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Tra 1 abito e 10 braccia di tela: il problema dell'equivalenza
di Frank Grohmann
«È questo ciò di cui si tratta, ed è questo che voglio proporre oggi alla fine di questa lezione: gli è che la Metonimia, a rigor di logica, costituisce quel luogo dove noi dobbiamo posizionare qualcosa che è primordiale, e questo qualcosa è talmente primordiale ed essenziale nel linguaggio umano al punto che noi, qui, al contrario, lo assumiamo secondo la dimensione del senso. Voglio dire che, partendo dalla diversità di questi oggetti - che sono già costituiti a partire dal linguaggio, e in cui viene introdotto il campo magnetico del bisogno di ciascuno, con le sue contraddizioni - la risposta che ho introdotto precedentemente a questo qualcos'altro, che forse qui potrebbe sembrare paradossale, è stata quella della dimensione del valore.
E questa dimensione del valore, è per l'appunto qualcosa che possiede una sua dimensione di senso in relazione a esso. Si pone e si impone in quanto essere in contrasto, a partire dal fatto che si tratta di un altro versante, di un altro registro. Se qualcuno di voi ha abbastanza familiarità; non dico con tutto il Capitale - chi ha letto il Capitale! - ma con il primo libro del Capitale, che in generale hanno letto tutti, vi chiederei di andare alla pagina in cui Marx, nel formulare quella che, in una nota, viene chiamata la teoria della forma particolare del valore della merce, appare come un precursore della fase dello specchio. In questa pagina [N.d.T.: sulla forma di equivalenza del valore della merce] - in questo suo prodigioso primo libro, che ce lo mostra, cosa rara, nelle vesti di uno che tiene un discorso filosofico articolato - Marx fa questa osservazione eccessiva e sovrabbondante, egli fa la seguente considerazione: che prima di intraprendere qualsiasi tipo di studio delle relazioni quantitative di valore, come prima cosa è necessario presupporre che non può essere stabilito nulla, se non sotto forma dell'istituzione di una specie di equivalenza fondamentale che non si riferisce semplicemente ai tanti tessuti uguali, ma alla metà del numero degli abiti; cioè, esiste già qualcosa che va strutturato nell'equivalenza tela-vestito - vale a dire che gli abiti possono rappresentare il valore della tela, nel senso che essa non è, come un abito, qualcosa che può essere indossato; e che all'inizio dell'analisi c'è qualcosa per cui l'abito può diventare il significante del valore della tela.
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Pòlemos, padre di tutte le cose, 2/5. Lukács e Bloch nella grande guerra
di Antonino Infranca
La Prima Guerra Mondiale divise fisicamente Bloch e Lukács in forma definitiva, non torneranno ad incontrarsi mai più. Essi avevano dato vita a una vera e propria simbiosi intellettuale, alla maniera di Schelling e Hegel o Croce e Gentile. Da questa distanza fisica, poi comincerà anche una distanza ideologica, fino al momento del confronto critico nel 1935, venti anni dopo. Torneranno a scriversi soltanto dopo la Seconda guerra mondiale.
Come è noto entrambi furono profondamente avversi alla guerra, al punto che Bloch per evitare la chiamata alle armi si rifugiò in Svizzera e vi rimase per tutta la durata della guerra. Le motivazioni che spinsero Bloch all’esilio sono nel suo pacifismo. Lukács, invece, aveva motivazioni di ordine più strettamente politico:
A proposito della guerra non posso proprio dire altro che io fin dal primo istante fui contro. La mia posizione era allora più o meno che le armate tedesche e austriache avrebbero forse battuto i russi, e allora i Romanov sarebbero caduti. Fin li, tutto bene. Poteva anche darsi che l’esercito tedesco e quello austriaco venissero battuti dall’esercito anglo-francese e che sarebbero caduti anche gli Asburgo e gli Hohenzollern. Pure questo andava bene. Ma poi chi ci avrebbe difeso dalla democrazia occidentale? Qui si può vedere come la mia avversione per il positivismo aveva anche motivi politici[1].
Lukács rifiuta la guerra ma non sa cosa proporre in sostituzione delle sue conseguenze, perché egli intuisce che questa è una nuova forma di guerra, è una guerra universale, che avrà conseguenze universali. Si ritrova in quella che Hegel chiamò la “mera negatività”. Gli era chiaro che la guerra era una forma di dipendenza della monarchia asburgica e con essa della società civile ungherese rispetto al Reich tedesco e alle sue mire di espansionismo imperiale in Europa.
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La buona morale non ci salverà
di Giulio Calella
La scrittura «engagé», dai social network alla letteratura, adotta un linguaggio sempre più individualizzante e rivolto a rassicurare la propria «bolla». Occorre invece un vocabolario in grado «dov'era l'io di fare il noi»
Nel tempo della fine delle grandi narrazioni, il vocabolario consolidato su cui si è retto per decenni il movimento operaio si è diradato perdendo credibilità. Si tratta di un fenomeno epocale di lunga durata, iniziato almeno negli anni Ottanta del Novecento, frutto della sconfitta dei movimenti e dell’alternativa politica al capitalismo: l’epoca neoliberista ha pian piano espropriato i linguaggi degli espropriati, in un processo che ha subito un’accelerazione profonda negli ultimi quindici anni. Molte delle recenti esplosioni sociali – dai Gilet Gialli alle varie e diversificate mobilitazioni dallo stile populista – hanno mostrato caratteristiche «spurie», spesso si sono autodefinite «né di destra né di sinistra», diventando difficili da identificare in modo univoco proprio perché prive dei linguaggi e della memoria storica dei movimenti e delle tradizioni politiche.
In presenza di un ritorno dell’attivismo, seppur prevalentemente giocato sui social network, questa discontinuità discorsiva potrebbe anche essere un’opportunità di liberarsi di alcuni schemi precostituiti, ma non sembra al momento emergere un nuovo vocabolario efficace.
L’iper-politica degli influencer
Anton Jäger su Jacobin ha definito l’attuale come una fase di passaggio «dalla post-politica all’iper-politica». Ossia, le organizzazioni sociali e politiche continuano a essere impantanate nella crisi profonda iniziata più di trent’anni fa ma assistiamo a improvvise seppur poco durature esplosioni sociali di massa – basti pensare alle proteste di Black Lives Matter dopo l’uccisione di George Floyd – e a un profluvio di contenuti politici veicolati individualmente sui vari social network.
