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Appunti per una discussione sui nostri compiti
di Carlo Formenti
Il progetto di Nuova Direzione è nato in un clima economico, politico e sociale caratterizzato dai seguenti fattori fondamentali:
1) il prolungarsi della crisi economica globale iniziata nel 2008, che ha visto un’Italia penalizzata da processi di deindustrializzazione, ataviche debolezze strutturali, tagli alla spesa pubblica e instabilità politica, incapace di recuperare i livelli pre crisi. Fra i maggiori sintomi di sofferenza del sistema Paese: elevati livelli di disoccupazione, con punte da record della disoccupazione giovanile; aumento vertiginoso dei livelli di disuguaglianza; aggravamento dello squilibrio fra regioni del Nord e del Sud; progressivo deterioramento dei servizi pubblici, penalizzati da tagli e privatizzazioni; processi di gentrificazione dei maggiori centri urbani e acuirsi delle contraddizioni con periferie e semiperiferie; difficoltà di gestione dei flussi migratori.
2) Le crescenti contraddizioni con l’Unione Europea, prodotto delle scelte politiche di quelle élite nazionali (di sinistra come di destra) che, a partire dagli anni Novanta, hanno costantemente utilizzato l’integrazione del Paese nel quadro delle regole economiche e istituzionali imposte dal processo di integrazione europea come vincolo esterno per giustificare politiche antipopolari (austerità, riforme delle pensioni e del lavoro, privatizzazioni, tagli alla spesa pubblica, ecc.).
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Ritorno al presente. Spazi globali, natura selvaggia, crisi pandemiche
di Davide Gallo Lassere
[Nel contributo precedente pubblicato da LPLC, Davide Gallo Lassere ha ripreso le analisi di Andreas Malm a proposito del Capitalocene e dei legami tra capitalismo ed energia fossile a partire da una prospettiva operaista. In questo contributo prosegue il confronto con le tesi di Malm, e in particolare con il suo ultimo testo, pubblicato recentemente, La chauve-souris et le capital [Il pipistrello e il capitale]. Vengono discusse in particolare le ipotesi strategiche che l’autore svedese presenta nella seconda parte del testo e che sintetizza nella formula del «leninismo ecologico». La traduzione è di Andrea Moresco]
Chiariamolo sin da ora: la diagnosi tracciata da Malm della pandemia in corso è illuminante ma, seppur stimolante, la proposta/provocazione di un leninismo ecologico che avanza nel suo entusiasmante pamphlet sul Covid-19 ci sembra alquanto discutibile. Lo sembra, per giunta, alla luce dei presupposti epistemologici e delle analisi storiche elaborate dallo stesso Malm nei suoi precedenti lavori, ruotanti attorno alla centralità politica delle lotte sociali. Essa pare anche in contrasto con l’esame dello spazio globale che Malm conduce nel suo saggio. A tal proposito, le letture operaiste dei classici del pensiero rivoluzionario e delle geografie contemporanee del capitale offrono, a nostro avviso, un buon vaccino contro quel febbrile «desiderio di Stato» che emerge da alcune pagine de Il pipistrello e il capitale.[1]
Procediamo con ordine. I percorsi della genealogia e della critica del Capitalocene ci hanno portato in Cina – luogo di intensa concentrazione di molteplici tendenze globali. Ed è proprio da questa regione che occorre ripartire se vogliamo comprendere i processi che sconvolgono da cima a fondo il nostro presente. Le logiche temporali all’opera dietro il cambiamento climatico ci mostrano che più il pianeta si surriscalda, più altre dinamiche complesse e multiscalari retroagiscono sugli ecosistemi, surriscaldandolo ancor più a loro volta.
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Ancora su Covid-19 e oltre
Un aggiornamento
di Il Lato Cattivo
«L’inizio della Grande Depressione nel 1929 – o più esattamente il tracollo dell'economia mondiale e la rovina del capitalismo liberale – segnalò uno stato di emergenza per l'intero mondo capitalista. […] Il disastro economico e l'angoscia esistenziale divisero la società in due fronti politico-ideologici, inasprendo il conflitto. Quello che un individuo pensava o faceva non era più una faccenda personale, ma era diventato di colpo, che piacesse o no, espressione dello scontro politico in atto sulle cause e sulle possibili soluzioni della crisi globale.» (Wolfgang Schivelbusch, Tre New Deal)
Introduzione
A distanza di dieci mesi dalla pubblicazione di Covid-19 e oltre1, è venuta l’ora di riesaminare sommariamente l'insieme di quelle analisi e ipotesi formulate più o meno «in presa diretta», per vedere dove avevamo colto nel segno e dove invece è necessario, alla luce degli ulteriori accadimenti, aggiustare il tiro. In seconda istanza, procederemo ad isolare alcuni momenti forti di questa prima fase della crisi mondiale, e ne proporremo un'analisi.
Cominciamo col ricapitolare gli elementi della nostra diagnosi che ci sembrano confermati dal corso degli eventi. In essa, la pandemia da Covid-19 assumeva una pluralità di significati e di funzioni oggettive, che proveremo qui a riassumere. Essa appariva ad un tempo (e in ordine sparso):
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come fatto di accertata gravità dal punto di vista puramente medico-sanitario (sembra un'ovvietà, ma a scanso di equivoci…), destinato dunque a perdurare per un certo tempo;
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Per un’economia della complessità
di Francesco Saraceno
Riceviamo e volentieri pubblichiamo la Prefazione di Francesco Saraceno al libro di Mauro Gallegati, “Il mercato rende liberi”, LUISS, 2021.
