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La classe dirigente americana ha un solo obiettivo: il Mondo
Michele G. Basso
Dal vagone piombato al jihadismo senza frontiere
Gli USA, sconfitte le dittature fasciste, ne hanno ereditato l’aggressività, il revisionismo bellico, il disprezzo per ogni norma internazionale. La differenza è che, mentre i fascismi si svilupparono in paesi che non avevano colonie o ne avevano di meno importanti, e lottavano per una redistribuzione dei grandi imperi coloniali di Gran Bretagna, Francia, Olanda, Belgio… gli USA sono tuttora la potenza dominante che, invece di accettare l’inevitabile decadenza relativa, cerca di impedire con la forza lo sviluppo di ogni altra grande concentrazione finanziaria, industriale, politica, militare antagonista. E, per far questo, procede a una ricolonizzazione che ha la sua espansione maggiore in Africa, ma non rinuncia, tramite golpe, governi nominati direttamente da Washington, o dalle banche e dalle multinazionali, a subordinare paesi sviluppati in Europa, Asia o America Latina.
Siti e giornali, di destra e di sinistra, vantano i successi di Putin, come valido rivale di Washington. Anche se il suo governo ha reagito abbastanza bene all’offensiva USA, si tratta di operazioni prevalentemente difensive. Pur avendo il territorio più vasto del mondo, la Russia come popolazione non può competere con gli USA, l’Indonesia, il Brasile, ma solo con Nigeria e Pakistan – per ora soltanto, perché la natalità è più bassa della mortalità.
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Tra l'Europa impossibile e la Nazione impotente
Ridefinire il progetto per i tempi a venire
Pierluigi Fagan
Dopo la seconda guerra mondiale, l’Europa ed i suoi principali stati componenti, si svegliarono in un nuovo, inedito, mondo. Per la prima volta nella storia, il mondo andava connettendosi in modo tale da presentarsi come un sistema unico. Per la prima volta nella storia degli ultimi quattro secoli, l’Europa non era più il centro del mondo, le proprie diatribe interne non diventavano la trama che si proiettava sul resto del pianeta e soprattutto, nessun attore europeo poteva ritenersi vincitore di alcunché avendo tutti perso, sia la guerra, sia la legittimità culturale a porsi come modello di riferimento. Il dopoguerra si presentò come una tenaglia che stringeva una Europa devastata e smarrita, tra la pressione americana e quella sovietica. Successivamente, la globalizzazione rese chiara la vastità del mondo e fece emergere nuove potenze. Lo stato nazione europeo, cioè di piccola-media dimensione in un ambiente eccessivamente frazionato e competitivo, nasce dentro uno scenario eurocentrico ma oggi lo scenario non solo non ha più centro in Europa ma forse non ha neanche centro in sé per sé. Da qui, la crisi del concetto stesso di stato-nazione europeo.
Questa crisi oggettiva alimentò le prime idee sul superamento dello stato-nazione europeo che si posero la domanda del “come”?
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La lotta al feticcio e l'indifferenza su Banca Centrale indipendente e Costituzione
di Quarantotto
1. In margine all'analisi critica compiuta da Alberto Bagnai su Goofynomics, relativa alla presa di posizione di Luciano Gallino, così come ai tentativi di dialogo che, con grande pazienza e disponibilità, partono da Sergio Cesaratto, vale la pena di fare alcune riflessioni ulteriori.
In termini pratici, l'azione critica di Alberto e Sergio visualizza la radiografia di una sinistra non più riconoscibile come tale (proprio se riferita alle sue tradizionali coordinate: cioè comprensione dell'assetto dei rapporti di produzione e tutela effettiva della classe lavoratrice): il massimo che si può ottenere (faticosamente e con bassa probabilità di successo) è che da sinistra non si aggredisca e non si rifiuti chi propone analisi razionali di recupero della democrazia sociale!
2. E' chiaro che chi si identifica, a livello di base, con queste ormai consolidate pulsioni e se ne sente rappresentato/a, soffre della stessa dissonanza cognitiva che abbiamo qui più volte illustrato e che risulta figlia del combinato tra antiberlusconismo inerziale come unico punto autolegittimante identitario e internazionalismo antisovranista, avulso da ogni comprensione effettiva della radice del fenomeno.
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Il “Greco Levantino” e la narrazione al tempo della crisi
di Girolamo De Michele
Circa quattro anni fa, il non-ancora-greco-levantino Yanis Varoufakis scrisse un testo (Never bailed out: Europe’s ants and grasshoppers revisited, dicembre 2011, qui) nel quale la narrazione delle cause della crisi greca si intrecciava con la sovversione della narrazione dominante, incentrata sulla contrapposizione fra le virtuose formiche (tedesche) del nord e le scellerate cicale (greche) del sud d’Europa. Questa narrazione fungeva da schermo nei confronti della reale contrapposizione fra cicale e formiche, che non è originata nelle identità nazionali o localizzata nell’asse cardinale nord-sud, ma radicata negli antagonismi di classe: le formiche greche lavoravano in settori a bassa produttività con bassi salari e tutele lavorative e un’inflazione reale superiore a quella ufficiale; quelle tedesche lavoravano in settori a grande produttività, e la differenza fra alti profitti e salari stagnanti creava un surplus che veniva investito, a causa dei bassi tassi d’interesse esistenti in Germania, all’estero; per contro, le cavallette tedesche (quegli inimitabili banchieri il cui scopo è massimizzare i guadagni col minimo sforzo) facevano fluire il capitale prodotto dal duro lavoro a basso costo delle formiche verso il meridione in cerca di alti guadagni, mentre le cavallette greche, e i loro alleati politici al governo, chiedevano alle cavallette tedesche (le banche) sempre maggiori prestiti, senza pensare al domani (per contro, le formiche greche dovevano farsi carico dei costi di questa macchina finanziaria che non portava alcun reale beneficio al popolo greco.
