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Come ripensare oggi crisi e patologie sociali?
di Rahel Jaeggi
Dal 28 maggio si troverà nelle librerie italiane il testo ("Alienazione", a cura di Giorgio Fazio) che ha dato notorietà a una figura della filosofia tedesca contemporanea, Rahel Jaeggi, di cui si è già avuto occasione di parlare sul Rasoio di Occam. Qui, per gentile concessione della casa editrice (Editori Riuniti Int), pubblichiamo come anteprima un estratto del libro
«Ancora un altro lavoro sull’alienazione?».[1] In questo modo, o in modo simile, cominciavano ancora all’inizio degli anni Ottanta molti libri, a cospetto della sovrabbondante letteratura secondaria sul tema. Oggi la situazione è mutata. Il concetto di alienazione sembra essere divenuto problematico e sotto certi aspetti anche inattuale. Se esso è stato per lungo tempo il concetto centrale della critica sociale di sinistra (ma anche di quella conservatrice) – un motivo cruciale della filosofia sociale marxista e quindi di importanza fondamentale per il «marxismo occidentale» e per la «teoria critica» – e se allo stesso tempo esso ha influenzato in vari modi la critica della cultura ispirata dall’esistenzialismo, oggi non solo esso è pressoché sparito dalla letteratura filosofica, ma non gioca più alcun ruolo neanche come vocabolo usato per una diagnosi del nostro tempo. Il concetto di alienazione ha avuto un uso troppo inflazionato negli anni del suo boom; i suoi fondamenti filosofici sembrano fuori moda nell’età postmoderna; le sue implicazioni politiche appaiono troppo problematiche nell’età del «liberalismo politico» – e forse anche le aspirazioni della critica dell’alienazione appaiono senza speranza nel tempo del capitalismo trionfante.
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Annotazioni sullo sciopero astratto*
di Toni Negri
Che cos’era lo sciopero? Era un’astensione dal lavoro da parte operaia, una rottura partigiana e selvaggia (di classe operaia) del rapporto di sfruttamento, che si qualificava come un attacco diretto alla valorizzazione capitalista. Ma, dal punto di vista operaio, lo sciopero non era solo questo; era anche qualcosa di molto materiale, un’azione che doveva “far male al padrone” e che, allo stesso tempo, metteva in gioco la vita del lavoratore. C’era qualcosa di carnale, di immediatamente biopolitico nello sciopero, una violenza che trasformava l’azione economica in rappresentazione politica, l’atto di astensione in una pratica di diserzione dal capitale. Ora si sa che il rapporto di capitale è sempre diverso, sia perché il soggetto lavoratore in ciascuna fase dello sviluppo capitalistico è diversamente qualificato, sia perché il comando sul lavoro è contestualmente diverso. Lo sciopero dunque è sempre diverso anch’esso: lo sciopero dell’operaio industriale e quello del bracciante agricolo erano esperienze, avventure diverse, anche se ognuna metteva in gioco la stessa materialità – la continuità del sabotaggio e dell’astensione prolungata dal lavoro presso gli operai industriali; la violenza carnale, puntuale e durissima della lotta contadina. Per i braccianti agricoli, la lotta non poteva durare più di tanto: raccontano che le vacche muggivano disperate che nessuno ne traesse il latte e che i raccolti, non realizzati, marcissero – bisognava dunque intensificare lo scontro nel tempo breve. Per gli operai industriali, tempi e figure della lotta erano ben altri, e non esigevano di essere contratti, se non “in ultima istanza” per il limite imposto all’astensione dal lavoro dalla misura del salario necessario, di sopravvivenza.
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L’inchiesta prima di tutto: Vittorio Rieser
di Damiano Palano
In una famosa fotografia scattata all’inizio degli anni Sessanta, probabilmente nel settembre 1962, si trova fissato un frammento della vita dei «Quaderni rossi», una delle riviste che più ha inciso nella storia intellettuale italiana del secondo dopoguerra (e forse dell’intero Novecento). L’uno accanto all’altro, con le spalle rivolte al muro e gli occhi diretti verso un oggetto che rimane fuori dal campo, nella foto sono ritratti Gaspare De Caro, Raniero Panzieri, Toni Negri e Mario Tronti.
