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Il dibattito sulla caduta tendenziale del saggio di profitto. La teoria del profit squeeze
di Xepel
Questo brano è tratto da un testo più lungo che si intitola Su alcuni aspetti della teoria delle crisi. Lo pubblichiamo in quanto introduttivo di una teoria – il cosiddetto “profit squeeze” – che si può riassumere nell’idea che alle origini delle crisi capitalistiche vi sia la capacità dei lavoratori di imporre significative conquiste salariali ai capitalisti riducendone così i profitti. Questo contributo è interessante soprattutto in quanto ribadisce l’importanza sia delle dinamiche economiche globali, sia delle dinamiche della lotta di classe locali [Antiper].
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Il dibattito sulla legge della caduta tendenziale [*] si intreccia al problema della teoria delle crisi. Negli anni ’70, alcuni economisti inglesi (soprattutto Glynn e Sutcliffe) avanzarono una teoria nota come “profit squeeze”, secondo la quale la caduta del saggio di profitto non era attribuibile alla crescita della composizione organica del capitale, che la svalorizzazione del capitale costante può contrastare indefinitamente, ma alle difficoltà nel contenere la crescita del capitale variabile (i salari) come conseguenza della piena occupazione e della forza del movimento operaio. A dimostrazione che il clima esplosivo di quegli anni aveva contagiato gli intellettuali, uno di questi economisti, professore a Oxford, aderì alla tendenza marxista del partito laburista, il Militant, e vi portò il dibattito sulla sua teoria del profit squeeze.
I partecipanti al dibattito erano d’accordo sul fatto che ci fosse stata una caduta della profittabilità come conseguenza dell’accumulazione di capitale. Non concordavano sul fatto che ciò dipendesse dall’operare della legge.
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Alleanze più che umane: ricomporre una politica dentro e contro l'ecologia del capitale
di Léna Balaud
Introduzione e traduzione a cura di Sara Marano
Il testo che proponiamo qui offre uno spaccato interessante sul dibattito interno all’ecologia politica francese, che presenta dei caratteri molto avanzati ed è spesso il frutto, come in questo caso, di intrecci curiosi quanto fecondi di tradizioni militanti e intellettuali. Lena Balaud, agronoma e membro del comitato di redazione della rivista Terrestre, è autrice, insieme ad Antoine Chapot, di Nous ne sommes pas seuls (Non siamo soli), un libro importante in seno a questo dibattito. Balaud e Chapot immaginano la politica nell’Antropocene come fondata su delle “alleanze terrestri”, orizzonte politico di un “comunismo interspecifico”. In questo articolo, l’autrice mette alla prova della crisi ecologica contemporanea l’armamentario del metodo operaista, compiendo un tentativo molto interessante di esplicitare la base materialista anticapitalista della sua proposta di “alleanze interspecifiche”. Il risultato è un testo evocativo e originale, in cui le prospettive della filosofia dell’ambiente e dell’ecologia politica contemporanea, in particolare Latour e Moore, dialogano con l’operaismo italiano.
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Vorrei partire da una sensazione: quella di una destabilizzazione politica crescente di fronte al nostro presente catastrofico. Tale destabilizzazione non è dovuta alla mancanza di radici. Al contrario, traggo qui spunto dall’apprendimento continuo di un metodo politico, ereditato dal movimento operaista degli anni Sessanta in Italia, dal movimento autonomo degli anni Settanta e da tutti coloro che hanno cercato di trarne le conseguenze e di inventarne il seguito, fino a oggi. Si puo’ definire questo metodo politico a partire dalle sue pratiche fondamentali: analizzare il sistema capitalistico da un punto di vista parziale; fare inchiesta sulle nuove composizioni di classe che caratterizzano lo ‘sviluppo’ capitalistico per individuarne il potenziale politico; seguire le rivolte spontanee e dare fiducia alle strategie che portano con sé.
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Cumpanis intervista Adriana Bernardeschi, dell’Associazione Nazionale “Cumpanis” e del Collettivo “La Città Futura”
a cura della Redazione
La guerra imperialista, l’attacco del capitale e la crisi del movimento comunista italiano
D. La crisi ucraina sovraintende interamente la fase internazionale e nazionale che viviamo. Qual è la tua interpretazione dei fatti?
R. Le radici della crisi ucraina e della guerra, iniziata non certo un anno fa bensì con il colpo di Stato del 2014 manovrato dagli USA, sono molto profonde e non possono essere capite se non si analizza nella sua complessità la storia di quel territorio, caratterizzato nei secoli da una costante dicotomia culturale e religiosa fra influenza occidentale e orientale, quadro ben delineato nel recente libro dello storico Marco Pondrelli, di cui consiglio a tutti la lettura. Un paese come l’Ucraina, dove convivono in equilibrio precario culture, lingue e religioni diverse (a maggior ragione dopo che Crimea e Donbass sono stati annessi al Paese), e collocato in una posizione strategica fra Occidente e Oriente, un Paese dunque particolarmente vulnerabile per la sua complessità e le sue contraddizioni interne, è stato facile preda delle mire atlantiste, che si sono manifestate fin dall’inizio di questo secolo, attraverso la violazione perpetua di tutti gli accordi di non espansione a Est della NATO, la prefigurazione di un’entrata nella NATO del Paese (vertice di Budapest del 2008), la progressiva “invasione” di quel territorio con installazioni militari americane in spregio al diritto internazionale.
La finta rivoluzione colorata del 2014, l’Euromaidan presentato all’opinione pubblica occidentale come una rivolta per la democrazia, ha incrinato il delicato equilibrio dell’Ucraina destituendo con la forza il governo Janukovyč legittimamente eletto e dando inizio a una guerra fratricida che ha provocato, prima dell’intervento militare russo dello scorso anno, 14.000 morti e 200.000 profughi (dati provenienti da documenti ufficiali dell’OSCE e dell’ONU).