Dove ha sbagliato l’economia “mainstream” nel creare le condizioni per la crisi finanziaria globale del 2007-2008? Per quale motivo le ricette di politica economica che essa ha ispirato a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso hanno progressivamente, in nome dell’efficienza dei mercati, dato un peso preponderante alla finanza a scapito dell’economia reale, trascurato l’analisi della distribuzione delle risorse e dei suoi effetti sull’economia, eliminato la politica macroeconomica dalla cassetta degli attrezzi dei decisori, spinto per una deregolamentazione sempre più estrema e, alla fine, reso l’economia mondiale un gigante dai piedi d’argilla, un castello di carte fatto crollare nell’estate del 2007 dal fallimento di due oscuri fondi d’investimento? Soprattutto, è in grado quella stessa teoria di evolvere in modo da poter evitare gli errori del passato? Il dibattito è aperto e, c’è da sperarlo, non si chiuderà molto presto. C’è da sperarlo perché le ragioni del “fallimento degli economisti” sono molto profonde e una revisione radicale del nostro modo di fare economia, di insegnarla, di utilizzarla per consigliare i policy makers, si impone.
Bisogna dire che, contrariamente a quanto è avvenuto in passato, la crisi del 2007 ha avviato un salutare processo di ripensamento. Vista la dimensione della crisi e la manifesta incapacità della teoria dominante di coglierne i meccanismi (la stragrande maggioranza dei modelli utilizzati da banche centrali e ministeri dell’Economia non prevedeva la possibilità di crisi finanziarie!) era difficile fare altrimenti.
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H.G. Backhaus e la dialettica della forma di valore
Una valutazione critica
di Riccardo Bellofiore, Tommaso Redolfi Riva
1. L’opera di Backhaus rappresenta un indispensabile grimaldello per l’accesso ai temi fondamentali della critica dell’economia politica di Marx.Questo grimaldello può essere utilizzato efficacemente sia per comprendere il dibattito che ha caratterizzato la ricezione dell’opera di Marx a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, che per accedere direttamente ai problemi che caratterizzano l’esposizione marxiana e che rappresentano ancora oggi un terreno di vivace discussione tra gli studiosi.
La corrente interpretativa di cui Backhaus è l’iniziatore, ormai riconosciuta nella letteratura critica con il nome di «Neue Marx-Lektüre»1, ha trovato in Italia una diffusione quasi coeva alla pubblicazione delle opere in lingua originale, grazie alle tempestive traduzioni delle opere di Schmidt, Reichelt e Krahl. Questi autori avevano svolto il loro apprendistato teorico presso la Scuola di Francoforte e l’originalità dei loro lavori non risiedeva tanto nei temi trattati, in qualche modo già al centro della discussione nel dibattito marxista sia occidentale che orientale, quanto nella spregiudicatezza con cui questi temi erano trattati. Si cominciava a mettere in discussione, come sulla sponda francese aveva iniziato a fare la scuola di Althusser, la ricezione che il marxismo aveva sviluppato dell’opera di Marx nonché l’autocomprensione di Marx nei confronti della propria metodologia e delle proprie ascendenze rispetto alla filosofia hegeliana. Si cercava di ripensare la teoria del capitale al di fuori delle strette maglie che le interpretazioni economicistiche – soprattutto di matrice anglofona – l’avevano racchiusa, concentrate quasi esclusivamente sulla disputa relativa alla trasformazione.
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Contro l’organizzazione scientifica del mondo
Intervista a Pièces et main d’œuvre
Ecco un’intervista apparsa nel numero estivo di La Décroissance, molto opportunamente dedicata a “natura e libertà”.
Possiamo produrre beni e servizi – artificiali – solo distruggendo le materie prime – naturali. Questo è ciò a cui i produttori stanno lavorando dall’addomesticamento del fuoco all’uso di “macchine da fuoco”, durante la “rivoluzione industriale” all’inizio del XIX secolo e una fantastica espansione delle forze produttive sempre più eccitate. La scienza (R & D, innovazione) è stata la forza trainante di questo boom.
Possiamo produrre di più, di più e più velocemente solo razionalizzando la produzione; dall’estrazione delle materie prime alla distribuzione di beni e servizi finiti.
Possiamo razionalizzare la produzione solo eliminando i tempi morti, gli errori e gli sprechi, in altre parole reprimendo e sopprimendo sempre di più il fattore umano.
Questo è il metodo a cui gli ingegneri hanno lavorato dall’inizio del XX secolo, trasformando gli uomini in macchine prima di sostituirli con macchine secondo quella che hanno chiamato “l’organizzazione scientifica del lavoro”.
Con il fantastico aumento delle forze distruttive che lasciano sempre meno materie prime naturali da trasformare in beni e servizi artificiali per una popolazione sempre più grande e avida, la tecnocrazia sta stabilendo all’inizio del XXI secolo l’organizzazione scientifica del mondo. Razionamento / razionalizzazione.
In breve, l’incarcerazione dell’uomo-macchina in un mondo di macchine, un pianeta intelligente (IBM), una “Macchina Generale” (Marx), in cui tutti i circuiti e componenti, vivi o inerti, umani o oggetti, saranno interconnessi e controllati dai macchinisti, grazie alla miriade di megadati trasmessi dalle reti 5G ed elaborati da algoritmi di supercomputer (AI).
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Democrazia procedurale
di Giancarlo Scarpari
Alcuni deputati all’Assemblea costituente avevano coltivato ed elaborato un progetto ambizioso, quello di dar vita non a un semplice Stato di diritto (tripartizione di poteri, pesi e contrappesi istituzionali, rappresentanza tramite elezioni, diritti di libertà, ecc.), bensì a uno Stato sociale di diritto, una repubblica, cioè, che non si limitava ad assicurare a tutti l’eguaglianza formale davanti alla legge, ma che assumeva su di sé il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitavano, di fatto, la libertà e l’eguaglianza dei cittadini.