Con l’eccezione di De Caro, che dopo aver fornito alcuni contributi importanti negli anni Sessanta preferì assumere una posizione più defilata, gli altri tre protagonisti dell’immagine sarebbero stati ricordati – e sono ancora oggi in gran parte considerati – come i principali esponenti del cosiddetto «operaismo» italiano.
E una simile ricostruzione ha senza dubbio più di qualche fondamento, perché il contributo dei tre intellettuali – ognuno dei quali ha proceduto peraltro in direzioni politiche molto differenti – ha davvero impresso un’impronta indelebile a quella rilettura del marxismo in cui si può intravedere il tratto forse più originale della «Italian Theory» (sempre che una simile formula abbia davvero qualche utilità).
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La breve estate del keynesismo
Dalla coscienza infelice alla perdita della memoria collettiva della teoria economica
di Robert Kurz
John Maynard Keynes (1883-1946) è stato forse uno degli uomini più interessanti del XX secolo. Come specialista della teoria del denaro e della moneta, godeva già di un'eminente reputazione fin dalla prima guerra mondiale. Ma i suoi interessi erano molto più vasti. Matematico nato, in principio guadagnò fama mondiale con il suo "Trattato sulla probabilità" (1921). Il suo vero amore, però, era la filosofia. Ma non gli venne data la possibilità di esercitare funzioni accademiche in quest'aera a Cambridge, come sperava. Si immerse nella politica, fu funzionario del Dipartimento per l'India e ebbe successo anche come economista nel settore assicurativo e in Borsa. Il suo patrimonio gli conferiva indipendenza finanziaria; mecenate artistico, è stato anche un grande collezionista. Si aggiudicò i manoscritti di Isaac Newton, li rese accessibili alla ricerca e fece anche una pubblicazione sull'argomento.
Quest'ampiezza di orizzonte intellettuale non si lasciava rinchiudere negli stretti confini di una disciplina accademica. A somiglianza di Marx, si possono trovare ad ogni passo, negli scritti di Keynes, riflessioni interdisciplinari nelle quali riaffiora l'unità fra filosofia, politica ed economia.
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Perché è urgente lottare contro la NATO e riscoprire il senso dell’agire politico
di Domenico Losurdo
A quanti anche a sinistra esprimono riserve ed esitazioni sull’appello e sulla campagna «No Guerra No Nato. Per un paese sovrano e neutrale» vorrei suggerire di riservare particolare attenzione a quello che scrivono da qualche tempo la stampa e i media statunitensi. Al centro del discorso è ormai la guerra; ed essa, ben lungi dal configurarsi come una prospettiva del tutto ipotetica e comunque assai remota, viene sin d’ora discussa e analizzata nelle sue implicazioni politiche e militari. Su «The National Interest» del 7 maggio scorso si può leggere un articolo particolarmente interessante. L’autore, Tom Nichols, non è un Pinco Pallino qualsiasi, è «Professor of National Security Affairs at the Naval War College». Il titolo è di per sé eloquente e quanto mai allarmante: In che modo America e Russia potrebbero provocare una guerra nucleare (How America and Russia Could Start a Nuclear War). È un concetto più volte ribadito nell’articolo (oltre che nelle lezioni) dell’illustre docente: la guerra nucleare «non è impossibile»; piuttosto che rimuoverla, gli USA farebbero bene a prepararsi a essa sul piano militare e politico.
Ma come? Ecco lo scenario immaginato dall’autore statunitense: la Russia, che già con Eltsin nel 1999 in occasione della campagna di bombardamenti della Nato contro la Jugoslavia ha profferito terribili minacce e che con Putin meno che mai si rassegna alla disfatta subita nella guerra fredda, finisce con il provocare una guerra che da convenzionale diventa nucleare e che conosce una progressiva scalata anche a questo livello.
