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Intellettuali declassati
Gli intellettuali, l’impegno e la fine delle utopie
di Andrea Amoroso
Pubblichiamo un estratto del saggio contenuto ne Le nuove forme dell’impegno letterario in Italia, a cura di Federica Lorenzi e Lia Perrone (Giorgio Pozzi Editore, 2015)
Felice chi è diverso
essendo egli diverso.
Ma guai a chi è diverso
essendo egli comune.
Sandro Penna
Thomas Mann, Tonio Kröger
Quello della fine dell’”intellettuale-legislatore”, per riprendere ancora la definizione di Bauman, è un mantra che in Italia va avanti non da anni, bensì da decenni. È già a metà degli anni Settanta (in un saggio poi confluito nella volume Il critico senza mestiere), che il critico Alfonso Berardinelli parla di prendere atto di una
avvenuta dissoluzione di un corpo ideologico al cui interno sono state vissute quasi tutte le vicende italiane degli ultimi trent’anni [nei quali] poesia e letteratura sembrano, inoltre, aver perduto del tutto il loro carattere di relativa e simbolica centralità all’interno del sistema culturale. [1]
Quando Berardinelli scrive queste righe siamo nel 1975; poco più di un decennio dopo Zygmunt Bauman conierà la sua fortunata e abusata definizione, efficace certamente dal punto di vista comunicativo ma non altrettanto convincente dal punto di vista concettuale.
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Foucault contro il Leviatano
“La grande soif de l’Etat” di Arnaut Skornicki
Paolo Missiroli
Scrivere un libro sullo Stato e su Foucault può apparire o impresa impossibile o banale ripetizione. Impresa impossibile in quanto Foucault è notoriamente il teorico del potere inteso come relazione e non come cosa che si possiede e che sta in un luogo od in un altro e, per questo, un grande critico dello statocentrismo, cioè di ogni analisi (Hobbes) che consideri il potere risiedere nelle mani dello Stato, cioè del detentore della violenza fisica in ultima istanza. Banale ripetizione perché in effetti Foucault dello Stato ha parlato parecchio, sopratutto nei corsi tenuti al College de France dal 1975 al 1980. In quegli anni ha elaborato le assai conosciute e spesso abusate, sopratutto in Italia, categorie di biopolitica e governamentalità, ed ha approfondito e studiato la storia del liberalismo e del neoliberalismo, tutti concetti evidentemente legati a quello di Stato. Ognuno di questi termini è stato soggetto di saggi ed articoli a non finire e l’ennesimo libro sulla governamentalità nel pensiero di Foucault, o sulla concezione neo ed ordo liberale dello Stato, non desterebbe alcun interesse.
L’ultimo libro di Arnault Skornicki, La grande soif de l’État (La grande sete dello Stato), per Les praires ordinaires, non risulta né assurdo né banale. Questo è dato, credo, da una duplice motivazione: in primo luogo l’approccio dell’autore, che è essenzialmente comparativo (non a caso il sottotitolo è Michel Foucault avec les sciences sociales), che gli consente numerosi excursus tra vari autori come Bordieou, Elias, Weber, Poulantzas ed altri, utili sia per comprendere il pensiero di Foucault sui vari punti, sia per allargare il respiro del testo, rendendolo così un libro non tanto su Foucault ma sullo Stato.
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Perché l’euro è condannato
di Vincent Brousseau
Dal sito de l’Union Populaire Républicaine – nuovo movimento politico francese che si propone il ristabilimento della democrazia con l’uscita dalla UE e dall’euro – una interessante analisi del Prof. Vincent Brousseau sul meccanismo e la dinamica dei saldi Target2: essi sono allo stesso tempo condizione necessaria dell’unione monetaria, ma anche pomo della discordia; riprendendo la loro fuga in avanti, portano ad una situazione sempre più irragionevole e inaccettabile
Qualche giorno fa, l’UPR ha segnalato che i saldi Target avevano ripreso la loro fuga in avanti, cosa sulla quale i media francesi rimangono straordinariamente discreti.
Il grafico accanto mostra l’evoluzione di questi saldi Target da prima dell’inizio della crisi fino ad ora. Questi saldi sono debiti e crediti in un sistema chiuso; la loro somma è quindi pari a zero, il che spiega l’aspetto simmetrico del grafico. I debiti (in basso) riflettono i crediti (in alto).
La fase 2011-2013 è stata un momento di panico. Col passare del tempo, abbiamo accumulato dati sufficienti per poter fare una constatazione: Se non si considera questo episodio di panico, si può constatare ora che il ritmo di fondo della progressione non si è mai interrotto. La Bundesbank accumula ogni anno, in media, circa 80 miliardi di crediti supplementari. E, dal 2008, si arriva a un rispettabile totale di 600 miliardi.
Per dare un ordine di grandezza, vorrei ricordare che il bilancio totale della Bundesbank all’inizio dell’euro era solo di 250 miliardi, e nel 2005, di 300 miliardi.