Questa proposta, elaborata da Lelio Basso e formalizzata nel capoverso dell’art. 3, costituiva dunque un impegno rivolto al presente e soprattutto al futuro; introduceva, nell’architettura liberale delle istituzioni del nuovo Stato, un vincolo per governo e parlamento diretto a rimuovere, progressivamente, storiche ineguaglianze e rendere così finalmente concreti quei principi di una democrazia formale destinati altrimenti a rimanere sulla carta. Ma questo impegno, come fu approvato, fu subito disatteso.
Nettamente contrari a questa norma si dichiararono i giuristi del “partito romano”, allora egemone in Vaticano, che, chiedendosi allarmati con padre Messineo «quali fossero gli ostacoli di ordine economico e sociale che la Repubblica ha il compito di rimuovere», paventavano che alcune forze politiche potessero individuare tra questi ostacoli la proprietà e la religione, sì da spalancare, con questa norma così interpretata, le porte a un vero e proprio «totalitarismo di Stato».
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Alcuni punti essenziali della critica del valore
di Anselm Jappe
Il sistema capitalista è entrato in una grave crisi. Questa crisi non è solamente ciclica, bensì finale: non stiamo parlando di un collasso imminente, ma della disintegrazione di un sistema plurisecolare. Non si tratta della profezia di un evento futuro, ma della constatazione di un processo divenuto visibile alla fine degli anni '70 e le cui radici affondano nell'origine stessa del capitalismo. Ciò a cui stiamo assistendo, non è il passaggio ad un altro regime di accumulazione (come è avvenuto con il fordismo), e non si stratta neppure dell'avvento di nuove tecnologie (come nel caso dell'automobile), né ci troviamo di fronte al dislocamento del centro di gravità verso altre regioni del mondo; ma siamo a fare i conti con l'esaurimento di quella che è la sorgente stessa del capitalismo: la trasformazione del lavoro vivente in valore.
Le categorie fondamentali del capitalismo – così come sono state analizzate da Marx nella sua critica dell'economia politica - sono il lavoro astratto e il valore, la merce e il denaro, le quali si riassumono nel concetto di «feticismo della merce». Una critica morale, che si dovesse basare sulla denuncia dell'«avidità», non coglierebbe qual è l'essenziale della questione.
Non si tratta di essere marxisti o post-marxisti, o di interpretare l'opera di Marx, oppure di completarla con nuovi contributi teorici. È necessario ammettere che esiste una differenza tra il Marx «esoterico» e il Marx «essoterico», tra il nucleo concettuale e lo sviluppo storico, tra l'essenza e il fenomeno.
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Il complottismo nasconde i conflitti
di Tobia Savoca
Il diffuso cospirazionismo dei nostri tempi, frutto della crescente crisi della politica, si rivela utile alle destre per offrire una spiegazione al malessere sociale e a chi detiene il potere per patologizzare qualsiasi pensiero critico
Che determinate persone o gruppi, per il loro potere politico, economico o sociale, possano influenzare gli eventi, sembrerebbe un’evidenza. In fondo qualsiasi forma di potere si fonda sulla capacità di influire e prendere decisioni capaci di modificare il corso della storia. Eppure tale evidenza sembra essere svanita vista la facilità con cui qualsiasi ipotesi di complotto viene oggi ridicolizzata («gombloddo»).
I complotti esistono, i complottisti pure
Anzitutto partiamo da un’affermazione semplice, quasi banale: i complotti esistono. Non tutte le teorie del complotto sono rimaste teorie. Alcune sono state verificate. Ma se sono le prove a permettere di discernere tra scoperta di una cospirazione e mero delirio paranoico, quello che permette di svolgere questo processo critico sono le intuizioni e il sospetto.
Certo, i «maestri del sospetto» che Paul Ricoeur ha individuato in Nietzsche, Freud e Marx, grazie al sospetto e al dubbio avevano svelato i meccanismi dell’essere umano riguardo alla religione, al suo inconscio e alla società del capitale. Ma si trattava di un sospetto critico, insito nella contraddizione e nella complessità del pensiero, non nella semplificazione mitologica degli eventi. Oggi il sistema mediatico alternativo trasmesso nei social network ha invece scatenato un delirio opposto.
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Dal Gruppo Gramsci all'Autonomia Operaia: un percorso tutt'altro che lineare (II)
di Carlo Formenti
Nella prima puntata Piero Pagliani ha già colto alcuni degli snodi essenziali che consentono di decodificare quel mix di elementi di continuità e di discontinuità che caratterizzò la transizione dal primo al secondo Rosso e la (parziale) confluenza dei militanti del Gruppo Gramsci nell’Autonomia. Credo valga tuttavia la pena di compiere un ulteriore sforzo di approfondimento, non tanto per soddisfare le curiosità storiografiche degli appassionati di quella convulsa stagione della lotta di classe (né tantomeno per appagare le smanie memorialistiche del sottoscritto, che di quella stagione fu uno dei tanti protagonisti), ma perché penso che molti dei problemi teorici e delle sfide politiche che ci troviamo oggi di fronte fossero già contenuti – almeno in nuce – in quegli eventi.