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Il Keynesismo in un solo paese è impossibile
di Sergio Cesaratto
Di seguito il denso e istruttivo intervento di Sergio Cesaratto al seminario promosso da Fassina e D'Attorre "Europa, sovranità democratica e interesse nazionale", svoltosi a Roma 16 luglio 2015
Cari compagni,
mi sembra che la principale vittima della capitolazione greca sia l’Europa, che definitivamente mostra la sua faccia di istituzione anti-democratica dominata da un solo paese, e con essa l’europeismo utopico di certa sinistra.[1]
La Grecia crollerà in pochi mesi
E’ chiaro che la questione greca non è finita qui. Martedì il FMI ha ribadito, e di rimbalzo la Commissione ha ammesso, quello che tutti sanno, cioè l’insostenibilità del debito greco che o va tagliato o congelato con una moratoria di tre o più decenni. “Extend and pretend”, dicono gli anglosassoni. Questo non vuol dire una vittoria della Grecia (non dico di Syriza perché ormai non possiamo più parlare di un governo Syriza). La Grecia non può pagare e quindi si fa finta che pagherà. Ma l’austerità rimane lì.
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L’impossibile politica. Note critiche sull’estasi del conflitto
di Militant
1.
Anni di accomodamento riformista e di convergenze democratiche dei movimenti hanno prodotto, per reazione, una salutare rottura epistemologica. Contro ogni ipotesi centrosinistra, è stata rimessa al centro l’alterità totale tra istanze di classe e governo liberale, tanto nella forma conservatrice quanto per quella presuntamente democratica. La pappa maleodorante della presunta analogia di interessi tra partiti liberisti e movimenti sociali ha lasciato il campo al confronto tra amico e nemico, dialettica non sintetizzabile e che produce necessariamente il conflitto quale presupposto stesso del rapporto contraddittorio messo in piedi dalla politica. E’ il conflitto sociale lo strumento attraverso cui discernere gli amici dai nemici, il campo della nemicità da quello delle alleanze; e l’unico linguaggio possibile fra i due poli della politica schmittiana, riproposta in chiave rivoluzionaria, è lo scontro immediato, non condizionato cioè dal compromesso politico. E’ importante comprendere le premesse da cui proviene questa reazione igienica all’ortodossia riformista “dirittocivilista”. La crescita del movimento no-global, pur nella sua importante capacità di aggregare consensi, portava con sé il cancro dell’accettazione di un unico pensabile sistema di produzione, su cui intervenire semmai in chiave redistributiva, piegando la politica ad arte del compromesso sociale. A cavallo degli anni Duemila, la distanza che separava istanze rivoluzionarie da questo neo-riformismo in salsa cristiana non poteva essere più grande.
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Discutendo, dopo Atene, di CLN e Costituzione…
Mimmo Porcaro
I fatti di Grecia, di cui converrà parlare meglio altrove, lasciano intatte solo le opinioni degli europeisti dogmatici, ma per il resto mutano lo scenario, accelerano la possibile crisi politica dell’Ue e fanno da spartiacque per tutti. D’ora in poi qualunque forza politica che non si proponga (e proprio come “Piano A”) l’obiettivo strategico del superamento dell’Unione e dell’euro sarà, e senza più scusanti, una forza conservatrice quando non reazionaria: in ogni caso sarà una forza irresponsabile. E d’ora in poi chiunque abbia le idee chiare sull’Unione e sull’euro e ciononostante non si ponga il problema della costruzione di una politica altrettanto chiara, mostrerà di non essere all’altezza delle proprie migliori intuizioni.
Non corre questo rischio lo scritto di Magoni, Dal Monte e Boghetta Il male della banalità: la sinistra nell’epoca del sogno europeo, che si caratterizza proprio per la chiarezza e la consequenzialità della proposta politica: di fronte al nesso inscindibile tra neoliberismo e perdita della sovranità nazionale (così funziona l’Unione europea, almeno nei confronti dei paesi meno forti) si rivendica di fatto un’ alleanza sociale e politica per il ripristino della sovranità, ovvero della democrazia e della Costituzione: un’alleanza assai ampia tra classi diverse e tra orientamenti politici abitualmente divergenti finalizzata al ripristino della democrazia e di una politica economica di piena occupazione.
