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Un punto di vista critico su Mélenchon e la NUPES
di Redazione
So che la situazione è tragica per la sinistra in Italia e questo porta una parte dei militanti ad aggrapparsi a qualsiasi cosa per avere una speranza di riguadagnare posizioni. Una parte di loro attende la soluzione dall’estero. Negli anni ho visto tante mode passare (e a volte ritornare più volte): senza grosse analisi né tentativi di comprendere la situazione italiana, ho sentito di volta in volta le parole d’ordine “facciamo come Izquierda Unida”, “facciamo la Linke italiana”, “facciamo come Podemos”, “ci vuole Syriza anche da noi!” e tante altre varianti che ho dimenticato.
La concretizzazione più significativa è stata nel 2014, quando si creò in Italia una lista elettorale che conteneva il nome del segretario di un partito estero. L’altra Europa con Tsipras è forse l’esempio paradigmatico di questa tendenza a trovare l’escamotage elettorale che permetta di ritrovare una rappresentanza istituzionale, che avrebbe (nella loro idea) la conseguenza di aprire una breccia nel sistema comunicativo e con essa ricostruire una presenza stabile della sinistra in Italia. Inoltre si avrebbe accesso ai magri fondi pubblici.
La vacuità di questo punto di vista, determinato da una comprensibile disperazione, è determinato dal fatto che esso non è “democratico”. L’assenza della sinistra dalla società italiana, dai suoi conflitti, dalle sue associazioni, dai sindacati, dalle scuole e dalle università, determina una logica e democratica conseguenza dell’assenza dalle istituzioni. Peraltro va sottolineato che le istituzioni dovrebbero essere viste come un mezzo per raggiungere gli obiettivi e non un obiettivo in sé. In tutto questo non vengono osservate invece le esperienze continentali in cui la sinistra è riuscita a costruire una solida base sociale che l’ha portata anche ad ottenere posti istituzionali (come il Ptb in Belgio), ma solo dopo un paio di decenni di oscuro e duro lavoro sociale.
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Price-cap: la mossa del Draghi
di Marco Beccari
Un tetto al prezzo del gas e del petrolio russo non è possibile, all’interno della visione liberista, se non mediante gli aiuti di Stato, almeno che non si voglia percorrere la strada avventurista che potrebbe condurre all’embargo di queste materie prime
Nell’ultimo vertice G7 di Elmau, in Germania, Draghi ha spinto nuovamente per mettere un tetto massimo al prezzo del petrolio e del gas, ma solo a quello russo. In questo modo il nostro stratega vuole colpire economicamente il paese eurasiatico, classificato all’ultimo incontro della NATO di Madrid come “nemico”, ma dall’altra vuole ridurre l’inflazione che sta colpendo sempre più pesantemente l’Italia. Draghi è molto esplicito sopra gli effetti della propria proposta dichiarando nella conferenza stampa finale del meeting: “Tutti i leader concordano sulla necessità di limitare i nostri finanziamenti alla Russia di Putin, ma allo stesso tempo occorre rimuovere la causa principale di questa inflazione. Abbiamo dato ai nostri ministri il mandato di lavorare «con urgenza» su come applicare un tetto al prezzo del gas e del petrolio, ma la Commissione Europea ha detto anche che accelererà il suo lavoro sul tetto al prezzo del gas, una decisione che l’Italia accoglie con favore”. L’Italia con questa proposta, avanzata da tempo, si pone tra i falchi nel conflitto economico con la Russia. Questo fatto avrà un peso quando si verificheranno le ritorsioni russe o si proverà ad accreditarsi come improvvisati mediatori per la risoluzione del conflitto.
La risposta russa non si è fatta attendere: il portavoce Peskov del Cremlino ha infatti dichiarato che un eventuale tetto sul prezzo del gas dovrebbe essere discusso con Gazprom. In sostanza non è l’UE a poter fissare il prezzo del gas russo, modificando in modo unilaterale i contratti che sono indicizzati, come per i contratti “take or pay”[1] di fornitura pluriennale, all’andamento del costo del petrolio Brent.
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La testimonianza dell’esistenza
di Antonio Martone
1. Testimonianza
Anzitutto, la vera testimonianza va distinta da quella dei “falsi profeti” di cui il mondo è pieno fin dall’alba dei secoli. Quante ideologie sono nate nella storia umana? Non è possibile enumerarle ma soltanto evocarle, in maniera generica, nella loro carica di menzogna.
Eppure, non esistono molti elementi, né particolarmente sicuri, per distinguere il vero testimone. Indubbiamente, l’aver fatto esperienza di ciò di cui si testimonia è un dato imprescindibile per esser credibili. Un altro criterio su cui è possibile fare un minimo di affidamento è il fatto che il testimone autentico non pretende di identificarsi con ciò che testimonia. La testimonianza di un evento è comunque un’altra cosa rispetto all’evento stesso, e chi pretendesse di incarnarlo in toto, cadrebbe ipso facto nel ruolo dell’ideologo. In altre parole, è peculiare alla testimonianza che la conoscenza testimoniale non risieda propriamente in noi, ma in qualcun altro. L’Altro a cui ci si richiama, testimoniando, evoca un’esperienza ritenuta degna di essere - appunto - testimoniata.
La testimonianza dell’esistenza - pertanto - è un’azione mondana che può essere intesa sia in senso soggettivo sia oggettivo. Se la intendiamo nel primo senso, mettiamo l’accento sul portatore della testimonianza – il testimone appunto -, se invece la intendiamo in senso oggettivo, l’accento cade sull’esistenza e allora la testimonianza si mostrerà strumento attraverso cui l’esistenza stessa, e la sua specifica ontologia, si dispiega nel mondo, diventando evento d’una realtà che inesorabilmente trascende la soggettività testimoniale.
