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L'impossibilità di una democrazia liberale
Carlo Donolo
1. Sappiamo che storicamente il regime democratico convive con il sistema capitalistico, nel senso che solo in economie capitalistiche troviamo democrazie (situazioni cui sia lecito assegnare questo termine in misura almeno ragionevole). Esiste però una relazione asimmetrica tra i due termini: la democrazia (rappresentativa o parlamentare) richiede il capitalismo, mentre il contrario è vero solo occasionalmente. Esso prospera anche in regimi autoritari o dittatoriali, ma per società divenute abbastanza complesse un po' di democrazia rappresentativa sembra necessaria, perché un regime solo e tutto “del capitale” o solo tecnocratico o solo autoritario è troppo rigido e finisce per produrre ingovernabilità, come mostra il crollo dei regimi “comunisti”. La convivenza di democrazia e capitalismo però non è mai stata pacifica, trattandosi di regimi che seguono logiche alquanto diverse ed anche opposte. Un punto d'incontro è offerto dallo stato di diritto e costituzionale, ovvero da un sistema di istituzioni e di regolazioni che guidano l'attività economica (in senso molto blando ed indiretto in termini cumulativi, più in tempi di crisi e meno in altri), e nello stesso tempo offrono spazio per le attività di una società civile che almeno in via di principio non è solo una dipendenza del mercato. Tuttavia, la situazione descritta implica per la democrazia una serie di gravi problemi: per un verso i principi democratici non riguardano tutta la vita sociale e meno che mai quella economica, quindi per definizione sono confinati entro limiti netti (si pensi solo al problema della diseguaglianza sociale, intrattabile come tale). Per un altro, la democrazia dipende dalle prestazioni del sistema economico, sotto il profilo del prelievo fiscale ed anche in altre forme. Il ciclo economico influenza il ciclo politico e la politica – specie dopo al fine dei partiti di massa – si alimenta di rendite finanziarie che presuppongono un patto (più o meno scellerato) con interessi economici forti, e comunque non democratici.
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Far finta di essere buoni?
di Girolamo De Michele
C’è una frase, attribuita a Italo Calvino, che Mauro affigge sulla parete dell’ufficio della Onlus “In punta di piedi” in cui lavora: Dove si fa violenza al linguaggio è già iniziata la violenza sugli umani. La frase richiama la lezione americana sull’esattezza contro quella peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e livellamento dell’espressione sulle formule generiche e astratte: sarà interpretata come una velata critica al guru della Onlus (poco preciso, nel suo parlare a braccio, con i congiuntivi), e usata come argomento per “accompagnare” Mauro fuori dalla comunità. L’etica del linguaggio viene così pervertita da quello stesso uso delle parole che avrebbe dovuto contrastare.
Questo episodio si appoggia sul principale, anche se non unico, piano di significazione di I buoni di Luca Rastello: la costruzione, attraverso l’uso simultaneo di tecniche retoriche e carisma personale, di un mondo allucinatorio ma realissimo, nel quale il discorso della Bontà, attraverso le sue declinazioni, struttura e definisce non solo se stesso, ma anche il campo avverso, quello del Male. La “memoria condivisa”, “la frusta dell’oltre”, il “bene a regola d’arte”, l’impegno, la “costruttività” («ok, questa è la tua protesta, ma dov’è la proposta?»), il “metterci la faccia”, l’insistenza di parole come “noi, nostro, nostra”, la “corresponsabilità” usata come un martello per inchiodare l’avversario: la creazione del nemico, «il lorsignori dell’oratore. Chi non è con noi è contro di noi. E quindi con le mafie. Quintessenza dell’esclusività, travestita da inclusione. Il bene assoluto che si erge contro il male assoluto». Il male, beninteso, esiste: è la città dell’Europa orientale devastata da una miseria che appare irredimibile, dove abita il popolo delle fogne, in un’alternativa tra il male dei sotterranei e il peggio delle strade in superficie.
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Alcune brevi considerazioni sul (presunto) primato della politica
Sebastiano Isaia
Non bisogna certo essere degli incalliti “marxisti ortodossi” per capire che «a Bruxelles e altrove è la forza dell’economia che determina», in ultima analisi (ma sempre più spesso anche in “prima”), «il peso politico di un Paese», come ha scritto ad esempio Ferdinando Giugliano sul Financial Times del 4 luglio a proposito della partita Germania-Italia (o Merkel-Renzi). Partita che, beninteso, si gioca su un campo che non ha nulla a che vedere con i «valori europeisti» di cui ciancia il noto “rottamatore” in chiave politico-propagandistica. Ben altri valori sono in gioco, e quasi tutti si declinano in termini rigorosamente economici e sistemici – qui alludo all’organizzazione sociale capitalistica di un Paese colta nella sua totalità.
Detto di passata, è bastato che l’italico Premier dicesse qualcosa di “sovranista” agli odiati crucchi (le solite banalità sulla crescita che deve andare insieme alla stabilità, sullo sviluppo che deve «coniugarsi» con il rigore dei conti pubblici), che dal Paese si levasse un esilarante «Contrordine compagni e camerati: Renzi ha due palle così!» Da cameriere e lecchino della Cancelliera dal cospicuo fondoschiena (la quale con qualche maliziosa allusione chiama il leader toscano Mister 40 per cento), a grande statista capace di difendere i sacri interessi nazionali: il tutto nello spazio di alcuni nanosecondi – che non è l’unità di misura del tempo che scorre a casa Brunetta. Ovviamente il prossimo Contrordine! è dietro l’angolo, è sufficiente aspettare un paio d’ore, non di più.
