti insieme lasciano scorgere che cosa possa implicare in termini di coinvolgimento di donne e uomini, a livello locale e internazionale, una riprogettazione degli spazi di vita.
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"Totalitarismo", triste storia di un non-concetto
di Vladimiro Giacché
Con la risoluzione approvata il 19 di settembre il Parlamento Europeo ritorna ad utilizzare il concetto di totalitarismo per giungere ad un'antistorica e inconcepibile equiparazione tra nazismo e comunismo. In questo saggio che rilanciamo Vladimiro Giacché spiega perché il totalitarismo è un concetto utilizzato sostanzialmente per equiparare nazismo e comunismo. Da La Contraddizione del 23/01/2006 – www.contraddizione.it
Come le guerre di Bush, anche il lessico ideologico contemporaneo è animato dalla lotta tra il Bene e il Male. Una lotta sanguinosa che vede contrapposti ai nostri alleati, “Mercato”, “Democrazia” e “Sicurezza”, due nemici mortali: “Terrorismo” e “Totalitarismo” – tra loro complici, e sempre meno distinguibili l’uno dall’altro. Come è logico, l’esecrazione generale circonda questi due tristi figuri. L’appellativo di “Totalitario”, in particolare, è decisamente tra gli insulti più in voga. Di “atteggiamento totalitario” è stato recentemente accusato il ministro brasiliano per la cultura Gilberto Gil da Caetano Veloso, nel corso di una polemica sulla distribuzione di fondi pubblici. “Tipica di uno stato totalitario” è secondo Vittorio Feltri la (sacrosanta) decisione del Prc di espellere un consigliere comunale che prima ha difeso il diritto di Di Canio di fare il saluto fascista, poi lo ha imitato a beneficio del fotografo di un giornale locale. E “totalitario” è ovviamente anche ogni oppositore di Berlusconi che venga sorpreso a pronunciare con tono di rimprovero le tre parole “conflitto di interessi”.
Si tratta di usi grotteschi del termine, ma a loro modo significativi. Ancora più significativo è l’uso del termine da parte dell’ex direttore della Cia James Woolsey: il quale ha recentemente affermato che “una stessa guerra” contrappone oggi gli Usa a “tre movimenti totalitari, un po’ come avveniva nel secondo conflitto mondiale”. I tre “movimenti totalitari” sarebbero rappresentati dal baathismo (sunniti iracheni e Siria), dagli “sciti islamisti jihadisti” (appoggiati dall’Iran e legati agli hezbollah libanesi) e dagli “islamisti jihadisti di matrice sunnita” (ossia “i gruppi terroristici come al Qăīda”) [intervista a Borsa & Finanza, 5.11.2005]. Un dubbio sorge spontaneo: che cosa diavolo hanno in comune oggi un nazionalista arabo laico, un fondamentalista islamico sciita e uno sunnita? Praticamente nulla. Eccetto una cosa: il fatto di opporsi agli Stati Uniti. “Totalitario”, insomma, è chi si oppone all’Occidente, e più precisamente agli Usa.
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Alcuni punti essenziali della Critica del Valore
di Anselm Jappe
Il sistema capitalista è entrato in una grave crisi. Questa non è solamente una crisi ciclica, bensì finale, e va vista non nel senso di un collasso imminente, ma come disgregazione di quello che è un sistema plurisecolare. Non si tratta della profezia di un evento futuro, ma della constatazione di un processo diventato visibile nei primi anni '70, le cui radici risalgono alle origini stesse del capitalismo. Quella cui assistiamo, non è una transizione che ci porta ad un altro regime di accumulazione (come avvenne nel caso del fordismo), né coincide con l'avvento di nuove tecnologie (come avvenne nel caso dell'automobile), e non si tratta neppure di uno spostamento del centro di gravità e della sua dislocazione verso altre regioni del mondo, ma dell'esaurimento di quella che è la fonte stessa del capitalismo: la trasformazione del lavoro vivente in valore.