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Per una filosofia della geopolitica
di Pasquale Noschese
Che il prestigio della geopolitica sia in rapida ascesa, è possibile constatarlo con disarmante facilità: basterebbe guardare le ultime centinaia di ore di trasmissioni televisive. Rimonta che è innanzitutto lessicale, un aspetto non proprio secondario, in quanto non possiamo pensiero oltre i confini del nostro vocabolario (citofonare ad Heidegger per un’autorevole conferma). Si tratta, peraltro, di un rarissimo caso di una “moda” terminologica che non riguardi un anglismo. Un’effervescenza culturale strettamente congiunturale o la premessa di un cambiamento reale nella nostra cultura? Per abbozzare una prima risposta di un dibattito curiosamente silenzioso, è di certo utile guardare alle necessità strutturali che si faranno incontro alla nostra collettività, e che probabilmente già costituiscono le cause remote del revival della geopolitica.
La Storia non ha fatto in tempo a finire che subito è nata la frenesia di inaugurarne il ritorno. Il 2001, il 2003, il 2008, il 2011, il 2014, il 2020 e adesso il 2022. Principali indiziati: il terrorismo, la Cina, Putin, occasionalmente il Covid. Questi annunci, per quanto ispirati dalla buona fede di svegliare l’Italia o l’Europa dal sonno dogmatico della postmodernità, sono imprecisi nel voler trovare un evento, pure simbolico, che in virtù della sua forza intrinseca riesca a folgorarci col ricordo della storia. Nessun evento (nessun “oggetto” in generale) è così gentile da regalare un’interpretazione univoca di sé: è un pregiudizio realista quello di far fede su una fantomatica evidenza epistemologica dei fatti, tanto più se si parla di avvenimenti storici. Il dramma è che abbiamo perso la capacità di conferire senso storico (e quindi strategico) agli eventi, abbiamo perso il sentimento della Storia.
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La parabola dell’economia politica
III. Marx, la trasformazione del plusvalore in profitto, interesse e rendita
di Ascanio Bernardeschi
I capitalisti commisurano il plusvalore estratto non al solo capitale variabile, ma a tutto il capitale: in tal modo il plusvalore si trasforma in profitto. Avvicinandoci alla complessità del reale e alla concorrenza fra diversi capitali si vede che il plusvalore viene ripartito fra i capitalisti di tutti i comparti, produttivi e improduttivi, in ragione all’incirca proporzionale al capitale anticipato. I prezzi che ne scaturiscono differiscono dai valori, ma è la legge del valore a determinarli con le opportune mediazioni. Qui la parte I, qui la parte II
La trasformazione del plusvalore in profitto, del saggio del plusvalore in saggio del profitto e dei valori in prezzi di produzione
Dal punto di vista dei capitalisti il risultato economico, che sappiamo scaturire dal solo plusvalore, corrispondente al lavoro non pagato, deve essere valutato in rapporto all’intero capitale anticipato e non al solo capitale variabile. Lo scopo del capitale è la sua autovalorizzazione, e la si misura confrontandola con tutto il capitale. Diviene perciò, da quel punto di vista del capitale, cruciale il saggio di incremento del capitale, ΔD/D. Il plusvalore, in quanto rapportato all’intero capitale prende così la forma di profitto e l’efficienza delle imprese è misurata dal saggio del profitto, cioè il rapporto fra i profitti realizzati e tutto il capitale anticipato. Tale rapporto è espresso dalla seguente relazione
r=pv/(c+v) (1)
dove r è il saggio del profitto, c il capitale costante, v il capitale variabile, e il profitto in questa fase dell’analisi viene identificato con il plusvalore, pv. Questa relazione produce l’illusione che tutto il capitale, e non solo la forza-lavoro, contribuisca a produrre profitti.
Essendo questa la misura del rendimento di un capitale, i capitalisti cercheranno di investire i loro capitali nei settori che consentono di realizzare il maggiore saggio del profitto, che comporta, a parità di valore del capitale anticipato, anche maggiori profitti assoluti. Questa tendenza fa sì che accresca la competizione fra i capitali allocati nei settori maggiormente profittevoli, con un conseguente aumento dell’offerta di prodotti di quei settori, determinando una tendenza alla diminuzione dei valori di mercato dei rispettivi prodotti e quindi dei corrispondenti profitti e un aumento in quelli dove invece la competizione va diminuendo.
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Il conflitto in Ucraina e gli oligarchi statunitensi
di Federico Fioranelli*
Riceviamo da Fosco Giannini, direttore di Cumpanis, e con grande piacere rilanciamo...
Solamente la mancanza di adeguati strumenti interpretativi o una lettura superficiale della realtà possono portare a credere alla versione che ci viene fornita dai principali canali di informazione del nostro Paese e a non capire che il conflitto in Ucraina affonda le proprie radici nell’economia di guerra permanente degli Stati Uniti e nella natura oligarchica del capitalismo statunitense.
Gli Stati Uniti hanno un sistema di capitalismo che è possibile definire “oligopolistico”. Esso è un sistema che non rispetta i principi della concorrenza perfetta e che poggia sulle corporation, vale a dire sulle grandi e grandissime imprese.
Dato che le grandi corporation sono in grado di imporre il prezzo di vendita dei loro prodotti, negli Stati Uniti i prezzi tendono ad essere più rigidi verso il basso che verso l’alto e il soprappiù economico, cioè la differenza tra ciò che la società produce e i costi necessari per produrlo, tende ad aumentare nel tempo sia in cifra assoluta sia come quota della produzione complessiva.
Tuttavia è evidente che, pur avendo la tendenza a generare quantità sempre maggiori di sovrappiù economico, un sistema di capitalismo oligopolistico non riesce sempre a creare gli sbocchi di consumo e d’investimento necessari per assorbirli. Ne consegue che un sistema di questo tipo sia caratterizzato da crisi e dalla tendenza a cadere nella stagnazione. Infatti, il mancato assorbimento del sovrappiù economico crea un vuoto di domanda che rende potenziali e non reali i profitti, genera perdita di reddito e impedisce la piena utilizzazione del lavoro e degli impianti produttivi.