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Foreign Affairs
Storici al capezzale della ricchezza delle nazioni
di Pierluigi Fagan
E’ proprio dei momenti di profonda crisi, interrogarsi sulla struttura di ciò che è in crisi per capire il perché e soprattutto come evolverà, la cosa in crisi.
Questo articolo di Foreign Affairs a firma di Jeremy Adelman, segnala il manifestarsi di questa interrogazione, attraverso l’analisi di tre testi di indagine storica usciti su questo argomento. I tre testi sono i due volumi del The Cambridge History of Capitalism di Larry Neal e Jeffrey G. Williamson, il The Enlightened Economy di Joel Mokyr e l’Empire of Cotton di Sven Beckert ma l’articolista ricorda, come sfondo di uno spirito del tempo, anche i due recenti volumi di F.Fukuyama (che profeta il fatto che il futuro potrebbe non provenire dai luoghi che svilupparono il liberismo e la democrazia, cioè l’Occidente moderno), il Perché le nazioni falliscono di D. Acemoglu e J. Robinson e il T. Piketty del Capitale del XX° secolo cui si aggiunge uno studio McKinsey Global Institute (2012) sullo spostamento del centro di gravità del movimento economico planetario che sta virando repentinamente dall’asse Atlantico verso l’Asia. Se l’analisi sull’origine del nostro modo di stare al mondo tende al positivo, ottimistica sarà la previsione del decorso, se l’analisi è più problematica ne conseguirà pessimismo sulle sorti del capitalismo occidentale.
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Democrazia e Jobs Act
di Carla Filosa
Parlare oggi della deriva della democrazia significa anche continuare con altre forze l’enorme lavoro analitico effettuato da Salvatore D’Albergo, di cui siamo stati compagni e amici, e di cui ora sentiamo di essere responsabilmente tra gli eredi. La nostra rivista [la Contraddizione] ha ospitato negli anni vari suoi interventi di cui, nel penultimo numero 149 [in “”Tombeau”di d’Albergo”] uscito nel dicembre 2014, abbiamo ripubblicato, come ci ripromettemmo, scrivendolo sul no 148 [“No al buffone: Renzichi?”], di ripubblicare un’ampia sintesi di “Democrazia alla sbarra” scritto nel no.113 marzo 2006, e “Ipocrisia istituzionale” scritto nel no.115 del luglio dello stesso anno, prima e dopo il referendum costituzionale del 2006. Le argomentazioni e le “previsioni” interne a quell’analisi di 9 anni fa, sono oggi più reali che mai, e i pericoli involutivi denunciati allora si sono concretizzati nell’impianto generalmente “riformatore” oltre che in particolari forme di legge.
La centralità del lavoro, che il sistema di capitale cerca sempre di esorcizzare in vario modo, è stata per l’appunto immobilizzata nella prima legge messa a punto dal governo Renzi, con il doppio intendimento di rendere a) il lavoro continuamente ricattabile nella realtà, e b) questa priorità fondamento della governance sul piano ideologico e propagandistico.
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Critica del lavoratore culturale
di Andrea Inglese
[Di tutta la faccenda scandalosa e sintomatica riguardante i mancati pagamenti della casa editrice Isbn nei confronti di autori, traduttori & collaboratori a vario titolo, la cosa che io trovo più scandalosa e sintomatica è il fatto che la denuncia esplicita e mirata sia venuta da un signore straniero, quando è evidente che, in termini numerici, le vittime di queste condotte ciniche siano state innanzitutto persone italiane. Non si tratta di rigirare il coltello nella piaga, ma di cominciare a fare i conti anche con l’omertà delle vittime che rafforza giornalmente quella dei carnefici. Certo, è tempo di dare forma politica, e ancor prima sindacale, alla rabbia e alla frustrazione che lo scandalo suscita. Ma varrebbe anche la pena di riflettere in una prospettiva più ampia sulla figura del lavoratore culturale, sulla cultura del precariato in cui s’inserisce, sulle ambiguità del suo posizionamento etico e politico. Quello che segue è un mio contributo a questo tipo di riflessione. Esso è raccolto nel volume Le culture del precariato, a cura di Silvia Contarini, Monica Jansen e Stefania Ricciardi, Ombre corte, 2015. Un altro intervento qui. a. i.]