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Georgia, verso una nuova rivoluzione colorata?
di Giacomo Gabellini
Da diversi giorni, la Georgia è sconvolta da moti di piazza diretti contro l’approvazione parlamentare della legge che sanciva l’introduzione dell’obbligo di iscrizione sul registro degli agenti stranieri nei confronti di qualsiasi associazione che copra almeno il 20% del proprio fabbisogno finanziario con fondi provenienti dall’estero. La misura nasce dall’esigenza di ridurre la capacità di condizionamento sulla vita politica nazionale esercitata dalle potenze straniere, identificabili non solo nella Federazione Russa, ma anche e soprattutto negli Stati Uniti. Il cui attivismo nello spazio ex-sovietico – e non solo – si realizza a tutt’oggi per tramite di una vasta costellazione di Organizzazioni Non Governative (Ong). La sigla identificativa Quasi-Autonomous Non-Governmental Organization (Qango) che le caratterizza tradisce la parzialità di queste associazioni, tutte riconducibili a uffici e agenzie statunitensi che se ne servono per portare avanti i loro piani strategici senza lasciare tracce che possano ricondurre a Washington, attraverso una sorta di diplomazia parallela e in buona parte privata condotta anche con l’ausilio di think-tank allineati come l’American Enterprise Institute (Aei) o il Center for Strategic and International Studies.
Una parte assai ragguardevole delle Ong fanno capo al Dipartimento di Stato, alla Cia e all’United States Agency for International Development (Usaid). Nonché al National Endowment for Democracy (Ned), una società privata senza scopo di lucro istituita dal Congresso nel 1983 dietro raccomandazione del direttore della Cia William Casey per provvedere al fruttuoso reimpiego dei finanziamenti pubblici stanziati annualmente per la “promozione della democrazia nel mondo”.
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La matematica ethnic fluid
di Piero Pagliani
Girando su Internet alla ricerca di articoli di matematica di mio interesse, mi sono imbattuto in uno intitolato “Mathematx vivente: verso una visione per il futuro”, di Rochelle Gutiérrez [1].
L'autrice si occupa d'insegnamento della matematica agli studenti universitari, presso l'Università dell'Illinois a Urbana-Champaign e non è una specialista di matematica ma ha un bachelor’s degree in “Human Biology” a Stanford e un PhD in “Social Science” all'Università di Chicago.
Poco male. Nemmeno io ho una laurea in Matematica. Ne ho studiata a iosa, prima per laurearmi, mille anni fa, in Filosofia su un tema ostico e all'epoca ai suoi esordi (una dimostrazione algebrica dell'indipendenza dell'assioma di scelta e dell'ipotesi del continuo) e successivamente nei due anni che ho passato a Fisica (gli amici fisici sanno che mazzo di matematica ci si fa nel biennio). A parte ciò, personalmente sono molto cauto nell'interpretare le “scienze dure” attraverso un'ottica ideologico-politica.
In termini generali ragiono secondo la linea tracciata da Hegel: sebbene ogni scoperta scientifica, ogni progresso, abbia un marchio storico (e quindi sociale e politico) tuttavia è possibile distinguere questo involucro dal contenuto “assoluto”, il “contenuto veritativo”, di tale scoperta [2].
Hegel parla di “spirito assoluto”, di “idea-in-sé-e-per-sé”, in un certo senso “liberata” dal tempo e dall'ideologia ad esso contemporanea. E quindi, o si pensa che questo filosofo tedesco fosse un pazzo scatenato, o l'idea-in-sé-e-per-sé non è altro che il “precipitato veritativo intra-permanente” (è un termine provvisorio mio, non hegeliano), delle attività umane in “sospensione” nella Storia e quindi nel transeunte (mentre il superamento del “precipitato veritativo” avviene per critiche interne, mosse dalle condizioni storiche e intrecciate ad esse, secondo quanto spiega Thomas Kuhn in “La struttura delle rivoluzioni scientifiche” - intendo questo con “intra-permanente”).
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Una dissidenza dissennata dissipa il dissenso
di Luca Busca
La batosta elettorale “balneare” del 25 settembre scorso non ha insegnato nulla alle forze antisistema. Invece di approfittare dell’assenza di impegni istituzionali, causata dalla mancata elezione di anche un singolo rappresentante, per lavorare sui propri errori ed elaborare una proposta politica strutturata realmente antagonista, l’Intellighenzia dell’unica opposizione al neoliberismo ha perseverato nel tentativo di suicidio. I risultati di questo tenace lavoro sono stati resi ancor più palesi dalla tornata “sanremese”, che ha fatto registrare il record storico di astensione dal voto per le regionali. Primato, questo, che l’astensionismo ha condiviso con il festival della canzone italiana e con il Centrodestra, entrambi protagonisti di memorabili performance di ascolto, il primo in televisione il secondo alle urne. Peccato, però, che gli ultimi due abbiano registrato un miglioramento solo per quanto riguarda lo share ma non per il numero reale di partecipanti, televisivi e votanti.
L’impegno autolesionista profuso dalla dissidenza risulta ancor più evidente dai risultati ottenuti nelle principali battaglie promosse. A un anno dal suo inizio, la guerra con i suoi crimini e con le sue morti prospera come non mai, non si parla più di pace ma solo di vittoria.
Il Covid-19 è scomparso dalla scena non appena è stata interrotta “l’infodemia” mainstream lasciando solo una minoranza di complottisti terrorizzati dell’ultima ora nella convinzione che “tanto non ci dicono tutto, ma è ancora pieno di casi di Covid!”. Nel frattempo le reazioni avverse e le morti improvvise aumentano a dismisura, senza che nessuno si prenda la briga di curare, indagare, rimediare o anche più semplicemente chiedere scusa. Al contrario, con l’arroganza tipica del potere, gli errori, le discriminazioni, le coercizioni sono stati dichiarati legittimi, costituzionali e pronti ad essere reiterati alla prossima occasione.