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Ucraina, 2022: la fine dell’Europa e della globalizzazione
di Pier Giorgio Ardeni
Voci sparse emergono dall’assordante barrage bellicista a reclamare la pace, il “cessate il fuoco”. Nell’imperiosa richiesta di prendere parte pare di dover fare ammenda, ricordarci che, sì, siamo figli di partigiani che “non avrebbero mai accettato di arrendersi, nemmeno al prezzo della loro vita”. Perché “ora la guerra è qui, nel cuore dell’Europa”, non in qualche remoto angolo di mondo dove si ammazzano con cannoni made in Italy, perché è una guerra “a difesa della democrazia” e, quindi, “dobbiamo fare qualcosa, non possiamo stare con le mani in mano e assistere al massacro”.
Ma il mondo occidentale, ce lo ricorda Slavoj Žižek, “stands for nothing”, si batte per il niente che nemmeno la sua ipocrisia sa nascondere. Fingendo di non sapere che la “lumpen-borghesia” che è emersa nelle ex-repubbliche sovietiche – in Russia come in Ucraina – controlla i capitali grazie alle privatizzazioni dei beni statali, ottenuti perlopiù da ex-gerarchi del partito dopo il crollo e grazie alla terapia-shock del passaggio all’economia di mercato. Da noi voluta e sulla quale anche noi abbiamo lucrato (ma il mercato non è “morale”, no?).
In tutti questi anni abbiamo fatto lauti affari con quelli, da una parte e dall’altra del lungo confine russo-ucraino sulle pianure sarmatiche. Ci abbiamo comprato non solo gas e petrolio, ma grani e fertilizzanti. L’Ucraina è un paese che dopo lo smembramento dell’Urss ha perso un quarto della popolazione, con un reddito medio che è un quarto di quello UE, popolato secondo linee di demarcazione storiche: nelle province (oblast) orientali, a maggioranza russa e russofona, in quelle occidentali con grosse minoranze polacche o rumene.
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La lotta di classe nell’epoca della finanza moderna
di Antonio Pagliarone1
Introduzione al volume La lotta di classe nell'epoca della finanza moderna, Asterios editore, Trieste 2022
La pubblicazione di questi articoli, come COVID-19 e la catastrofe del debito delle corporation in arrivo di Joseph Baines e Sandy Brian Hager, La lotta di classe nell’epoca della finanza moderna di Julius Krein un commentatore che pubblica regolarmente su America Affair, è utile per introdurre nel dibattito una immagine del capitalismo moderno degli Stati Uniti che non viene assolutamente presa in considerazione dalla stragrande maggioranza degli osservatori del vecchio continente anche da quelli ritenuti più affidabili. Sin dai primi anni del nuovo millennio sono stati fatti dei tentativi per stimolare una riflessione su quella che a suo tempo alcuni di noi, pochissimi in effetti, definivano la “finanza speculativa”. Uno dei primi studiosi che hanno analizzato la dinamica dello Speculative Capital fu Nasser Saber, che pubblicò nel 1993 con questo titolo il primo di una serie di volumi per le edizioni Financial Times Management. Naturalmente non esiste alcuna traduzione dall’inglese dei suoi lavori ma essi si rivelarono utilissimi per poter approfondire in maniera empirica la trasformazione del capitalismo verificatasi in maniera intensiva dopo il 20011 2, anno che rappresenta lo spartiacque tra due ere: quella del capitalismo classico e quella del capitale speculativo che ha prodotto i suoi guai peggiori con la Great Recession del 2007-2008 dalla quale a quanto pare non riusciamo assolutamente ad uscirne. Krein presenta un quadro della cosiddetta “finanziarizzazione” che risulta interessante nelle sue caratteristiche generali, ma i presupposti avanzati per spiegare la dinamica della finanza speculativa non sono così precisi anche se il risultato d’insieme è efficace.
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Masse postmoderne. Considerazioni su feticismo e dispotismo nel tempo dell’estetizzazione amministrata
di Marco Gatto*
1. Agglomerati transitori e identificazioni attimali
Di fronte alle recenti immagini dell’assalto alla sede romana della Cgil dello scorso 9 ottobre, ci siamo chiesti in quale misura l’evidente partecipazione di organizzazioni neofasciste avesse incontrato la protesta di corpi sociali meno smaccatamente politicizzati e più direttamente legati, in quel frangente, alla contestazione per le politiche di emergenza sanitaria adottate dal governo (green pass in testa). Abbiamo riflettuto, di fronte a quelle stesse immagini, sul peso specifico di alcune figure tribunizie, colte dai media nell’atto di incitare i presenti o, come si direbbe con lessico giornalistico, di aizzare la folla. Ed è stata dai più condivisa, probabilmente, la sensazione di trovarsi di fronte a retori casuali, finanche folcloristici, a pose tanto prevedibili quanto consumate, a un gioco di ruoli persino meccanico e tuttavia capace di scatenare una furia distruttiva simbolicamente orientata. Così come a non pochi dev’essere sfuggito il profilo fin troppo vario di quella folla, la cui costituzione sembrava caratterizzata da un’aperta provvisorietà degli attori partecipanti. Quasi che a vestire i panni dell’aggressore potesse essere, in fondo, chiunque e che la violenza risultasse come il naturale compimento di un modo d’esserci, come un tentativo di partecipare all’atto, di manifestare in quel momento – e solo in quel momento – la propria presenza. Che ad essere colpita sia stata la sede del maggior sindacato italiano dei lavoratori, è un dato di fatto incontrovertibile e nello stesso tempo carico di significati, che deve essere compreso insistendo su un’altra constatazione, relativa al carattere estremamente spurio e ibrido di quel chiunque.
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Il congelamento di agosto
di Pierluigi Fagan
Raccolgo qui una serie di informazioni, articoli, opinioni lette in questi giorni sulla stampa internazionale, per tentare la risposta alla domanda su quanto manchi alla fine del conflitto russo-ucraino. Sviluppiamo il ragionamento in forma ovviamente ipotetica, sebbene riteniamo di aver solide ragioni che limitano il campo delle ipotesi. E la risposta alla domanda è simile a quella data, se ben ricordo, poco tempo fa da un generale ucraino ed altri analisti che indicava agosto come termine dello scontro armato. Perché?