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I Certificati di Credito Fiscale e John Maynard Keynes
di Biagio Bossone e Marco Cattaneo
Riceviamo da Biagio Bossone e Marco Cattaneo e volentieri pubblichiamo questo articolo sui Certificati di Credito Fiscale (CCF). In merito a tale proposta, Guido Iodice e Thomas Fazi hanno espresso alcune critiche in un articolo pubblicato da MicroMega Online che riportiamo di seguito all’articolo di Bossone e Carraneo
Keynes e l’Eurozona
In recenti contributi, risultati tra i più letti su alcuni dei maggiori blog internazionali di economia e finanza, chi scrive ha proposto l’introduzione dei Certificati di Credito Fiscale (CCF) quale strumento di rilancio della domanda in economie affette da stagnazione, scarso spazio fiscale e impossibilità di utilizzo della leva monetaria e del tasso di cambio: tipicamente le economie in crisi dell’eurozona.
Riteniamo che le caratteristiche di fondo della manovra che proponiamo ne farebbero il più grande intervento di politica economica di stampo keynesiano che sia stato immaginato dal secondo dopoguerra ad oggi. Non soltanto esso innescherebbe uno stimolo fiscale forte in contesti dominati da alta preferenza per la liquidità e da carenza ormai cronica di ‘animal spirits’, ma sarebbe capace di incidere su aspettative che, in assenza di segnali incisivi di svolta, resterebbero fatalisticamente improntate a pessimismo e impoverimento.
Anche alla luce dei commenti critici ricevuti da lettori di nostre precedenti uscite pubbliche, ci fa particolare piacere poter illustrare i contenuti della nostra proposta ai lettori di Keynes Blog, augurandoci che vorranno anche loro far sentire la loro voce (di consenso o dissenso) sull’idea che stiamo cercando di portare avanti e diffondere.
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Filosofia, scienza e pseudoscienza nella crisi della conoscenza contemporanea
di Davide Di Tullio*
È la troppa cultura che porta all’ignoranza,
perché se la cultura non è sorretta dalla fede,
a un certo punto gli uomini vedono solo
la matematica delle cose.
E l’armonia di questa matematica diventa
il suo Dio, e dimentica che Dio ha creato
questa matematica e questa armonia
Giovannino Guareschi, Filosofia spicciola
L’odierna tecnocrazia è osteggiata da un rigurgito antiscientista, fenomeno sicuramente inquietante, ma non privo di una qualche giustificazione. Non si vuole qui imbastire l’apologia delle tendenze antiscientifiche che stanno prendendo sempre più piede nelle comunità iper-informate dei paesi più avanzati; piuttosto si tenterà di tracciare il quadro di una tendenza che rischia di minare la fiducia verso il fondamento stesso dell’essere umano: la ragione. Si cercherà, dunque, di comprendere il rapporto che intercorre tra scienza e filosofia oggi; si tenterà, inoltre di inquadrare il fenomeno delle pseudoscienze e definire le cause della crisi della conoscenza
Cosa si intende per “scienza”? Nel corso della storia a questo termine sono stati attribuiti funzioni ed ambiti che la scienza moderna qualificherebbe come pre-scientifici o semplicemente non-scientifici. Sono i criteri che la scienza moderna ha assunto per autodefinirsi che consentono di compiere quell’opera di discernimento tra quanti, tra gli atti del conoscere, possono definirsi propriamente scientifici e quanti no. In questo senso, accoglieremo la formula di Lucio Russo che conferisce l’attributo di “scientifico” alle teorie a) le cui «affermazioni non riguardano oggetti concreti ma enti teorici specifici», b) hanno «una struttura rigorosamente deduttiva» e c) le cui «applicazioni al mondo reale sono basate su regole di corrispondenza tra gli enti della teoria e gli oggetti concreti» (Russo, 2014, pp. 33-34). Alla luce di tale definizione, le teorie filosofiche non possono ritenersi “scientifiche”, venendo meno i presupposti espressi nei punti a) e c).
Dicotomia tra scienza e filosofia
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Cambiare governo per affrontare la crisi
di Luciano Gallino
Il testo è stato redatto da Luciano Gallino nel giugno 2015 e lo propone al nostro dibattito
A otto anni di distanza dall’inizio della crisi economica in USA e in Europa, e a sei della sua fittizia trasformazione, per mano delle istituzioni e dei governi UE, da crisi del sistema finanziario privato a crisi del debito pubblico, l’Italia si ritrova con un governo che da un lato è allineato con le posizioni più regressive della Troika (la quale forma di fatto una quadriglia con Berlino); dall’altro non ha evidentemente la minima idea circa le cause reali della crisi, e meno che mai delle strade da provare o da costruire per uscirne.
Il gioco dei numeretti che i suoi ministri fanno circa la ripresa o l’occupazione, con la risonanza che vi danno quasi tutti i media, senza che questi tradiscano mai da parte loro un’ombra di spirito critico, appare penoso. In realtà la situazione del paese è drammatica, e l’inanità dilettantesca del governo non fa che peggiorarla. L’Italia ha bisogno urgente – diciamo, realisticamente, entro il 2016 - di un altro governo che abbia compreso le cause strutturali della crisi quale si presenta in Italia, nel quadro della crisi europea, e possegga per conto suo e sappia mobilitare nel paese le competenze per superarle. E’ una missione impossibile, è vero, ma è meglio immaginare l’impossibile che darsi alla disperazione.