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Le insuperabili criticità della riforma costituzionale Renzi-Boschi
di Alessandro Pace *
Violazione degli artt. 1 e 48 della Costituzione
Il Governo Renzi, con il d.d.l. cost. AC n. 2613-B, già approvato nella prima delle due deliberazioni richieste per le leggi di revisione costituzionale, si propone di modificare le disposizioni costituzionali contenute nei titoli I, II, III, V, VI della Parte II della Costituzione e nelle disposizioni finali. Ebbene, poiché tali modifiche sono svariate – come si desume dalla stessa intitolazione della legge («Superamento del bicameralismo paritario e revisione del Titolo V della Parte seconda della Costituzione») – una volta che tale legge fosse sottoposta a referendum, coercirebbe la libertà di voto degli elettori (art. 48 Cost.) e violerebbe, nel contempo, la proclamazione della sovranità popolare «nelle forme e nei limiti della Costituzione» (art. 1 comma 2 Cost.), in quanto, trattandosi di una legge dal contenuto disomogeneo, l’elettore potrebbe esprimere, sull’intero testo, solo un sì o solo un no ancorché le scelte da compiere sono almeno due: la modifica dell’attuale forma di governo (e cioè il rafforzamento del Governo a spese del Parlamento, con un Senato ridotto ad una larva) e la modifica della forma di Stato (essendo rafforzata la posizione dello Stato centrale nei confronti delle Regioni).
Il che evidenzia l’illegittimità costituzionale che caratterizza il d.d.l. cost. AC n. 2613-B, perché viola, come già detto, gli artt. 1 e 48 Cost. Un vizio che non contraddistingueva invece la c.d. riforma della Costituzione proposta dal Governo Letta (d.d.l. cost. n. 813 AS), naufragata strada facendo, il cui art. 4 comma 2 prevedeva appunto che «Ciascun progetto di legge è omogeneo e autonomo dal punto di vista del contenuto e coerente dal punto di vista sistematico».
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Classe lavoratrice, sindacato, storia del Movimento Operaio
Riflessioni sull’oggi
Alessandro Mazzone
1. Il lettore di “Proteo” sa bene che questa rivista a carattere scientifico è, nello stesso tempo, una pubblicazione di classe. Le due cose vanno insieme. Da sempre, lotta di classe dalla parte dei lavoratori vuol dire anche conoscere, rendersi conto del mondo, migliorarsi, emanciparsi. (Cento anni fà, la prima lotta mondiale, quella per la giornata lavorativa di 8 ore, aveva per motto: 8 per lavorare, 8 per riposare, 8 per migliorarci.) - Questo è il lato soggettivo. Il suo sviluppo, nel corso di ormai quasi due secoli, ha portato alla costruzione di organizzazioni economiche (cooperative), sindacali, politiche dei lavoratori; in Italia, a Camere del lavoro, Case del popolo, istituzioni di vita autonoma delle classi lavoratrici, che insieme erano strumenti di lotta e di cultura attiva.
Ma, naturalmente, c’è un lato oggettivo della lotta, che emerge non appena si considera la controparte. Anche la borghesia è mutata profondamente nel tempo, fino a generare un’oligarchia ristretta che oggi, con strumenti economici, politici, culturali (o anticulturali), impone il suo dominio, direttamente e indirettamente, a miliardi di uomini in quasi ogni Paese. E oggi diventa via via più chiaro qualcosa, che in linea di principio è sempre stato vero: che l’oggetto della lotta di classe è sempre stato, fin dai primi confronti parziali, locali, fin dalle Leghe di Resistenza dell’‘800, il modo di organizzare la vita degli uomini associati, la produzione e riproduzione di questa attraverso e mediante il lavoro [1].
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Il neurocapitale
Tiziana Terranova
Esce in questi giorni giorni, presso Mimesis, Neurocapitalismo. Mediazioni tecnologiche e linee di fuga di Giorgio Griziotti. Anticipiamo qui, per gentile concessione dell’editore, l’Introduzione di Tiziana Terranova
Nella ormai sterminata produzione di testi, studi e analisi sulle reti informatiche e i media digitali, non capita davvero spesso di imbattersi in un libro, quale quello scritto da Giorgio Griziotti, capace di coniugare un competente sguardo tecnico con una coerente prospettiva teorica e una evidente passione politica. Come questa sintesi sia stata possibile, Griziotti ce lo racconta nella sua premessa, il momento in cui sceglie di mettere la sua soggettività in campo seguendo quella esortazione femminista che ha insistito e continua a insistere (da Donna Haraway, Gayatri Spivak e Sandra Harding a Rosi Braidotti e Karen Barad) sull’importanza di un sapere situato e corporeo, parziale e partigiano, che si distende a partire da un luogo e un tempo specifico piuttosto che da una prospettiva disincarnata e ostentatamente imparziale. Come non sottolineare dunque che questo è un testo in cui si incrociano, come Griziotti ci racconta all’inizio e come ci lascia intravedere attraverso tutto il libro, diverse dimensioni esistenziali in una ricerca animata da grande passione politica nutrita dal «comune dell’apprendimento» dell’auto-formazione collettiva.
Giorgio Griziotti è un ingegnere informatico, un programmatore e dunque è uso all’intensa attività di corpo a corpo solitario con il linguaggio e i codici che coraggiosamente estende dalla programmazione di software alla scrittura saggistica.