Chiariamo innanzitutto che con “termine del conflitto” intendiamo non la pace, ma la sospensione delle operazioni sul campo, quello che chiamano “congelamento del conflitto”, il conflitto rimane, diventa diplomatico o prende altre forme politiche ed economiche e perde quelle militari. Agosto è la stima del tempo che i russi potrebbero impiegare per prendere territorio dell’est fino ai confini amministrativi pieni dei due oblast del Donbass. Quasi raggiunto l’obiettivo per il Lugansk, manca ancora un bel po’ per il Donestsk. A quel punto, i russi potrebbero vantare appunto tutto il Donbass, la striscia sud fino all’antistante di terra della Crimea, il Mar d’Azov trasformato in un lago russo, la Crimea che già avevano annessa, il blocco navale completo nell’antistante Odessa, Kherson, la centrale di Zaporizhzhia (la più grande d’Europa) e altri annessi.
I russi avevano dato gli obiettivi dell’operazione militare speciale già il 7 marzo in una intervista Reuters a Peskov e da allora sono stati ribaditi ogni volta che ne hanno avuto occasione. Che fossero i veri obiettivi o gli obiettivi di minima qui non ci interessa, ci interessa fossero la versione ufficiale perché è rispetto a questa che il Cremlino chiederà alla propria opinione pubblica e quella internazionale, di esser giudicato.
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Preparativi di un nuovo mondo: circa la “trasformazione strutturale” dell’economia Russa
di Alessandro Visalli
Giovanni Arrighi descrive la svolta degli anni ottanta che produsse il ridisciplinamento dei lavoratori occidentali (il cui reddito reale è da allora stagnante[1]) come ultimo effetto di una lunga catena di cause e conseguenze il cui punto focale è la decolonizzazione. La svolta i cui alfieri furono Ronald Reagan negli Stati Uniti e Margareth Thatcher in Gran Bretagna è quindi letta nel contesto della lotta egemonica tra Est ed Ovest. La crisi dei profitti e della competitività delle merci occidentali, attivata dal cambiamento delle ragioni di scambio, in particolare di alcuni prodotti chiave (in primis energetici), determinò allora uno squilibrio fondamentale della bilancia dei pagamenti e fiscale. Squilibrio che fu aggravato dalle politiche di compensazione che si accumularono per tutti gli anni sessanta e settanta giungendo, alla fine, ad un punto di rottura. Politiche rivolte a salvare il grande capitale e cercare di conservare, allo stesso tempo, la pace sociale. Allora, con la svalutazione del dollaro (e della sterlina) del 1969-73 e con il distacco del 1971 dalla parità con l’oro derivarono un gioco di reciproco scaricabarile tra alleati. Un gioco a chi alla fine si sarebbe trovato a pagare la crisi. Toccò a noi.
Per evitare la distruzione di capitali, questi si rifugiarono nel loro “quartier generale”, ovvero nei mercati finanziari, cercando di moltiplicarsi senza passare per la produzione. Ma, come scrive Arrighi in “Adam Smith a Pechino”, in questo modo alla fine “gli Stati Uniti passarono dal ruolo di principale sorgente mondiale di liquidità e di investimenti diretti all’estero che avevano coperto durante gli anni Cinquanta e Sessanta, a quello di principale nazione debitrice e di pozzo di liquidità che non hanno più abbandonato dagli anni Ottanta”[2].
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Il keynesismo militare nel ciclo economico-politico
di Gianmarco Oro
Nelle sue pubblicazioni transuenze ha dedicato, e continuerà a farlo, molto spazio alle elaborazioni sulle trasformazioni dell'economia «post-covid». Il contributo di oggi di Gianmarco Oro, dottorando di ricerca in economia politica presso l'Università degli Studi di Macerata, introduce un tema che rischia di diventare quantomeno attuale: la crescita degli investimenti nell'industria di guerra come modalità di fuoriuscita dalla crisi. Nel prossimo futuro proveremo a dedicare un certo spazio al tema. L'articolo di oggi è molto utile perché aiuta a contestualizzare storicamente il keynesismo militare nel ciclo economico-politico e perché fornisce delle chiavi di lettura molto interessanti per decodificare alcuni aspetti strutturali delle politiche economiche del dopoguerra.
* * * *
I paesi occidentali si trovano oggi nella fase di restaurazione capitalistica dei rapporti sociali ed internazionali nel post pandemia. Contestualmente, i governi europei sono allineati e concordi sul fatto che questa restaurazione, ovvero l’uscita dalla crisi economica, debba avvenire a mezzo di spesa pubblica fatta in disavanzo e finanziata con nuova moneta (via istituto di emissione o via banche commerciali). Sembrerebbe dunque la fine delle austerità e delle restrizioni monetarie usate come mezzo di disciplina per i governi, se non fosse che l’indirizzo prioritario di spesa pubblica sia diventato (complice la destabilizzazione dell’area est-europea con l’invasione russa dell’Ucraina) l’aumento della spesa in armamenti (con obiettivo al 2% del Pil entro il 2024 nel bilancio dei paesi Nato). Questa scelta ha suscitato una varietà di opinioni a favore o contro. Qui vogliamo lasciare che altre penne si prodighino a dare sostanza geopolitica, sociale e morale a queste decisioni, per fornire esclusivamente un’analisi critica dei fatti di politica economica per come si manifestano nell’attuale congiuntura storica.
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“Il capitale mondo”: sguardo su globalizzazione, complottismi e dintorni
di Joe Galaxy
È uscito, per le edizioni Meltemi, un importante libro di Robert Kurz, Il capitale mondo. Per una sintetica presentazione del testo e della sua storia, rimandiamo all’introduzione, dove vengono tratteggiati velocemente anche temi e motivi di fondo.
In questo articolo vorrei invece sottolineare come, in un periodo travagliato quale quello che stiamo attraversando, il libro di Kurz rappresenti un raro tentativo, a mio avviso riuscito, di spiegare la crisi mondiale in modo lucido e ben argomentato, evitando derive cospirazioniste o destrorse, oggi così di moda.