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L’algoritmo del profitto
Comandare il lavoro al tempo del technical intellect
di Michele Cento
Grazie allo sviluppo tecnologico di sicuro non diventeremo tutti uguali, ma almeno saremo gentlemen di fronte al lavoro. Suonava grosso modo così una promessa annunciata con una certa autorevolezza ormai più di un secolo fa. Alle promesse di chi vorrebbe affidare all’evoluzione il nostro destino abbiamo imparato a non dare ascolto, tanto più quando quell’evoluzione oggi si presenta con il volto neutro dell’algoritmo. È quest’ultimo, infatti, la struttura portante di quelle che, all’alba della società post-industriale, Daniel Bell definiva intellectual technologies, il cui perfezionamento ha condotto oggi all’elaborazione di Computer Business Systems (CBS), software preposti alla gestione e all’organizzazione di imprese sempre più complesse, integrate e globali. Si tratta di strumentazioni adottate regolarmente da grandi aziende multinazionali, spesso introdotte da società esterne di consulenza come Accenture e Gartner, per procedere tanto a ristrutturazioni aziendali, quanto alla normale amministrazione della forza-lavoro in chiave iper-efficientista. Eppure, per quanto diffuso sia il loro utilizzo, finora non esistevano studi sull’argomento. Una lacuna che Simon Head ha provato a colmare andando direttamente alla fonte, studiando cioè i manuali rilasciati dalle aziende produttrici dei CBS (tra queste le più note sono IBM, Oracle, SAP): un materiale impervio e spesso inaffrontabile, scritto da specialisti per specialisti, in cui però, annota Head, si trovano informazioni che di norma vengono occultate al pubblico di habitués delle celebrazioni del progresso tecnologico.
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Una restaurazione del Califfato?
di Franco Cardini
Allegri, dunque: nuntio vobis gaudium magnum. Anche il mondo musulmano, dal 30 giugno scorso, ha il suo Principato di Seborga.
La notizia della "restaurazione del califfato" (o meglio, dell'instaurazione di un nuovo califfo) da parte dei cosiddetti mujahidin - vale a dire "impegnati in uno sforzo gradito a Dio" - dell'area di confine tra Siria e Iraq, quelli che di solito i media definiscono i "jihadisti" di un autoproclamato Islamic State in Iraq and Levant (ISIL), pubblicata il 30 giugno scorso, è stata rapidamente diffusa provocando commenti di ogni genere: nella stragrande maggioranza dei casi, ohimè, del tutto fuori luogo. L'ISIL, che a sottolineare il carattere universalistico della sua scelta ha contestualmente espunto dalla sua sigla statale le lettere I ed L che indicavano rispettivamente l'Iraq e il non troppo ben definito "Levante", è da oggi in poi nelle intenzioni dei suoi promotori e sostenitori soltanto IS, Islamic State: esso dovrebbe pertanto raccogliere tutti i fedeli musulmani del mondo e ricostituire l'umma, la comunità musulmana nel suo complesso. Il nuovo califfo porta il nome del primo califfo dell'islam, Abu Bakr, suocero del Profeta in quanto padre della di lui prediletta moglie A'isha: si tratta difatti di Abu Bakr al-Baghdadi, appunto leader dell'IS. Lo speaker dell'organizzazione, Abu Muhammad al-Adnani, ha sottolineato l'importanza di questo evento, che conferirebbe un volto nuovo all'Islam, e ha esortato i buoni fedeli ad accoglierlo respingendo la "democrazia" e gli altri pseudovalori che l'Occidente proclama.
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Cosa si dicono i padroni
Uno spaccato dell’economia italiana
Clash City Workers
Mentre dalle nostre parti, cioè dalle parti dei nostri, dei proletari, si cerca di tirare su due soldi per una vacanza, di mantenere il posto di lavoro a rischio, o ci si affanna a capire in cosa ci si dovrà buttare a settembre per non stare un altro anno con le mani in mano, i padroni italiani e i loro intellettuali sono in piena fibrillazione. Ogni giorno escono documenti di analisi di centri di ricerca, che vengono puntualmente “tradotti” in articoli, interventi politici, agende etc. È infatti appena iniziato il semestre di Presidenza italiana dell’Unione Europea, e si tratta di un’occasione ghiottissima per la borghesia italiana. Perché? Fondamentalmente, per due motivi.
Primo, verso l’esterno: questo semestre verrà utilizzato dal Governo per difendere con forza, attraverso la retorica della “crescita versus austerity”, gli interessi della borghesia italiana che, lo diciamo semplificando, essendo impossibilitata in questo momento a competere in termini di produttività, investimenti, etc. con le altre borghesie, ad esempio quella tedesca, ha bisogno di maggiore “flessibilità” sui patti europei, per poter far ripartire un po’ di domanda interna e dunque di produzione, di occupazione e quant’altro.
Secondo, verso l’interno: il semestre è una bella occasione per la borghesia italiana (e per il Governo Renzi che in questo momento riesce a interpretare gli interessi della sua quasi totalità) perché può essere usato come una leva, un ricatto, per paralizzare i possibili “oppositori” e portare a casa in tempi rapidi riforme significative, ovvero attacchi ai lavoratori, alle classi subalterne, alla loro possibilità di farsi sentire.