Le teorie fondamentali del capitalismo, così come le analizza Karl Marx nella sua critica dell'economia politica, sono il lavoro astratto e il valore, la merce e il denaro, e che vengono riassunti nel concetto di feticismo della merce.
Una critica morale basata sulla denuncia dell'«avidità» eviterebbe di prendere in considerazione ciò che è essenziale. Non si tratta di essere marxisti o post-marxisti, o di interpretare l'opera di Marx, o integrarla per mezzo di altri contributi teorici. Ma, piuttosto, va ammessa la differenza tra il Marx «essoterico» ed il Marx «esoterico», tra il nucleo concettuale e lo sviluppo storico, tra l'essenza ed il fenomeno. Marx non è «obsoleto», come sostengono i critici borghesi. Anche se ci si concentra soprattutto sulla critica dell'economia politica,e all'interno di quella che è la teoria del valore e del lavoro astratta, ciò costituisce tuttora il contributo più importante per comprendere il mondo in cui viviamo.
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Alla ricerca di una migliore teoria macroeconomica
di Heinz D. Kurz e Neri Salvadori*
Abstract: Questo articolo sottolinea che un certo numero di elementi costitutivi della moderna macroeconomia e dei risultati che ne derivano non sono sostenibili. Il riferimento è alle presunte “microfondazioni” della teoria e, in particolare, all’uso di funzioni di produzione macroeconomiche e al metodo dell’“agente rappresentativo”. Le “leggi” semplici e apparentemente non invasive della domanda di input e dell’offerta di output non sono sostenibili in generale. I macroeconomisti sono spesso orgogliosi di sviluppare le loro argomentazioni in termini di una versione ridotta della teoria dell'equilibrio generale, ma si comportano come se ignorassero che la stabilità dell’equilibrio economico generale non può essere dimostrata in condizioni sufficientemente generali. Una ulteriore fonte di instabilità del sistema economico è riscontrabile nel carattere dirompente del cambiamento tecnologico
In un saggio recente dal titolo provocatorio “Rethinking Stabilization Policy: Evolution or Revolution?”, Olivier J. Blanchard e Lawrence H. Summers (2017, ripubblicato in questo numero: Blanchard e Summers, 2019) affermano che il manifesto fallimento della teoria macroeconomica dominante nel dar conto della “Grande Recessione” conseguente alla crisi finanziaria innescata dal crollo del segmento subprime del mercato immobiliare statunitense del 2007-2008 dovrebbe indurre i macroeconomisti contemporanei a cambiare in modo sostanziale i loro modelli interpretativi della realtà.1
Sfortunatamente, come si evince dal titolo stesso del loro lavoro, Blanchard e Summers non si sbilanciano e non ci dicono esplicitamente se il cambiamento che essi ritengono necessario sia da interpretarsi nel senso di una semplice “evoluzione” oppure se vada ricercata una vera e propria “rivoluzione”. In ogni caso, i due autori non lasciano dubbi sul fatto che, a loro avviso, mere operazioni cosmetiche, di piccoli aggiustamenti al margine, non siano sufficienti allo scopo di colmare il gap fra teoria e realtà macroeconomica. Essi sottolineano infatti come una analisi più approfondita della complessità del settore finanziario e della sua intrinseca instabilità sia solo il primo passo: “la lezione da trarre va ben oltre e dovrebbe costringerci a mettere in dubbio alcune credenze consolidate” (Blanchard e Summers, 2019, p. 172, corsivo nostro). Le “convinzioni tanto care” agli economisti contemporanei a cui Blanchard e Summers si riferiscono includono sia la presunzione che le economie di libero mercato siano in grado di autoregolarsi in modo tutto sommato ottimale, considerati i vincoli istituzionali, informativi etc. cui sono sottoposte, sia la presunzione che shock temporanei non possano avere effetti permanenti sul PIL pro capite di medio-lungo termine (ibidem).