Kurz, sulla scorta della teoria critica del valore, corrente di pensiero di cui ha rappresentato e rappresenta ancora la mente più brillante, riesce infatti a dare un quadro coerente di una serie di fenomeni che nei nostri tempi affranti sconcertano i più, fenomeni che scombinano le coordinate e provocano spesso grande confusione, anche teorica (solo per fare un esempio, la difficoltà di riconoscere oggi cosa sia sinistra e cosa destra, addirittura se questa distinzione abbia ancora senso).
Questo caos non creativo confluisce spesso in interpretazioni del reale che hanno un che di surreale, letture che immaginano grandi complotti e grandi manovratori i quali, da qualche luogo non ben definito ma immancabilmente sinistro e cupo, decidono delle sorti del mondo e dei suoi abitanti.
Sia chiaro: non mancano luoghi e organizzazioni, spesso statuali, dove effettivamente si decide su questioni o aspetti rilevanti per la sorte di ognuno di noi.
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“Holodomor”: il PD e l’invenzione del “crimine contro l’umanità” bolscevico in Ucraina
di Fabrizio Poggi
Nel 1983 Ronald Reagan, in piene “guerre stellari”, lanciava la campagna sul “50° anniversario della carestia-genocidio in Ucraina”, chiamata dai nazionalisti di Kiev “holodomor”.
A settembre del 2018, la Commissione esteri del Senato USA approvava una risoluzione che riconosceva la carestia del 1932-1933 in Ucraina come un genocidio del popolo ucraino.
Nel maggio del 2022, per non esser da meno dei maestri yankee, quella consorteria amministrativo-affaristica denominata PD – simbiosi tra la più oscurantista e reazionaria DC scelbiano-tambroniana e i più retrivi settori euro-atlantisti del tardo PCI – per affiancare all’invio di armi alla junta golpista di Kiev anche un‘arma ideologica, intende far approvare anche dal Parlamento italiano una mozione per chiedere al governo di «riconoscere l’holodomor come crimine contro l’umanità».
Questo perché, dicono i presunti demo-studiosi “di storia russa”, «quando il capo del Cremlino parla di de-nazificazione dell’Ucraina in realtà vuole dire che va cancellata l’identità nazionale ucraina».
Il che, con una costruzione sintattica suicida sul piano logico, dovrebbe significare che “l’identità nazionale ucraina” sia davvero integralmente nazista. E probabilmente l’intento dei promotori della mozione, è sdoganare il nazismo come parte costitutiva dell’identità europea “democratica”.
Su questo giornale, si è accennato in varie occasioni alla questione del “holodomor” (“golodomor” in russo) e alla diffusione del relativo mito, a partire dalla propaganda goebbelsiana sui “milioni di ucraini deliberatamente sterminati dal governo sovietico“.
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Costruire un movimento per la giustizia climatica anti-imperialista
Kai Heron intervista Max Ajl
Nel suo nuovo libro, A People's Green New Deal [Pluto Press 2021, ancora inedito in italiano, NdT], Max Ajl presenta una valutazione approfondita, che prende spesso la forma di una denuncia schiacciante, dei limitati tentativi del Nord globale di mitigare e adattarsi al riscaldamento globale.
L'eco-nazionalismo, l'eco-modernismo, la socialdemocrazia verde e le declinazioni socialiste democratiche del Green New Deal sono tutte esaminate e tutte sono trovate carenti. Tutte, sostiene Max, a loro modo sono troppo attaccate a quello che Ulrich Brand e Markus Wissen chiamano "lo stile di vita imperiale". Un modo di vivere basato sulla subordinazione del Sud globale ai bisogni, ai desideri e alle esigenze del Nord globale. E ognuna, a modo suo, nega l'ampiezza della crisi sociale ed economica che abbiamo di fronte.
In risposta Max si rivolge alle lotte del Sud globale. Lì trova i contorni di una risposta alternativa al collasso climatico, radicata nelle pratiche agricole agroecologiche, nei risarcimenti climatici e nelle lotte per l'autodeterminazione. Il libro di Max è quindi molto più di una critica, è un appello stimolante rivolto a noi cittadini del Nord globale per riconsiderare il modo in cui lottiamo per la giustizia sociale e climatica.
In questa intervista Kai Heron parla con Max del suo libro e dell'importanza di mettere l'agricoltura e le lotte del terzo mondo per l'autodeterminazione al centro delle politiche ambientali.
* * * *
Kai Heron: Forse possiamo iniziare con una semplice domanda. Ci sono già almeno cinque libri disponibili che immaginano come potrebbe essere un Green New Deal (GND). Cosa ti ha spinto a scriverne un altro?
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“Scontro di civiltà e fine della storia”. Conservatori contro Liberal
di Gerardo Lisco
Per affrontare la questione del conflitto Ucraino – Russo bisogna andare indietro negli anni. La fine della Guerra fredda , la vittoria degli USA e il crollo dell’URSS hanno aperto, negli anni 90, un dibattito culturale e politico che oggi ritorna di attualità. Possiamo riassumere quel dibattito avendo come coordinate i seguenti saggi : “La fine della storia e l’ultimo uomo” di F. Fukuyama, “ Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale” di S. Huntington e “ La quarta Teoria Politica” di A. Dugin. A differenza dei primi due, i quali risalgono il primo al 1992 e il secondo al 1996, il saggio di Dugin è del 2007. Pur essendo quest’ultimo relativamente recente richiama i primi due. Il contesto storico e politico nel quale vengono elaborate le teorie politiche dei tre autori racchiudono l’inizio di un quarto di secolo che con il conflitto ucraino – russo si è avviato alla fine. Fukuyama in più di una occasione ha avuto dei ripensamenti, su ciò che ha scritto nel saggio che lo ha reso noto, sostenendo di essere stato capito e interpretato in modo erroneo. Come vedremo da alcuni dei passaggi più significativi, ai fini dell’economia del mio ragionamento, quella di Fukuyama è per molti versi una filosofia “determinista” per cui la Storia a causa una serie di “meccanismi” tende ad un solo fine e cioè la realizzazione della Libertà da intendersi come trionfo del Liberalismo e del sistema Capitalista. Scrive Fukuyama ne “La fine della storia” << L’attuale crisi dell’autoritarismo non è cominciata né con la perestrojka di Gorbaciov né con la caduta del muro di Berlino. Essa ha avuto inizio un decennio e mezzo prima con la caduta, nell’Europa del sud, di una serie di governi autoritari di destra. Nel 1974 in Portogallo le forze armate rovesciarono con un colpo di stato il regime di Caetano. In quello stesso anno in Grecia vennero rovesciati i colonnelli che avevano governato il paese fin dal 1967, e ad essi successe il governo democratico di Karamanlis.