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Abbasso la scuola
Effetti perversi di un’utopia democratica
di Raffaele Alberto Ventura
«Quando un attività strumentale supera una certa soglia definita
dalla sua scala specifica, dapprima si rivolge contro il proprio scopo,
poi minaccia di distruggere l’intero corpo sociale.»
Ivan Illich, La convivialità (1973)
Il fondamento della democrazia
Se Gustave Flaubert tornasse in vita per scrivere un’edizione aggiornata del suo Dizionario dei luoghi comuni, sui principali argomenti potrebbe limitarsi alla semplice trascrizione di qualche documento ufficiale dell’ONU o dell’UNESCO. Nella fitta produzione letteraria di questi organismi transnazionali si articolano i dogmi della religione del nostro tempo in materia d’arte, cultura, politica e istruzione. Un distillato dell’ideologia che poi respiriamo nella propaganda istituzionale, nella comunicazione pubblicitaria e nella filosofia spicciola. Avendo già discusso della concezione dominante di Arte in un articolo del 2009 (raccolto nell’ebook Forza d’Arte) (Ventura 2014), per proseguire il lavoro di critica dell’ideologia intendo concentrarmi sulla questione dell’istruzione — scolastica e universitaria — usando anche in questo caso come pretesto le definizioni emanate dalle organizzazioni delle Nazioni Unite. In forma più sintetica e impulsiva, queste concezioni riaffiorano nei più suggestivi slogan di piazza che abbiamo letto in questi anni: «Senza cultura siamo solo spazzatura», «Chi taglia la scuola, cancella il futuro», eccetera.
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I veri obiettivi della politica sul lavoro di Renzi
di Andrea Fumagalli
Non passa giorno che il nuovo governo Renzi, forte del 40% ottenuto alle elezioni europee, non emani una declamatoria in nome della semplificazione e delle riforme (Costituzione, Giustizia, Tasse, Legge elettorale, ecc.). Finora alle parole non sono seguiti i fatti. Con un’eccezione significativa: il mercato del lavoro. In questo campo, l’attivismo del governo – bisogna riconoscerlo – è stato particolarmente vivace e la trasformazione del decreto Poletti in legge, come prima parte del Jobs Act, ne è la testimonianza. E’ quindi necessario analizzare dove questo attivismo vada a parare. E il quadro che si prospetta non promette nulla di buono per i precarie e le precarie (siano essi/e occupati/e in modo stabile, in modo atipico o disoccupati/e). Nulla di nuovo sotto il sole, anzi d’antico….
Il 1 luglio è iniziato il semestre europeo a guida italiana. Renzi debutta in Europa con la dote del 40% dei voti delle ultime elezioni europee. L’11 luglio avrebbe dovuto esserci l’importante summit sulla (dis)occupazione giovanile, che molto saggiamente, visto il clima di accoglienza … poco benevola che si stava preparando, è stato spostato in autunno in luogo e data da decidere ancora. A tale appuntamento, Renzi avrebbe voluto presentarsi con la sua ricetta, pardon, riforma salvifica. Ma a differenza delle chiacchiere che hanno accompagnato altre declamatorie di riforme, quella sul mercato del lavoro si preannuncia già in fase operativa. E gli effetti, purtroppo, non saranno indolori.
In un contributo di Gianni Giovannelli, siamo già entrati nel merito dei provvedimenti che il jobs act ha già introdotto nel mercato del lavoro italiano. A un mese di distanza e nel corso del dibattito sulla legge delega del legge Poletti, vogliamo cominciare a studiarne gli effetti e a definire la strategia che il governo di Renzi, targato PD, intende perseguire per la definitiva normalizzazione (leggi precarizzazione) del mercato del lavoro italiano
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Expo 2015 e la corruzione negli appalti pubblici
Tommaso Cerusici intervista Ivan Cicconi
In queste settimane è esploso lo scandalo per gli appalti di Expo 2015. Ci descrivi – dal tuo punto di vista – cosa sta succedendo nel mondo degli appalti, proprio a partire da questa ennesima vicenda di tangenti e corruzione che vede implicati politici, imprenditori e affaristi?
Il 17 aprile 2014 sono state pubblicate in Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea tre nuove direttive: le numero 23, 24 e 25, che vanno ad aggiornare le precedenti direttive europee sugli appalti pubblici; si tratta dell’aggiornamento delle regole del governo della spesa e degli investimenti pubblici. Stiamo parlando di un settore che riguarda circa il 25-30% del Pil europeo e, per quanto riguarda l’Italia, un valore che si aggira sui 300-350 miliardi di euro. Qualsiasi discorso che punti alla spending review, all’ottimizzazione della spesa e degli investimenti pubblici, non può prescindere dalle regole definite dall’ordinamento europeo con queste tre direttive. Il 25 maggio abbiamo votato: non c’è stato alcun partito politico e nessun candidato che abbia minimamente accennato a queste tre direttive europee.
Lo scandalo di Expo 2015 è il figlio di questa assoluta disattenzione rispetto alle regole che governano la spesa pubblica. Oltre a questo si somma anche la scarsa consapevolezza o – se si vuole – la totale ignoranza della classe dirigente del nostro Paese delle modifiche profonde, che sono intervenute in questi ultimi anni negli apparati produttivi, nel sistema politico dei partiti, nell’assetto organizzativo e istituzionale e nella gestione dell’amministrazione pubblica.