Aspirazioni politiche del precariato intellettuale
La prima considerazione che vorrei fare riguarda l’attualità “politica” del lavoratore culturale. Si tratta di un elemento rilevante, se si pensa che sembrerebbe oggi inverarsi più che mai uno degli auspici della sinistra radicale o, più precisamente, di un certo operaismo italiano: la lotta alla precarietà è divenuta tema del giorno, e questo grazie all’attività critica e alla capacità di mobilitarsi dei lavoratori della conoscenza o dei lavoratori culturali. Terrò per il momento come equivalenti questi due categorie: lavoratori della conoscenza e lavoratori culturali. Quest’ultima ha un sapore forse più inattuale, forse meno politico, ma è riemersa in tempi recenti come sinonimo di lavoratori intellettuali, lavoratori immateriali, o per usare una brutta parola, cognitariato.
Se guardiamo alla situazione italiana, possiamo constatare che dall’Occupazione del Teatro Valle nel giugno del 2011, e dalla pubblicazione nel mese successivo del primo manifesto del collettivo TQ, quella che nel decennio precedente era stata una condizione in grado di inspirare soprattutto romanzieri e registi sembra finalmente provocare pratiche di carattere politico sempre più diffuse.
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Il neoliberalismo fuori dalla storia*
di Paola Rudan
Per dare alla luce il suo ultimo lavoro, Undoing the Demos. Neoliberalism’s Stealth Revolution (Disfare il Demos. La rivoluzione invisibile del neoliberalismo, New York, Zone Books, 2015, pp. 292), Wendy Brown confessa di aver lasciato incompiuto un libro su Marx. Questa variazione può offrire una chiave di lettura per comprendere il senso del volume: nel momento in cui il neoliberalismo si afferma su scala globale facendo il mondo e i suoi abitanti a propria immagine e somiglianza, non vi sono più contraddizioni immanenti al rapporto sociale capitalistico che sia possibile far valere politicamente contro il suo dominio.Non c’è più alcun rapporto sociale: l’affermazione incontrastata dell’homo oeconomicus trasforma tutti i soggetti in «capitale umano», così che il lavoro scompare dall’orizzonte del discorso e della realtà. Marx diviene inutile.
Brown ha sempre guardato con sospetto al determinismo e alle facili teleologie di certo marxismo. Per lei l’imperativo di pensare «fuori dalla storia» è sorto dalla necessità di liberarsi dalle grandi narrazioni e dalle storie progressive che hanno prodotto e legittimato un mondo saturo di potere, dall’urgenza di scrollarsi di dosso l’attaccamento appassionato alle promesse mancate del liberalismo e affrancarsi da una politica dei valori e delle convinzioni degradata a moralismo.
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Il dominio che rende felici
Cristina Morini
Il libro del filosofo ed economista francese Frédéric Lordon «Capitalismo, desiderio e servitù» è una trascinante incursione nelle nuove forme di gestione del rapporto di lavoro, dove ad essere mobilitati sono gli affetti e le passioni dei singoli
Un panorama nuovo ha cominciato a stagliarsi davanti ai nostri occhi nel momento in cui il salariato, per alcuni secoli obbligato al lavoro industriale e per altrettanti secoli tenacemente impegnato a lottare contro di esso per emanciparsene, si è progressivamente trasformato in un soggetto che «desidera» il proprio impiego. La apparente miseria cognitiva della vita fordista, dentro la ripetitività di un automatismo di fabbrica che pretendeva di sopprimere ogni livello riflessivo, è stata soppiantata da un nuovo terreno economico-produttivo che colonizza l’esistenza delle persone. Allo stesso tempo, con l’affermazione del capitalismo finanziario il desiderio invade il territorio del mercato e il mercato quello del desiderio. All’interno di questo processo, lavoro e autorealizzazione finiscono per mescolarsi, con l’effetto di una assenza di distinzione tra tempo di vita e tempo di lavoro, veicolando simboli e valori capaci di imporsi sulla sfera più intima dei singoli, così da condizionarne azioni ed esperienze.