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Il grande scisma ortodosso e la guerra in Ucraina
di Francesco Galofaro*
E’ inevitabile che il quotidiano racconto mediatico del conflitto in Ucraina pecchi di recentismo: in primo piano si pongono i movimenti delle truppe e le sanguinose contumelie che scambiate tra Zelensky e Putin; le radici del conflitto in atto finiscono in secondo piano e finiscono per perdersi. Ad esempio, vorrei far notare che la guerra si inserisce entro il più grave scisma che abbia colpito le Chiese ortodosse dopo quello monofisita del V secolo, e che coinvolge il Patriarcato di Mosca e quello di Costantinopoli. Questo scisma precede la guerra; le sue radici risalgono agli anni immediatamente successivi alla caduta di Berlino. Non coinvolge solo il “perfido” Kirill, ma anche il suo predecessore Alessio II; non solo Kiev, ma anche la metropolìa di Tallinn. Lo scopo di questo mio articolo è spostare l’attenzione dagli eroi e i cattivi del racconto propagandistico alle dinamiche di lungo periodo e alle strutture del conflitto geopolitico, nell’interesse della comprensione e – se Dio vuole – della pace.
Fede e crociate – Di questi tempi è prassi associare il nome di Kirill a quello di Vladimir Putin negli anatemi quotidiani di politici e giornalisti. Qualche giorno fa, la Commissione europea ha proposto di includere il patriarca di Mosca nella sesta tornata di sanzioni contro la Russia, trasformando il conflitto ucraino in guerra di religione. Prescindendo dal giudizio sulle convinzioni di Kirill e dalle notizie sul suo patrimonio pubblicate da Forbes, trattiamo pur sempre del leader spirituale di una comunità che conta 110 milioni di fedeli nel mondo. Reagiranno approvando le sanzioni o difendendolo, sentendosi nel mirino di un disegno persecutorio? Franco Cardini, insigne storico delle religioni, ha commentato:
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Lo spettro della stagflazione, con o senza stretta monetaria
di Roberto Tamborini
Mentre il mondo sta cercando di lasciarsi alle spalle la tragedia della pandemia, l’intreccio tra economia e crisi politico-militari sembra riportarci, come un crudele gioco dell’oca, agli anni Settanta del secolo scorso, il decennio della “Grande inflazione”. Era l’ottobre 1973, e a supporto della guerra del Kippur di Siria ed Egitto contro Israele, i paesi arabi membri dell’Opec (l’organizzazione dei paesi produttori di petrolio) decisero di colpire i paesi filo-israeliani con un embargo delle esportazioni di greggio, e poi un aumento unilaterale del suo prezzo da circa 3 dollari al barile a oltre 11. Pochi anni dopo, nel 1979, arrivò il secondo shock petrolifero, in seguito alla rivoluzione islamica in Iran e a un’altra guerra, tra il gigante Sciita e l’Iraq. Il prezzo del greggio triplicò di nuovo e superò i 30 dollari al barile.
Siamo ancora lontani, per ora, dal vertiginoso aumento del costo della vita che prese piede in quel periodo, ma le previsioni, o auspici, di uno shock inflazionistico di breve durata, dovuto a fattori transitori legati al rimbalzo post-pandemia dell’economia mondiale, si stanno rivelando fallaci. Lo spettro della “stagflazione” degli anni Settanta, alta inflazione accompagnata da economia stagnante, si aggira per il mondo e sta mettendo in allarme i vertici delle banche centrali (BCE, Decisioni di politica monetaria, 14-4-2022). Le pressioni dei “falchi” della stabilità dei prezzi s’intensificano, in particolare in Europa, chiedendo azioni risolute. Sappiamo che la Storia non si ripete mai uguale, ma ci sono alcune analogie con gli anni Settanta che è utile considerare per il presente.
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Sylos Labini su Marx: implicazioni per la politica economica
di Massimo Cingolani*
Su Moneta e Credito, vol. 68 n. 269 (marzo 2015), 81-147
Questo contributo si propone di inquadrare “Carlo Marx: è tempo di un bilancio” (Sylos Labini, [1991] 1994), nell’opera di Paolo Sylos Labini e di ripercorrere il dibattito lanciato da Sylos su Marx nel 1991. L’analisi critica della posizione di Sylos offre anche lo spunto per approfondire alcune questioni teoriche fondamentali, spesso trascurate, nonostante le loro importanti implicazioni per la politica economica.
Il testo che Sylos scrisse nel 1991 su Marx è oggi in gran parte dimenticato. Quando apparve, suscitò critiche e perplessità, specie a sinistra. Alcuni pensarono, forse senza osare dirlo troppo apertamente, che anche i grandi sbagliano. Altri, e in particolare i partecipanti al dibattito sul Ponte, hanno discusso le poste del bilancio di Sylos, contestandone alcune e confermandone altre. La tesi che si presenta è che questo bilancio, stilato poco dopo la caduta del muro di Berlino, è stato un momento di riflessione doveroso per un intellettuale fortemente influenzato da Marx, forse scritto in maniera un po’ troppo sbrigativa, ma che se fosse stato letto con maggiore attenzione, sarebbe stato utile per contrastare la deriva liberista degli ultimi decenni.
Infatti, la caduta del muro del muro di Berlino, oltre a segnare la fine del socialismo reale in Europa orientale, ha coinciso con l’affermarsi nell’intero continente di una forma di liberismo dai tratti caricaturali. Il declino dell’egemonia culturale progressista era cominciato già negli anni settanta con le crisi petrolifere e lo sgretolarsi dell’ordine internazionale di Bretton Woods, ma è solo dopo il 1989 che ha avuto inizio un venticinquennio di dominio pressoché incontrastato del neoliberismo nelle scelte di politica economica.