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Dai mercenari ai contractor. Il diritto internazionale e l’ipocrisia dell’ONU
di Giovanna Cracco
Il neoliberismo trasforma la sicurezza in merce, lo Stato perde il monopolio della forza e l’ONU privatizza le missioni di pace: storia di un’ascesa favorita dal diritto internazionale
“Esprimiamo serie preoccupazioni per il reclutamento, il finanziamento, l’uso e il trasferimento di mercenari e attori legati ai mercenari dentro e fuori le diverse situazioni di conflitto in tutto il mondo. In molti casi, la presenza di questi attori privati prolunga il conflitto, agisce come fattore destabilizzante e mina gli sforzi di pace. Gli esperti sono anche preoccupati dal fatto che il reclutamento e l’invio di mercenari e attori legati ai mercenari nelle zone di conflitto esacerba il rischio che i conflitti si diffondano in altre regioni. [...] Il Gruppo di Lavoro ha ampiamente evidenziato i modelli di gravi abusi e violazioni commessi impunemente da questi attori, come esecuzioni extragiudiziali, sparizioni forzate, stupri, violenze sessuali e di genere, detenzioni arbitrarie e torture.”
Sono parole del Working Group on the use of mercenaries as a means of violating human rights and impeding the right of peoples to self-determination (“Gruppo di Lavoro sull’uso dei mercenari come mezzo per violare i diritti umani e impedire il diritto dei popoli all’autodeterminazione”, indicato d’ora in poi con ‘Gruppo di Lavoro’), istituito nel 2005 dalla Commissione per i Diritti Umani dell’ONU; parole espresse nella dichiarazione rilasciata il 4 marzo 2022 (1), che si conclude ribadendo, per l’ennesima volta: “Tutti dovrebbero astenersi, in ogni circostanza, dall’utilizzare, reclutare, finanziare o addestrare mercenari o attori legati ai mercenari. [...] gli Stati dovrebbero attuare un’efficace regolamentazione internazionale e nazionale. Gli abusi dei diritti umani e le violazioni del diritto umanitario da parte dei mercenari non devono restare impuniti”.
Il Gruppo di Lavoro dell’ONU
Nel 1987 la Commissione per i Diritti Umani delle Nazioni Unite (oggi Consiglio per i Diritti Umani) nomina un “Relatore speciale sull’uso dei mercenari come mezzo per impedire l’esercizio del diritto dei popoli all’autodeterminazione”.
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Dopo il tritacarne
di Enrico Tomaselli
La sanguinosa battaglia di Bakhmut si avvia inesorabilmente alla conclusione. Quanto più gli ucraini tarderanno ad avviare la ritirata, tanto più probabile è che rimangano chiusi nell’accerchiamento, non avendo a quel punto altra alternativa se non la resa o la morte. Ma, per quanto la battaglia abbia tenuto banco nei media per mesi, la sua importanza è rilevante tatticamente, ma sotto il profilo strategico sposta poco. La questione rimane sempre la stessa: come e dove si colloca il giro di boa, il punto in cui si può realisticamente aprire un tavolo negoziale. Un punto che, però, l’Occidente sembra intenzionato a spostare sempre più in là.
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Tra iperbole e trincee
Quando la propaganda ringalluzzisce, è segno che le cose non vanno bene. Se non hai buone nuove da raccontare, è il momento in cui si fanno strada le iperboli più fantasiose, in cui si fa di tutto per occultare il reale stato delle cose. Da mesi la situazione sul fronte ucraino corrisponde sempre meno ai desiderata di Washington e, mentre il dibattito interno fa venire fuori con sempre maggiore insistenza le perplessità e le contrarietà di una parte considerevole dell’establishment statunitense, la propaganda cerca di tappare i buchi più vistosi.
Da mesi si parla di stallo, anche se in effetti le forze armate russe stanno lentamente conquistando terreno praticamente lungo l’intera linea del fronte. Dopo tutto il clamore sull’invio di carri armati da parte dei paesi NATO, il tutto si è ancora una volta risolto in una bolla di sapone: pochi, e alla spicciolata, senza quindi alcuna possibilità di incidere anche solo a livello tattico. Non sono nemmeno ancora arrivati, che già si è alzato il polverone sulla fornitura di cacciabombardieri.
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Voi e l’esercito di chi?
La NATO farebbe bene a rimanere fuori dall’Ucraina.
di Aurelien
I will do such things –
What they are yet I know not, but they shall be
The terrors of the Earth! – Shakespeare, King Lear.
Politici ignoranti e opinionisti confusi hanno fatto rumore di recente, minacciando, o addirittura fantasticando, su una sorta di intervento formale della NATO in Ucraina. In generale, non hanno idea di cosa stiano parlando e di quali sarebbero le implicazioni pratiche di un intervento. Ecco alcuni esempi del perché è un’idea stupida.
Nel gennaio del 1990, mi trovavo nel quartier generale della NATO a Bruxelles per una riunione di routine. Era una di quelle giornate fredde e umide in cui il Belgio è specializzato, ma c’era molto di più dietro l’atmosfera gelida e da mausoleo dei corridoi deserti. Negli ultimi mesi, il terreno si era continuamente mosso sotto i piedi della NATO e, non molto prima di Natale, la Romania, l’ultimo rimasuglio del Patto di Varsavia, era andata in fiamme. Nessuno aveva la più pallida idea di cosa sarebbe successo la settimana successiva, per non parlare del mese successivo, e la NATO cominciava ad assomigliare a un manifestante con un cartello per una causa già superata. Le capitali nazionali facevano fatica a tenere il passo con ciò che stava accadendo. Ho chiesto a un collega appena tornato da Washington cosa dicevano i falchi dell’Amministrazione Bush. La risposta è stata: “Sono sotto shock”.