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Leo Huberman, Paul Sweezy, “La controrivoluzione globale”
di Alessandro Visalli
Edito da Einaudi nel 1968 il libro “La controrivoluzione globale” include una raccolta di articoli dalle annate 1963-68 di Monthly Review, tutti firmati da Leo Huberman e da Paul Sweezy, intorno ad alcuni temi aggreganti: “la guerra coloniale interna”, ovvero gli scontri ed i disordini razziali; l’analisi di congiuntura dell’economia interna ed internazionale in una fase cruciale; la “guerra coloniale esterna”. Le due “guerre coloniali” sono tenute insieme dall’analisi dell’economia, o meglio delle esigenze interne del funzionamento economico.
La guerra coloniale interna
La prima parte prende avvio dalla “guerra alla povertà” lanciata da Johnson, che nel programma dell’Amministrazione avrebbe dovuto interessare 1/5 delle famiglie americane (mentre sarebbero dovute essere almeno il doppio), e destinava quindi una somma di un miliardo di dollari, nove volte insufficiente. Insomma, come capita, “l’intera faccenda è da cima a fondo una truffa politica”, che in realtà cercava di mettere un tampone ad un problema di eccesso di capacità dell’industria americana, rispetto al livello della domanda di beni e servizi che una società nella quale si estendono la povertà da una parte (per la maggioranza) e l’abbondanza dall’altra (per una stretta minoranza), esprimeva sempre di più.
Questo è l’ambiente nel quale, nell’articolo del 1964 “La guerra coloniale interna”, si dà conto della rottura tra Eliah Muhammad e Malcom X (che morirà l’anno dopo, ucciso da sicari probabilmente del primo), e della radicalizzazione del movimento dei neri. Il “vecchio movimento” (quello di Martin Luther King, ucciso a sua volta nel 1968) avanzava infatti delle tradizionali richieste di partecipazione. Secondo la loro analisi i neri erano semplicemente ed immoralmente privati dei loro diritti fondamentali, e non strutturalmente costretti in un sistema che ne richiedeva, per sua natura, l’oppressione, al fine di farne la classe-paria necessaria per il suo equilibrio.
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Pianificabilità, pianificazione, piano
di Ivan Mikhajlovič Syroežin
II parte – Pianificazione
Capitolo 4. L’autoregolamentazione nei sistemi economici (parte II)
Introduzione di Paolo Selmi
Affinità, per certi versi, sorprendenti, quelle che legano Robert Doisneau a un certo tipo di fotografia sovietica: nulla di strano, in realtà, ma semplice amore, adesione appassionata e incondizionata, oggi come allora, a descrivere il mondo da un certo punto di vista, tipizzato al punto da renderlo immediatamente riconoscibile, attraverso un linguaggio che personalmente preferisco a molti altri modi di “scrivere con la luce”: semplice e, al tempo stesso, talmente ricco di suggestioni da passare, in una stessa immagine, dall’ironia alla tenerezza, attraverso variegate sfumature intermedie, tante quante ne possono imbrigliare le diverse, possibili, concentrazioni di sali d’argento su una pellicola di celluloide.
Fotografo amato in URSS, Doisneau vi si recò anche per lavoro, in periodi diversi e qualcosa, sicuramente, “seminò” se, nel cercare immagini relative a un semplice distributore automatico di acqua gasata, mi sono imbattuto in questo piccolo capolavoro anonimo; immagine molto probabilmente costruita, come del resto – per sua ammissione – faceva spesso anche lo stesso Doisneau, nel creare le sue opere immortali lungo le strade parigine; al tempo stesso, l’immagine ritratta trabocca di quella spontaneità, di quella freschezza, di quel coinvolgimento, che trasfigurano, in ogni bambino, l’istante prima di azionare con una monetina quel misterioso meccanismo davanti a sé. In questo caso, peraltro, il meccanismo tanto misterioso non sembra, i due bimbi appaiono ormai abbastanza esperti e la loro tecnica combinata altrettanto “rodata”. Non potevo non omaggiare il lavoro di questo anonimo fotografo sovietico.