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Immanuel Wallerstein, “Dopo il liberalismo”
di Alessandro Visalli
In questa agile raccolta di interventi che è stata pubblicata[1] da Wallerstein nel 1995 a New York e poi tradotta da Jaca Book tre anni dopo, sono sostenute alcune tesi radicali che, tuttavia, hanno una precisa collocazione storica. Si tratta in effetti di un potente esercizio di astrazione e semplificazione, per il quale tutti i movimenti politici dell’otto-novecento, sotto il profilo delle fondamenta ideologiche, sono ricondotti a varianti di un’unica pervasiva tradizione: quella liberale. A ben vedere è un riverbero, quasi trenta anni dopo, della critica al mondo ‘adulto’ della rivolta giovanile del ’68, accusato ‘in blocco’ di essere riformista ed un unico ‘sistema’. Riflettendo sulle conseguenze dell’89 l’autore diagnostica il declino del liberalismo (ovvero di quella che chiama l’unica ideologia politica della modernità), e con esso della complessiva idea di sviluppo, progresso, modernità come destino e speranza. Il declino della speranza induce a ripiegarsi nella protezione di gruppi identitari; infatti, se non ci può essere collettivamente una via di sviluppo e progresso allora occorre salvarsi da soli. Ma in questa fuga è presente sia il rischio di balcanizzazione della politica, che precipita nella lotta di tutti verso tutti, sia la speranza di una nuova politica plurale e decentrata, questa volta senza progetto definito, capace di montare e rimontare indefinitamente i gruppi intorno ad un vago ideale di eguaglianza delle diverse identità e rivendicazioni. Vaghezza rivendicata nell’ultima frase del libro. Una prospettiva che ebbe un certo successo in quegli anni e che oggi si presenta come fantasma in ogni tentativo di riaggregazione (sempre condotto nella forma della federazione aleatoria) nella sinistra radicale.
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La parabola dell’economia politica
II. Marx, il processo di circolazione del capitale
di Ascanio Bernardeschi
I presupposti dell'accumulazione del singolo capitale non coincidono con i presupposti dell'accumulazione per l'intera società. Questi ultimi non possono essere assicurati dalla mano invisibile del mercato ma vengono realizzati solo al prezzo di crisi e fallimenti. Qui la parte I
La rotazione del capitale
Il secondo libro del Capitale tratta del processo di circolazione. Parlando della metamorfosi del capitale, D-M-D’, abbiamo visto che la circolazione, per esteso D-M(Fl,Mp)...P...M’-D’, è interrotta dal tempo di produzione, P. Tale tempo a sua volta si suddivide in tempo di lavoro, tempo di pausa (le notti, le festività, le interruzioni ecc.) e tempo occorrente perché si sviluppino processi naturali, come nel caso delle colture agricole, delle fermentazioni, delle trasformazioni chimiche ecc. Il tempo di circolazione a sua volta si suddivide in tempo d’ordine, tempo di consegna e tempo di pagamento e si riferisce sia alla fase D-M, l'acquisto di mezzi di produzione e forza-lavoro che alla fase M'-D', la vendita del prodotto.
La sommatoria di tutti questi tempi costituisce il tempo di rotazione del capitale, cioè il tempo che trascorre dall'anticipazione del denaro per acquistare i fattori produttivi D-M(Fl,Mp) fino al ritorno, con la vendita del prodotto, di una somma di denaro maggiore di quello anticipato, M'-D’. In uno stesso capitale tuttavia i tempi di rotazione delle singole componenti differiscono. La materia prima “ritorna” come denaro dopo l'unico solo ciclo di circolazione in cui viene acquistata, trasformata e venduta; invece una macchina che cede gradualmente il suo valore al prodotto, via via che si logora, viene in genere interamente rimpiazzata dopo un certo numero di cicli produttivi e per ognuno se ne determina, sotto la voce “ammortamento” l’entità della sua perdita di valore, coincidente con il valore trasferito al prodotto. Astraendo per semplicità dal capitale fisso, quanto più breve è il tempo di rotazione, tante più rotazioni effettua un determinato capitale nel corso dell’anno.
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Guerra alla Russia ed emergenza permanente
di Nicola Casale
L’emergenza della pandemia non è finita. È tenuta in caldo, pronta per essere ripresa in autunno, con l’obiettivo di estendere a tutti, bambini compresi, l’obbligo vaccinale e il green pass (GP). Contro la sua ripresa militano alcuni fattori importanti.
Interni a ogni singolo paese: riluttanza delle popolazioni, stanche delle restrizioni e sfiduciate nei vaccini, emergere di una crisi economica che potrebbe riaprire il conflitto sociale su vasta scala, indebolendo la disponibilità della gente a mettere al primo posto la pandemia, soprattutto se dovesse continuare l’evidenza di provocare malattie non gravi e con scarso rischio di ricovero e decesso.
Internazionali: molti paesi potrebbero sottrarsi a un’ulteriore allarme mondiale. In ciascuno di essi la gestione della pandemia ha fatto passi indietro grazie alle reazioni popolari. L’India è il caso più evidente: la lotta dei contadini non s’è fatta condizionare dai lockdown, con oltre un anno di mobilitazione ha vinto costringendo il governo a recedere dalla contro-riforma agraria e ha smantellato la narrazione pandemica, inducendo il governo a diffondere l’ivermectina che ha drasticamente ridotto ricoveri e decessi. In Russia non ci sono state mobilitazione di piazza, ma la popolazione ha semplicemente sabotato vaccini e GP. Rifiuti analoghi in molti paesi asiatici, africani, latinoamericani e dei Balcani (non solo i soliti serbi...).
La stessa Cina presenta caratteri diversi dalla gestione occidentale: fa lockdown rigidi, ma limitati nello spazio e nel tempo, perché avverte il pericolo di attacchi biologici (la scoperta dei laboratori in Ucraina la dice lunga sulla pratica Usa/occidentale di diffondere patogeni soprattutto verso Russia e Cina). Ciò non toglie che i lockdown siano ugualmente inutili a eradicare il virus e molto utili, invece, a operazioni di disciplinamento sociale. La Cina, comunque, non usa vaccini occidentali, non impone obbligo vaccinale e non usa il GP.