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Antonio Gramsci, ritratto di un rivoluzionario
Francesco Bellusci
“Quando, nel mese di aprile 1919, abbiamo deciso in tre, o quattro, o cinque di iniziare la pubblicazione di questa rassegna, nessuno di noi pensava di cambiare la faccia al mondo, pensava di rinnovare i cervelli e i cuori delle moltitudini umane, pensava di aprire un nuovo ciclo della storia… L’unico sentimento che ci unisse, in quelle nostre riunioni, era quello suscitato da una vaga passione di una vaga cultura proletaria; volevamo fare, fare, fare…”. A poco più di un anno dalla fondazione della rivista “Ordine Nuovo”, che, da scopi genericamente culturali, sarebbe passata in poco tempo a sostenere il movimento dei consigli di fabbrica nella Torino industriale del primo dopoguerra, così Antonio Gramsci rievocava l’inizio di quell’avventura di alcuni giovani intellettuali socialisti (a fianco di Gramsci, segretario di redazione, c’erano Togliatti, Terracini e Tasca), che non si ponevano come detentori della coscienza di classe o come mentori filosofici della classe operaia, ma come analisti e promotori della soggettività rivoluzionaria che essa era in grado di esprimere da sé, in un frangente storico che, in Italia e in altre parti d’Europa, sembrava propizio alla rivoluzione, almeno agli occhi dei gruppi di sinistra più radicali e all’osservatorio speciale del Comintern.
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Il virus letale della condivisione
Benedetto Vecchi
Parassiti che si nutrono delle relazioni sociali e si appropriano dei profili personali. Occhi puntati sulla sharing economy e sull’industria dei Big Data. «Silicon Valley: i signori del silicio» di Evgeny Morozov per Codice edizioni. Sempre dagli Stati Uniti arriva il saggio del teorico Trebor Scholtz "Platform Cooperativism", dove viene proposta la strategia di mettere in Rete le cooperative di produzione e di servizi attraverso l'uso di piattaforme digitali aperte
Sharing economy è una espressione che si è fatta largo tra la selva delle definizioni che caratterizzano il capitalismo che ha nella Rete il suo medium. Segue quella dal sapido sapore controculturale della peer to peer production, che metteva l’accento sulla condivisione alla pari di conoscenze e mezzi di produzione nella quale Internet è una neutra piattaforma per determinate attività economiche separate tuttavia da quanto accade al di fuori dello schermo. Soltanto che il confine tra dentro e fuori la Rete è svanito. La logica della condivisione, infatti, è ormai riferita ad attività produttive, di informazione, conoscenza, software. Coinvolge infatti ogni attività di intermediazione tra produzione e consumo. Inoltre la sharing economy non prevede un rapporto alla pari, bensì una relazione mercantile, dove l’attività di intermediazione prevede un pagamento di una percentuale tra produttore e consumatore. Non è un caso che i nomi usati per esemplificare la sharing economy sono Uber e Airbnb, cioè servizi di taxi e di affitto di una stanza o di un appartamento per viaggi di lavoro o di piacere. Il tutto accompagnato da una melassa ideologica sul potere del consumatore di poter scegliere il miglior prodotto a prezzi accessibili e sulla possibilità di vedere realizzati il proposito neoliberista di trasformare ogni uomo o donna in imprenditore di se stesso.
In nome del municipalismo
Sarebbe un errore ridurre la sharing economy a mera ideologia, perché individua una forma specifica di organizzare tanto la produzione che la distribuzione o il consumo di merci, poco importa se tangibili o «immateriali».
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Condizionalità senza frontiere
Quello che non dovevate sapere dei finanziamenti comunitari
Alberto Bagnai
(...è uscito un libro che non dovete leggere. Si chiama Finanziamenti comunitari - Condizionalità senza frontiere. Lo ha scritto Romina Raponi e spiega come funzionano realmente i finanziamenti comunitari. Leggerlo nuoce gravemente alla salute. Gli effetti collaterali sono: esofagite, gastrite, insonnia, sindrome depressiva, problemi cardiovascolari. Io vi ho avvertito, voi fate come vi pare. Meglio conservarsi in salute, piuttosto che capire perché chi vi dice "eh, ma noi non riusciamo nemmeno a spendere i fondi europei!" è un perfetto imbecille. D'altra parte, quando non avevamo capito un cazzo, possiamo anche dircelo, stavamo tutti meglio... In ogni caso, quella che segue è la mia prefazione - così gli effetti collaterali li subite ugualmente!...)
* * *
“Ce lo chiede l’Europa!” Quante volte ce lo siamo sentiti dire, in questi ultimi anni? Col passare del tempo, però, la retorica patriottarda di questo ritornello (“siam pronti alla morte, l’Europa chiamò!”) si sta sgretolando. È la realtà a inseguire e raggiungere chi non sia stato già convinto per tempo dalle tante autorevoli analisi, come quella di Luciano Canfora (È l’Europa che ce lo chiede! Falso!, Laterza, 2013), o quella di Giandomenico Majone (Rethinking the unionof Europe post crisis, Cambridge University Press, 2014).
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Marx e l’alchimia
Carlo Amore intervista Luciano Parinetto
Con Faust e Marx. Metafore alchemiche e critica dell’economia politica. Satura inconclusiva non scientifica (Luciano Pellicani editore 1989; nuova edizione: Mimesis, Milano 2004), Luciano Parinetto tende a effettuare una doppia operazione: da una parte una rivisitazione della lunga tradizione del sapere alchemico che rompe sia con generici “esoterismi”, sia con il pregiudizio storicista che riconosce nell’alchimia il ruolo di “mezzana” tra la chimica come scienza normale e i saperi premoderni; dall’altro, una lettura coerente di modelli e metafore di chiara impronta alchemica nell’opera marxiana.