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Facciamo un referendum sul cancro?
Alberto Bagnai
Su Twitter intravedo tracce di un referendum non capisco bene se sull'austerità o sul Fiscal compact, che porrebbe non so bene quale quesito, con non si sa bene quale scopo. La democrazia diretta, per carità, è una bellissima cosa. L'uso che se ne fa ultimamente suscita qualche perplessità, ma non vorrei entrare in un campo che non è il mio. Quanto a questo referendum, i promotori, va da sé, sono illustri o meno illustri ma comunque ottimi colleghi, tutte brave persone, ovviamente, tutte bene intenzionate, si capisce, e, non occorre dirlo, tutte animate dal desiderio di fare qualcosa. Mi spingo oltre (senza chiedere il permesso): sono animati, gli illustri e meno illustri ma sempre ottimi colleghi, da qualcosa di più di un desiderio. Quello che li anima è la smania ideologica di fare qualcosa, il qualcosismo, l'ideologia velleitaria e perdente dalla quale questo blog si è distanziato fin dall'inizio, per due ben precisi motivi che occorre ricordare a chi è appena arrivato: il primo è che la cosa più importante da fare, ora come sempre, è capire, e per capire non occorre scrivere il proprio nome su una qualche lista, occorre viceversa leggere i tanti bravi autori che da decenni ci hanno avvertito del vicolo cieco nel quale ci stavamo mettendo. La seconda è che, per chissà quale motivo, capita che i fanatici del qualcosismo, ancorché tendano a vedersi e presentarsi come persone pure, animate dal nobile e disinteressato movente di fare qualcosa (“qualsiasi cosa!”) pur di “risolvere” la situazione, poi, quando vai a grattare, sotto sotto hanno sempre un interessante network di affiliazioni politicanti cui far riferimento, o hanno ambizioni politiche, sempre tutte legittime in quanto tali, ma non sempre molto condivisibili per il modo nel quale vengono portate avanti.
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Il cammino di una Europa da ri(costruire)*
di Riccardo Petrella
Breve premessa personale
E’ stata per me la prima volta che, in quasi cinquantanni di “militanza” civile e cittadina, ho partecipato ad una elezione politica, per di più come candidato. Una bella esperienza di vita. Non perchè tutto sia stato gradevole, corretto, senza delusioni, ma perchè per due mesi ho vissuto in uno stato di entusiasmo e di convinzione di partecipare ad un lavoro collettivo di grande rilievo l’obiettivo essendo quello di far rieleggere al Parlamento europeo (PE) (da cui erano stati cancellati nel 2009) dei rappresentanti della “sinistra italiana”. E cio’per “cambiare l’Europa”, per un’Altra Europa ! Non fa mica parte di ogni giorno il pensare di trovarsi impegnato in uno sforzo pubblico di trasformazione della società! Quest’esperienza è un privilegio raro, come lo è diventare membro del Parlamento europeo per rappresentare, insieme ad altri 750 eletti, un popolo di 509 milioni di persone! Non sono diventato europarlamentare. Direi una bugia se non riconoscessi che sono un po’ dispiaciuto. Sono pero’ contento di aver contribuito , con tante migliaia di altri militanti e simpatizzanti in Italia, al raggiungimento dell’obiettivo predetto. Per quanto piccola sia la sua pattuglia, la “sinistra italiana” è di nuovo rappresentata al PE. Si tratta ora di ripartire per un (lungo) cammino di trasformazione radicale dei processi d’integrazione europea.
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Lo stato delle cose in una nuvolosa estate
di Elisabetta Teghil
Le recenti elezioni per il parlamento europeo hanno confermato quello che già si sapeva, cioè che l’elettorato italiano è in larga misura di destra, con forti connotati anticomunisti. Infatti, la sinistra, intesa come M5S e Lista Tsipras, ha raccolto il 25% dei voti. Non è questa l’occasione per chiarire cosa intendiamo per sinistra e se gli uni e gli altri, Pentastellati e Lista, facciano parte a pieno titolo del panorama di sinistra, certo è che il Partito Democratico, così come gli altri partiti socialdemocratici in Europa, si è trasformato in destra moderna ed equivoci non ce ne sono , né all’andata, né al ritorno perché il loro programma politico è esplicito e chiaro e chi li sostiene li percepisce giustamente come tali.
Soffermandoci sull’Italia, ma il ragionamento si può estendere anche agli altri Paesi, il PD ha rinunciato ai connotati propri della cultura socialdemocratica riformista e gradualista per sposare la causa neoliberista che si è proposto di naturalizzare in Italia.
Il neoliberismo, penso che tutte/i conveniamo, è un attacco a tutto campo al mondo del lavoro, alle sue conquiste, traduce tutto in merce, smantella lo stato sociale… E’ un modello che è nato negli USA, testato in corpore vili nel Cile di Pinochet e passato in Europa attraverso l’Inghilterra.