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Il nuovo disordine mondiale/ ieri e oggi: la jihad imperialista
di Sandro Moiso
Peter Hopkirk, Servizi segreti a oriente di Costantinopoli, Edizioni Settecolori, Milano 2022, pp. 566, 32 euro
Arriva in libreria l’unica opera fino ad ora non ancora tradotta in italiano dello storico e giornalista inglese Peter Hopkirk (1930-2014) e dedicata, come tutte le sue precedentemente pubblicate da Adelphi, Mimesis e la stessa Settecolori, al Grande gioco, ovvero al confronto tra grandi potenze e imperi per il controllo dei territori ad oriente della Turchia fino all’Asia Centrale e all’India, vero cuore pulsante dell’impero inglese fino alla seconda guerra mondiale.
Hopkirk, che ha sempre affermato di aver iniziato a scrivere sul Grande gioco a partire dalla lettura di Kim, il capolavoro letterario-avventuroso di Rudyard Kipling, ancora una volta non smentisce la sua abilità nel trattare la materia in esame sia dal punto di vista documentario che da quello letterario, dando vita ad una narrazione in cui storia politico-militare e avventura si fondono in pagine che sicuramente non permettono al lettore di separarsi facilmente dalle stesse.
In questo caso si tratta di analizzare e raccontare lo sforzo che la Germania guglielmina, sul fare e nel corso della Prima Guerra Mondiale, mise in atto per poter scalzare, con l’aiuto dell’allora ancor parzialmente vivo impero ottomano e il richiamo all’islamismo più intransigente, la presenza britannica dai territori del Vicino Oriente, andando però ben oltre i confini e i territori compresi nello stesso.
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Più verde di così, si muore
di Sandrine Aumercier & Frank Grohmann
Ormai sono anni che non passa giorno senza che i media parlino della crisi climatica. Temperature senza precedenti, stato di emergenza nel Nord Italia, incendi incontrollabili, siccità e problemi idrogeologici, agricoltura gravemente minacciata, aumento della fame nel mondo, ecc: infliggerci tutto il catalogo dei disastri è diventata una consuetudine, e gli scettici del cambiamento climatico ora si trovano esposti alla vendetta ufficiale. Ma per quanto tempo ancora continueremo ad accettare questa forma di terrore, in cui la distruzione delle basi della vita viene rappresentata come un fatto compiuto, allo stesso modo in cui viene considerato «ammissibile» che si possa vivere, senza tremare, sotto la minaccia dello scatenarsi di un conflitto nucleare? E questo nello stesso momento in cui tutti, a destra come a sinistra, si mostrano orgogliosi della loro «presa di coscienza climatica», e aggiungono volentieri la loro voce al coro di deplorazioni e di raccomandazioni. I boss francesi dell'energia esortano addirittura a una riduzione dei consumi privati, mentre altri ne denunciano i loro profitti e i governi fanno da mediatori.
Parallelamente a tutto questo, l'invasione russa dell'Ucraina ha posto la questione dell'«indipendenza energetica», mentre non passa giorno senza che anche questo tema occupi i titoli dei giornali, tra miracolose moralizzazioni delle forniture, annunci di grandi cambiamenti nella politica energetica e ipocriti incitamenti alla sobrietà. Così come avviene con le pubblicità dei gelati, che devono essere accompagnate dalla raccomandazione di mangiare «cinque frutti e verdure al giorno», non è lontano il giorno in cui ogni incentivo al consumo verrà accompagnato da un invito a rimanere sani.
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Una critica alla decrescita
di David Schwartzman
Una prospettiva ecosocialista nel contesto di un Green New Deal Globale
I contributi positivi dei fautori della decrescita vanno riconosciuti: in particolare il loro ripensamento della crescita economica sotto il capitalismo, la critica della sua misura, il PNL/PIL, così come la segnalazione dell'uso insostenibile delle risorse naturali, in particolare dei combustibili fossili, da parte del capitalismo nella sua produzione di merci finalizzata a generare profitto indipendentemente dall’impatto sulla salute delle persone e sull'ambiente. Inoltre, i fautori della decrescita criticano saggiamente gli eco-modernisti che affermano che la semplice sostituzione delle tecnologie in uso nell'attuale economia politica del capitalismo, sarà sufficiente per soddisfare i bisogni umani e della natura.
Ma le soluzioni offerte dalla decrescita sono altamente difettose ed è improbabile che il loro brand venga accolto con favore dalla classe operaia globale, anche se attrae settori delle categorie professionali. [1] Generalmente i fautori della decrescita non riescono a scorporare gli aspetti qualitativi della crescita economica, raggruppandoli tutti in un unico cesto: il sostenibile (rispondendo ai bisogni essenziali dell'uomo e della natura) e l’insostenibile (lasciando la maggior parte dell'umanità in povertà o peggio). I fautori della decrescita sottolineano come una parte importante del problema sia lo status relativamente privilegiato dei lavoratori del Nord del mondo rispetto a quelli del Sud del mondo, invece di riconoscere che la classe operaia transnazionale non trarrà vantaggio dalla crescita di settori che soddisfano i suoi bisogni sia nel Nord che nel Sud del mondo, ma che i lavoratori devono essere la forza trainante per sconfiggere il capitale fossile.[1, 2, 3]
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L’attacco finale alle società pubbliche, la legge sulla concorrenza del Governo Draghi
di Valeria Soru
Il “doppio binario” del sistema europeo delle società pubbliche
La scelta di ostacolare l’impresa pubblica è una caratteristica tutta italiana che non trova riscontro negli altri paesi europei, tuttavia la spinta alle privatizzazioni ha matrice europea. E’ infatti attraverso un sofisticato sistema di “due pesi e due misure” messo in piedi dal regolamento 1176/2011, meglio conosciuto come “Semestre Europeo” che la Commissione Europea ed il Consiglio hanno il potere di introdurre un diritto speciale, contrario al diritto generale, rivolto puntualmente a singoli paesi.
La forzatura che ha spinto alle privatizzazioni delle municipalizzate rappresenta un esempio di diritto speciale valevole solo per l’Italia, indotto dalle istituzioni comunitarie essendo le pubbliche amministrazioni ordinariamente libere di utilizzare le proprie società in house, per la gestione dei servizi pubblici anche di rilevanza economica,1 in base al principio di autorganizzazione o di libera amministrazione.