La crisi ha tre facce. Proverò a delineare i loro tratti principali.
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La tragedia greca e il futuro della sinistra
di Moreno Pasquinelli
Qui sotto l'intervento di Moreno Pasquinelli al seminario promosso da Fassina e D'Attorre "Europa, sovranità democratica e interesse nazionale"
Ringrazio i promotori, Stefano in particolare, per l’invito. Com’era inevitabile chi mi ha preceduto si è soffermato sull’ultimo atto della vicenda greca. Le opinioni sono discordi. Se gli economisti che mi hanno preceduto, con argomenti inoppugnabili, hanno condannato l’accordo siglato da Tsipras come una capitolazione politica che avrà effetti recessivi disastrosi; alcuni esponenti politici hanno qui invece difeso la decisione di SYRIZA come la sola possibile per evitare il peggio, dove il "peggio", per essi, sarebbe appunto stata la “grexit”. Valdimiro Giacché ci ha invece spiegato perché Tsipras, se non fosse stato prigioniero del dogma altreuropeista, avrebbe dovuto cogliere al volo l’assist di Scheuble e uscire dalla gabbia euro tedesca.
La nostra discussione, per stare al coraggioso tema del seminario —“Europa, sovranità democratica e interesse nazionale”—, sta mostrando che si confrontano due posizioni: la prima sostiene che se si vuole davvero porre fine all’austerità antipopolare e difendere la democrazia, occorre ripristinare il dettato costituzionale riguadagnando piena sovranità nazionale, politica e monetaria; dall’altra c’è chi ritiene che malgrado l’Unione europea non sia affatto quella sognata a Ventotene, nonostante sia strutturata in maniera oligarchica e con un imprinting neoliberista, essa è e deve restare la nostra casa comune, e non importa che sia un reclusorio imperiale, si auspica anzi che ai carcerieri vengano ceduti altri pezzi di sovranità. Nessuna ritirata è ammessa, avanti tutta nella demolizione delle nazioni.
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La sinistra assente di Domenico Losurdo
Militant
Da qualche mese è in libreria un testo, l’ultimo lavoro di Losurdo, capace sin dal titolo di chiarire un concetto ed esprimere una posizione. Di fronte agli sconvolgimenti internazionali in atto dalla caduta del muro di Berlino in avanti, il multiforme campo della politica ha visto il dileguarsi della sinistra, di una sinistra capace di rappresentare un’alternativa politica contendendo all’immaginario capitalista l’orizzonte dello sviluppo. Si potrebbe obiettare che la fine dello schema bipolare partorito dal secondo dopoguerra abbia complicato il quadro dei riferimenti internazionali, lasciando analisti e opzioni politiche in mezzo ad un mare in tempesta e senza porti sicuri. Il ventennio appena trascorso smentisce però questa presunta “multiformità”, questa apparente incomprensibilità di fondo dei principali eventi internazionali. Dalla prima guerra in Iraq in avanti, lo schema dell’ingerenza Nato nelle più differenti zone calde del mondo si è ripetuto pedissequamente senza soluzione di continuità e seguendo nei più piccoli particolari sempre lo stesso canovaccio. E’ avvenuto allora un cambio soggettivo interno al campo della sinistra, non uno oggettivo rispetto alla dinamica imperialista. Non si contano più le ingerenze internazionali dell’area Nato nei diversi contesti geopolitici: Iraq, Iran, Jugoslavia, Siria, Libia, Serbia, Ucraina, Afghanistan, Venezuela, Somalia, Georgia, Honduras, Mali e molti altri eccetera.
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Nel tempo della minorità
Lelio Demichelis
La vittoria dei no al referendum in Grecia aveva dimostrato che l’uomo in rivolta di Camus esiste, che se vuole è capace di dire no e anche di dire sì. L’uomo in rivolta greco ha detto sì all’europeismo dicendo no a questa Europa dell’austerità, della colpa, dell’egoismo, dei mercati, della cancellazione scientifica dei diritti sociali, dimostrando che un agire politico è ancora possibile. Fine della rassegnazione? No, sappiamo com’è andata a finire, la rassegnazione è stata imposta a forza alla Grecia, ma quel no che era un sì rimarrà comunque nella storia. Anche se si conferma, senza se e senza ma come il capitalismo sia strutturalmente conflittuale con la democrazia.
Di più: sono morte le ideologie del Novecento, ma anche le utopie e persino le idee; la lotta di classe l’hanno vinta i ricchi e si è azzerata ogni capacità (specie a sinistra) di innovazione politica, mentre si è dominati dall’imperativo dell’innovazione tecnologica – e l’unica immaginazione al potere è oggi quella di dover diventare uomini economici la cui vocazione (beruf) deve essere quella di adattarsi al mercato e di connettersi in rete, mentre «la flessibilità deve entrare nel Dna delle persone» (Mario Draghi). Condizione esistenziale tristissima e devastante per società e democrazia.