Accostare poi questo scatto alla teoria di Fiat 124, pardon, di Žiguli appena uscite dalla linea di montaggio, amplifica ulteriormente suggestioni e associazioni di idee, in presenza di quello che Gianni Rodari chiamava “binomio fantastico” nella sua “Grammatica della fantasia”: una strana coppia che sembra quasi evocare un futuro utopico, dove le macchine usciranno fuori dalle linee di produzione con una monetina, dove il processo produttivo sarà così facile da gestire che lo potrà fare anche un bambino, oppure dove l’intera economia nazionale sarà al servizio di tutti, persino dei più piccoli.
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In difesa del marxismo
di Giulio Bonali
Giorni addietro abbiamo pubblicato la prefazione di Carlo Formenti e Onofrio Romano al loro libro Tagliare i rami secchi del marxismo. Un lavoro teorico di revisione del pensiero marxista che Giulio Bonali contesta alla radice...
Scrivono Carlo Formenti e Onofrio Romano
«Pensiamo che sia più utile cercare di capire quali concetti - presenti tanto in Marx quanto nelle varie tradizioni marxiste, anche se con diverse sfumature – vadano archiviati, in quanto non servono più alla trasformazione rivoluzionaria dell’esistente o rischiano addirittura di contribuire alla sua conservazione. Questa nostra provocazione non nutre intenzioni liquidatorie nei confronti del marxismo; al contrario: siamo convinti che tagliare i rami secchi della teoria, e abiurare certi articoli di fede delle ideologie che ha ispirato, significhi riattivarne la carica sovversiva nei confronti della società capitalista e ridare energia e prospettive alla speranza rivoluzionaria».
Concordo.
Il marxismo ha “da sempre” ambito ad essere scienza (per quanto “umana”, e dunque con fondamenti epistemici pur sempre razionali ed empirici ma senz’altro meno incontrovertibili e soprattutto con oggetti di studio e di ricerca molto meno quantificabili e “matematicamente calcolabili” rispetto alle scienze naturali; ma non é qui il caso di approfondire la questione).
Dunque, come ogni teoria scientifica, umana e/o naturale, non solo tollera o ammette, ma addirittura esige una continua riconsiderazione critica e messa in dubbio metodica di fronte ai fatti empiricamente rilevabili (e da comprendere razionalmente, per quanto umanamente possibile).
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“Il coraggio di ciò che si sa”[1]
Il secondo governo Conte e la sinistra
di Vladimiro Giacché
Pubblichiamo un eccellente testo di Vladimiro Giacchè nel quale è ricostruita la vicenda storica dell’Italia nell’euro, il passaggio di fase in corso, l’interpretazione del Governo Conte 2 e la sua valutazione critica sulla scelta di Patria e Costituzione di provare a giocare la partita nella maggioranza M5S-Pd-Renzi-LeU. Buona lettura
Friedrich Nietzsche diceva che bisogna avere “il coraggio di ciò che si sa”.[2]
1. Quello che sappiamo
Proviamo a mettere assieme quello che sappiamo sulla traiettoria economica dell’Italia negli ultimi decenni, su quanto è accaduto dall’introduzione dell’euro, prima e dopo la crisi e su quanto è accaduto dopo il 4 marzo 2018. Ci aiuterà a capire cosa fare.
1.1. La traiettoria economica dell’Italia negli ultimi decenni è la storia di un successo catastrofico
A differenza di quanto vuole una vulgata diffusa quanto falsa, questo paese negli scorsi decenni ha fatto diligentemente i compiti che gli sono stati assegnati. Ha eliminato la scala mobile (1993), ha eliminato l’economia mista (accordo Andreatta-Van Miert e poi privatizzazioni di Draghi), ha ridotto il debito dal 117% del 1994 al 100% del 2007.