Per decodificare l’ingresso in quella che diffusamente viene definita «economia del desiderio», nella tossica assenza di separazione inconscia tra lavoro salariato e desiderio che viceversa aveva retto nel corso dei secoli passati, negli ultimi tempi si è fatto ampio ricorso alle teorie psicanalitiche. Il giovane economista e filosofo francese Frédéric Lordon nel suo libro Capitalismo, desiderio e servitù. Antropologia delle passioni nel lavoro contemporaneo (DeriveApprodi, pp. 216, euro 16).
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Marx: Glosse marginali al Manuale di economia politica di Adolph Wagner
di Enrico Galavotti
Dai brevi appunti1 di Marx, che evidentemente quando si accingeva a leggere un testo di economia politica la prima cosa che andava a vedere erano le considerazioni sulla legge del valore, si evince immediatamente come A. Wagner, nel suo Manuale di economia politica, non avesse capito il nocciolo fondamentale del I libro del Capitale, ch'era lo sfruttamento del lavoro altrui intrinseco a tutte le leggi del capitalismo. Stesso giudizio negativo Marx lo esprime anche nei confronti di J. K. Rodbertus e di A. E. F. Schäffle, tedeschi come Wagner.
Ciò che differenziava gli economisti inglesi da Marx era la loro superficialità, ma ciò che differenziava gli economisti tedeschi da lui era la loro astrattezza. E infatti Marx più volte lo dice nelle Glosse: il valore, il valore di scambio, il valore d'uso non sono "soggetti"; l'unico vero soggetto è la "merce". Marx non voleva fare il "filosofo dell'economia in generale" ma il "fenomenologo critico dell'economia politica borghese e del capitalismo in particolare". Ecco perché, scrivendo il Capitale, era partito con la descrizione della merce.
Se si parta dalla merce si arriva a capire che, nel capitalismo, tutto è anzitutto "merce", non anzitutto "denaro", anche se ovviamente non può esserci merce senza denaro (senza denaro c'è solo "valore d'uso", "autoconsumo").
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Abbandonate ogni speranza (l’estate sta arrivando)
di Mark Fisher
Pubblichiamo una densa ma intrigante analisi di Mark Fisher, giornalista freelance, ospite spesso sulle colonne del Guardian e autore del libro “Capitalist Realism and Ghosts Of My Life” (Zero Books, 2014), sull’esito delle recenti elezioni inglesi, che hanno visto il trionfo del Partito Conservatore. Originalmente pubblicato qui
Quindi, dopotutto, doveva essere una riedizione del 1992. Sembra che anche le elezioni siano soggette alla retromania, adesso. Eccetto che questa volta è il 1992 senza Jungle. E’ Ed Sheeran and Rudimental piuttosto che Rufige Kru. Ignora sempre i sondaggi elettorali, ha scritto Jeremy Gilbert a tarda notte la sera delle elezioni. “E’ più facile capire quali saranno i risultati delle elezioni annusando il vento, rimanendo sensibili agli spostamenti affettivi, alle correnti molecolari, alle alterazioni nella struttura del sentire. Ascolta della musica, guarda la tv, entra in un pub o prendi la metro. Gli studi culturali battono la psefologia ogni volta.”
La cultura popolare inglese contemporanea, con il suo antiquato cameratismo post-moderno, la sua mascolinità furbesca (qualcuno vuole una birra con Nigel? [Farage, ndt]), la sua pornografia della povertà, il suo vile culto degli affari, sono diventati come gigantesche simulazioni del Poundbury Village, in cui nulla di nuovo accade mai, per sempre… mentre ubiqui i cartelli Keep Calm, in modo ostentatamente eccentrico o ironico, funzionano di fatto come i comandi di They Live, contengono il panico e la disperazione.