Qui parliamo allora di tre libri, diversi ma tutti importanti per comprendere la nostra condizione (dis)umana nell’epoca del capitalismo tecnologico globalizzato. Pubblicati da Laterza nella nuova e benvenuta collana «Solaris».
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C'è una logica in questa follia
Crisi nell'UE e riassetto dell'industria mondiale
Lucia Pradella
La crisi economica mondiale scoppiata nel 2007/8 si sta abbattendo con particolare forza sull’Europa: la situazione greca ne è l’esempio più lampante. A livello europeo, la disoccupazione ha raggiunto percentuali record, i salari reali stanno diminuendo, le diseguaglianze sono alle stelle e gli attacchi alla classe lavoratrice si sono intensificati. Secondo dati Eurostat (che sottostimano ampiamente la situazione reale), nel 2013 circa novantadue milioni di persone, un quarto della popolazione dell’Europa occidentale, era a rischio di povertà e di esclusione sociale: 8 milioni e mezzo di persone in più che nel 2007. La tendenza è più allarmante nei paesi più colpiti dalla crisi come Grecia, Portogallo, Spagna e Italia, ma è in crescita anche nel Nord dell’Europa, Gran Bretagna e Germania comprese. Condizioni di povertà, precarietà e super-sfruttamento prima ritenute “tipiche” del Sud del mondo stanno diventato sempre più diffuse anche nei paesi ricchi dell’Unione Europea.
La crisi e i suoi effetti in Europa - compresa l’Europa “ricca”, occidentale - hanno suscitato ampio dibattito, tanto sulle sue cause che sulle strategie da adottare in risposta. Uno dei limiti principali di questo dibattito è che spesso si è concentrato sulla crisi in Europa senza considerare in modo organico la sua dimensione strutturale e internazionale.
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ISIS. Il marketing dell’Apocalisse
di Bruno Ballardini
Pubblichiamo su Critica Impura, per gentile concessione dell’Autore, l’introduzione completa dell’ultimo volume di Bruno Ballardini intitolato “ISIS. Il marketing dell’Apocalisse” (Baldini & Castoldi 2015)
Introduzione
Nulla è come appare. Mai. Nemmeno questo libro. Nonostante le apparenze, infatti, ciò che state per leggere non riguarda l’ISIS, e nemmeno quello che c’è dietro. Questo libro è prima di tutto un atto d’accusa verso il modo in cui la rete – che avrebbe dovuto portare democrazia, risvegliare le coscienze, liberare l’umanità – si sia trasformata nel più efficace dispositivo per controllare, manipolare, deformare la realtà e, in definitiva, dominare grandi masse orientandone le scelte.
Sul piano mediatico l’ISIS rappresenta in un certo senso l’11 settembre di Internet, la prima grande sconfitta della rete, così come l’attacco alle Torri Gemelle e ciò che ne è seguito hanno segnato la sconfitta della televisione e la morte del giornalismo televisivo. Perché se è relativamente semplice contrastare il terrorismo da un punto di vista «tecnico» (basta eliminarlo), non esiste ancora nessun modo per difenderci dalla disinformazione e dalla manipolazione che avvengono attraverso Internet. Nessun modo per arginare i danni che provoca. È questo il vero disastro portato dalla tanto santificata «democrazia digitale» e dai social network. «Ti sei mai accorto delle enormi opportunità che un campo di battaglia offre ai bugiardi?» disse una volta il generale confederato Stonewall Jackson a un suo aiutante di campo durante la guerra civile americana[1]. A maggior ragione questo vale in un campo di battaglia virtuale.
Soltanto vent’anni fa, l’avvento di Internet veniva salutato dai primi profeti come l’inizio di una nuova era per la nostra civiltà.
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Fuori dall’Euro c’è l’Europa (e la democrazia)
di Rodolfo Ricci
Per tentare di comprendere meglio cosa stia accadendo con la questione greca e quindi le reali sfide che abbiamo di fronte, è necessario tornare all’introduzione dell’Euro; e su alcuni elementi che negli eventi convulsi degli ultimi giorni rischiano di perdersi in un rumore di fondo fatto di tifoserie varie che rende difficile una valutazione razionale; di essa abbiamo invece fortemente bisogno se non si vogliono fare passi falsi o attardarsi su posizioni moralmente accettabili, ma fuori tempo massimo, in un momento decisivo per l’Europa e per l’Italia.
Il punto essenziale da comprendere è cos’è l’Euro tecnicamente e le sue implicazioni e conseguenze politiche
L’Euro è la prima importante moneta della storia che non viene emessa da uno stato sovrano, ma che riassume un paniere di monete nazionali in un rapporto di cambi fissi, le cui percentuali nazionali sono individuabili nella percentuale di controllo della BCE da parte delle rispettive banche centrali dei singoli paesi.