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Non saranno i mercati finanziari a guarire l’economia reale
di Alfonso Gianni
Può anche darsi che si tratti di una coincidenza, ma sono in molti a dubitarne, a partire dagli stessi editorialisti del Sole24Ore. Sta di fatto che molti indicatori economici sembrano improvvisamente indicare, a un mese esatto dalle elezioni europee, prospettive più rosee. L’ipotesi più semplice, in fondo neppure troppo maliziosa, è che si voglia spargere ottimismo sulle possibilità che la crisi si stia esaurendo, proprio per contenere gli effetti di un diffuso euroscetticismo.
Ecco dunque affastellarsi una serie di dati che volgono al meglio. L’economia tedesca pare di nuovo riprendere energia, con conseguente vantaggio per i paesi che ormai fanno parte del suo specifico bacino economico e del suo sistema produttivo allargato, dalla Polonia, ai Paesi bassi, fino all’Austria. La Spagna ha sorpreso molti commentatori con una crescita nel primo trimestre del 2014 superiore a quella dei sei anni antecedenti. Persino la martoriata Grecia ha avuto successo nella collocazione di titoli di Stato. Anzi la domanda è stata sette volte superiore all’offerta. Anche il Portogallo è tornato con buoni risultati a finanziarsi sul mercato internazionale.
In Italia si suonano le trombe perché Fitch, dopo Moody’s, ha confermato il rating BBB+, ma con un outlook stabile. Si aspetta ora cosa dirà la terza sorella, Standard&Poor’s, ma il suo responso sul rating del nostro paese avverrà solo dopo la prova elettorale, il 6 giugno.
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Contrordine: la finanziarizzazione e la delocalizzazione sono cattive, si torna a casa
di Alessandro Farulli
Oops, ci siamo sbagliati. «La massiccia finanziarizzazione dell’economia, avvenuta negli anni ’90, aveva fatto pensare che non ci fosse più posto per il manifatturiero in un mondo caratterizzato dal predominio del terziario e dei servizi. Ma la storia economica dimostra oggi che solo ritornando alla fabbrica il Paese può ripartire». Con queste poche parole Anie, che si auto definisce una delle maggiori organizzazioni di categoria del sistema confindustriale per peso, dimensioni e rappresentatività, liquida una “sanguinosa” discussione trentennale che sarebbe niente, se solo non avesse trascinato con sé posti di lavoro, diritti dei lavoratori, capacità produttive e Pil nazionale come poco altro in precedenza.
Oops, ci siamo sbagliati – ma non ditelo alla Fiom – e ora vogliamo tanto tornare in Italia, come spiega Anie sempre in modo asettico: «Nell’ambito dei cambiamenti delle dinamiche manifatturiere, stiamo assistendo ad un fenomeno nuovo, noto come back reshoring, che consiste nel riportare in patria i siti produttivi precedentemente delocalizzati all’estero. Secondo recenti studi realizzati dal professor Fratocchi e dal suo gruppo di ricerca Uni-Club MoRe Back Reshoring, l’Italia è il secondo Paese nel mondo per rimpatri produttivi, alle spalle solo degli Stati Uniti e quindi primo in Europa». Perché? Alla domanda “quali sono gli interventi di politica industriale che il Governo dovrebbe approntare per favorire il ritorno del manifatturiero in Italia”, il 30% delle aziende intervistate ritiene che la priorità sia la riduzione del cuneo fiscale, più di un quarto di esse la semplificazione della burocrazia e il 18% del campione la detassazione degli utili in Ricerca&Sviluppo.
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Il potere destituente
Materiali e frammenti sparsi
Pierandrea Amato, Luca Salza
In una conferenza tenuta ad Atene il 16 novembre 2013 (ma non si tratta di un hapax) Giorgio Agamben, il filosofo dell’inoperosità, introduce, nella sua costellazione teorica, in maniera forse sorprendente, ma probabilmente necessaria, per uscire dall’angolo in cui si era chiuso con le stesse mani (in particolare, con i suoi ultimi lavori più ambiziosi, Altissima povertà e Opus dei, sembrava aver imboccato un vicolo cieco in cui appariva difficile intravedere un margine per l’azione), la nozione di potere destituente.
Per noi, è bene essere chiari, Agamben, per la sua capacità di tenere insieme Benjamin, Aristotele, Foucault, Heidegger, è un punto di riferimento ontologico. In effetti, la nozione di potere destituente, ben prima che Agamben la impiegasse esplicitamente, rintraccia nella grammatica della sacertà un terreno ontologico fertile nel quale radicarsi. Per questa ragione l’ultima posizione di Agamben ci stimola a tentare di presentare alcuni dei nostri materiali di lavoro che, da qualche anno, e con una certa, caparbia, disordinata sistematicità, accumuliamo intorno al tema del potere destituente.
Il potere destituente rappresenta, innanzitutto, un contraccolpo concettuale per registrare la condizione e la realtà delle forme della politica contemporanea che, riconoscendo la catastrofe cui siamo consegnati, rifiutano sia di lascarsi andare alla logica dell’amministrazione di condominio della politica del potere sia di rinchiudersi nella mera evocazione di un dover-essere fuori dal mondo.