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Tra impossibile riformismo e necessaria mediazione
Militant
Il vero dato duraturo che ci lascia la crisi economica in cui siamo immersi – nonostante gli zerovirgola strombazzati da un’informazione embedded – è la natura irriformabile dell’attuale modello produttivo, e più in generale del capitalismo. Tale irriformabilità ha mandato in tilt il rapporto tra sinistra politica e questione sociale, che si basava proprio sulla possibilità redistributiva. In sintesi, il capitalismo “riformabile” garantiva una contrattazione economica costante delle proprie condizioni di lavoro e di vita. La garanzia, in questo caso, non si deve intendere come volontaria concessione di miglioramenti dati da una crescita economica diffusa, ma la possibilità di arrivare a quei miglioramenti attraverso lotte di classe. Oggi qualsiasi lotta di classe, stante l’attuale modello produttivo, la concorrenza internazionale, la cornice sovranazionale, l’assenza di politica, può al massimo resistere all’attacco padronale (resistere in questa o quella vertenza, mai generalmente, oltretutto), ma non attivare un’inversione di tendenza. Non è possibile giungere ad alcun miglioramento economico insomma, e questo fatto ha interrotto il rapporto naturale tra questione sociale e sinistra, fondata sulla convergenza di interessi per cui le lotte sociali rinforzavano quelle politiche e viceversa. Se la sinistra non garantisce più la possibilità di un miglioramento economico, la base sociale di riferimento (il mondo del lavoro dipendente salariato) cessa di essere allora naturalmente legata ad essa, scegliendosi di volta in volta la sponda politica che faciliti forme di resistenza all’impoverimento costante.
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La filosofia del fantasma in Marx
di Luca Cangianti
L’opera più famosa, diffusa e tradotta di Marx, il Manifesto del partito comunista, si apre con l’apparizione di uno spettro, quello del comunismo “che si aggira per l’Europa”. Tuttavia anche i suoi scritti più teorici sono pieni di vampiri, lupi mannari, creature frankensteiniane e altre suggestioni gotiche. Ciò non deve stupire, visto che il filosofo adorava Shakespeare ed era un lettore accanito di letteratura fantahorror. Meno risaputo è che queste figure, lungi dall’essere un mero dispositivo retorico, svolgono una specifica funzione epistemologica (cfr. Carmilla del 28.6.2014 e del 29.7.2014).
Nel Manifesto Marx illustra il processo di rimozione psicosociale del comunismo e della crisi economica del capitalismo attraverso la metafora del fantasma. In questo caso egli s’inspira a Shakespeare che spesso fa comparire lo spettro quale indizio di un crimine occultato – ad esempio con l’apparizione del fantasma di Banquo nel Macbeth o di quello del re ucciso nell’Amleto. Il riemergere del crimine rimosso è accompagnato inoltre dall’annuncio di una crisi imminente: “penso che tutto questo presagisca una qualche inusitata catastrofe nel nostro stato”, dice Orazio a Marcello nell’Amleto.
Gli ectoplasmi agitano le loro catene anche nel Capitale. Marx afferma che i feticismi e le apparenze fallaci descritte nella VII sezione del III libro sono una mistificazione del modo di produzione capitalistico, un “mondo stregato, deformato e capovolto in cui si aggirano i fantasmi di Monsieur le Capital e Madame la Terre, come caratteri sociali e insieme direttamente come pure e semplici cose” (Editori Riuniti, 1981, 943).
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L’occupante ferino
Intervista a Karl Heinz Roth
Karl H. Roth, riguardo a Alexis Tsipras la cancelliera Merkel ha di recente spiegato di voler mantenere la Grecia nell’Euro. Il Premier di SYRIZA ha risposto: «Noi abbiamo fatto la nostra parte. Faccia lei la sua». Cosa dovrebbe fare Berlino?
Il Governo Federale Tedesco dovrebbe approvare una moratoria e un taglio dei debiti. Questo è il punto di partenza decisivo, per giungere a una soluzione della crisi greca.
Attualmente non si discute né dell’uno né dell’altro. Bensì di una lista di riforme. Ciò è adeguato alla sfida?