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La Troika, il 2011 e l'Italia
di Alessandro Gilioli
Gli eventi greci hanno ringalluzzito i media e i fan di Berlusconi, che in questi giorni propongono un parallelo tra la fuoriuscita del Cavaliere nel 2011 e la prova di forza muscolare con cui la Troika ha piegato Tsipras, mettendo probabilmente fine alla sua parabola politica.
In parte, i berlusconiani hanno ragione. Nel senso che il 2011 è stato l'anno dirimente per l'Italia, quello in cui i mercati e la Troika hanno imposto il cambio di governo. E a pagarne le conseguenze politiche è stato anche l'allora premier.
Tuttavia consiglio a tutti di mettere bene in fila i fatti di quell'anno per provare a capire cos'è successo davvero: quali paure avevano i vaporieri della Ue rigorista e quali strategie hanno messo in campo. Evitando ogni complottismo e ogni cospirazionismo, certo: ma senza nemmeno mettersi le fette di salame sugli occhi rispetto alle pressioni politiche internazionali che - come mi pare acclarato negli ultimi giorni - esistono eccome. (post lunghetto)
Per capire bene cosa successe in Italia, anzitutto, bisogna calarsi il più possibile in quel periodo, al netto delle vicende successive: ad esempio, oggi sembra quasi ridicolo pensare che la Troika potesse temere (anche) uno come Nichi Vendola, ma nel 2011 la paura di un'uscita a sinistra dell'Italia dal berlusconismo era invece piuttosto forte, quasi come oggi quella verso Podemos.
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Tragedia greca
di Spartaco A. Puttini
Un'altra Unione europea non è possibile. L’uscita della Grecia prossima ventura
Il risultato del referendum greco, con il massiccio “no” che ha rigettato la politica ricattatoria della Troika, ha avuto l’effetto positivo di dimostrare che i popoli europei che più soffrono la crisi e le politiche di austerità di cui la Ue è principale alfiere iniziano a rifiutare lo slogan ricattatorio “ce lo chiede l’Europa”.
E’ stata una lezione di democrazia. E’ stato anche un risultato simbolicamente rilevante e spendibile per tutti coloro che aspirano a voltare pagina e in politica, si sa, i simboli hanno il loro peso.
Tuttavia il punto è un altro: è essere conseguenti, come le drammatiche vicende successive della politica greca stanno dimostrando, con la tragica resa della democrazia al mercato e di Tsipras alla troika.
Un’altra Unione europea non è possibile
Tsipras e Syriza hanno costruito il loro successo politico sulla promessa di un’altra Europa (cioè un’altra Ue) possibile, cioè sull’ipotesi di tenersi l’euro rigettando le politiche di austerità. Questo ha consentito alla sinistra radicale greca di intercettare i voti in fuga dal Pasok, elettori che, come ha notato Halévy, erano stati assuefatti da decenni di propaganda europeista e non erano maturi per la scelta più consapevole rappresentata dal KKE (e non solo per i limiti tattici che possono essere imputati ai comunisti greci) [1].
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Il paradosso del demos (tra legittimità democratica e legittimazione storica)
di Edoardo Greblo
Fin dalla sua nascita la teoria democratica si è confrontata con un grave paradosso: la democrazia non riesce a permeare di sé il processo stesso della sua costituzione. Tuttavia, solo recentemente, in connessione con l'emergere della globalizzazione e l'esplosione del fenomeno migratorio, tale paradosso si è venuto ponendo come una questione cruciale per la riflessione normativa
La sovranità democratica implica un demos unificato che agisce per governare se stesso su un territorio delimitato. E “l’autogoverno implica l’autocostituzione”.[1] Ma in che modo il demos si è autocostituito e in base a quale autorità? Si tratta di un paradosso che la teoria democratica ha riconosciuto sin dai tempi di Rousseau: infatti, affinché il popolo sia legittimo, “bisognerebbe che l’effetto potesse divenire causa, che lo spirito sociale che deve essere il frutto dell’istituzione, presiedesse all’istituzione stessa e che gli uomini fossero prima delle leggi ciò che devono diventare per opera loro”.[2] Eppure, abbastanza sorprendentemente, la teoria democratica mainstream vi ha prestato ben poca attenzione. Come ha scritto Robert Dahl, il problema di decidere su “chi legittimamente costituisce ‘il popolo’ […] e ha perciò il diritto di governare se stesso […] è stato quasi totalmente trascurato da tutti i grandi filosofi politici che hanno scritto sulla democrazia”.[3] L’avvento dell’“era delle migrazioni”[4] ha però contribuito a modificare in modo sostanziale i termini della questione e a rendere il problema – al quale sono state attribuite diverse denominazioni: il problema dell’unità,[5] il problema dei fondatori,[6] il paradosso democratico,[7] il paradosso della sovranità popolare,[8] il paradosso della legittimità democratica,[9] il paradosso della politica,[10] il problema della costituzione del demos[11]– quanto mai attuale.
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Il Male della banalità: la sinistra nell’epoca del sogno europeo
Andrea Magoni
Pier Paolo Dal Monte
Ugo Boghetta
In questi drammatici giorni, la Grecia ha dimostrato, nella maniera più tragica, l’impossibilità per qualsiasi forza della cosiddetta “sinistra” di affrancarsi dalla gabbia dell’euro e di prendere pienamente coscienza che l’Unione Europea, e il coacervo di trattati sui quali si fonda, sono espressione del più becero neoliberismo, dal quale è assente ogni sia pur tenue traccia di democrazia.