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Fenomenologia della crisi e il pensiero di Marx
di Luigi Pandolfi
Sono sempre più persuaso che nel modo in cui si presenta l’attuale fase di sviluppo del capitalismo su scala globale, con le cicliche e perduranti crisi che l’accompagnano, alcune delle categorie e delle intuizioni marxiane possono rivelarsi ancora utili nella comprensione di fenomeni sociali ed economici complessi. Proprio la riscoperta del filosofo di Treviri in questo delicato frangente, segnato dalla crisi di un’economia in cui la componente finanziaria ha decisamente preso il sopravvento, dimostra come la necessità di una critica dell’esistente si accompagni sempre più a quella di riferimenti interpretativi forti, che aiutino la comprensione della realtà. La crisi della politica non è quella che generalmente ci raccontano, parlando di stipendi della casta o di altre cose simili: essa è data dall’incapacità della stessa di corrispondere alle sfide di questa modernità, dal suo essere degenerata in politicantismo. Non sto proponendo un ritorno al passato, né credo che certi modelli di ieri siano riproponibili oggi. Non penso nemmeno che la foto di Karl Marx debba essere di nuovo appesa sui muri delle sezioni e venerata come si trattasse di una divinità. No. Propongo solamente una riflessione sui dilemmi del tempo presente, avvalendomi, per quanto è possibile, di qualche strumento che per tanti anni ha aiutato la comprensione della realtà, tonificando per questo anche l’azione.
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TTIP, il grande mercato transatlantico
I potenti ridisegnano il mondo
di Serge Halimi
I negoziati relativi al Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (Ttip) fra gli Stati uniti e l’Unione europea conferma la determinazione dei liberisti a trasformare il mondo, ngaggiare dei tribunali al servizio degli azionisti , fare della segretezza una virtù progressista e consegnare la democrazia alle cure dei lobbisti.
…la loro inventiva è sfrenata. Prima dell’eventuale ratifica del trattato restano da superare diverse tappe. Ma la finalità commerciale del Ttip si accompagna a mire strategiche: isolare la Russia e contenere la Cina mentre queste due potenze si avvicinano l’una all’altra.
UN’AQUILA del libero scambio statunitense attraversa l’Atlantico per far strage di un gregge di agnelli europei mal protetti. L’immagine è dilagata nel dibattito pubblico sull’onda della campagna per le elezioni europee. È suggestiva ma politicamente pericolosa. Da un lato, non permette di capire che anche negli Stati uniti diverse collettività locali rischiano un domani di essere vittime di nuove norme liberiste le quali impedirebbero loro di proteggere lavoro, ambiente e salute. D’altro canto, fa distogliere lo sguardo dalle imprese europee – francesi come Veolia, tedesche come Siemens – che esattamente come le loro colleghe statunitensi sono determinate a far causa agli Stati che osano minacciare i loro profitti (si legga l’articolo di Benoît Bréville et Martine Bulard, pagine 14 e 15). E infine, trascura il ruolo delle istituzioni e dei governo del Vecchio continente nella formazione di una zona di libero scambio sul proprio territorio.
Dunque, l’impegno contro il Ttip non deve prendere di mira uno Stato specifico, nemmeno gli Stati uniti. La posta in gioco è al tempo stesso più ampia e più ambiziosa: riguarda i nuovi privilegi rivendicati dagli investitori di tutti i paesi, magari come risarcimento per una crisi economica che essi stessi hanno provocato. Una lotta di questo tipo, portata avanti efficacemente, potrebbe consolidare solidarietà democratiche internazionali che oggi sono in ritardo rispetto a quelle esistenti fra le forze del capitale.
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Il capitale secondo Thomas Piketty
di Marco Codebo
"Le differenze sociali non possono fondarsi che sull'utilità comune": è con questa citazione dalla Dichiarazione dei diritti del 1789 che Thomas Piketty inizia Le capital au XXIe siècle (Seuil, 2013), il suo studio sugli ultimi due secoli e mezzo di disuguaglianza sociale. Nel corpo dell'opera lo spirito illuminista dell'incipit è confermato dalla volontà dell'autore di rintracciare un filo razionale all'interno della storia economica, dal rigore con cui costringe sempre l'analisi a misurarsi col dato statistico e soprattutto dalla tensione divulgativa che impone al libro, nella convinzione che condividere il sapere generi una cura più attenta del bene comune.
L'ultimo punto si traduce nell'impianto narrativo che sorregge il testo. Le capital au XXIe siècle fornisce al lettore un'imponente quantità di informazioni (provenienti quasi tutte dai paesi ricchi dell'Occidente, soprattutto Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti), senza però schiacciarlo sotto il peso di una scienza arida e lontana: ci riesce perché il libro è strutturato come un racconto, con una voce narrante, quella paziente ed esplicativa dell'autore, un protagonista, la disuguaglianza, ed una trama che si snoda lungo il filo degli anni che ci separano dalla rivoluzione industriale.
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Keynes o Marx?
di Moreno Pasquinelli
L’attuale crisi sistemica del capitalismo occidentale sta mandando in pezzi la scuola monetarista di Milton Friedmann e con essa l’ortodossia liberista e i suoi due massimi assiomi. Il primo è di natura squisitamente filosofica e consiste in questo: ogni uomo, perseguendo egoisticamente la propria felicità contribuirebbe a realizzare quella di tutti. Il secondo, di carattere economico, considera il mercato il sistema che meglio di ogni altro contribuisce alla ricchezza generale e alla sua equa distribuzione. Ci si poteva attendere che una crisi di tale portata avrebbe rinvigorito spinte anticapitalistiche di massa e riportato velocemente in auge l’ideale del socialismo. Non è stato così. Troppo fresche le devastanti ferite subite dal movimento rivoluzionario a causa del crollo, catastrofico quanto inglorioso, del “socialismo reale”, troppo profondo il processo di imborghesimento sociale e coscienziale del proletariato occidentale maturato negli ultimi decenni. Questo contesto spiega perché il pensiero di Carlo Marx, il principale studioso del capitalismo e delle sue contraddizioni, nonché il principale assertore della necessità e fattibilità del suo superamento, lungi dal risorgere, resti confinato nell’oblio, con lo sconsolante effetto collaterale per cui gli stessi intellettuali di sinistra, tranne rare eccezioni, quasi si vergognino di dichiararsi marxisti.