Usando la crisi come spartiacque, possiamo distinguere due periodi, con l’aiuto di un recente paper dell’economista olandese Servaas Storm[3].
Dal 1995 al 2008 abbiamo realizzato un avanzo primario del 3% annuo (principalmente riducendo le spese sociali): nessuno è stato così bravo in Eurozona (la virtuosa Germania nello stesso periodo può vantare un avanzo di appena lo 0,7%, mentre la Francia evidenzia un disavanzo dello 0,1%). Questo sforzo in teoria sarebbe stato sufficiente per ridurre il debito dal 117% del 1994 a uno strabiliante 77% del 2008. Purtroppo però questo contenimento della spesa pubblica ha ridotto la crescita e questo ha all’incirca dimezzato la riduzione effettiva (in quanto il rapporto debito/pil è stato mantenuto più elevato dalla conseguente minore entità del prodotto interno lordo).
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La Nuova Sinistra: scientifica, sfacciata e non ortodossa
di Filippo Albertin
Le eterogenee trasformazioni politiche, culturali e sociali che in questo ultimo quarantennio hanno accompagnato il passaggio dalla Prima Repubblica della “rappresentanza” post-bellica alla Seconda della “rappresentazione” (dominata come ovvio dal berlusconismo e dai suoi corollari), e dalla Seconda alla Terza della (per certi versi ancora più cupa) “auto-rappresentazione” (culminante nella vittoria pentastellata del 2013), presentano un fattore comune: la costante dissoluzione di un pensiero e di un’azione politicamente efficaci e nel contempo orientati a sinistra.
Non si vorrà, in questo articolo, elencare con eccessiva enfasi o accanimento i perché della lunga crisi del Socialismo (rivoluzionario o riformista che sia) nel nostro paese. Troppe sarebbero le interpretazioni, troppe le analisi, e quel che è peggio altrettanto numerose le dispute intestine e le conflittualità ad esse relative che si andrebbe a produrre o evocare. Dispute e conflittualità che oggi, con perifrasi ormai tristemente peculiari quali “la scissione dell’atomo”, hanno reso tutto ciò che orbita nella cosiddetta “sinistra radicale” tristemente celebre per la sua natura litigiosa, autoreferenziale, randagia, settaria e in ultima istanza autolesionista.
Sarà questo mio intervento a far sorgere finalmente la tanto agognata Nuova Sinistra? Logicamente no. Mi permetto però di sottolineare, non senza una vena di profondo disappunto, che a tutt’oggi nessuno, ma veramente nessuno ha mai proposto alcunché di oggettivamente innovativo e contro-intuitivo in materia di reale costruzione di ciò che in molti appellano come Socialismo del XXI Secolo.
Il movimentismo diffuso che da qualche tempo viene un po’ supinamente salutato come la salvezza e la via per la riconquista dei diritti, in realtà, esiste in mille forme e versioni ormai da decenni, senza che un bel nulla sia cambiato.
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Gilles Lipovetsky e la società della seduzione
di Salvatore Bravo
Se il capitalismo immateriale avanza senza limiti, ciò è possibile perché mancano le narrazioni veritative. Se la Filosofia si limita ad una critica sociologica e non propone la verità come centro di un processo rivoluzionario, la sua critica è solo puro parlare senza effetti
Capitalismo immateriale
Il capitalismo si autofeconda mediante un movimento perennemente innovativo. Non solo è capace di adattarsi alle circostanze storiche, ma fagocita i movimenti di emancipazione e di liberazione riducendoli a merce, e abbattendo persino le frontiere che esso stesso ha creato. Siamo dinanzi ad una nuova fase che rende il capitalismo certamente non diverso dalla sua essenza, ma con effetti amplificati dai mezzi utilizzati. Le fasi del capitalismo rivelano, in modo sempre più esponenziale, la sua intrinseca natura: si installa nelle relazioni umane, entra nella vita degli uomini per trasformarla in plusvalore, sostituisce il concetto con la gestualità seduttiva. La fase attuale è “rivoluzionaria”, perché accelera tale automatismo. Il capitalismo immateriale utilizza il digitale e gli algoritmi non solo per produrre, ma per orientare le scelte e la vita dei soggetti sussunti al suo invisibile potere.