In questi giorni stiamo assistendo, una volta di più, allo smascheramento del vero volto di quest’istituzione totalitaria e del suo braccio armato, la BCE che, come volgari strozzini di una qualsiasi organizzazione mafiosa ricattano un governo nazionale, legittimamente eletto, e pretendono di sostituirlo con una tecnocrazia di proprio gradimento. Operazione che è paragonabile, pur se non effettuata con mezzi esplicitamente violenti ai golpe etero diretti avvenuti nei paesi i cui governi erano sgraditi alle èlites economico-finanziarie sovranazionali.
È ormai evidente che quest’Unione Europea è totalmente irriformabile perché incompatibile con la democrazia: non si pone più alcuna questione su quali cambiamenti siano necessari per renderla migliore.
Fanno sorridere gli appelli delle variopinte anime belle delle varie sinistre movimentiste sulla necessità di ridisegnare le regole europee, i parametri e i patti di stabilità, allo scopo di contrastare le politiche di austerità, visto che nella gabbia della moneta unica e dei trattati europei non c’è possibile redenzione. Il ricorso ad improbabili iniziative referendarie od elettoralistiche, su queste basi, è quindi destinato all’irrilevanza.
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Leggere Marx a Venezia
Enwezor e la rappresentazione del capitalismo alla Biennale d’Arte 2015
di Pietro Bianchi
Vi è una celebre sequenza all’inizio di Grapes of Wrath, il film capolavoro di John Ford tratto dal romanzo di Steinbeck, in cui vediamo Tom Joad che dopo essere uscito di prigione torna nella fattoria di famiglia e la trova vuota, distrutta e abbandonata. La terra è stata confiscata dalle banche e la sua famiglia se n’è dovuta andare verso la California a cercare un lavoro e un salario migliori. Ma com’è possibile – si chiede Tom – che una banca possa impossessarsi della terra dove i Joad vivevano da più di cinquant’anni come se niente fosse? Che cosa è successo? Muley – un uomo che si era accampato tra le rovine della casa abbandonata dei Joad e che si era rifiutato di fuggire in California – interpellato da Tom Joad racconta chi sono i veri responsabili di ciò che è successo. In tre minuti di emozionante flashback John Ford non solo ci fa vedere come funziona concretamente il procedimento di confisca delle terre nell’Oklahoma con grande lucidità politica, ma ci mostra anche in un distillato di fulminante chiarezza uno dei problemi più enigmatici e complessi della modernità capitalistica: come si manifesta il capitalismo? Che volto ha quando appare nelle nostre vite? Qual è la sua immagine?
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Il problema non è Tsipras ma questa Europa
di Alfonso Gianni
Pare che ad Alexis Tsipras non venga risparmiato proprio nulla. Non è bastato il clima oppressivo ed offensivo con cui si sono svolte le ultime fasi drammatiche dell’Eurosummit, che hanno spinto il leader greco a togliersi la giacca e a gettarla sul tavolo, in spregio alle loro incontenibili richieste. Ora si apre la difficile fase della discussione in patria e nel suo partito e i toni non paiono concilianti.
Persino Varoufakis, che finora aveva tenuto un profilo di grande solidarietà verso Tsipras, parte lancia in resta con argomenti non sempre comprensibili. Esisteva o no un piano B, basato su una simulazione di una fuoriuscita della Grecia dall’euro? In una intervista, quella rilasciata qualche giorno fa a newstatesman.com, l’ex ministro delle finanze ha rivelato che le divergenze nel gruppo dirigente di Syriza sono diventate evidenti subito dopo l’esito straordinario del referendum di domenica. In sostanza la contesa era attorno al modo migliore per utilizzare la nuova forza che il 61% dei No aveva conferito alla delegazione greca. Varoufakis chiedeva di reagire in modo aggressivo alla chiusura delle banche, ponendo sotto controllo la banca nazionale greca e agendo sui bond. Tuttavia lo stesso Varoufakis ammette che non era sua intenzione spingere le cose fino in fondo. La maggioranza dei presenti a quella riunione non fu d’accordo, con la motivazione, sostenuta a quanto pare in particolare da Tsipras, che per assumere quelle misure bisognava avere una capacità e una strumentazione di governo che lo stato ellenico non possiede. In sostanza per minacciare la Grexit bisogna avere poi la determinazione di operarla, se gli altri vengono a “vedere”. Altrimenti diventa un’arma spuntata. Del resto, come pure sia Tsipras che Varoufakis, hanno più volte detto, la Grexit era nelle mani dei loro avversari. In particolare dei tedeschi.