I poteri esercitati da Commissione e Consiglio sui singoli paesi2 sono ampi: “la Commissione può formulare progetti di raccomandazioni agli Stati membri per la correzione degli squilibri individuati. Queste raccomandazioni possono essere pubblicate contestualmente alla pubblicazione dell’esame approfondito o successivamente, unitamente ad altre raccomandazioni specifiche per paese”3
E’ stato così generato un ordinamento a doppio binario per cui nel primo binario sono previste le norme generali contenute nei trattati, nei regolamenti e nelle direttive, valide per tutti gli Stati dell’Unione Europea, che consentono l’indifferente utilizzo delle imprese pubbliche4 e private per lo svolgimento di servizi di rilevanza economica.
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L’Ucraina è un trojan per la dipendenza della Germania dagli Stati Uniti
Intervista a Michael Hudson
Il mondo viene diviso in due parti. Il conflitto non è solo nazionale, Occidente contro Oriente, ma è un conflitto di sistemi economici: capitalismo finanziario predatorio contro socialismo industriale che mira all’autosufficienza per l’Eurasia e l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (SCO). I paesi non allineati non sono stati in grado di “fare da soli” negli anni ’70 perché mancavano di una massa critica per produrre il proprio cibo, energia e materie prime. Ma ora che gli Stati Uniti hanno deindustrializzato la propria economia ed esternalizzato la produzione in Asia, questi paesi hanno la possibilità di non rimanere dipendenti dalla diplomazia del dollaro USA
* * * *
Prof. Hudson, il tuo nuovo libro “The Destiny of Civilization” è uscito ora. Questa serie di conferenze sul capitalismo finanziario e la Nuova Guerra Fredda presenta una panoramica unica della tua prospettiva geopolitica. Parli di un conflitto ideologico e materiale in corso tra paesi finanziarizzati e deindustrializzati come gli Stati Uniti contro le economie miste di Cina e Russia. Di cosa tratta questo conflitto e perché il mondo in questo momento si trova a un “punto di frattura” unico come afferma il tuo libro?
M. Hudson. L’odierna frattura globale sta dividendo il mondo tra due diverse filosofie economiche: negli Stati Uniti/NATO occidentali, il capitalismo finanziario sta deindustrializzando le economie e ha spostato la produzione alla leadership eurasiatica, soprattutto Cina, India e altri paesi asiatici insieme alla Russia fornendo materie prime e armi.
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Arcobalenite
di Nico Maccentelli
Riguardo la dichiarazione di intenti che nella cordata Manifesta-De Magistris riunisce tutto il gotha della sinistra cd di classe, non posso non fare alcune osservazioni. Chi mi conosce sa che io provengo dall’area che ha in Potere al Popolo! l’ultima significativa espressione politica di un percorso iniziato anni fa e poi confluito in PaP insieme alla compenente napoletana che aveva dato vita dal CS Je so’ pazzo, a questa organizzazione. Se ben mi ricordo, prima con ROSS@, poi con Eurostop, l’elemento strategico della politica antagonista messa in campo era la rottura con l’UE e l’uscita dalla NATO, nell’ipotesi di costruire un’area Euromediterranea, la cd ALBA Euromediterranea.
Or bene, già nella dialettica interna alla nuova formazione la rottura con l’UE si era stemperata in una più blanda rottura con le politiche neoliberiste della medesima, a dire che tutto sommato poi questa architettura oligarchica ed élitaria si potesse riformare: un vecchio tormentone rifondarolo che ha condotto di sconfitta in sconfitta quegli spezzoni che si mettevano insieme elettoralmente sin dai tempi della lista Arcobaleno. L’ultimo scazzo è stato sul rapporto con la CGIL. Ma ritengo questo aspetto del tutto secondario e una conseguenza di scelte politiche fallimentari già a monte.
A monte poiché l’aver completamente ignorato le vaste lotte sociali contro le restrizioni pandemiche degli ultimi due anni e passa, costituisce un vulnus insormontabile. Diventa insormontabile l’autoreferenzialità di una politica circoscritta alle proprie aree di riferimento, mentre i “sovranisti”, persino componenti politiche già esistenti o createsi nel corso della lotta e derubricate dai nostri a “terrapiattisti”, “novax”, “fascisti” e chi più ne ha più ne metta, si muovevano come pesci nell’acqua in un vasto movimento di massa che raccoglieva ampi settori popolari a partire dal precariato che sia delle libere professioni o del lavoro subordinato.
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Dissociazioni vaticane
di Mauro Armanino
Dissociare: V. tr. [dal lat. dissociare, der. di socius «compagno», col pref. dis-1] (io dissòcio, ecc.). – 1. Separare, scompagnare idee, cose, o anche persone, che stanno o si pensano comunemente insieme: d. il concetto di solidarietà da quello di patria; d. le forze; d. le proprie responsabilità, dichiarare di non condividere le opinioni e le azioni di qualcuno del proprio gruppo; nel rifl., staccarsi, dividersi da altri, soprattutto in questioni ideologiche: dissociarsi da un’organizzazione (di cui si faceva parte); dissociarsi dalle opinioni, o dalle proposte, della maggioranza; mi dissocio dalla tua iniziativa, non intendo farne più parte. (Dalla Treccani in linea)
1. La moneta vaticana
…La serie è composta da 8 monete, sul rovescio ci sono le caratteristiche tecniche uguali per tutti i paesi aderenti alla moneta unica europea. Sul dritto è raffigurato lo stemma di Papa Francesco, Sovrano dello Stato del Vaticano, la scritta “Città del Vaticano” e dodici stelle. La serie è disponibile in due versioni: la prima con la moneta da 20 euro in argento e la seconda con la moneta in oro da 50 euro. La moneta in argento da 20 euro, opera di Chiara Principe, è dedicata ad un argomento attuale che sta molto a cuore a papa Francesco: le cure per contrastare la pandemia e la necessità di vaccinarsi. Sulla moneta sono raffigurati un medico, un infermiere e un ragazzo che è pronto a farsi iniettare il vaccino. Il Santo Padre ha più volte sottolineato l’importanza della vaccinazione, ricordando che la cura della salute è “un obbligo morale” ed è importante “proseguire lo sforzo per immunizzare anche i popoli più poveri”… (https://www.ilsussidiario.net/news/nuova-moneta-da-20-euro-del-vaticano-medico-e-infermiere-iniettano-vaccino-covid/2361854/)
Ecco come è introdotta la moneta vaticana. L’immagine mi era stata segnalata da Martin Steffens, giovane filosofo francese, critico dell’attitudine ufficiale della gerarchia ecclesiastica sulle politiche riguardanti la gestione dell’epidemia Covid. (https://www.republicain-lorrain.fr/culture-loisirs/2021/07/06/martin-steffens-philosophe-alerte-sur-les-risques-d-une-societe-masquee).