Il fatto che la NATO esista ancora quasi trentacinque anni dopo, e che ora abbia il doppio dei membri di allora, ha incoraggiato alcune persone che non hanno prestato attenzione a credere che la NATO sia ancora la stessa potente organizzazione militare che era nel 1989, e che quindi basti minacciare un suo coinvolgimento formale in Ucraina, e i russi si allontaneranno. Non potrebbero essere più pericolosamente in errore.
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La “fatalità” della guerra e il possibile della politica
A proposto di Carl von Clausewitz ieri e oggi*
di Valerio Romitelli
I
Cosa può mai accomunare due figure così distanti come, da un lato, un austero giurista tedesco reazionario attivo tra gli anni Venti e Sessanta del secolo scorso, per di più del tutto coinvolto nella devastante peripezia nazista e, dall’altro, un filosofo francese, prima strutturalista (nel cuore degli anni Sessanta), poi anche post-strutturalista, orgogliosamente gay, operante fino alla morte (nel 1984) più o meno in sintonia con gli svariati movimenti di lotta sociale allora esistenti in Francia, in Italia, ma anche altrove come nell’Iran della rivoluzione anti-Scià?
L’allusione qui è a Carl Schmitt e a Michel Foucault, i quali, oltre ad essere stati tra gli autori di rilevanza politica tra i più letti e commentati a partire dagli anni Settanta, specie in Italia e specie a sinistra, convergono sorprendentemente su un’idea strategica cruciale riguardo al rapporto tra guerra e politica. Ad entrambi, nel corso delle rispettive opere di dimensione e riverbero a dir poco monumentali, è capitato infatti di rifarsi all’arcinoto assioma di Carl Von Clausewitz “la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi”[1]. Ma, fatto degno di nota, di cui qui si discuterà, è che ad entrambi in una simile occasione, ciascuno all’insaputa dell’altro, è venuto da postulare che tale detto resterebbe valido solo se rovesciato. Conclusione condivisa è quindi che sia la politica ad essere continuazione della guerra, non viceversa[2].
Lungi dall’essere riducibile a una questione puramente terminologica o a una curiosità accademica, questo rovesciamento di prospettiva può essere invece accolto come un nodo problematico assai significativo di molte dispute tutt’ora in corso all’interno della variegata galassia della militanza anticapitalista; e più in particolare, delle recenti dispute insorte intorno al crescente pericolo di un terzo conflitto mondiale, divenuto più che mai sensibile a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina e dei supporti bellici concessi a profusione in suo favore dalla Nato.
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Ci vuole una guerra?
di Rossella Fidanza
Seymour Hersh nel suo nuovo articolo paragona correttamente l'attuale congiuntura all'escalation di Kennedy in Vietnam. "Il tempo stringe."
Seymour Hersh torna a scrivere, dopo aver pubblicato un dettagliato resoconto su come gli Stati Uniti hanno organizzato il sabotaggio al Nord Stream con l’appoggio della Norvegia (link) e aver approfondito che tipo di rapporti legano da decenni la Norvegia alle operazioni militari e non gestite dai servizi segreti americani:
Nel proseguire con il suo lavoro di ricerca in relazione al conflitto che si sta combattendo in Ucraina, Hersh oggi si spinge a fare un paragone tra quello che Biden sta gestendo in questo momento e quanto ha dovuto affrontare il Presidente John F. Kennedy in un momento molto delicato della sua amministrazione.
“C'è un inevitabile divario tra ciò che un presidente ci dice su una guerra - anche una guerra per procura - e la realtà sul campo. È vero oggi, mentre Joe Biden lotta per ottenere il sostegno dell'opinione pubblica per la guerra in Ucraina, ed era vero sei decenni fa, quando Jack Kennedy lottava per capire la guerra che aveva scelto di portare avanti nel Vietnam del Sud.”
Partendo da questo preambolo, Hersh ripercorre il frangente probabilmente più critico della Presidenza Kennedy, l'inizio del 1962. JFK era appena passato dal disastro della Baia dei Porci accaduto dopo tre mesi dall’inizio del suo mandato, che aveva pesantemente danneggiato la sua immagine e la sua leadership (trovate in fondo all’articolo la sezione “approfondimenti” con i link consigliati con le informazioni storiche).
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Elly Schlein, cioè cosa?
di Michele Castaldo
C’è un entusiasmo smisurato intorno alla figura di Elly Schlein appena eletta a nuovo segretario del Pd che esordisce parlando di «una piccola grande rivoluzione», segno dei tempi.
Mettiamo però subito in chiaro un punto: che una donna rivendichi pubblicamente la propria sessualità dicendo: «Sono una donna, amo una donna, non sono madre, ma non sono meno donna per questo», rappresenta certamente un fattore di rottura nei confronti tanto del bigottismo di destra – ancora oggi rappresentato dalla Meloni che predica: «Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono cristiana…», quanto del moralismo di sinistra e di una certa tradizione comunista contro cui oggi si scatena strumentalmente la critica della grande stampa benpensante della borghesia italiana.
E a proposito di un certo bigottismo di sinistra, tanto per non andare troppo lontano e citare Pier Paolo Pasolini, oppure il povero Aldo Braibanti (“Il signore delle formiche” di un recente film di Amelio, ricordo un episodio vissuto in prima persona nel costruendo stabilimento Montefibre di Acerra (Na) nel lontano 1976. Ero delegato eletto da oltre il 90% degli operai e durante una giornata di sciopero mi capitò di vedere Vittorio, un operaio omosessuale, piangere di nascosto dietro l’angolo di una baracca. Lui che era sempre attivo negli scioperi e sempre in prima fila nelle manifestazioni, e durante le occupazioni di cantiere si esibiva ballando e mettendo tutti di buon umore, insomma sempre sorridente e allegro, mi apparve molto strano vederlo piangere. L’avvicinai chiedendogli cosa fosse successo, pregandolo di volersi confidare. Alla fine sconfortato disse «non ce la faccio più a sopportare, prima mi insultano definendomi ricchione e poi mi chiedono di fargli i pompini».