L’incanto
L’incanto del capitalismo immateriale è nella narrazione che esso fa di se stesso: promette la pienezza, producendo a ciclo continuo – con sogni di onnipotenza narcisistica – una nuova percezione del tempo incentrata sul bisogno-desiderio. I bisogni-desideri sono l’incanto della speranza mondana, il tempo dura quanto è necessario per desiderare e consumare, il disincanto è subito compensato da un nuovo sogno. È l’eterno ritorno nella prospettiva dell’homo consumericus. La forza dell’incanto del capitalismo immateriale è nel non lasciare tempo al consumatore; non vi devono essere archi temporali vuoti, in cui il pensiero può concettualizzare con profondità, giustapporre i sogni ed i disincanti in modo sempre più veloce consente il radicamento dell’incantatore e lo sradicamento da se stesso, dal logos e dalla comunità del soggetto.
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Il “paradosso di Lenin”, la politica-struttura e l’effetto di sdoppiamento
di Roberto Sidoli
Di seguito la relazione di Roberto Sidoli all'assemblea del Centro Culturale Concetto Marchesi, tenuta il 14 settebre 2019
Voglio focalizzare l’attenzione sul collegamento esistente tra lo schema generale dell’effetto di sdoppiamento e il “paradosso di Lenin”, avente per oggetto il rapporto generale tra la sfera politica e quella economica, oltre che sullo sdoppiamento della stessa sfera politica in politica-sovrastruttura e politica-struttura, ossia politica intesa come espressione concentrata dell’economia.
Secondo la tesi dello sdoppiamento, dopo il 9000 a.C. e con l’inizio della rivoluzione tecnologica neolitica, non solo il genere umano è entrato nell’era del surplus, costante e accumulabile, ma altresì si è creato e consolidato un campo di potenzialità alternative, di matrice produttiva e politico-sociale, determinando quindi la simultanea genesi e cristallizzazione plurimillenaria – fino ad arrivare ai nostri giorni e all’inizio del terzo millennio – sia di una “linea rossa” collettivistica, gilanica e cooperativa (a partire dalla protocittà egualitaria di Gerico, 8500 a.C.) che invece di una variegata e alternativa “linea nera” di matrice classista, militarista e patriarcale, come nel lontano caso di quei predoni Kurgan che, con le loro sanguinose invasioni, infestarono l’Eurasia dal 4000 a.C. e per molti secoli.
Giorgio Galli recentemente si è chiesto: “la teoria dello sdoppiamento è compatibile con la teoria marxista? A me pare di si”.
Il celebre studioso milanese ha ragione e coglie nel segno.
La teoria dell’effetto di sdoppiamento risulta infatti compatibile con la concezione marxista anche perché costituisce uno sviluppo creativo di quest’ultimo, sviluppo basato su una miriade di fatti concreti che purtroppo in gran parte non risultavano a disposizione del geniale Karl Marx, morto nel lontano 1883: un Karl Marx che, per fare un solo esempio, non aveva (senza colpa alcuna) neanche il minimo sentore della fase di riproduzione plurimillenaria della “rossa” e collettivistica protocittà di Gerico, a partire dall’8500 a.C. e quindi dieci millenni or sono.