Assistiamo, di converso, ad una prepotente rinascita del pensiero economico di J. M. Keynes a tal punto che è possibile affermare che la maggior parte degli economisti (di quelli seri, non per forza di quelli che usufruiscono di una cattedra in qualche blasonata università) si considera keynesiana.
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La democrazia stremata dei post moderni
di Graziella Priulla
Un Paese che distrugge la sua scuola non lo fa mai solo per i soldi, perché le risorse mancano, o i costi sono eccessivi. Un Paese che demolisce la sua istruzione è già governato da quelli che dalla diffusione del sapere hanno solo da perdere.
(Italo Calvino)
Il bilancio politico del 2013 non può essere che impietoso. Il panorama è liquido, si è addirittura liquefatto, coerente con la nuova forma che ha assunto il capitalismo – “disorganizzato”, asimmetrico, globale, neoliberista.
Forme fluide dagli esiti crudeli. Modelli privatistici che invadono i comportamenti pubblici. Governi indecisi a tutto che abdicano al ruolo di indirizzo e di regolazione della politica, rinunciano a redistribuire benessere se non nelle briciole, si limitano ad assecondare i cacciatori di rendite, tenendoli al riparo da un minimo di concorrenza e lontani da ogni accettabile idea di merito. E i popoli si ritrovano impoveriti e stremati, disillusi e incattiviti.
A causa di seri deficit nelle rispettive culture politiche, destra e sinistra paiono diventate parole obsolete, detestate, e con loro i partiti; l’epoca moderna pare finita e viene accantonata, liquidata con poche sprezzanti battute; il linguaggio politico è cambiato e con lui il pensiero. La democrazia rappresentativa è ormai affetta da un surplus di potere dei gruppi di interesse che hanno cooptato partiti, sindacati, associazioni, trasformandoli in strutture oligarchiche volte alla riproduzione del consenso, piegandoli a sequenze infinite di compromessi al ribasso. Appare particolarmente felice la definizione di “postdemocrazia” coniata da Colin Crouch.
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Sui paradossi della critica esterna*
Marcuse, i bisogni indotti e i desideri di massa
Marco Solinas
Per una critica della critica esterna
Insistere con determinazione sulla critica immanente del capitalismo contemporaneo al fine di mettere in luce le dinamiche per le quali il continuo differimento o la reiterata negazione del soddisfacimento di desideri, aspettative e bisogni divenuti ormai di massa, riconducibile negli ultimi anni ad una serie di peculiari meccanismi socioeconomici imposti su larga scala dall’ordine neoliberista, contribuisce in modo sempre più significativo, insieme ad una molteplicità di altri fattori, ad acuire la sofferenza psicosociale che impregna le società occidentali avanzate. Nel momento stesso in cui il nuovo ordine promette godimento e felicità futuri, procede difatti nel contempo alla sistematica e capillare demolizione delle precondizioni perché li si possa effettivamente raggiungere, addossando sincronicamente ai singoli individui la responsabilità di tale processo di infinito ed estenuante differimento ricattatorio dell’appagamento. Pressione costante alla responsabilizzazione e personalizzazione esasperata dall’ormai affermatasi configurazione culturale e normativa volta a legittimare e giustificare i dispositivi del nuovo ordine. E pressione che contribuisce ad alimentare una serie di reazioni di taglio depressivo e regressivo che cooperano, sul piano psicosociale, all’inibizione e all’annichilimento dei potenziali normativi emancipatori immanenti alla suddetta sofferenza.
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Dove vola l’avvoltoio
di Lanfranco Binni
C’è qualcosa di serio in quanto sta accadendo in questo paese dietro il polverone “riformistico” sollevato a uso domestico dal piazzista di Pontassieve, ed è l’asservimento italico all’accordo segreto euro-americano del Ttip, il Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti.
L’offensiva liberista internazionale scatenata nel 2008 contro la spesa pubblica e i programmi sociali degli Stati nazionali è in fase di accelerazione. «La posta in gioco» – scrive Serge Halimi nel numero di giugno di «Le Monde diplomatique» – «è al tempo stesso piú ampia e piú ambiziosa: riguarda i nuovi privilegi rivendicati dagli investitori di tutti i paesi, magari come risarcimento per una crisi economica che essi stessi hanno provocato». E riguarda l’assetto geopolitico del mondo, da ridisegnare al servizio delle multinazionali. La risposta alla crisi finanziaria del 2008 è l’accelerazione delle dinamiche che l’hanno determinata, e il Partenariato transatlantico euro-americano ne costituisce lo strumento “legale”, il timone delle politiche statuali sulla base di un nuovo diritto internazionale da imporre con le armi di ogni genere e su qualunque terreno. Con l’obiettivo strategico dell’internazionalizzazione del «libero mercato», in concorrenza diretta con la Cina e con il nuovo asse Mosca-Pechino che si va delineando. Il recente viaggio di Renzi in Vietnam, in un momento di tensione tra Vietnam e Cina per ragioni territoriali (ed energetiche), rientra in questo quadro in movimento.