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Solo armi: le scelte dei leader Ue, tre chiavi di lettura
di Chiara Bonaiuti
Il comportamento dei leader europei nella corsa al riarmo per la guerra in Ucraina non corrisponde né ai principi condivisi nel diritto internazionale, né agli interessi strategici, tanto meno a quelli economici. Analisti di diverse famiglie teoriche lo confermano: la mancanza di trattative è sonnambulismo e cova la catastrofe
Premessa
Il confronto tra pacifisti e interventisti viene spesso presentato come una contrapposizione tra idealisti e realisti, irrazionali e razionali. Ma è davvero realista chi ritiene che la guerra, il riarmo e l’escalation più siano l’unico modo per respingere Putin? Sono davvero così irrazionali i pacifisti che premono per l’apertura di un tavolo delle trattative oppure lo sono i decisori politici europei che stanno andando dritti verso la catastrofe come dei sonnambuli?
Con un approccio analitico vorremmo analizzare qui quali siano i fattori che spiegano questa corsa al riarmo da parte della classe dirigente italiana ed europea. Facendo riferimento alla letteratura sul commercio di armi, consideriamo tre gruppi di variabili che possono spiegare il comportamento dei leader europei: gli ideali; gli interessi strategici o gli interessi economici. Ciascun gruppo di variabili fa riferimento ad una diversa famiglia di teorie della politica estera europea: i costruttivisti, i realisti e neorealisti e i liberisti.
I principi della democrazia e della difesa dei diritti umani
Un primo gruppo di teorie ruota attorno al costruttivismo, secondo cui le idee e i valori sono importanti e possono influenzare le scelte politiche. Tra gli studiosi costruttivisti, Manners introduce il concetto di potere normativo europeo. Egli sostiene che l’identità e il comportamento dell’UE si basano su un insieme di valori comuni: pace, diritti umani, democrazia, Stato di diritto, uguaglianza, solidarietà sociale, libertà, sviluppo sostenibile e buon governo, contenuti nei trattati dell’UE. Questi valori hanno un fondamento giuridico e si trovano formalizzati nei Trattati dell’Unione.
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Neomarxismo italiano: soggettività di classe, autovalorizzazione, bisogno di comunismo
di Alberto Sgalla
Esplorare le infinite possibilità della voce per raggiungere gli estremi confini del canto … è l’universo dei valori d’uso che si scontra con la fabbrica e la produzione (N. Balestrini)
La ricerca neo-marxista
I Grundrisse, pubblicati in Occidente nel 1953, sono stati indispensabili come fonte di riferimento per la ricostruzione complessiva del grande laboratorio di pensiero marxiano e, in particolare, per quel movimento di ricerca, che si è sviluppato in Italia lungo gli anni ’60 e ‘70 (Panzieri, Tronti, Asor Rosa, Negri, Alquati, Bologna, Ferrari Bravo, Daghini, Luperini, Berti, Marazzi, Meriggi, Virno, Castellano, Màdera … “Quaderni Rossi”, “Quaderni piacentini”, “Classe Operaia”, “Contropiano”, “Aut aut”, “Primo Maggio”, “Sapere”, “Ombre Rosse”, “Controinformazione”, “Rosso” …), movimento di riflessione teorica, di analisi concreta, di critica della scolastica rigida in cui certo marxismo era rinchiuso, di recupero dei temi marxisti della prorompente soggettività di classe, della libertà, della ricerca della felicità. Quel neo-marxismo ha assunto in pieno il metodo dialettico critico e rivoluzionario, che “nella comprensione positiva dello stato di cose esistente include simultaneamente anche la comprensione della negazione di esso”.
Ha rinnovato il marxismo come teoria scientifica dello sviluppo capitalistico e della classe operaia come soggetto collettivo, sintesi di corpi, intelletti, volontà, come agente del cambiamento.
Ha analizzato la fenomenologia dei rapporti di forza fra i soggetti sociali, la nuova autonoma soggettività di classe nel nuovo assetto concreto dei rapporti che s’andavano instaurando nel processo di produzione in cui era protagonista la grande impresa fordista verticalmente integrata, poi avviata verso una forma “flessibile”, delocalizzata, specializzata per fasi, condizionata dal capitale finanziario, sovrano nell’orientare l’allocazione delle risorse.
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Diario della crisi | Guerra e moneta
di Maurizio Lazzarato
Il quinto appuntamento del Diario della crisi – progetto nato dalla collaborazione di «Effimera», «Machina» ed «El Salto» – è dedicato alla questione della guerra. A occuparsene è Maurizio Lazzarato, con un testo che costituisce l’introduzione al suo nuovo volume di prossima pubblicazione per DeriveApprodi: Guerra e moneta. Imperialismo del dollaro, neoliberalismo, rotture rivoluzionarie. L’autore, a partire dai limiti della riflessione e delle ipotesi del pensiero critico sul tema, analizza quello che lui definisce «imperialismo del dollaro», spiazzando decisamente il campo rispetto all’identificazione tra capitalismo e neoliberalismo. Il testo, offrendo una lettura in chiave genealogica e di prospettiva della guerra in corso, aggredisce l’attualità senza scadere nelle convulsioni della cronaca; al contempo, presenta diversi spunti di discussione attorno a cui allargare e approfondire il dibattito sulla crisi contemporanea
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* La guerra (e tutte le sue variazioni, guerra di classe, di razza, di sesso, neocoloniale ecc.) è il regime di verità del capitalismo.