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Intersoggettività o transindividualità
Materiali per un'alternativa
di Vittorio Morfino
Arriva in questi giorni in libreria, per manifestolibri, il saggio di Vittorio Morfino, Intersoggettività o transindividulità, un libro che ripercorre alcuni momenti chiave del pensiero filosofico moderno e contemporaneo leggendoli alla luce dell’alternativa tra le categorie di intersoggettività e transindividualità, tra una filosofia che pone lo spazio di interiorità dell’ego come un prius logico e ontologico e una che pensa in modo radicale la costitutività delle relazioni. Si tratta di un libro importante nel panorama del pensiero politico contemporaneo: una critica puntuale della categoria di intersoggettività letta come espressione di una filosofia dell’individualismo possessivo. Ne anticipiamo qui alcuni passi tratti dall’Introduzione, avvertendo il lettore che rispetto all’originale è stato alleggerito l’apparato di note per rendere più agevole la lettura online. Ringraziamo l’autore e l’editore per la disponibilità.
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I termini “intersoggettività” e “transindividualità” sembrano ricoprire uno spazio semantico simile: il primo indica, attraverso il prefisso “inter”, la relazione che intercorre tra i soggetti, il secondo attraverso il prefisso “trans” designa questa stessa relazione, ma facendo riferimento all’individuo. Certo, si potrebbe marcare la differenza sottolineando che la preposizione “trans” indica non solo uno spazio “tra”, ma anche un attraversamento e un andare oltre. Resta il fatto che la differenza tra i due termini nel loro significato comune è assai labile e difficilmente percepibile. Questo potrebbe portare il lettore a pensare che l’“o” del titolo sia da pensare nel senso del “vel” latino. In realtà, l’intento di questo libro è precisamente quello di porre, nel modo più netto e radicale possibile, un’alternativa: aut intersoggettività, aut transindividualità.
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Crisi, catastrofe, rivoluzione
Una conversazione con Emiliano Brancaccio
di la redazione del Tascabile
Continuano le conversazioni della redazione con intellettuali capaci di aiutarci a leggere la guerra in corso, alla ricerca di uno scambio con punti di vista che possano restituire la complessità e la portata di quanto sta accadendo. L’intervista di oggi è con l’economista Emiliano Brancaccio, Professore di politica economica presso l’Università degli Studi del Sannio, a Benevento, tra i principali esponenti delle scuole di pensiero economico critico. Seguiamo Brancaccio da quando siamo venuti a conoscenza dei suoi lavori più recenti: Democrazia sotto assedio. La politica economica del nuovo capitalismo oligarchico (Piemme, 2022) e Non sarà un pranzo di gala. Crisi, catastrofe, rivoluzione (Meltemi, 2020), due saggi capaci di individuare le tendenze generali della fase storica che stiamo attraversando: su scala globale, una centralizzazione del potere in sempre meno mani che conduce inevitabilmente a una contrazione dello spazio democratico.
Ci interessava in particolare la sua capacità di portare un punto di vista radicale in sedi istituzionali che, da profani, immaginiamo restie alla critica che invece Brancaccio sa esercitare. Siamo partiti allora dalla guerra in Ucraina, come abbiamo già fatto con Marco D’Eramo, Alfonso Desiderio e Maria Chiara Franceschelli, ma siamo arrivati a toccare un’ampia rete di aspetti macroeconomici e politici della contemporaneità, e ne abbiamo approfittato per farci chiarire alcuni punti delle sue analisi. Il risultato è una conversazione ambiziosa, dallo sguardo ampio, ma che speriamo possa servire a orientarci, in modo molto pragmatico, a capire se e come possiamo sperare di avere voce in capitolo sul nostro futuro.
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La "mobilitazione" per lo scontro diretto con Mosca, dopo l'Ucraina
di Fabio Mini
Il generale sir Patrick Sanders, nuovo capo di Stato maggiore dell’esercito britannico (CGS) ha preceduto i grandi della Nato nella cosa più ostica per quasi tutti i suoi membri: la dichiarazione di guerra. Sebbene la dichiarazione formale non sia più necessaria, quella de facto si è sempre affiancata a essa e in molti casi l’ha sostituita. Il Giappone dichiarò guerra agli Usa con l’attacco di Pearl Harbour minuti dopo (o prima) della dichiarazione formale. Inoltre la guerra può iniziare non solo con i primi colpi di cannone o le scaramucce di frontiera, ma con la stessa preparazione della guerra. La Prima guerra mondiale fu innescata, pretesti a parte, dalle mobilitazioni specie se irreversibili, come dissero i generali allo zar titubante. La mobilitazione era già allora una dichiarazione di guerra de facto. Perciò, per garantire la sorpresa veniva fatta nel segreto o simulata, o veniva sbandierata con la propaganda per aumentare la deterrenza o accendere gli animi o nascondere la propria debolezza. Bene, Sanders, al prestigioso think tank Rusi (Royal United Services Institute), chiama Gran Bretagna e Nato alla mobilitazione contro la Russia. In pratica confida nella mobilitazione – la più grande ed esplicita dichiarazione di guerra – per la dissuasione di Putin che, a suo dire, si è già dimostrato refrattario alla deterrenza militare e perfino economica. Ovviamente a fin di bene, per evitare la guerra, prevenirla e non farla. Chiede di “mobilitare l’esercito per far fronte alla nuova minaccia: un pericolo chiaro e presente che si è concretizzato il 24 febbraio quando la Russia ha usato la forza per impadronirsi del territorio dell’ucraina, un Paese amico del Regno Unito”.