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Serve un “piano B”, la sinistra impari dalla débâcle di Tsipras
G. Russo Spena intervista Emiliano Brancaccio
Per l’economista la debacle greca insegna che bisogna mettere da parte la retorica europeista e globalista e predisporre una visione alternativa, un “nuovo internazionalismo del lavoro”. E sulla Grexit replica al premier ellenico che ha denunciato il mancato aiuto di Stati Uniti, Russia e Cina: “Se vero, significa che i grandi attori del mondo hanno scelto di non interferire più di tanto negli affari europei, lasceranno che l’Unione monetaria imploda per le sue contraddizioni interne”
«È inutile negarlo, il governo e il parlamento greco hanno capitolato, gli apologeti dell’austerity hanno vinto anche stavolta. È l’ennesima prova che nella zona euro, purtroppo, le cose vanno come avevamo previsto». I renziani metterebbero anche lui nel girone dei ‘gufi’ ma l’economista Emiliano Brancaccio preferisce un’espressione più raffinata: «In questi anni, nostro malgrado, in tanti abbiamo indossato i panni delle Cassandre che allertano sui guai che verranno ma restano inascoltati». I media in questi giorni hanno ricordato le lettere pubblicate sul Sole 24 Ore nel 2010 e sul Financial Times nel 2013 con cui Brancaccio e altri colleghi segnalavano come le ricette di austerità, flessibilità del lavoro e schiacciamento dei salari avrebbero provocato disastri, aggravando la posizione dei Paesi debitori e rendendo sempre meno sostenibile l’assetto dell’eurozona.
Professore, alla vigilia delle ultime elezioni europee Lei rifiutò una candidatura a capolista dell’Altra Europa con Tsipras. Adesso che il leader ellenico ha accettato l’ultimatum dei creditori, in molti – scendendo repentinamente dal carro del vincitore – sono tornati sulla sua scelta di allora, ritenendola lungimirante. È veramente così?
È un modo malizioso di interpretare quella mia decisione. All’epoca rifiutai la candidatura per ragioni professionali, non politiche. È vero tuttavia che fin dall’inizio dell’ascesa di Tsipras ho criticato l’idea che una vittoria della sinistra in Grecia potesse imprimere una reale svolta agli indirizzi di politica economica dell’Unione. Tsipras ha contribuito ad alimentare questa speranza, e oggi ne paga le conseguenze.
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Di lavoro non ce n’è più bisogno
di Franco Berardi Bifo
Alla fine degli anni ’70, dopo dieci anni di scioperi selvaggi, la direzione della FIAT convocò gli ingegneri perché introducessero modifiche tecniche utili a ridurre il lavoro necessario, e licenziare gli estremisti che avevano bloccato le catene di montaggio. Sarà per questo sarà per quello fatto sta che la produttività aumentò di cinque volte nel periodo che sta fra il 1970 e il 2000. Detto altrimenti, nel 2000 un operaio poteva produrre quel nel 1970 ne occorreva cinque. Morale della favola: le lotte operaie servono fra l’altro a far venire gli ingegneri per aumentare la produttività e a ridurre il lavoro necessario.
Vi pare una cosa buona o cattiva? A me pare una cosa buonissima se gli operai hanno la forza (e a quel tempo ce l’avevano perbacco) di ridurre l’orario di lavoro a parità di salario. Una cosa pessima se i sindacati si oppongono all’innovazione e difendono il posto di lavoro senza capire che la tecnologia cambia tutto e di lavoro non ce n’è più bisogno.
Quella volta purtroppo i sindacati credettero che la tecnologia fosse un nemico dal quale occorreva difendersi. Occuparono la fabbrica per difendere il posto di lavoro e il risultato prevedibilmente fu che gli operai persero tutto.
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L’estate del nostro sconcerto
La Grecia, l’Europa e le lotte transnazionali
∫connessioni precarie
Questo non è un colpo di Stato. Senza dubbio c’è stata un’imposizione di fatto unilaterale che ha completamente ignorato e quindi cancellato ogni traccia del referendum greco. Bisogna però anche dire che lo Stato da colpire non c’era più da tempo: dissolto dalla pressione del debito, con una sovranità impossibile, con un 1/3 del suo popolo che vive al di fuori di un territorio nazionale spesso controllato da capitali provenienti da altri Stati. Non possiamo quindi accontentarci della lettura golpista dell’Editto di Bruxelles. Farlo vorrebbe dire continuare a coltivare l’illusione che ha contagiato non pochi, anche alle nostre latitudini politiche, che hanno interpretato il referendum dell’OXI come la rivincita della democrazia contro la finanza transnazionale. Così come hanno visto nel referendum l’atto di un popolo finalmente tornato sovrano contro le angherie della governance finanziaria europea, ora vedono l’Europa che si accanisce contro i popoli. Questa fede nel potere dei popoli potrebbe perfino avere contenuti edificanti, se almeno tenesse conto che quel potere si è smaterializzato di fronte alle feroci imposizioni dettate dall’accordo tra i leader europei e Tsipras, e se non finisse per sorvolare sul fatto che la democrazia, la sovranità e il suo popolo sono parte del problema e non la soluzione. D’altra parte anche in Grecia in queste ore qualcuno si azzarda a osservare che sono soprattutto centinaia di migliaia di precari a essere stati sacrificati sull’altare di quel che resta dello Stato greco e del suo popolo.
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