* Il capitalismo non si può in nessun caso identificare con il neoliberalismo. Il misfatto di confondere i due è stato operato per primo da Michel Foucault, creando una catastrofica confusione teorica e politica nel pensiero critico che non ha fatto che aggravarsi con il passare del tempo. Il capitalismo si è sbarazzato della governamentalità neoliberale, come un secolo primo aveva fatto con il liberalismo classico, a cui ha preferito, per difendere gli interessi delle classi proprietarie, populismi, nuovi fascismi, guerre civili e da ultimo la guerra.
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Dietro ed oltre la guerra in Ukraina
di Giorgio Ferrari
Ad un anno esatto dallo scoppio della guerra in Ucraina Giorgio Ferrari scrive un articolo che è la prosecuzione di Comparazione tra due guerre: l’annullamento della dialettica e l’inversione della storia. Si tratta di un ragionamento su cosa si cela (anche) dietro questa
guerra, ma soprattutto è un ragionamento sull’Occidente, la sua costruzione e i suoi valori
Le argomentazioni svolte precedentemente (Comparazioni tra due guerre - L’annullamento della dialettica e l’inversione della storia)i, per quanto circoscritte ad una analisi comparata tra gli avvenimenti che precedettero la II guerra mondiale e quelli che hanno portato all’attuale guerra in Ucraina, forniscono già un esempio della presunzione e del manicheismo di cui è pervaso il pensiero dominante.
C’è un solo aggressore, la Russia, ed un solo aggredito, l’Ucraina; quest’ultima è la vittima, l’altra è il carnefice. Di più non è consentito dire, pena l’iscrizione tra i seguaci di Putin con tutte le dannazioni conseguenti che in questi mesi sono state utilizzate dalla stragrande maggioranza degli organi di informazione, i quali hanno fornito un’informazione monotonica sullo svolgimento del conflitto con descrizioni raccapriccianti della barbarie russa.
Sono talmente tanti ed estremi i giudizi nei confronti della Russia, che si è superato un punto di non ritorno per cui viene da chiedersi se sarà mai possibile, un domani, ripristinare una qualche relazione con questo paese; se, insomma, non sia questo dell’Occidente, un atteggiamento risolutivo volto a precludere una qualsivoglia soluzione del conflitto che non sia la capitolazione della Russia e/o la sua disgregazione.
Lo scontro di civiltà
Il secolo scorso, improvvidamente definito “breve” da Hobsbwan, non sembra avere una fine. L’ultimo suo lascito, quello del 1989, grava ancora sul presente nonostante i numerosi tentativi di esorcizzarlo.
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Credere, Obbedire, Soccombere
di Gianandrea Gaiani
Dopo un anno di guerra in Ucraina non è ancora chiaro chi potrà forse vincere il conflitto sul campo di battaglia ma tra gli sconfitti senza appello, “senza se e senza ma” ci sono i media occidentali, in particolare quelli europei, in special modo la gran parte di quelli italiani.
Studi televisivi riempiti con bandiere giallo-blu, anchor-man che tolgono l’audio in diretta a un discorso di Vladimir Putin atteso dal mondo intero “per non dare spazio alla propaganda russa”, conduttori che prendono le distanze dalle dichiarazioni di ospiti che indugiano nello sposare ogni tweet della propaganda di Kiev o nell’accusare solo i russi per ogni responsabilità e nefandezza di questa guerra.
Che dire poi delle interviste al presidente ucraino Volodymyr Zelensky talmente in ginocchio da far apparire equilibrata e pure aggressiva la “mitica” intervista di Gianni Minà a Fidel Castro del 1987?
Nessuna domanda scomoda sulle opposizioni messe al bando, il patrimonio personale del presidente e di diversi ministri e generali, le leggi che soffocano la libertà di stampa ed espressione, la corruzione dilagante anche a danno dei militari che ha portato alla rimozione di molti funzionari, il rapporto di Amnesty International che accusa le truppe ucraine di crimini di guerra, le armi donate dall’Occidente rinvenute su fronti bellici in altri continenti, le rappresaglie sui “collaborazionisti” nelle città riconquistate, i video che mostrano le truppe di Kiev ferire o uccidere prigionieri…solo per citare alcuni dei temi più eclatanti.
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Didattica russa
di Piero Pagliani
Ricevo dall'amico Piero Pagliani questo bell'articolo che, prendendo le mosse dalle traiettorie divergenti che hanno imboccato i sistemi formativi russo e americano (il primo che si prepara a tornare al modello sovietico, il secondo allegramente in marcia verso il degrado), approfondisce le riflessioni geopolitiche che Piero ci aveva ha già regalato in precedenti occasioni sulle ragioni profonde del conflitto, vale a dire sull'incapacità/impossibilità della superpotenza statunitense di adattarsi a un mondo multipolare. PS. Ho lasciato il titolo dell'autore anche se io avrei preferito qualcosa come "Usa: il declino inizia sui banchi di scuola"[C.F.].
* * * *
Vorrei porre l'accento su un passaggio del recente discorso di Putin alla Duma che è stato trascurato dai nostri media e dai nostri “esperti” cavernicoli (cioè che pensano solo la clava, di cui parlerò solo dopo). Il passaggio riguarda la necessità di una riforma del sistema formativo russo:
«Il primo punto è tornare alla formazione di base di specialisti con istruzione superiore tradizionale per il nostro paese. Il periodo di studio può essere da quattro a sei anni. Allo stesso tempo, anche all'interno della stessa specialità e di un'università, possono essere offerti programmi che differiscono in termini di formazione, a seconda della specifica professione, e della richiesta dell'industria e del mercato del lavoro. In secondo luogo, se la professione richiede una formazione aggiuntiva, una specializzazione focalizzata, allora in questo caso il giovane potrà continuare la sua formazione in un corso magistrale o residenziale. In terzo luogo, gli studi post-laurea saranno assegnati come livello separato di istruzione professionale, il cui compito è formare il personale per le attività scientifiche e didattiche».