La guerra a cui si riferisce non è quella in atto tra Russia e Ucraina, ma quella tra Nato e Russia. La prima è forse già perduta:
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L’ultima spiaggia dell’Occidente neoliberista
di Francesco Piccioni
Uno spettro si aggira per le capitali dell’Occidente: la crisi del potere politico. Ci perdonerete il “furto” dell’incipit più famoso della letteratura rivoluzionaria, ma in effetti ci troviamo in difficoltà nel dover sintetizzare quanto sta avvenendo nelle principali cancellerie dell’Occidente neoliberista.
Sarà bene andare con ordine, ossia per singolo paese, e poi vedere se c’è un trait d’union tra le diverse crisi.
Gran Bretagna
E’ il primo “caduto” ai vertici della Nato, e uno dei guerrafondai più estremisti. Boris Johnson, come sapete, è stato alla fine costretto alle dimissioni. Anzi, all’annuncio delle dimissioni.
Sfiduciato dai suoi stessi ministri e sottosegretari (oltre 50) e dal partito che guidava – i conservatori – alla fine si è deciso ad uscire dal portone di Downing Street per recitare la parte che ormai tutto il paese gli chiedeva.
L’ha fatto a suo modo, insultando chi lo ha costretto a (quasi) scendere dal piedistallo: “la forza del gregge a Westminster è potente: quando il gregge si muove, tutti si muovono”. Che un leader politico – anche se clownesco, Johnson lo è stato – consideri poco più che “pecore” la classe politica che ha diretto fino ad un minuto prima è forse l’ammissione più “autorevole” sull’autonomia e la “statura” di un’intera generazione di parlamentari.
Johnson, peraltro, nel rinviare l’uscita effettiva soltanto ad ottobre – ha lasciato la carica di presidente dei conservatori, ma mantiene quella di primo ministro fin quando i conservatori non avranno eletto un nuovo “capo politico” – fa capire di voler condizionare al massimo le future scelte del “gregge”, contando su sempre possibili capriole della maggioranza interna.
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Capitalismo e ambientalismo. La transizione (non) ecologica
di Giovanna Cracco
Dall’estrazione delle materie prime al riciclaggio finale, le omissioni nella narrazione green: distruzione ambientale, spreco d’acqua, inquinamento, sfruttamento, consumo energetico di Big Tech. L’ultima rivoluzione tecnologica capitalistica che nulla ha a che fare con l’ambientalismo
“Prendiamo il caso delle pale eoliche: la crescita di questo mercato esigerà, da qui al 2050, 3.200 milioni di tonnellate di acciaio, 310 milioni di tonnellate di alluminio e 40 milioni di tonnellate di rame, poiché le pale eoliche inghiottiranno più materie prime rispetto alle precedenti tecnologie. A pari capacita [di produzione elettrica], le infrastrutture eoliche avranno bisogno fino a quindici volte in più di cemento, novanta volte in più di alluminio e cinquanta volte in più di ferro, rame e vetro rispetto alle istallazioni che utilizzano combustibili tradizionali.”
O. Vidal, B. Goffe e N. Arndt, Metals for a Low-Carbon Society, Nature Geoscience, vol. 6, novembre 2013
“Il rapporto mostra chiaramente che le tecnologie che si presume popoleranno il cambiamento all’energia pulita - eolico, solare, idrogeno ed elettrico - richiedono significativamente più risorse materiali per la loro composizione rispetto agli attuali sistemi tradizionali di approvvigionamento energetico basati sui combustibili fossili.”
World Bank,
The Growing Role of Minerals and Metals for a Low Carbon Future, giugno 2017
“Vanno purificate 8,5 tonnellate di roccia per produrre un chilo di vanadio, 16 tonnellate per un chilo di cerio, 50 tonnellate per l’equivalente di gallio, e la cifra sbalorditiva di 200 tonnellate per un misero chilo di un metallo ancora più raro, il lutezio.” Guillaume Pitron,
La guerra dei metalli rari, Luiss Press, 2019
Transizione ecologica e digitale: una locuzione che è divenuta un imperativo, una parola d’ordine che nessuno più mette in discussione. Rare volte si è assistito a un cambio di paradigma con tale velocità: dall’essere argomento appannaggio di gruppi minoritari, pensiero carsico che riusciva ad affiorare solo legato a eventi contingenti per poi tornare a sotterrarsi, in pochi mesi l’ambientalismo si è trasformato in pensiero dominante.
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Operazione Z
di Stefano Zecchinelli*
Una manovra militare difensiva che segna la fine dell’unilateralismo Usa
Il conflitto in Ucraina ha rilanciato la dottrina messa a punto, dopo l’11 settembre 2001 (11/9), dai neoconservatori statunitensi chiamata “guerra senza fine”. Il Pentagono, con cinismo e nella più totale indifferenza, ha pianificato la distruzione d’una porzione del pianeta: le grandi nazioni imperialiste (USA, Gran Bretagna, Germania, Canada e Israele) avrebbero pauperizzato il mondo non globalizzato, deprivato – nei disegni neocons – delle proprie infrastrutture statali. I cables declassificati dal gruppo editoriale Wikileaks hanno rivelato che le guerre nel nuovo millennio non vengono combattute per essere vinte, bensì per gettare nel caos intere aeree geografiche attraverso conflitti che, nella letteratura militare del Pentagono, prendono il nome di “guerra eterna”. Il conflitto fra socialismo e capitalismo è stato affiancato all’ostilità perpetua dell’imperialismo nord-americano verso il diritto di autodecisione dei popoli, diritto inalienabile che in circostanze estreme contempla anche la Resistenza armata: es. Donbass e Palestina. Col colpo di stato neonazista di Piazza Maidan (Kiev 2014), gli Stati Uniti hanno esteso l’applicazione di questa dottrina alla Federazione Russa, mettendo a repentaglio la stessa vita degli europei del centro e dell’ovest.