Gli autori che hanno introdotto la pubblicazione della prima tranche dei materiali di “Rosso” su “Machina” richiamano giustamente l’attenzione sulle differenti scelte organizzative effettuate da Gruppo Gramsci e proto Autonomia per strutturare l’intervento politico in fabbrica. In effetti, i CPO (collettivi politici operai) e le Assemblee Autonome non rispecchiavano solo diverse opzioni “tecniche”. I primi erano concepiti come un’articolazione politica destinata a operare all’interno dei consigli dei delegati, la struttura sindacale di base subentrata alle vecchie Commissioni Interne per estendere la base di rappresentanza democratica al di là degli iscritti alle organizzazioni sindacali. Attribuendo a quelle inedite strutture sindacali un potenziale di auto organizzazione paragonabile (nei limiti dettati dai differenti contesti storici) ai consigli operai di inizio Novecento, il Gruppo Gramsci concepiva l’intervento al loro interno come un obiettivo prioritario di cui i CPO erano gli strumenti organizzativi (il modello era quello dell’intervento di fabbrica dell’Ordine Nuovo nel Biennio Rosso).
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Mario Draghi: breve biografia di un incappucciato della finanza
di Thomas Fazi
E alla fine, come da copione, l’“operazione Draghi”, a cui il sistema, nonché Draghi stesso, lavorano alacremente da anni – i servizi fotografici su Draghi che fa la spesa al supermercato, accarezza i cagnolini e vola in economica, ma anche lo stesso, ormai celebre, articolo sul Financial Times in cui Draghi, novello keynesiano, ha riabilitato il debito pubblico (quello “buono”, ça va sans dire) – è stata portata in porto. Ed è subito gara tra i politici e commentatori nostrani ad annunciare la seconda venuta di Cristo.
In questa sede non mi soffermerò sulle manovre di palazzo che ci hanno portato a questo punto. Mi limiterò a evidenziare come le principali responsabilità, a mio avviso, siano da imputarsi non a Renzi, come vuole la vulgata, ma allo stesso Conte, agli occhi di tutti la principale vittima di questa operazione. Se oggi, infatti, Draghi – letteralmente l’incarnazione vivente del vincolo esterno – può presentarsi come il salvatore della patria che può garantire l’arrivo e il “buon uso” dei fantastiliardi dell’Europa, è precisamente perché Conte in primis ha avallato fin dall’inizio la logica del vincolo esterno, presentando il Recovery Fund come un generoso regalo di mamma Europa che lo scolaretto Italia avrebbe dovuto fare di tutto per meritarsi e “spendere bene”, e anzi senza i quali saremmo stati perduti. Insomma, Conte – sospinto da MoVimento Cinque Stelle e PD – non ha fatto che alimentare l’idea dell’Italia come nazione minus habens incapace di gestire se stessa e perennemente bisognosa dell’aiuto (e a volte della “rieducazione”) di qualche “provvidenziale” attore esterno, per definizione più civilizzato e capace di noi.
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La «seconda vita politica» di Amadeo Bordiga
Capitalismo e crisi ambientali
di Yurii Colombo
Per la storiografia il Bordiga «che conta» è quello «politico», è la traiettoria che lo porta dalla milizia nella gioventù socialista napoletana a diventare il pivot della scissione comunista nel 1921 a Livorno, a dirigere il Partito comunista d’Italia negli anni dell’ascesa del fascismo e infine a entrare in contrasto con la nuova direzione gramsciano-togliattiana della «bolscevizzazione» fino all’epico scontro con Stalin al VI Esecutivo allargato dell’Internazionale comunista a Mosca nel 1926. Negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso questo percorso – che non può essere ovviamente slegato dalla storia della sinistra socialista intransigente prima e della sinistra comunista poi – destò un certo interesse della storiografia italiana «ufficiale» (Cortesi, De Clementi, Livorsi, De Felice[1]) prima di tornare ad appannaggio sostanzialmente degli storici simpatetici al comunista napoletano (Peregalli, Saggioro, Gerosa[2]), al defluire dei movimenti che avevano accesso per qualche tempo l’interesse per ogni tipo di eresia del movimento operaio. Tuttavia se si esclude il pioneristico In attesa della grande crisi. Storia del Partito Comunista Internazionale (1952-1982) del già citato Sandro Saggioro, pubblicato qualche anno fa per i tipi di Colibrì e la meritoria opera di ripubblicazione sistematica dei suoi scritti da parte delle organizzazioni bordighiste, l’elaborazione del Bordiga sconfitto e isolato dall’Italia della ricostruzione e del boom rimane ancora ampiamente un territorio inesplorato. Recuperarla sarebbe invece importante perché probabilmente rappresenta il periodo più fecondo dal punto di vista teorico del comunista napoletano.
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La battaglia attorno al PCI
di Lamberto Lombardi*
Riceviamo da Lamberto Lombardi
Trent'anni fa, poco prima del suo settantesimo compleanno, finiva il PCI, per scelta quasi unanime dei suoi dirigenti e con plauso unanime e spesso ironico dei suoi avversari. Fu seguito, in pochi anni, dalla scomparsa di tutti gli altri Partiti della Prima Repubblica.
Trent'anni è un lasso di tempo ampio che ha consentito di sistemare, magari immeritatamente, i La Malfa, gli Zanone, i De Martino, Nenni, e perfino Andreotti, nell'indisturbato album dei ricordi, quello da riaprire solo nelle ricorrenze comandate. Non così è per il PCI.
Sorprendentemente gli sforzi imponenti di collocarlo su di un binario morto della Storia sembrano fallire ripetutamente e lo riscontriamo nell'opinionistica borghese, e non solo in quella espressasi intorno al centenario della sua nascita, lo ritroviamo in quel suo atteggiamento di attenzione non placata, tra il livoroso e lo sprezzante, ma anche in una sua curiosità mai attenuata, volta ad indagare una storia che in nessun modo si è riusciti a ridurre a inerte stereotipo.