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Discorso di Putin del 21 febbraio. Traduzione integrale in italiano
a cura di Marinella Mondaini
Traduzione integrale del discorso di Putin del 21 febbraio*
Un Messaggio epocale e carico di amore, per il proprio popolo e per l’umanità.
Non c’erano giornalisti italiani al 18º Messaggio di Putin perché il Cremlino ha accettato solo la presenza dei paesi amici della Russia.
Il messaggio del Presidente all’Assemblea Federale è un discorso pubblico annuale del capo di Stato, rivolto a entrambe le Camere del Parlamento e ai capi di tutte le regioni della Federazione Russa.Esso valuta lo stato delle cose nel paese e determina le principali direzioni della politica interna ed estera. Il primo discorso che Vladimir Putin ha enunciato davanti ai deputati e ai senatori è stato a luglio del 2000 e recava l’emblematico titolo: “Quale Russia costruiamo?”
Quest’anno all’evento sono stati invitati anche i partecipanti all’Operazione Speciale Militare russa in Ucraina.
Putin ha parlato per quasi due ore di fila, interrotto da 53 applausi, di cui 4 in piedi. Un discorso impressionante e potente per contenuto e per carica emotiva, che ha toccato tutte le sfere: politica interna ed estera, situazione mondiale e in particolare valutazione sull’Ucraina, l’Operazione Speciale militare, le riforme interne, anche nel campo dell’Istruzione, dove è proposto un ritorno alla preziosa esperienza sovietica, dove il maestro, il professore ritorna al suo valore originario: quello non solo di insegnante, ma anche di educatore, una figura che non dev’essere “emanatore di servizi”! Inoltre si raggiunge così anche lo scopo di distogliere giovani e bambini dalle reti sociali.
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La guerra capitalista. Considerazioni di un profano
di Mimmo Porcaro
Uno dei più importanti problemi teorici di questi tempi è quello di mostrare il legame necessario tra guerra e capitalismo e di fare in modo, quindi, che tra la cosiddetta geopolitica e la critica dell’economia politica non si crei un fossato tale da indurle ad andare ognuna per la sua strada, dimenticando l’una le classi e l’altra gli stati. Il libro che qui esamino[i] entra di fatto nel merito perché, proprio mentre sottolinea la cogenza della marxiana legge di centralizzazione del capitale, costruisce immediatamente un nesso tra questa legge “economica” e la funzione “politica” del banchiere centrale. Il risultato, come vedremo, non è del tutto convincente: vengono chiarite importanti questioni, ma altre vengono offuscate. Il ragionamento degli autori è comunque di quelli che impongono di andare all’essenza delle cose, il che è esattamente quello che dobbiamo fare. E oggi più di ieri.
Centralizzazione, una riscoperta opportuna
Cominciamo col riassumere alcune delle tesi fondamentali del volume, anche se esse dovrebbero essere ormai note agli happy few che si interessano di queste cose. Come gli autori ci ricordano, se in Marx la concentrazione del capitale è il processo di crescita del capitale singolo attraverso l’autonoma accumulazione, la centralizzazione – spesso erroneamente chiamata anch’essa concentrazione – si ha quando numerosi capitali già formati, sconfitti nella competizione, cadono nelle mani del capitale vittorioso attraverso liquidazioni, fusioni e acquisizioni; oppure si ha quando una proprietà formale assai frammentata si trova di fatto riunita in poche mani vuoi per il meccanismo dell’outsourcing , vuoi per effetto della gestione del capitale di una miriade di azionisti da parte dei vertici di Spa o banche.
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Marx e Hegel
di Roberto Fineschi
Conferenza al Ghislieri, dicembre 2018
Trascrizione leggermente rivista della relazione dal medesimo titolo presentata al convegno internazionale “Marx e la tradizione filosofica” organizzato in occasione del bicentenario della nascita di Karl Marx presso l’Università di Pavia, Dipartimento di Studi Umanistici – Sezione di Filosofia, dal Consorzio di Dottorato in Filosofia Nord-Ovest (FINO) e dal Collegio Ghislieri (Pavia, 13-14 dicembre 2018).
§1
Ringrazio innanzitutto per il gradito invito. È per me un vero piacere essere presente in questa conferenza, sia per il tema che per un risvolto personale: il mio maestro Alessandro Mazzone fu allievo del Ghislieri e, poiché il rapporto Marx-Hegel era uno dei temi a lui più cari, essere qui a parlarne un po', confesso, mi emoziona.
L’argomento che mi è stato assegnato è ovviamente molto, troppo complesso per essere affrontato in 40 minuti; chi ha familiarità con l'opera di Marx sa benissimo come il rapporto con Hegel attraversi tutto lo sviluppo della sua produzione scientifica e come sia stato inevitabilmente al centro di vastissimi dibattiti nella tradizione successiva; inevitabilmente non potrò che essere sommario.
Vorrei partire proprio con un accenno alla ricezione, perché chi si avvicina a questo tema attraverso la letteratura critica onestamente non può che rimanere disorientato: si è praticamente sostenuto tutto e il suo contrario.
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Germania. “Mettiamo fine a questa guerra”
Der Spiegel intervista Alice Schwarzer e Sahra Wagenknecht
I giornalisti dello Spiegel, Susanne Beyer e Timo Lehmann, hanno curato una lunga intervista ad Alice Schwarzer e Sara Wagenknecht. La prima nota giornalista, la seconda parlamentare della Linke spesso dissonante rispetto alla linea ufficiale del Partito della Sinistra tedesca.
Le due donne hanno lanciato un appello per fermare la guerra in Ucraina e stoppare la fornitura di armi da parte della Germania. L’appello ha raggiunto le 500.000 firme ed è diventato un fatto politico. Per sabato prossimo, 25 febbraio, i firmatari dell’appello hanno convocato una manifestazione contro la guerra alla porta di Brandeburgo a Berlino.