* * *
Come si motiva questo tipo di impostazione del tuo libro?
È ben noto che chi sia completamente inserito in una totalità (e soprattutto in una totalità alienata, come è il caso di quella che va sotto il nome di capitale) è ben difficile che trovi il punto archimedeo sul quale far leva per poter iniziare a considerarla criticamente, proprio perché ogni posizione assunta rischia di risultare interna e coerente a quella totalità. Nel caso dei mio ultimo libro, l’alchimia rappresenta dunque un possibile punto archimedeo, trattandosi appunto di una visuale talmente remota dal capitale che, non solo esso la disconosce in quanto sapere, ma le oppone polemicamente le proprie scienze, ancorate al quantitativo, castrate dell’immaginario.
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Deutschland über alles
di Thomas Fazi
Il piano della Germania: creare un oligopolio bancario germano-centrico che disporrà del potere assoluto di decidere di quanto e a che condizioni finanziare il debito degli Stati
La settimana scorsa abbiamo parlato della duplice proposta tedesca che sta scatenando il panico nei corridoi di Palazzo Chigi e di Palazzo Koch (Banca d’Italia). La prima è quella che vorrebbe che ai titoli pubblici posseduti dalle banche dell’eurozona siano attribuiti coefficienti di rischiosità corrispondenti a quelli degli Stati (mentre ora sono considerati privi di rischio); che sia messo un tetto alla presenza di titoli di Stato del loro paese nel portafoglio delle banche; e, infine, che in caso di crisi del debito pubblico – e di contestuale richiesta di assistenza al Meccanismo europeo di stabilità (MES) da parte del governo interessato – sia applicato ai titoli pubblici lo stesso principio di bail-in introdotto per le banche con l’unione bancaria: allungamento delle scadenze e magari anche sospensione e riduzione degli interessi. In pratica un default obbligatorio i cui costi ricadrebbero sui possessori dei titoli pubblici, cioè in primo luogo sulle banche del paese interessato. La seconda proposta riguarda invece la creazione di un “superministro” dell’economia dell’eurozona – un «lord supremo del bilancio dell’eurozona», nella sapida definizione data da Yanis Varoufakis –, che assorbirebbe i residui di autonomia degli Stati nella gestione dei bilanci, senza prevedere come contropartita alcun bilancio federale.
È evidente che tali proposte, se passassero, rappresenterebbe un colpo letale per l’Italia e per gli altri paesi della periferia.
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La decrescita infelice
di Pierluigi Fagan
L’ultimo numero di Foreign Affairs (Feb. ’16), la punta avanzata della riflessione strategica americana, ripropone il tema della “stagnazione secolare” una sorta de “il re e nudo” lanciato non molto tempo fa da Larry Summers[1]. Il re nudo di Summers si chiama strutturale e perdurante assenza di crescita, l’assenza di crescita potrebbe oscillare come crescita positiva o negativa ad esempio allo 0,2% (stagnazione) o potrebbe risultare addirittura decrescita. Occorre poi sempre dettagliare l’ambito di cui si sta parlando, se cioè parliamo dell’economia americana, di quella occidentale, di quella OECD (Ocse), di quella del mondo ed il quando, in quale prospettiva temporale accadrebbero i fatti. A sfavore della crescita americana, occidentale, OECD, è l’evidenza lampante che è più probabile che cresceranno i mai o poco cresciuti che i già cresciuti se si è in un trend generale di crescita difficile. Ma siamo in un trend strutturale di crescita difficile?
Beh, sembrerebbe proprio di sì. Gli indici e le previsioni son quelle, la sistematica revisione al ribasso di previsioni già non troppo ottimiste è ormai una consuetudine (OECD-2016). Il prezzo del petrolio e delle materie prime, dicono della flessione di domanda e soprattutto, grave allarme ha destato un altro re nudo, il fatto cioè che la capacità di stimolazione dell’economia, degli investimenti, della circolazione e dell’inflazione da parte delle torrentizie immissioni di moneta pompate dalle banche centrali, non ha sortito alcuno degli effetti sperati.
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Pianificare non basta?
di Giovanni Di Benedetto
Chi, ostinatamente, si pone il problema della trasformazione della società presente non può limitarsi soltanto a darne una descrizione critica, individuandone i limiti, le inadeguatezze e i punti di rottura. Oltre a formulare un’analisi che sia la più fedele possibile allo stato delle cose esistenti, deve anche provare ad esaminare le modalità con le quali, in passato, sono stati sperimentati i tentativi di cambiamento. Una tale osservazione vale a maggior ragione per il più importante, drammatico e straordinario tentativo di rottura rivoluzionaria con il capitalismo e di costruzione del socialismo compiuto lungo la storia del XX secolo. Quello relativo alla rivoluzione del ’17 e alla nascita dell’URSS.