Alcune caratteristiche dell’imperialismo del ventunesimo secolo
Le guerre del ventunesimo secolo, o guerre multidimensionali e “di quarta generazione”, differiscono dalla guerra convenzionale del secolo scorso, perché oltre alla politica economica/militare s’estendono sul piano ideologico e della manipolazione massiva attraverso la privatizzazione dei mezzi di comunicazione. Vediamo – seppur in sintesi – quali sono gli elementi costitutivi dell’imperialismo del ventunesimo secolo:
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La ricchezza improduttiva, l'"economia di carta" e la teoria del valore
di Andrea Pannone
Premessa
In un articolo su Bollettino Culturale del 2021 ho affrontato il problema della forma valore in Marx in modo esplicitamente non convenzionale rispetto a come il tema è stato affrontato nella letteratura economica marxista. La non convenzionalità, per essere chiari, è stata quella di raggiungere in modo formalmente rigoroso le stesse conclusioni raggiunte da Marx nel primo libro del Capitale - prima di tutto quella di ricondurre l’origine del profitto al pluslavoro, ossia a un rapporto di sfruttamento – facendo riferimento, però, a una rappresentazione dell’economia capitalistica piuttosto diversa da quella adottata dal filosofo di Treviri, almeno per ciò che attiene al modo di produrre e all’organizzazione dei mercati. Questi due aspetti, infatti, sono stati rappresentati nel nostro schema teorico in modo estremamente coerente ad un sistema economico moderno, anche ricorrendo, seppur solo parzialmente, ad alcune idee di autori molto distanti dal pensiero di Marx (in primo luogo Keynes).
In questo scritto integrerò le assunzioni portanti del suddetto schema teorico con il meccanismo di circolazione monetaria proposto da Marx nel terzo libro del Capitale (vedi Marx 1894), opportunamente modificato per essere maggiormente coerente con la realtà de sistemi economici e finanziari moderni. Lo scopo è quello di spiegare – in modo fortemente compatibile con l’approccio da me seguito nel mio primo articolo su Bollettino - il fenomeno dell’enorme espansione dei guadagni (earnings) derivanti dal possesso di asset non riproducibili (come ad esempio titoli, azioni, beni immobili ecc.), che sta caratterizzando le economie capitalistiche da almeno 25 anni.
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La guerra e il lato oscuro dell’Occidente. 3: A caccia di mostri
di Fabio Ciabatti
Qui e qui le puntate precedenti
I periodi bellici non sembrano adatti al tentativo approfondire l’analisi. La propaganda non va tanto per il sottile. I nemici diventano mostri, il male assoluto. Parlando di nemico come lato oscuro si potrebbe dare l’impressione che stiamo menando il can per l’aia di fronte alla domanda pressante che viene rivolta a tutti noi: tu da che parte stai? Ma è proprio a questa domanda che bisogna sottrarsi. Perché, comunque si sviluppi nel breve periodo, il conflitto è destinato a far emergere i fondamenti mostruosi del nostro mondo. Un modo per provare a disertare il campo di battaglia è proprio quello di riconoscere che il nemico non rappresenta un’alterità incommensurabile rispetto alla nostra identità (stiamo parlando di una diserzione ideale ben consapevoli che quella reale cosa assai diversa). In questo modo possiamo mettere in questione la logica assoluta dell’“amico-nemico” che ci viene imposta e contrastare gli slanci bellicamente eroici che essa porta con sé. Si tratta certamente di un primo passo necessario perché ci consente di capire che, al di là delle manifeste differenze, esiste un sostrato comune tra i contendenti.1
Adesso, però, è venuto il momento di chiederci se questo passo sia anche sufficiente. La suggestione del lato oscuro l’abbiamo ripresa da uno dei manuali di sceneggiatura più diffusi di Hollywood, Il viaggio dell’eroe di Christopher Vogler. Qui l’antagonista è considerato come l’“insieme degli aspetti negativi dell’Eroe stesso”, come la “dimora dei mostri che reprimiamo dentro di noi”. Il nemico non è altro che l’eroe al rovescio, il suo lato oscuro, appunto. In questo contesto, la sconfitta dell’antagonista deve passare necessariamente per una trasformazione dell’eroe, perché la vittoria contro il male che è rappresentato esteriormente dal nemico significa anche la sconfitta del male che si cela in profondità nel protagonista stesso. La domanda da porsi a questo punto è la seguente: a partire da questa dinamica si può immaginare che la trasformazione dell’eroe possa produrre qualcosa di realmente nuovo?
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La Nato mondiale e la prospettiva multilaterale
di Alberto Bradanini
Al vertice Nato di Madrid del 30 giugno scorso, Il presidente turco ha ufficialmente ritirato l’obiezione di Ankara all’ingresso di Finlandia e Svezia nella Nato. I tre paesi hanno firmato un apposito memorandum trilaterale[1]. Erdoğan ha così lasciato cadere la sua riserva dopo aver ottenuto significative concessioni da parte delle due nazioni nordiche, ormai campioni di tutela dei diritti umani solo sulla carta (basti ricordare la sudditanza a Washington/Londra di governo/magistratura svedesi sulla vicenda di Julian Assange).
A pagare le conseguenze di ciò saranno i curdi, che combattono una battaglia storica per la sopravvivenza. A tale riguardo, si constata curiosamente che non è mancato qualche transitorio prurito di preoccupazione per i combattenti curdi, i quali secondo le bizzarrie di alcuni osservatori verrebbero protetti dalle truppe americane/mercenari – che occupano da anni e illegalmente le terre siriane dove si produce petrolio – quando invece sono stati utilizzati come carne da cannone, insieme a Isis, Al Qaeda etc. per spodestare Bashar Al Assad, nemico di Israele. Quella pur esteriore preoccupazione a favore dei curdi, subito caduta davanti alle superiori esigenze di incorporamento dei due paesi nordici nella Nato, resta tuttavia meritevole di apprezzamento.