Contro la manifestazione di sabato a Berlino si sta scagliando il fronte conservatore e quello guerrafondaio, quest’ultimo assai più trasversale. Il politico della Cdu Roderich Kiesewetter ha lanciato un suo appello contro il corteo di sabato prossimo.
Tra i primi firmatari figurano lo scienziato Joachim Krause dell’Istituto per la politica di sicurezza dell’Università di Kiel e l’ex parlamentare dell’FDP Hildebrecht Braun. Ma anche il gruppo parlamentare della Linke ha preso le distanze della manifestazione.
I giornalisti dello Spiegel incalzano le due esponenti del movimento contro la guerra a tutto campo, inclusi alcuni colpi bassi riservati in questi dodici mesi a tutti coloro che nei vari paesi, Italia inclusa, si sono opposti alla logica guerrafondaia.
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La guerra capitalista. Alcune note di lettura
di Raffaele Sciortino
Continua il dibattito su La guerra capitalista, il libro di Emiliano Brancaccio, Stefano Lucarelli e Raffaele Giammetti di cui abbiamo dato conto su Machina a partire dall’intervista che il curatore di questa sezione, Francesco Maria Pezzulli, ha condotto con uno degli autori (https://www.machina-deriveapprodi.com/post/la-guerra-capitalista). Pubblichiamo oggi, invece, l’interessante contributo inviatoci da Raffaele Sciortino che mette in evidenza i pregi e alcune problematicità di questo fondamentale lavoro collettivo.
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Nell’attuale temperie politica e culturale in cui, anche e forse soprattutto a «sinistra», per discutere di guerra è d’obbligo prima genuflettersi un consono numero di volte alla vulgata atlantista sull’«aggressione russa», su «Putin criminale al servizio degli oligarchi», sulla «difesa della democrazia ucraina» e via sproloquiando in volgare american-english – un libro come quello di E. Brancaccio, R. Giammetti, S. Lucarelli (BGL), La guerra capitalista, offre una boccata d’aria pura oltre a far tornare coi piedi sulla terra[1]. E non è forse un caso che la riflessione lì contenuta sulle radici profonde del conflitto in corso non provenga da ambienti di radical left, intrisa di neo-progressivismo woke di importazione anglo-sassone e oramai distantissima da ogni riferimento classista. Ma proviene da studiosi seri (sì, studiosi) che mostrano di saper ricercare e ragionare in gruppo, capacità oggi pressoché scomparse, senza paura di nuotare, oggi, contro la corrente.
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Cul-de-sac
di Enrico Tomaselli
Mentre le classi dirigenti europee fanno tristemente mostra di una smisurata pavidità nei confronti di Washington, negli Stati Uniti cresce invece il dibattito – e lo scontro politico – tra le due attuali fazioni (trasversali) del bellicismo imperialista: i russofobi neocon ed i super-falchi anti-cinesi.
Il punto di partenza, anche se i primi tendono ovviamente a nasconderlo, è la consapevolezza che la strategia messa in atto in Ucraina contro la Russia si è rivelata un fallimento, politico e militare. Per i neocon ciò significa che bisogna rilanciare, alzare il livello dello scontro, sino a portarlo – se necessario – ai limiti di un nuovo conflitto mondiale. Mentre per i secondi significa trovare il prima possibile una via d’uscita dal pantano ucraino, cercando di salvare la faccia (e non solo quella) e prepararsi per lo scontro con Pechino.
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Due errori
Può apparire tragicamente incredibile, ma in fondo all’origine del prolungamento del conflitto ucraino ci sono due clamorosi errori; uno, politico, di Mosca, ed uno, militare, di Washington.
È ormai abbastanza chiaro che, nel momento in cui la Russia dava il via all’Operazione Speciale Militare, l’obiettivo era quello di forzare la mano (non solo a Kiev, ma anche e soprattutto agli europei ed a Washington), portandoli rapidamente ad un tavolo di trattativa, con l’intento di ottenere ciò che non era stato possibile avere sino a quel momento: autonomia per il Donbass, riconoscimento della Crimea come parte della Federazione Russa, e garanzia di sicurezza (no all’Ucraina nella NATO).
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Introduzione a Frattura metabolica e Antropocene
di Giuseppe Sottile
Autori vari: Frattura metabolica e Antropocene.Saggi sulla distruzione capitalistica della Natura, a cura di Alessandro Cocuzza e Giuseppe Sottile, Ed Smasher, 2023
La crisi nelle condizioni naturali dello sviluppo umano è dovuta alle caratteristiche fondamentalmente antiecologiche del lavoro salariato e dei rapporti di mercato.
Paul Burkett
Il giovane Marx formulò l’idea dell’unità tra umanità e natura nella società futura nei termini d’un pienamente compiuto umanesimo = naturalismo, una concezione che Marx conservò anche dopo i vari successivi cambiamenti della sua prospettiva teorica.
Kohei Saito 1
Il termine «Antropocene» comincia ad essere assai diffuso anche nel nostro Paese. È probabile esso prenda la veste di una parola tanto più innocua nel significato quanto più usata dai mass-media. La genesi che ne consente un uso appropriato la si può rintracciare in una serie di documenti che negli ultimi decenni sono scaturiti come esito della ricerca scientifica. Qui ne vogliamo citare solo tre, tra i più importanti e recenti: When did the Anthropocene begin? A mid-twentieth century boundary level is stratigraphically optimal, The Trajectory of the Anthropocene: The Great Acceleration e Planetary Boundaries: Guiding Human Development on a Changing Planet2.
Il primo documento fa iniziare quella che l’AWG, il 21 maggio del 2019, ha ufficialmente indicato come un’epoca successiva all’Olocene3 a partire dalla metà del secolo scorso, per via della dimensione globale, durata e sincronicità del cambiamento stratigrafico.
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Qui una recensione di Giovanni Di Benedetto