Del sistema sovietico si sono date le definizioni teoriche più svariate e differenti: Stato operaio degenerato, collettivismo burocratico, capitalismo di Stato, società di transizione al socialismo, società di transizione al capitalismo. E ancora, modo di produzione statuale, sistema di produzione asiatico, dispotismo statale interventista e dispotismo orientale. Il punto è, tuttavia, che nella misura in cui ognuna di queste definizioni può esprimere tracce di verità, essa comunque cela, al contempo, elementi di complessità più ampi e profondi. Peraltro, nessuna di tali definizioni può negare il fatto che, nella misura in cui l'Unione Sovietica si presentava come ‘un sistema socialista realmente esistente’, essa sembrava concretamente rappresentare un’alternativa reale e effettiva all’anarchia del capitalismo. Sì, proprio così, l’inaspettato successo della rivoluzione russa mostrò a tutto il mondo che una società socialista poteva essere edificata sulle macerie della guerra e di uno Stato imperialista.
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Gilles Dauvé e Karl Nesic, Oltre la democrazia
Introduzione
di Fabrizio Bernardi e Robert Ferro
Dai tempi in cui Francis Fukuyama proclamava la vittoria definitiva del capitalismo democratico e, con essa, «la fine della Storia» (cfr. La fine della Storia e l'ultimo uomo, Rizzoli, Milano 1992), qualche cosa è indubitabilmente cambiata. E «la fine della fine della Storia» (come titolava poco tempo fa un articolo di Le Monde, 16-10-2014) non può che rimettere in discussione tutto ciò che, con quelle tesi, pareva acquisito: la democrazia come orizzonte politico insuperabile della contemporaneità, la fine delle classi sociali e della loro lotta, la perdita di centralità del lavoro salariato, la capacità del capitalismo a perpetuarsi indefinitamente senza «generalizzare le proprie contraddizioni» (Marx). E, almeno su questi punti, tra i vari maitres à penser del postmoderno, da quel Samuel Huntington teorico dello Scontro di civiltà (Occidente vs. Islam) fino a Impero di Toni Negri e Michael Hardt, i più strenui oppositori e antagonisti potevano, nonostante tutto, trovare un qualche terreno d'accordo.
Che le classi esistano e che la lotta di classe possa condurre oltre il capitalismo e oltre la democrazia è invece l'assunto di fondo che permea tutto il saggio di Dauvé e Nesic che qui presentiamo. E benché i temi e i riferimenti siano tutt'altro che nuovi, e non mancheranno di far storcere il naso per cotanto vecchiume, il libro che ne risulta è unico o quasi; e il suo merito fondamentale è quello di prendere finalmente sul serio il proprio bersaglio.
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Se la borghesia italiana si scopre euroscettica
di Pasquale Cicalese
“Si possono inoltre gestire meglio quei crediti deteriorati (quasi un terzo del totale) che fanno capo a imprese in temporanea difficoltà ma con concrete possibilità di rilancio, soprattutto con il rafforzamento della ripresa economica. È essenziale a questo fine un adeguato coordinamento tra le banche finanziatrici, che preveda anche l’intervento di operatori specializzati nelle ristrutturazioni aziendali”. (Governatore Banca d’Italia Ignazio Visco, Intervento ad Assiom Forex - Torino 30 gennaio 2016, pag, 12)
“Gli industriali italiani non riuscirono a salvare il meccanismo della svalutazione. Ne presero atto e si dedicarono, nel decennio seguente l’unione Monetaria, a salvare i propri capitali. Gli investimenti crollarono di fronte alla certezza del cambio forte. Lo sciopero fiscale raggiunse vette sempre più elevate. Le imprese si indebitarono con le banche. I proventi delle esportazioni, per quanto possibile, furono lasciati all’estero. Restò alle banche chiudere il credito, decretando la fine del 25% dell’apparato industriale”. (Marcello de Cecco, Deflazione, il male sottile, Affari&Finanza, 8 febbraio 2016.)
Rimane ancora quel 75% in vita, o in apnea, che dir si voglia. Per quanto? Nel Mezzogiorno non esiste più industria, il pericolo riguarda la fascia adriatica, il nord est e le ex regioni rosse, anch’esse a grosso rischio di ulteriore deindustrializzazione. Le crisi delle banche locali, da Cariferrara a Popolare Vicenza, da Banche Marche a Veneto Banca, sono il chiaro segno che l’industrializzazione del Nord est centro è ad un crocevia. Visco ritiene che possa essere salvata. I crediti deteriorati sono circa 360 miliardi, un terzo dunque sono 120.
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Gli squilibri nell’eurozona non dipendono dal costo del lavoro e dalla competitività
di Servaas Storm
Servaas Storm, econonomista eterodosso olandese vincitore del Premio Myrdal 2013 e autore di Macroeconomics Beyond the NAIRU (Harvard University Press, 2012), sfida la visione mainstream della crisi dell’eurozona che ha per lungo tempo contagiato anche il campo eterodosso: gli squilibri tra i paesi dell’Eurozona, spiega Storm, non dipendono dal differenziale accumulato del costo del lavoro, né in generale dai prezzi, ma vanno ricercati nel lato finanziario dell’economia europea
In risposta alla mia analisi critica della moderazione salariale tedesca e della crisi dell’euro zona, Heiner Flassbeck e Costas Lapavitsas hanno chiarito la loro versione su ciò che grosso modo si intende per modello da manuale neoclassico di una unione monetaria. Il loro punto principale è che non ci sarebbero stati grandi squilibri delle partite correnti insostenibili all’interno della zona euro, e di conseguenza nessuna crisi del debito sovrano nei paesi in deficit, se tutti gli Stati membri avessero mantenuto la crescita dei salari nominali pari alla crescita della produttività del lavoro più il 2% (l’obiettivo di inflazione). Professor Wren-Lewis (2016) ha sostenuto lo stesso punto.