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Alain de Benoist e la polemica coi cattolici
di Matteo Luca Andriola
Lo storico Massimo Capra Casadio, nel suo libro Storia della Nuova Destra La rivoluzione metapolitica dalla Francia all’Italia (1974-2000) (Clueb, 2013), documentava il dibattito – e la differenza ontologica – fra “Nuova Destra” italiana e “Nouvelle Droite” francese sul tema cruciale dell’anticristianesimo. «Facemmo finta di niente», afferma Solinas nel libro; e questo per una serie di ragioni basilari: in Italia uno scontro frontale con la Chiesa Cattolica era impensabile, specie in un’area come quella della destra che, anche se al suo interno vi erano posizioni diverse sul tema, cercava di intercettare voti da quell’area. Ora Alain de Benoist, a proposito dell’idea dei suoi amici italiani che «si potevano accogliere molto bene in Italia le idee della Nouvelle Droite senza abbordare dei temi così ‘inutilmente’ scioccanti», afferma: «Io non sono convinto della sensatezza di questo modo di procedere». Denuncia una «incomprensione» degli italiani, che hanno considerato l’anticristianesimo e il paganesimo di de Benoist come qualche cosa che «dipend[esse] da un hobby, se non addirittura da una mania».
Mentre si tratta dell’architrave di tutto il pensiero di de Benoist: «fare a meno della mia critica al Cristianesimo è, ai miei occhi, intellettualmente impossibile». «Per chi considera con Nietzsche che la cristianizzazione dell’Europa […] fu uno degli avvenimenti più disastrosi di tutta la storia fino ai nostri giorni — una catastrofe nel senso proprio del termine — che può significare oggi la parola “paganesimo”?», scriveva De Benoist nel libro Comment peut-on être païen?[1] Anche se l’Autore sottolinea che «ritorno all’anteriore» è «impraticabile» e ne consegue che «un nuovo paganesimo deve essere veramente nuovo».[2] Per de Benoist ormai «non v’è bisogno di “credere” in Giove o in Wotan — […] — per essere pagani. Il paganesimo oggi non consiste nell’innalzare altari ad Apollo o nel resuscitare il culto di Odino.
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Conte bis, un simulacro della democrazia e dell’antisalvinismo
di Carmine Tomeo
Davvero si pensa di poter parlare di democrazia senza mettere al centro delle questioni i diritti sociali?
La gestazione del governo Conte bis non è stata poi così lunga, anche perché quella tra M5S e PD è un’alleanza che risulta essere non così innaturale come a volte viene descritta. L'accordo di governo PD-M5S (nel quale si è poi inserito Leu) nasce su pochi punti cardine cresciuti nel corso delle trattative tra le delegazioni dei due partiti: dai 5 del Pd ai 10 di del M5S fino alla lista di 29 punti finale. La questione è che le basi dell’intesa più che a una discontinuità fanno pensare a una nuova occasione per la borghesia di ricompattarsi intorno a un programma di liberismo tecnocratico, scalzando in questo modo il liberismo nazionalista rappresentato dalla Lega.
Ciò risulta già abbastanza palese osservando come, nel corso degli incontri tra i due partiti e a margine di essi, si aveva, da una parte il PD che escludeva una riforma del Jobs act e dall’altra il M5S che escludeva (solo in maniera più categorica del nuovo partner di governo) l'abolizione dei decreti sicurezza voluti da Salvini. Negli stessi giorni, decine di migranti restavano su navi di Ong senza possibilità di toccare terra, prima grazie al divieto di sbarco firmato, oltre che da Salvini, dai ministri (ancora in carica in quel momento) Trenta e Toninelli, poi dalla decisione del neoministro degli Interni, Lamorgese che ha subito fatto sapere che la politica dei porti chiusi non si tocca. In quelle occasioni, vecchi e nuovi ministri non hanno dovuto nemmeno curarsi della presenza a bordo di esponenti del PD come Orfini e Delrio. Che tra l'altro mai si sono curati, con tutto il loro partito, tutto il M5S e tutta la Lega, delle conseguenze criminali che anche in questo momento producono i disumani accordi firmati tra il governo Gentiloni (nel frattempo nominato commissario europeo con delega agli affari economici) e la Libia.
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