Sarà per l'insostenibile leggerezza della politica italiana di oggi, sarà per la dimenticabile teoria dei suoi personaggi e delle sue vicende dimenticate in poche settimane, sarà per l'inveterata abitudine e necessità degli opinionisti nostrani a fare settimanalmente professione di anticomunismo, sarà per un oscuro e non confessabile rimorso, sarà che di quella storia siano in pochi ad averci davvero capito qualcosa, sarà, infine, che quel vuoto non è mai più stato davvero politicamente riempito, ma ci pare che attorno al PCI sia ancora in atto un'aspra battaglia nonostante nulla sembra esistere che la imponga all'ordine del giorno.
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Pandemia, economia e crimini della guerra sociale
Stagione 2, episodio 2: il falò delle vanità
di Sandro Moiso
Il falò della vanità della scienza medica (al servizio del capitale)
“Possiamo essere pessimisti, darci per vinti e quindi lasciare che accada il peggio. Oppure possiamo essere ottimisti, cogliere le opportunità che certamente esistono e in questo modo cercare di fare del mondo un posto migliore. Non c’è altra scelta.” [Ottimismo (malgrado tutto) – Noam Chomsky]
Ormai più di un mese fa, domenica 27 dicembre, avrebbe dovuto avere inizio la terapia miracolosa, sospesa tra interessi economici, miracoli degni del cinema di Vittorio De Sica, creduloneria mediatica e (pseudo) scienza. Successivamente i ritardi nelle consegne, gli ingarbugliati (a dir poco) contratti firmati dall’Unione Europea con le ditte produttrici, il malfunzionamento degli apparati sanitari preposti e l’incompetenza delle amministrazioni locali, basata su anni di tagli della spesa per la salute dei cittadini e di prevaricazioni politiche in nome dell’interesse privato sbandierati come “eccellenza sanitaria”, hanno finito col fare più danni di qualsiasi protesta No Vax1.
Come se ciò non bastasse anche il nazionalismo economico si è ritagliato il suo spazio vitale nella corsa ai vaccini così che, nonostante la contrarietà manifestata da numerosi virologi ed esperti (o almeno presunti tali)2, anche il governo italiano, insieme al suo commissario straordinario Arcuri, ha deciso di investire in patria per sostenere quello della Reithera, di cui non si conosce assolutamente il grado di efficacia e la cui prima consegna è stimata per l’autunno di quest’anno. Ma si sa…piatto ricco mi ci ficco!
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Vaccini Covid e il paradosso del calabrone
di Leopoldo Salmaso*
Secondo alcuni ingegneri aeronautici il bombo non può volare, però il bombo non legge le loro pubblicazioni e vola lo stesso.
Secondo Pfizer & C. il ‘vaccino’ a RNA messaggero non può modificare il genoma, però il ‘vaccino’ non legge i comunicati di Pfizer e…
Anzitutto alcune precisazioni:
P1. Il proverbiale calabrone non è un calabrone ma un bombo (Bombus terrestris) su cui un secolo fa Antoine Magnan e altri (1) scrissero che non poteva volare in base ai loro studi di aerodinamica.
P2. Il paradosso non è un paradosso, tanto che Magnan dovette correggere i propri studi invece che ‘correggere’ i bombi.
P3. il cosiddetto ‘paradosso del calabrone’ è diventato proverbiale per indicare la presunzione di tanti ‘apprendisti stregoni’ che pretendono piegare la Natura alla loro visione ultra semplificata della realtà.
Con tali premesse, mi propongo di illustrare perché e come un vaccino a mRNA si può comportare come i bombi, ignorando i comunicati Pfizer.
Per sviluppare il contraddittorio, propongo al lettore di proseguire con una fiction processuale:
A (Avvocato accusatore): Chiamo a deporre il dottor Leopoldo Salmaso… Dottore, dica brevemente le sue qualifiche, in particolare per farci capire la sua posizione riguardo ai vaccini.
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Mario Draghi: la politica dei padroni
di Redazione
La crisi istituzionale aperta da Matteo Renzi ha avuto come conseguenza il conferimento a Mario Draghi dell’incarico di formare un governo “istituzionale” da parte del presidente della Repubblica. Dopo un giro di consultazioni, in corso proprio da questa mattina a Montecitorio, con partiti e parti sociali Draghi stesso salirà di nuovo al Colle e per decidere se sciogliere o meno la riserva ed iniziare dunque un nuovo esecutivo che subentri al Conte II.
Quella del governo “istituzionale” è una strada che è stata spesso percorsa nel passato recente. Ciò che mostra la storia recente è che in momenti cruciali e in vista di scelte di importanza strategica la ritualità della politica cessa e si decide di fare affidamento sul tecnocrate a disposizione in quel preciso momento storico: governo Ciampi (ex-presidente della Banca d’Italia) in seguito a Tangentopoli, governo Dini (anch’egli ex-governatore della Banca d’Italia) e conseguente riforma del sistema pensionistico ed infine il governo Monti (presidente della Bocconi e già commissario Europeo per l’Italia), nato su l’incapacità politica del governo Berlusconi IV di attuare le riforme volute dall’UE (si pensi a quella che poi sarebbe diventata la legge Fornero).
In questo senso il filo conduttore dei governi tecnici, o sedicenti tali, è quello di avere a capo una personalità di garanzia del sistema capitalista italiano, una personalità riconosciuta solitamente anche a livello internazionale (come nel caso di Monti).
Per questo motivo, l’incarico conferito a Mario Draghi non è assolutamente una novità. Lo è invece la situazione economica in cui versa il Paese. La pandemia da Covid-19 ha riportato il paese a livelli di crescita paragonabili a quelli del 19951, e con lo sblocco dei licenziamenti prossimo venturo l’Italia si appresta a vivere una stagione di tensioni sociali potenzialmente esplosive.