Il delicato equilibrio delle partite correnti con l’estero è stato deliberatamente sconvolto dalla moderazione dei salari nominali praticata dalla Germania mercantilista, che ha portato la crescita del surplus commerciale tedesco ad essere il rovescio della medaglia della crescita del deficit commerciale nel Sud Europa. E’ piuttosto ironico, a mio parere, che una logica simile sia adottata da osservatori mainstream come Sinn (2014) o persino dallo stesso signor Schäuble, con questa differenza: Sinn e Schäuble sostengono che gli squilibri delle partite correnti sono stati causati da un errore dei paesi in crisi nel seguire l’esempio di successo della Germania del taglio dei costi unitari del lavoro. Mi spiego meglio: il problema per me non è quale delle due parti di questo dibattito – da un lato chi accusa la Germania di impoverire i suoi vicini portando i propri salari su livelli inferiori, dall’altro coloro che lodano la Germania per essere ultra super competitiva dal lato dei costi – sia quella nel giusto.
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FBI-Apple: la battaglia sulla crittografia
E perché Apple ha ragione
di Fabio Chiusi
Il lungo, annoso dibattito su crittografia e terrorismo, e dunque tra protezione dei nostri dati personali in rete e capacità delle forze dell’ordine e dell’intelligence di accedervi per sconfiggere il “terrore”, è giunto in queste ore a un (pericoloso) punto di svolta.
Una corte federale californiana ha infatti imposto ad Apple “un aiuto nel consentire l’ispezione” di un iPhone 5c: quello posseduto da Syed Rizwan Farouk, uno degli autori dell’attentato terroristico che fece 14 vittime a San Bernardino, il 2 dicembre scorso. Gli agenti sarebbero secondo il Washington Post a caccia di foto, contatti e messaggi “cruciali” per le indagini. Messaggi però cifrati, contenuti nel telefonino e non copiati sui server di Apple tramite iCloud - a quelli, dice l’FBI, l’azienda ha già fornito accesso. E l’attentatore non faceva un backup da ottobre 2015, si pensa intenzionalmente.
Il problema è che gli agenti hanno dovuto arrendersi, come ha spiegato la scorsa settimana il direttore FBI, James Comey, alle tecniche di cifratura utilizzate dallo smartphone di Cupertino. Che prevedono che quando un utente imposta una password, la combinazione scelta generi una chiave di cifratura. Questa viene poi usata insieme a un'altra chiave hardware, del telefono, per cifrare i messaggi scambiati. Apple dice di non averne una copia (end-to-end encryption).
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Podemos: un sovranismo senza bandiera
Lettera aperta a Pablo Iglesias
di Jacques Sapir e Christophe Barret
Un lucido intervento di Sapir apparso il 13 febbraio scorso. Lo condividiamo ampiamente. Sapir, come noi facciamo da anni, utilizza il concetto di "borghesia compradora" per caratterizzare la natura delle diverse élite nazionali. Ma ci trova anche d'accordo il paradigma politico dell' amico/nemico per cui, per vincere lo scontro con le oligarchie euriste (scontro di natura antagonistica) saranno necessarie alleanze tattiche momentanee tra forse oppositive e "agoniche". Quello che per noi dovrà essere il Comitato di Liberazione Nazionale.
* * *
«Caro Pablo Iglesias,
Di fronte alla crisi multiforme che colpisce l'Unione europea, il successo elettorale di PODEMOS suscita diverse questioni. Voi proponete un nuovo discorso politico sui cui punti di forza è bene meditare. Nella battaglia per la conquista del senso comune accettato dalla stragrande maggioranza dei nostri cittadini, a voi è sembrato preferibile privilegiare alla tradizionale dicotomia sinistra/destra l’opposizione dei popoli alle loro elite. La crisi della socialdemocrazia sembra confermare la necessità di tale aggiornamento.
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Le lacrime di Confindustria
di Antonella Stirati
In un recente documento del Centro studi di Confindustria (2015) si argomenta che:
“La quota del valore aggiunto che va al lavoro è ai massimi storici, mentre la redditività delle imprese è ai minimi, con un impatto negativo sulla dinamica degli investimenti e sulla crescita anche futura” (p.1)
La conseguenza di tale analisi è la richiesta di revisione delle retribuzioni, per tener conto della minore inflazione dei prezzi che si è verificata nell’economia rispetto a quanto previsto al momento dei precedenti rinnovi contrattuali, in modo da ridurre l’incremento del costo del lavoro in termini reali. Richiesta accolta nel caso del CCNL dei chimici e adesso in discussione nel caso dei metalmeccanici. Ma fino a che punto è giustificata l’affermazione concernente l’andamento delle quote distributive, e a cosa è dovuto tale andamento?