Se l’aspirazione del popolo curdo all’autodeterminazione merita il massimo rispetto – sebbene nel diritto internazionale essa debba fare dialetticamente i conti con il principio contrario di intangibilità delle frontiere – ciò che fa difetto nella narrativa dominante è l’assenza di analoga sensibilità verso altre popolazioni, in Europa e altrove, nei confronti delle quali l’aspirazione ad autodeterminarsi viene platealmente ignorata per le esigenze del dominus atlantista.
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Diritto e metodo marxista in Pashukanis*
di Carlo Di Mascio
Il pensiero come tale non può implicare mai e poi mai il processo di formazione del concreto stesso.
Karl Marx, Grundrisse
1. Il diritto quale costruzione storicamente determinata dalle condizioni della produzione capitalistico-borghese
L’eccezionale radicalità della critica marxista di Pashukanis, risiede principalmente nella tesi secondo cui quando si procede allo studio del diritto, prima di catturare il suo contenuto politico, occorre interrogarsi rispetto alla sua forma, e ciò in quanto, per il giurista sovietico, il diritto e il suo formalismo rappresentano il fondamento strutturale, e non meramente sovrastrutturale, del dominio dell’economico, nonché della sua assunzione a giustificazione universale della società moderna. Ora, interrogarsi sulla forma del diritto, come «disciplina teoretica autonoma»1 e non come prodotto ideologico, significa affermare che il diritto è un’astrazione che tuttavia non altera la verità concreta, per cui non va affatto confuso con un semplice meccanismo con il quale il dominante inganna il dominato, bensì identificato con «un principio realmente operante nella società borghese [che si fonda sulla merce] un processo reale di giuridicizzazione dei rapporti umani, che accompagna lo sviluppo dell’economia mercantile-monetaria (e, nella storia europea, lo sviluppo dell’economia capitalistica)»2. Questa premessa conduce Pashukanis ad assegnare al diritto, piuttosto che lo status di una mera categoria dell’ideologia borghese, quello di un vero e proprio «fenomeno sociale oggettivo»3 che opera concretamente nella società, indipendentemente da una volontà di classe, e comunque non con immediati obiettivi di falsificazione. Esso, contrariamente a come appare immediatamente, con le sue generalità e astrattezze, con i suoi principi eterni ed immutabili, non comanda se non all’interno di una relazione, che altro non è che una relazione di mercato tra possessori di merce, tra chi compra e chi vende, tra chi detiene i mezzi di produzione e chi solo la merce «forza-lavoro».
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L’attuale modello socio-economico occidentale: due tesi a confronto
di Luca Dinelli
Nell’interessante dibattito avviato nelle riunioni della Direzione Nazionale di Liberiamo l’Italia e ripreso in alcuni interventi all’Assemblea Nazionale, si sono delineate due tesi: la prima secondo la quale il profitto deve essere ancora considerato come il motore primo che determina l’azione dei soggetti economici e informa la società occidentale, la seconda che vede il ruolo del profitto ridimensionato alla stregua di mero indicatore al pari di altri, di fatto scavalcato dal reale obiettivo rappresentato ormai dal controllo delle vite dei cittadini; faccio notare che questa seconda ipotesi implica il superamento del capitalismo e l’ingresso in una nuova epoca, caratterizzata da un totalitarismo in atto, ma del tutto nuova rispetto al passato.
La prima obiezione che muovo ai sostenitori della seconda tesi, è che eliminando il primato rivestito del profitto nel modello socio-economico del mondo occidentale, la lettura dei meccanismi che muovono la società ne risulta estremamente complicata. Non si capiscono gli appelli alla necessità per gli Stati di diventare appetibili per attrarre investimenti stranieri; non si dà una spiegazione razionale dell’attacco ai pilastri storici del welfare, costituiti dalla previdenza, dalla scuola e dalla sanità pubbliche; non si vede perché questo è stato abilmente perseguito negli ultimi trent’anni attraverso la ricerca spasmodica del controllo dell’inflazione, assurto a principio fondativo dell’Unione Europea. Tutti questi aspetti dovrebbero essere letti come strumenti intermedi per la ricerca del fine ultimo, coincidente col controllo delle vite altrui; da qui, il probabile approdo a spiegazioni irrazionali sulle motivazioni recondite dei signori del mondo che sarebbero stati inquinati inequivocabilmente dal tocco della Bestia.
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«L’altra metà del cielo» e la questione dell’aborto oggi
di Michele Castaldo
Lo diciamo per i nati degli ultimi decenni e che non hanno conosciuto la fascinazione per il maoismo come per alcune generazioni precedenti: “l’altra metà del cielo” per indicare l’universo femminile, era l’espressione del presidente della Repubblica popolare cinese Mao Zedong o Mao Tse-tung.
Che succede negli Usa, ma anche nel resto dell’Occidente e in Oriente sul problema della maternità? E cosa sta succedendo di riflesso sulla questione specifica del problema dell’aborto? « Si infiamma la protesta negli Usa dopo la sentenza con cui la Corte suprema ha riconosciuto il diritto di vietare l’aborto, mentre si profila uno scontro tra poteri, legislativo ed esecutivo da una parte e giudiziario dall’altra » tuonano gran parte delle testate giornalistiche e dei mezzi di informazione.
Discutiamo di una questione molto delicata, in una fase molto complessa, dove si intrecciano troppe e complicate questioni, sicché sbrogliare la matassa richiede una pazienza certosina e l’ancoraggio a un punto di vista rigorosamente materialistico. La protesta non è scoppiata in un paesino di provincia, ma nel paese della massima espressione del liberismo e della cosiddetta autodeterminazione individuale della persona, il capofila dell’Occidente. Insomma qualcosa di grosso sta veramente sconvolgendo gli Usa per un diritto ritenuto ormai acquisito da 1973 e che viene messo in discussione dalla Corte suprema per alcuni Stati prevalentemente conservatori. Dunque con una spaccatura del paese inimmaginabile fino a qualche giorno fa.