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Un libro di Bellocchio
di Luca Lenzini
Per ricordare Piergiorgio Bellocchio, scomparso il 18 aprile, «L’ospite ingrato» pubblica una serie di interventi sulla sua figura e la sua opera, così come una breve scelta di suoi testi poco noti
I.
Molti anni sono passati da quando, nel 1984, «quaderni piacentini» cessò le pubblicazioni, mezzo secolo dal momento della sua maggiore diffusione, quel Sessantotto di cui fu parte attiva e di cui anticipò non pochi temi culturali e politici. E quali anni, ci separano da quel tempo: tali da cambiare lo scenario (sociale, culturale, economico) così in profondità, nel nostro paese come altrove, al punto che non solo le persone ma tutto un insieme di categorie, nozioni acquisite, schemi e elaborazioni di ordine intellettuale sembrano ormai non tanto invecchiati quanto irriconoscibili, come quei convitati alla matinée dei Guermantes di cui parla l’ultimo tornante della Recherche; eppure, ancora oggi, se qualcuno nomina Bellocchio non c’è scampo, è immediata l’associazione con i «quaderni piacentini».
Perché stupirsi, si dirà. La rivista non l’ha fondata e diretta lui, insieme a Grazia Cherchi? Non ne è indiscutibile l’importanza per la formazione della “nuova sinistra”, e più in generale per il rinnovamento della cultura italiana in quegli anni? E non lo è anche la sua indipendenza da partiti e conventicole, notabile eccezione tra le pubblicazioni italiane di cultura? Non vi hanno collaborato, infine, i migliori ingegni del periodo?… Tutto vero, certo: il “mito” dei «Quaderni» ha solide fondamenta, e solo chi è prevenuto può disconoscerlo; e nondimeno, quando l’intervistatore o il recensore di Bellocchio attaccano la solfa, ogni volta con la storia della rivista, con le rievocazioni di maniera, gli episodi e le polemiche e gli slogan del tempo che fu, è difficile ignorare che così facendo si prepara il lettore a consumare un “personaggio”, e che a sua volta questa operazione, con l’annesso e comodo (ora) elogio dell'”eretico”, dell'”irregolare” e “anticonformista”, è la premessa per falsare, o meglio ridurre e infine addomesticare il nucleo più vivo e urticante della scrittura di Bellocchio, la cui ironia non vuol essere né un gioco intellettuale, né un esercizio di disincanto per cinici a corto di battute, bensì una forma di denuncia e insieme un tratto intrinseco alla scrittura.
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Guerra, inflazione e conferma della "stagnazione secolare”
di Domenico Moro
Nel 2013 Laurence H. Summers, uno dei più importanti economisti statunitensi e già ministro del Tesoro di Clinton, definì la fase economica contemporanea come “stagnazione secolare”. Con questa definizione Summers voleva intendere che l’economia mondiale – a partire da quella dei paesi più sviluppati, come Usa, Europa occidentale e Giappone – era entrata in una fase di crisi permanente. Summers aggiunse che, guerra a parte, non si vedeva alcuna possibile soluzione a tale crisi.
Nell’analisi dell’economista statunitense si tracciava una analogia tra la fase attuale e quella seguita alla grande crisi del 1929, che fu risolta dalla Seconda guerra mondiale. Infatti, fu solamente a seguito delle enormi spese statali per la produzione militare che gli Usa si ripresero dalla crisi e solamente a seguito delle enormi distruzioni della guerra mondiale e degli investimenti americani successivi che l’Europa, il Giappone e l’intero occidente poterono dare avvio a una fase economica espansiva che durò alcuni decenni.
L’economia capitalistica è entrata dal 2007-2008 in una crisi ininterrotta che, a parte brevi riprese, permane tutt’ora. Il contenuto della crisi, dovuta a una sovrapproduzione assoluta di capitale, permane nonostante le forme in cui si manifesta mutino di volta in volta: crisi dei mutui subprime nel 2007, crisi del debito sovrano nel 2013, crisi pandemica nel 2020 e, infine, la crisi attuale che si manifesta nella forma della stagflazione e della guerra.
La breve ripresa del 2021 non ha consentito alle economie dei Paesi avanzati di recuperare interamente quanto era stato perso nell’anno precedente, durante la pandemia.
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Le ripercussioni economiche della guerra
di Ascanio Bernardeschi
L'Europa sarà la vittima sacrificale di questa guerra per procura fra Stati Uniti e Russia-Cina. Lo sarà in particolare il mondo del lavoro. Per questo urge costruire un fronte che vi si opponga
Buona parte delle forze di sinistra, anche anticapitaliste, non scorge la centralità dell'imperialismo per leggere le vicende quotidiane e le cause di guerre, colonialismo, povertà, razzismo, distruzione dell'ambiente, pandemie ecc. In tal modo può capitare che queste forze siano portate a sostenere guerre che, motivate con principi etici di per sé condivisibili, hanno in realtà le loro radici più profonde nell'imperialismo. Così facendo si autocondannano all'irrilevanza o, peggio, si fanno involontariamente strumento dell'imperialismo.
Se la sua configurazione classica, descritta nei primi decenni del secolo scorso da Lenin – e cioè la presenza con un ruolo decisivo dei grandi monopoli e il loro intreccio con il potere politico, l'intreccio strettissimo fra capitale finanziario e industriale e la grande rilevanza dell'esportazione di capitali alla ricerca di maggiori opportunità di profitto –, è ancora di grande attualità – forse ora più di allora – esiste oggi almeno un elemento importante di novità: non prevalgono più i blocchi imperialistici nazionali, almeno per quanto riguarda gli Stati di dimensioni non paragonabili a quelle continentali, ma grandi blocchi transnazionali che rispecchiano il carattere transnazionale delle grandi imprese monopolistiche.
È per questo motivo che la nostra lotta antimperialista deve essere in primo luogo lotta contro il polo imperialista europeo edificato non per il “sogno” di una pace in Europa, come vuole la retorica europeista, ma fin dalle origini progettato in chiave chiaramente antisovietica.
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