I dati portati a sostegno da Confindustria sono gli andamenti delle quote distributive nel settore manifatturiero e nel settore privato dell’economia al netto delle locazioni.[1] Nel calcolare la quota dei redditi da lavoro (al lordo delle imposte e degli oneri contributivi) viene aggiunta al costo del lavoro l’IRAP pagata dalle imprese, senza che tuttavia sia del tutto chiaro quale metodo venga adottato dal Centro Studi di Confindustria per imputare una quota del gettito IRAP al costo del lavoro.[2] Riproponiamo dunque una analisi dell’andamento delle quote distributive che non tiene conto del prelievo Irap, e che contribuisce dunque a fare chiarezza sul ruolo dell’andamento del costo del lavoro – a prescindere da quell’imposta – nel determinare tali quote.
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Esiste un punto di rottura della convenienza USA alla ristrutturazione sociale in U€?
di Quarantotto
Nota introduttiva: mi scuso se, ad alcuni, questo post potrà apparire "lungo". Ma la sua lunghezza è dovuta all'intreccio di eventi di eccezionale rilevanza, che vedono l'Italia al centro della perturbazione gravissima che sta colpendo l'economia e la situazione geo-politica mondiale.
In altri termini, per quanto al sistema mediatico ed "espertologico" italiano non piaccia dover ammettere che il nostro problema non è "fare le riforme" - e liberalizzare e privatizzare e tagliare la spesa pubblica-, tutte queste belle cose non servirebbero, ora, altro che ad accelerare e a peggiorare la congiuntura italiana, con la novità che, venendo questo nodo al pettine, l'Italia può essere l'epicentro di un terremoto finanziario mondiale: epocale.
Ed è veramente irresponsabile insistere a guardare il dito invece della luna, in una situazione del genere.
* * *
1. Star dietro alle recenti dichiarazioni di Draghi con l'ansia di scovarvi qualcosa di nuovo è cosa veramente vana. I "mercati" ne hanno disperato bisogno, ma il "principio di realtà" non ne viene minimamente scosso.
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Crisi, centralizzazione dei capitali e nuovo internazionalismo del lavoro
V. Maccarrone intervista Emiliano Brancaccio
Pubblichiamo ampi stralci di un’intervista a Emiliano Brancaccio, la cui versione integrale uscirà in cartaceo sul prossimo numero de Il Ponte
Un confronto a tutto campo sui temi teorici e politici del nostro tempo, per mettere alla prova l’attualità del metodo di analisi marxista. Ma anche un’occasione per commentare le posizioni di alcuni studiosi annoverabili nella “foto di famiglia” del marxismo, tra cui Negri, Fusaro e Losurdo. Conversazione con l’autore del saggio “Anti-Blanchard”, appena uscito in edizione aggiornata, dedicato a una critica del modello macroeconomico prevalente insegnato dall’ex capo economista del FMI.
Era il 2003 quando Robert Lucas, esponente di punta del pensiero economico ortodosso nonché premio Nobel, dichiarò trionfante che «il problema centrale della prevenzione delle recessioni è stato risolto». Da allora non è passato molto tempo, eppure quell’ottimismo sembra appartenere a un’epoca lontana. L’emergere di quella che il Fondo Monetario Internazionale ha definito la “grande recessione” ha riportato alla ribalta una visione alternativa, tipica delle scuole di pensiero critico, secondo cui il capitalismo tende strutturalmente a entrare in crisi. Tuttavia, anche tra i critici dell’ortodossia le valutazioni sulle cause del disastro attuale non sono univoche. Ne discutiamo con Emiliano Brancaccio, docente di Economia politica presso l’Università del Sannio, autore di vari saggi dedicati al tema marxiano della “centralizzazione del capitale” pubblicati sul Cambridge Journal of Economics e su altre riviste internazionali.
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Salari da fame, orari da pazzi
I nuovi Contratti Nazionali
Collettivo Clash City Workers
Recentemente sono stati rinnovati, o lo saranno a breve, molti contratti collettivi nazionali del lavoro (Ccnl),alcuni dei quali scaduti datempo. Qui entreremo neldettaglio di quattro Ccnl particolarmente significativi (Chimici, Metalmeccanici, Commercio e Trasporto pubblico), dopo aver provato a caratterizzare la cornice entro cui sono avvenuti questi rinnovi e quali linee di tendenza sono ormai emerse in maniera chiara.
Il problema dei Ccnl
Qual è il ruolo che il contratto collettivo nazionale sta giocando nello scontro ormai diretto e palese fra governo e associazioni padronali da una parte e lavoratrici e lavoratori dall’altra? Partiamo da alcuni spunti che ci fornisce il gruppo editoriale che esprime la voce della Confindustria. In una rivista del gruppo Il Sole 24 Ore troviamo scritto che il contratto collettivo “resta lo strumento privilegiato per la definizione di un punto di equilibrio dinamico fra gli interessi dei lavoratori […] e quelli delle aziende” (1). Se questo riconoscimento coglie elementi di realtà, è anche vero, però, che i Ccnl sono il frutto della stratificazione di decenni di mobilitazioni operaie e di accordi con le associazioni padronali, non un armonioso e dinamico “punto di equilibrio”.
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La spinta dei pedoni: Turchia ed Arabia saudita aprono la partita?