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Dopo Conte, l'avvento dei Draghi. La marionetta Renzi, gli USA e la Cina
di Fosco Giannini*
Nel rapporto di collaborazione che si è costituito tra il nostro giornale e “Cumpanis” pubblichiamo, come anticipazione, il prosssimo editoriale di Fosco Giannini per “Cumpanis”
Crisi e caduta del governo Conte, incarico a Draghi e ruolo di Renzi. Nel provincialismo dilagante della “cultura” politica italiana, in pochissimi alzano gli occhi per vedere da che parte è venuta la spinta reale e determinante affinchè un nuovo scenario politico si determinasse nel nostro Paese. Renzi - nella “distrazione” generale, nella cecità di chi crede che un’Italia dominata politicamente dall’imperialismo USA, occupata militarmente dalla NATO e genuflessa ai voleri neoimperialisti dell’Ue sia un Paese libero e autonomo - è eletto a deus ex machina, a grande giocatore di poker, al nuovo principe machiavellico in grado di determinare sia il caos che il suo conseguente e nuovo ordine politico in Italia. E’ vero che i dirigenti di Italia Viva avevano già chiaramente anticipato, ben prima che Mattarella desse l’incarico esplorativo a Fico per un nuovo governo dopo il Conte 2, l’avvento di Draghi. Ma ciò sta solo a dimostrare quanto Draghi fosse già, e da tempo, l’uomo del vecchio ordine imperialista e capitalista, nordamericano ed europeo, quanto quest’ ordine abbia lavorato contro il governo Conte 2 e a favore di Draghi, e non sta certo a dimostrare quanto Renzi sia l’architetto del nuovo quadro politico italiano. La stessa demonizzazione, da parte di quella vasta area politica liberista della quale il PD è sicuramente il massimo rappresentante, di un Renzi quale cinico distruttore del governo Conte, è funzionale a sorreggere l’idea di un’Italia “autonoma”, priva di padroni, libera dagli USA, dalla NATO e dall’Ue, un Paese nel quale, purtroppo, possono però spadroneggiare dei corsari politici come Renzi.
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Cina. Il nodo del socialismo, dalla conquista del potere alla costruzione della società
di Francesco Piccioni
Un pianeta poco conosciuto, molto favoleggiato. Siamo stati tutti maoisti, almeno per giorno, ma non è che sapessimo molto di più di quanto scritto da Mao nei suoi libri (o anche solo nel “libretto rosso”). Qualcuno ha approfondito, certo, ma “la massa” dei militanti si fermava alle parole d’ordine generali.
Il movimento comunista in Occidente d’allora, e soprattutto il movimento del ‘68, si accontentava di trovare un’alternativa appassionante, stante l’insofferenza per il “socialismo reale” brezneviano.
Ovvero, le “guardie rosse”, “bombardare il quartier generale”, “potere alle masse” e non alla burocrazia.
Una ricezione molto ideologica, per forza di cose. Non del tutto sbagliata, ma indubbiamente parziale.
Poi la rottura dell’incanto: la morte di Mao, il ritorno di Deng, “arricchitevi”. La delusione che produce disinteresse. Di lì uno sguardo sempre più distratto su quel pianeta, considerato ad un certo punto “acquisito al capitalismo”.
Il lento ritorno all’analisi è parallelo alla crescita di rilevanza economica e tecnologica.
La pandemia e la crescita dei consumi hanno costretto tutti a riflettere nuovamente. A porsi domande, prima di sparare risposte piene di nulla.
La prima cosa su cui bisognerebbe riflettere seriamente è la differenza essenziale tra la lotta per la conquista del potere politico e la successiva costruzione della società. Quanto a tipo di partito, tipologia dei quadri, competenze utilizzabili, pianificazione dell’azione, priorità nel rapporto avanguardia-masse. Fare i guastatori del sistema dominante e gestirne/costruirne un altro, anche intuitivamente, sono mestieri differenti.
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Per una politica economica critica: il capitalismo contemporaneo secondo Emiliano Brancaccio
di Vincenzo Bello
La questione dei vaccini, dalla loro produzione esigua ai ritardi nella distribuzione da parte delle multinazionali e, prima ancora, la pandemia del Covid-19 con la sua gestione, politica ed economica, hanno messo in evidenza le contraddizioni del mondo capitalistico, in particolare quella tra profitto e diritto alla salute, ovvero tra interessi del capitale e democrazia. D’altronde non ci si può aspettare nulla di diverso da un sistema basato sulla pura logica di mercato in cui la determinazione delle quote di vaccini e il loro prezzo viene regolato sulla base della concorrenza e delle forze di mercato. In questo solco si inserisce anche l’affermazione di Letizia Moratti, che vorrebbe distribuire il vaccino in proporzione al PIL. È la ricchezza il criterio che stabilisce la distribuzione dei vaccini.
Non sarebbe possibile e necessaria una produzione pubblica del vaccino? Il diritto alla salute è o non è più importante del profitto privato? Esiste davvero un trade off tra salute e produzione, il cosiddetto trade off pandemico? E se sì, come può essere superato[1]?
Sono domande tutt’altro che retoriche, perché ci costringono a prendere atto della fase attuale del capitalismo storico e ci pongono dinanzi alla necessità di uscirne.
Il capitalismo costituisce l’oggetto di studio dell’economista Emiliano Brancaccio, marxista, quindi eretico secondo l'orizzonte del pensiero dominante. I suoi scritti rispondono all’urgente bisogno di analizzare le contraddizioni delle teorie mainstream dell’economia e, a partire dalla critica a queste ultime, elaborare visioni alternative.