Gloria Feldt, una delle voci storiche del femminismo americano dice « non c’è diritto più importante per le donne che decidere cosa fare con il proprio corpo », in netto contrasto col principio che regola la questione dell’aborto, ovvero con quel « “ diritto alla riservatezza” che protegge la libertà di una donna incinta di abortire il suo feto … e che deve essere bilanciato con l’interesse del governo ».
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Quanto durerà la guerra in Ucraina?
l'AntiDiplomatico intervista il Generale Fabio Mini
Nella prima intervista del marzo scorso, con un successo di letture e critica straordinario, il generale Mini aveva offerto al pubblico de l’AntiDiplomatico uno spaccato completo di quello che sarebbe accaduto per la miopia dell’approccio Ue e Nato nel conflitto ucraino. La lettura è altamente consigliata anche oggi.
A quattro mesi di distanza torniamo a sollecitare le riflessioni del Generale Mini, in una fase che appare drammaticamente decisiva per il futuro degli interessi strategici nazionali e più in generale per la tenuta delle relazioni internazionali.
* * * *
Generale nella precedente intervista a l’AntiDiplomatico del 10 marzo lei dichiarava che per uscire dall’impasse l’Italia, cito testualmente, avrebbe dovuto: “Negoziare, finirla con il pensiero unico e la propaganda, aiutare l’Ucraina a ritrovare la ragione e la Russia ad uscire dal tunnel della sindrome da accerchiamento non con le chiacchiere ma con atti concreti. E quando la crisi sarà superata, sperando di essere ancora vivi, Italia ed Europa dovranno impegnarsi seriamente a conquistare quella autonomia, dignità e indipendenza strategica che garantisca la sicurezza europea a prescindere dagli interessi altrui.” 4 mesi dopo che cosa si sente di aggiungere a questa affermazione?
Soltanto una constatazione: il superamento della crisi si allontana ogni giorno di più. Le iniziative di pace sono sempre di meno e mentre la via per il disastro sta diventando un’autostrada, quella per la fine del conflitto non solo è un sentiero di montagna, ma è anche bloccato da un masso enorme fatto d’interessi contrastanti e cinismo.
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"Ipocrisia"
di Carlo Rovelli
Poche volte mi sono sentito come in questo periodo, così lontano da tutto quanto leggo sui giornali e vedo alla televisione riguardo alla guerra ora in corso in Europa orientale.
Poche volte mi sono sentito così in dissidio con i discorsi dominanti. Forse era dai tempi della mia adolescenza inquieta che non mi sentivo così ferito e offeso dal discorso pubblico intorno a me.
Mi sono chiesto perché. In fondo, sono spesso in disaccordo con le scelte politiche e ideologiche dei paesi in cui vivo, ma questo è normale — siamo in tanti e abbiamo opinioni diverse, letture del mondo diverse. Anche del mio pacifismo, poi, sono poi così sicuro? Ho dubbi, come tutti.
Allora perché mi sento così turbato, ferito, spaventato, da quanto leggo su tutti i giornali, e sento ripetere all’infinito alla televisione, nei continui discorsi sulla guerra?
Oggi l’ho capito. L’ho capito proprio ritornando col pensiero al periodo della mia prima adolescenza, quando tanti anni fa la gioventù di tanti paesi del mondo cominciava a ribellarsi a uno stato di cose che le sembrava sbagliato. Cos’era stata quella prima spinta al cambiamento? Non era l’ingiustizia sociale, non erano i popoli massacrati dal Napalm come i Vietnamiti, non era il perbenismo, la bigotteria, l’autoritarismo sciocco delle università e delle scuole, c’era qualcosa di più semplice, immediato, viscerale che ha ferito l’adolescenza di mezzo secolo fa e ha innescato le rivolte di tanti ragazzi di allora: l’ipocrisia del mondo adulto.
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Attacco alla democrazia e neocretinismo parlamentare
di Raffaele Gorpia*
«Questi disgraziati poveri di spirito per tutto il corso delle loro esistenze generalmente molto oscure […] dal principio della loro carriera legislativa erano stati più di qualsiasi altra frazione dell’Assemblea contaminati dalla incurabile malattia del cretinismo parlamentare, infermità che riempie gli sfortunati che ne sono vittime della convinzione solenne che tutto il mondo, la sua storia e il suo avvenire, sono retti e determinati dalla maggioranza dei voti di quel particolare consesso rappresentativo che ha l’onore di annoverarli tra i suoi membri e che qualsiasi cosa accada fuori delle pareti di questo edificio […] non conta nulla in confronto con gli eventi incommensurabili legati all’importante questione, qualunque essa sia, che in quel momento occupa l’attenzione dell’onorevole loro assemblea».
Nel luglio del 1852, Friedrich Engels scriveva a proposito dei deputati della sinistra nell’Assemblea legislativa.
In tempi di riduzione del numero dei parlamentari è ampiamente prevedibile l’accanimento alla corsa al seggio parlamentare da parte di vecchi e nuovi parlamentari, vecchi e nuovi politicanti dediti alla coltivazione delle proprie clientele per poter conservare la propria peculiare e sottile forma di parassitismo sociale.
L’ottuso populismo grillino, oggi in declino, ha sancito la fine del residuo di democrazia esistente nel nostro Paese con l’affermazione del sì al recente referendum costituzionale confermativo della riforma che riduce il numero di parlamentari e senatori a partire dalla prossima legislatura. In soldoni, le piccole formazioni politiche, ammesso che riuscissero a superare le soglie di sbarramento previste per entrare in Parlamento, saranno diffusamente assenti sul territorio nazionale in quanto a rappresentanza parlamentare in tutte le regioni di piccole e medie dimensioni, al contrario verrà favorito e consolidato praticamente senza concorrenza tutto il notabilato locale che già controlla sul territorio, con le buone e con le cattive, consistenti pacchetti di voti.
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