Federico Dezzani
Le avvisaglie di guerra che cogliemmo nel 2015 si concretizzano un passo alla volta: dopo aver individuato già nello scorso autunno il Medio Oriente come probabile innesco del conflitto, i recenti sviluppi avvalorano l’ipotesi che ad incendiare le polveri siano Turchia ed Arabia Saudita, semplici pedine di una partita manovrata da angloamericani ed israeliani. Le probabilità di uno scontro bellico sono direttamente proporzionali al deterioramento del quadro economico-finanziario: il livello di indebitamento insostenibile e la deflazione strisciante indicano che il ciclo avviato nel secondo dopoguerra è ormai esaurito. Alle oligarchie finanziarie non resta che la guerra per evitare le aborrite politiche finanziarie non ortodosse che castrerebbero il loro potere. Per trascinare l’Europa nel conflitto è probabile il ripetersi di un attentato in stile 13/11: in Siria si verificano già con crescente frequenza sinistri attacchi falsa bandiera.
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È sempre questione di moneta…
Se guerra sarà, sarà ancora un volta questione di moneta. Se da qualche parte nel deserto siriano ed iracheno sarà sparato il primo colpo d’artiglieria che innescherà un conflitto prima regionale e poi globale, sarà ancora una volta una questione di banche centrali: che l’evidente correlazione, percepita da molti nel subconscio e trattata da pochi a livello di pubblicistica, non trovi spazio nel dibattito mediatico, è solo l’ennesimo sintomo del controllo ferreo esercito dalle oligarchie massonico-finanziarie sui media e sul mondo accademico.
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Una prima impressione sulla tre giorni di Cosmopolitica
Riccardo Achilli
Una prima impressione di questa tre giorni che lancia il progetto di SI. Positiva l’energia che si respira, la grande determinazione a rilanciare un progetto di riscatto della sinistra. Si capisce che stavolta si vuole scommettere veramente su qualcosa di non ancora ben delineato. Positiva la presenza diffusa di militanti giovani e giovanissimi. E’ positivo che, nelle parole di Mussi, che parla di tempesta economica perfetta, in quella di tanti costituzionalisti, che evidenziano la possibile fine della democrazia parlamentare, nelle parole preoccupate di Prospero, vi sia la netta consapevolezza della gravità estrema della situazione.
E proprio questa consapevolezza diffusa di quanto grave sia lo stato del Paese e del mondo rende poco comprensibile una certa leggerezza dei temi programmatici trattati da quella che sarà la dirigenza di quel nuovo soggetto politico. Nemmeno una parola sull’euro, da parte di nessuno, ma in compenso una cacofonia sulla necessità “storica” di proseguire nel processo di unificazione europea, gli Stati Uniti d’Europa, l’omaggio oramai stereotipato a Ventotene, il progetto, che si ripete nelle bocche di ogni oratore, di fare una fantomatica alleanza politica transnazionale con Podemos, Syriza, socialisti portoghesi, per cambiare i Trattati. Qualcuno degli oratori arriva persino ad ipotizzare un unico partito di sinistra europeo, non si capisce come, non si capisce in quale forma, se al di fuori dalle famiglie politiche europee esistenti (una Internazionale del keynesismo?) oppure dal di dentro (e allora sarebbe bene studiare e capire che esistono già, in una assise che si chiama Parlamento Europeo, il problema è che quella assise non ha alcun reale potere).
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Il container e l'algoritmo
La logistica nel capitalismo globale
di Moritz Altenried
Con "Il container e l'algoritmo" di Moritz Altenried, do inizio ad una serie di traduzioni di alcuni scritti apparsi in rete che individuano a mio avviso le principali tendenze presenti nell'attuale situazione socio-economica; scritti che non condivido necessariamente in toto, almeno per quanto riguarda presupposti e consclusioni - oppure categorie come quelle del lavoro e della "lotta di classe" ivi utilizzate - ma che tuttavia credo siano nondimeno degne di discussione nel quadro della necessaria emancipazione e fuoriuscita dal capitalismo. Uno sguardo acuto sulla "contraddizione in processo" del "soggetto automatico", così come si svolge economicamente e socialmente nella produzione, nella circolazione e nel consumo, dentro la crisi
Voglio cominciare, riportando un'interessante osservazione di Thomas Reifer, secondo la quale oggi Marx comincerebbe Il Capitale sottolineando come la ricchezza delle nazioni contemporanee appaia sempre più come un'immensa collezione di container (Reifer, 2007). Anche se si può obiettare che un container ed una merce fanno parte di due categorie concettuali diverse, questa affermazione provocatoria è molto rivelatrice in quanto evidenzia l'importanza della logistica non solo in quanto industria ma in quanto prospettiva per comprendere il capitalismo contemporaneo.
Di conseguenza, propongo di differenziare tre significati del termine "logistica". In primo luogo, la logistica è un settore industriale o di mercato specializzato nello spostamento di cose che è cresciuta in importanza e che costituisce in quanto tale un oggetto di ricerca affascinante. In secondo luogo, la logistica è diventata in qualche modo una logica - o un dispositivo in senso foucaltiano - che è andata oltre il suo settore in senso stretto e che fonda il capitalismo contemporaneo. Per cui, quest'ultimo può essere compreso come un capitalismo di "catena di distribuzione", per riprendere l'espressione di Anna Tsing (Tsing, 2009). Se ciò è vero, allora la logistica, in terzo luogo, diviene una prospettiva di ricerca. Intendo difendere l'idea che la logistica può servire come una sorta di prisma che ci aiuta a comprendere in maniera critica la trasformazione in corso nel capitalismo globale.
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