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A proposito di Marx & Keynes. Un romanzo economico
di Davide Gallo Lassere
I romanzi “economici”, nel campo della letteratura, non sono molto frequenti. “Marx&Keynes. Un romanzo economico” di Pierangelo Dacrema (Professore Ordinario di Economia degli Intermediari Finanziari, Università della. Calabria, non nuovo nel trattare questi temi sino a postulare la morte del denaro, obiettivo decisamente eccessivo) rappresenta un’eccezione. Il tema è quello della moneta, uno degli argomenti che più stiamo trattando su queste pagine. Ecco la recensione ragionata di Davide Gallo Lassere
Karl Heinrich Marx e John Maynard Keynes, catapultati per incanto nella primavera del 2015. Pienamente edotti sulle vicende mondiali avvenute dopo il loro decesso. Marx lettore di Keynes, che analizza e commenta la General Theory; Keynes lettore di Marx, che disamina e considera Das Kapital. Entrambi che si confrontano apertamente sulle rispettive teorie alla luce degli accadimenti più recenti, mettendo a nudo gli aspetti più intimi delle lorodivergenti personalità e sensibilità. Un romanzo biografico ed economico estremamente affascinante, che si svolge tra i caffè parigini e gli incroci newyorkesi, passando per i parchi di Londra, le strade, così diverse, di Washington e Dublino, fino ad approdare sulle coste gallesi, in cui i passaggi tra i vari luoghi, sovraccarichi di riferimenti storici e simbolici, scandiscono la progressiva presa di coscienza dei meriti e dei limiti delle proprie opere.Un modo appassionante per esplorare in maniera accessibile due tra le vite e le avventure intellettuali più straordinarie degli ultimi secoli.
Il romanzo di Dacrema si intreccia attorno a un percorso di graduale maturazione da parte dei personaggi, i quali finiscono per ritrattare – in maniera a volte eccessivamente azzardata (cfr. p. 156 e ss.) – alcuni punti fondamentali del loro lascito teorico e politico al fine di mettere finalmente a fuoco un elemento troppo spesso sottovalutato o non pienamente compreso nei loro precedenti sforzi: la moneta.
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"La fine dell'euro avverrà nel caos più totale per l'accanimento ideologico della classe politica"
"L'élite al potere oggi è più rappresentativa dell'epoca feudale che della modernità"
Alessandro Bianchi intervista Brigitte Granville
Con le elezioni europee del 25 maggio scorso, le popolazioni hanno inviato un messaggio chiaro a Bruxelles: gli europei non sono più disposti a rinunciare ulteriormente a quote della loro sovranità e vogliono rinegoziare le concessioni fatte in passato. La nuova Commissione e il nuovo Parlamento europeo ascolteranno questa volontà di cambiamento?
Certamente no, il loro comportamento sarà tale da rendere inutile il voto dato agli anti-euro, i quali costruiranno una minoranza che sarà ignorata completamente. In funzione del mandato democratico, l'élite politica considera che nulla è cambiato e che, proprio per questo, ha tutto il diritto di continuare ad agire come se nulla fosse accaduto.
La propaganda pre-elettorale dei governi al potere e di Bruxelles ha voluto rassicurarci sulla situazione economica attuale della zona euro, anche se le economie italiane di Italia, Olanda e Portogallo sono tornate a contrarsi e la Francia è in una situazione di stagnazione.
Inoltre, l'area monetaria è in una situazione di inflazione molto bassa – deflazione per diversi paesi – che rende sempre meno sostenibile la traiettoria debito/Pil di diversi paesi. In un tale contesto, ritiene che la zona euro rischia una nuova crisi che potrebbe rimettere in discussione gli strumenti creati o davvero « il peggio è dietro di noi » come ci hanno detto?
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Produzione di austerità a mezzo di austerità
Sergio Cesaratto
Che l'austerità fosse un circolo vizioso l'abbiamo detto dal 2010. Ora è dominio quasi comune. Forse per questo ora scriviamo di meno. Allora eravamo in pochi a denunciarlo. In un ottimo articolo Boitani e Landi riprendono quanto già denunziato in un articolo di Fantacone et al. che i metodi di calcolo europei delle violazioni dei vincoli di bilancio sono tali per cui l'austerità ti allontana dal rispetto dei parametri giustificando la richiesta di ulteriore austerità. Se Renzi o Padoan fossero persone politicamente serie contesterebbero questa roba, rimuovendo i funzionari italiani incapaci di denunciarle. Ma naturalmente la scelta è politica, e ci si deve credere, e avere l'intelligenza per crederci. Padoan l'avrebbe, in astratto, ma si sa, la poltrona è la poltrona (ma forse lo sopravvaluto).
Data la pigrizia a scrivere (ma sto preparando un paper su l'MMT, e assolutamente simpatetico almeno nei riguardi del punto discusso) riporto qui uno scambio di e mail che ho avuto con Lanfranco Turci, Giancarlo Bergamini e l'ottima Antonella Palumbo (UniRoma3), allieva di Garegnani, naturalmente.
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