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Adorno, la destra radicale e la democrazia totalitaria
di Thomas Meyer
L'ascesa del populismo di destra in questi ultimi anni, richiede una spiegazione. Più volte, in diversi momenti, è stato sottolineato che i movimenti di destra degli ultimi anni non cadono semplicemente dal cielo, ma devono essere visti nel contesto del neoliberismo e delle sue convulsioni sociali di questi ultimi decenni. Secondo Wilhelm Heitmeyer [*1], l'autoritarismo, così come viene espresso e rivendicato dai populisti o dai radicali di destra, si trova già racchiuso e contenuto nel neoliberismo, il quale si presenta sempre come senza alternativa. L'erosione dei processi democratici, la liquidazione della rete sociale, il potenziamento dello Stato di polizia, la fondamentale insicurezza sociale e la resa immediata dell'individuo agli imperativi della valorizzazione del capitale rendono evidente l'autoritarismo del regime neoliberista [*2]. Infine, ma non meno importante, la quota percentuale verificata della popolazione che ha una visione razzista del mondo, è aumentata costantemente nel corso degli anni. Di conseguenza, oggi abbiamo un alto potenziale di «misantropia centrata sul gruppo» che non è affatto una novità degli ultimi anni. [*3]
Le strategie di destra puntano a «spostare i confini di ciò che può essere detto». Indubbiamente, anche la «borghesia volgare» (Heitmeyer) ha contribuito a questo, come appare chiaramente nelle opere di Sloterdijk [*4] e di Sarrazin [*5]. Come scrive Heitmeyer, è «un fatto che, sotto un sottile strato di maniere civili e gentili ("borghesi") si nascondono atteggiamenti autoritari che diventano sempre più visibili, generalmente nella forma di una retorica sempre più rabbiosa» [*6].
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Le ragioni della forza della frazione di Bordiga
di Eros Barone
Come si desume dalla lettura del Manifesto ai lavoratori d’Italia, pubblicato dal Comitato Centrale del Partito comunista d’Italia il 30 gennaio del 1921, quindi pochi giorni dopo la scissione dal Partito socialista italiano e la conseguente costituzione del PCd’I, la forza della frazione bordighiana e la ragione del primato che conquistò nel Partito comunista appena costituito derivano da una ideologia rigorosa, coerente ed intransigente, tale da conseguire il successo nel momento in cui occorreva tagliare i nodi. Tutto il pensiero di Bordiga si condensa in un concetto-cardine del marxismo: lo Stato è l’organo della dittatura di una classe, occorre dunque abbattere lo Stato borghese con la forza e sostituirgli la dittatura del proletariato. La dottrina della rivoluzione è dunque racchiusa in questo sillogismo: non esiste un altro modo di fare la rivoluzione né di avvicinarsi ad essa.
Il movimento sindacale, che tende a soluzioni parziali dei problemi che nascono tra la borghesia e il proletariato, ha solo un valore limitato di organizzazione e di propaganda, e solo a questo titolo il partito se ne interessa e vi interviene. La partecipazione al parlamento è dannosa, perché sottrae energie alla rivoluzione proletaria e le impiega invece a valorizzare un organo che deve essere distrutto come organo principale del potere borghese. Strumento della rivoluzione è, dunque, solo il partito politico del proletariato e al suo rafforzamento deve essere dedicata tutta l’attività dei comunisti fino alla presa del potere. La individuazione della pura essenza della rivoluzione proletaria nella lotta frontale tra borghesia e proletariato è ciò che rende attuale la lezione di Bordiga nella situazione odierna, in antitesi alle deformazioni, alle mistificazioni e alle falsificazioni della teoria marxista-leninista perpetrate dal riformismo, teorizzate dal revisionismo e favorite dall’opportunismo, con tutti i gravi cedimenti rispetto al potere borghese che da esse sono inevitabilmente derivati nel pensiero e nell’azione del movimento operaio.
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Next degeneration EU
di Sergio Cesaratto
Il cosiddetto Recovery Fund è il Convitato di pietra della crisi di governo, come scusa di litigio o oggetto di appetito politico. La sua importanza è solo relativa, date le sue ridotte dimensioni finanziarie, la sua tempistica inadeguata, l’impronta europea sui contenuti ben lontana da una organica politica industriale per il continente, i contenuti sociali sospesi fra ipocrisia, demagogia e velleità. Il Recovery Fund appare così inadeguato sia come sostegno alla domanda aggregata che alla capacità industriale italiana (ed europea). Avanzeremo qui alcune osservazioni sul documento del governo italiano (Piano di Ripresa e Resilienza dell’Italia, PNRR – 12 gennaio 2021) [1] ricordando che Il Piano dovrà essere presentato in via ufficiale entro il 30 aprile 2021.
1. Assenza di analisi a monte e a valle
I mali dell’economia italiana vengono da lontano.[2] Il miracolo economico degli anni cinquanta e sessanta non risolse le problematiche storiche del Paese: in senso spaziale essendo stato concentrato nel nord-ovest, con successive estensioni nel nord est e, temporaneamente, nella fascia nord adriatica; in senso occupazionale in quanto la limitata industrializzazione non ha assalito le sacche di disoccupazione meridionale, femminile, giovanile, e la sottoccupazione nel terziario parassitario; in senso tecnologico mancando negli anni settanta-ottanta il salto dalle produzioni meccaniche a quelle più elettroniche; sul piano sociale facendo mancare un moderno riformismo verso le classi lavoratrici, a favore dell’inclusione clientelare. Dalla fine degli anni sessanta, il mancato riformismo e lo iato fra le aspettative di consumo e l’insufficienza della torta da spartire ha esacerbato il conflitto sociale fra capitale, lavoro e i topi nel formaggio, con una ricaduta su un uso inefficiente della spesa pubblica e la tolleranza dell’evasione fiscale.
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Passi avanti nel controllo delle imprese digitali
di Vincenzo Comito
Improvvisamente ai due lati dell’Atlantico e anche in Cina le autorità hanno dato vita a iniziative, o almeno dichiarazioni, per regolamentare lo strapotere dei giganti del web: Google, Facebook, Apple e Amazon. Ma i Gafa preparano la controffensiva con azioni di lobbying
Sono molti anni che si discute ai due lati dell’Atlantico della necessità di introdurre adeguate forme di controllo sulle imprese digitali, che intanto crescono in dimensioni e potere. Le più grandi tra di esse, tutte statunitensi o cinesi, hanno raggiunto ormai valutazioni in Borsa di dimensioni enormi: la Apple, solo per fare un caso, vale ormai quasi 2.000 miliardi di dollari. Esse sono fonte di problemi crescenti su moltissimi fronti: su quelli della tutela della concorrenza, della gestione dei dati, del controllo dei contenuti, delle questioni fiscali, della dimensione etica delle scelte, del lavoro, infine di quello politico più generale. Per molti in Occidente appare essere in gioco la stessa democrazia.
Negli ultimi mesi, per la verità, è partita all’improvviso e con grande clamore una campagna per interventi decisi, sia in Occidente che in Cina. Ma i giganti del settore hanno tanto denaro e tanti dati a disposizione che, forse, è molto difficile che siano seriamente infastiditi, almeno in Occidente (Livni, 2020). Comunque il quadro appare differente tra un’area e l’altra.
Le autorità cinesi, quali che siano le loro motivazioni, stanno facendo sul serio nel tentativo di porre sotto controllo i grandi gruppi digitali e si stanno muovendo con grande rapidità e decisione nell’esecuzione, forse fin troppo.
Le situazione per quanto riguarda gli Stati Uniti e l’UE appare differente e un recente articolo apparso su The Economist, aveva a questo proposito il significativo titolo di “credibility gap” (The Economist, 2020).
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Per un nuovo protagonismo dei comunisti in Italia
di Ascanio Bernardeschi
Lo scopo di questo contributo non è una ricostruzione storiografica delle vicissitudini attraversate dal Pci nel corso della sua esistenza ma quello di partire da alcuni snodi di questa storia per trarne alcune lezioni utili per il presente. Tuttavia, ai fini di questa riflessione mi pare utile un sommario richiamo a tali snodi, consapevole del rischio di tediare i tantissimi compagni per i quali un tale sunto appare superfluo.
A seguito del grande evento della rivoluzione di Ottobre, ma anche della sconfitta dell’occupazione delle fabbriche, favorita sia dalla linea opportunista dei riformisti che dall’incapacità di direzione politica dei massimalisti, Antonio Gramsci e il gruppo dirigente che lo circondò intesero a costruire un partito in cui la solida impostazione teorica e l’internazionalismo proletario si sposassero con la presenza attiva all’interno delle classi lavoratrici, con un’organizzazione ferrea e con l’iniziativa politica. La pratica del centralismo democratico, l’idea della costruzione del partito prioritariamente nei luoghi di lavoro all’interno dei quali introdurre forme di democrazia consiliare, l’approntamento di strumenti di comunicazione e propaganda idonei – considerate l’epoca e la situazione – erano funzionali a questo molteplice compito.
Perfino negli anni bui della clandestinità sotto il regime fascista, in quelle durissime condizioni, non venne meno tale impegno e il Partito riuscì ad aderire, nei limiti consentiti dalla situazione, alle pieghe della società e a costruire un reticolo di cellule in cui l’iniziativa politica, quale per esempio la diffusione della stampa clandestina, si abbinava alla formazione dei quadri. Lo stesso carcere fu per molti l’“università” che permise di far crescere quadri dirigenti di grande valore.
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The Great Reset: una nuova rivoluzione passiva
di Geminello Preterossi
Da un po’ di tempo si sente parlare di Great Reset. Che non si tratti di un’invenzione di complottisti, da liquidare con autocompiacimento, lo testimonia il fatto che al tema è stato dedicato di recente un libro, di cui è autore, insieme a Thierry Malleret, Klaus Schwab, non proprio l’ultimo scappato di casa, visto che ha fondato il World Economic Forum di Davos (di cui è attualmente direttore esecutivo), cioè il “club” che raccoglie i più ricchi e potenti del mondo. “Great Reset” è, non a caso, il tema del convegno annuale di Davos appena concluso (svoltosi quest’anno rigorosamente da remoto). Al progetto, il Time ha dedicato qualche mese fa la sua copertina. Ma cosa si intende, precisamente, con questa parola d’ordine? Se leggiamo il libro di Schwab e Malleret, nonché i contributi da tempo presenti sul tema, sul sito del Forum e altrove, possiamo farcene qualche idea, non proprio rassicurante.
L’impressione è che si tratti di una grande operazione di controffensiva egemonica, rispetto ai movimenti di protesta anti-establishment cresciuti nell’ultimo decennio, per effetto del crollo finanziario del 2008, e alla crisi di consenso che ha investito il finanzcapitalismo e la globalizzazione, producendo un disallineamento tra masse e rappresentanza politica. Per certi aspetti, è un’operazione ideologica preventiva, volta cioè a evitare che dalla pandemia sorgano ricette e sensibilità che recuperino sul serio la centralità dello Stato e della politica nella loro autonomia, rimettendo in campo il conflitto sociale e politiche di programmazione in grado non solo di redistribuire, limando i profitti, ma anche di orientare a fini pubblici, collettivi, l’economia, all’insegna ad esempio dei principi del costituzionalismo sociale e democratico.
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