No, poiché i problemi sono giganteschi. La Grecia è in rovina. Circa il 15% del capitale (Kapitalsubstanz) è andato distrutto. I diktat della Troika e i tagli sociali intrapresi finora hanno ridotto il rendimento economico di quasi il 30%. Sia riguardo la domanda interna, gli investimenti e il settore sanitario: vediamo dati totalmente catastrofici. Se non vengono mossi dei passi radicali, non solo la Grecia, bensì – ne sono convinto – anche l’Europa si troverà in una situazione molto pericolosa.
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La politica è uno specialismo. Però…
Aldo Giannuli
So di toccare un tema delicato che fa scattare molte suscettibilità, ma, tanto vale, dirla subito con franchezza: chi sogna una politica senza intermediazioni, praticabile immediatamente da tutti, è completamente fuori strada, perché la politica è inevitabilmente uno specialismo, come l’economia, la medicina, l’architettura o la matematica. Mi dispiace ma è così.
Questo non significa che ci si debba mettere, ad occhi chiusi, nelle mani dei politici di professione o degli “esperti”, perché politici e tecnici sono tutt’altro che gente disinteressata di cui ci si possa fidare. E, peraltro, ognuno ha diritto di intervenire su decisioni che incidono sulla sua vita e sulla vita dei suoi figli. Il problema è come fare. Procediamo con ordine.
In primo luogo: perché la politica è uno specialismo ed in che senso lo è?
La politica non è fatta di pochi atti, come ad esempio fare sette leggi all’anno o decidere una volta per tutto come si spende il denaro dello Stato e come si alimentano le casse dello Stato. E’ fatta di decine di decisioni ogni giorno. Per limitarci alla sfera nazionale (senza tener conto degli enti locali) in un anno, il Parlamento approva mediamente 200 leggi, ma accanto ad esse ci sono le disposizioni ministeriali che ne guidano l’applicazione (regolamenti, circolari ecc.), inoltre ci sono gli atti di politica estera, le commissioni di inchiesta e di indagine, gli atti di controllo ecc.
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La recinzione dei diritti e il proletariato 2.0
di Lelio Demichelis
Ultime e penultime cronache dal mondo del lavoro. Primo fatto, i lavoratori volontari (o i volontari del lavoro?) per Expo 2015, lì dove si sperimenta – con il lavoro gratuito (quasi) di ultima generazione – l’ultima negazione della Costituzione (art. 36) e insieme la cancellazione del lavoro come diritto (ancora Costituzione, artt. 1, 2, 3, 4, 31, 32, 35, 37 e 41), oltre a violare la legge stessa sul volontariato (che deve essere gratuito, ma spontaneo). Secondo fatto, un’agenzia di lavoro interinale con sede in Romania ha offerto alle imprese la possibilità di assumere lavoratori italiani ma con contratti di lavoro rumeni, con risparmi del 40% sui costi del lavoro. Ovvero: se non è possibile de-localizzare in Romania (non è più di moda) si vorrebbe rumenizzare il mercato del lavoro italiano. Con un’aggravante: il titolare dell’agenzia ha dichiarato a la Repubblica: “Quella possibilità era del 2014. Orapurtroppo le cose sono cambiate. Da gennaio è entrata in vigore, in Romania una legge che aumenta il costo del lavoro. Così ai nostri clienti lo sconto del 40% non riusciremo più a garantirlo”. Alla fine è dovuto intervenire il ministero del lavoro italiano per ricordare l’illegittimità della proposta, senza tuttavia cancellarne l’oscenità.
Due casi tra i molti citabili e ormai quotidiani; passi ulteriori lungo il piano inclinato su cui è stato messo a forza un mercato del lavoro sempre più dominato dalla flessibilità e della competizione tra lavoratori.
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La percezione inversa
Margin call's count down
di Quarantotto
1. Proviamo a capire "l'implicito" (cioè quello che conta, essendo "l'esplicito" di un governatore di BC, generalmente, una tautologia) di questa ennesima dichiarazione di Draghi:
Draghi (a Washington, al FMI): Qe in piedi fino a quando serve.
Che poi sarebbe a dire:
"Il quantitative easing della Bce resterà in piedi per tutto il tempo necessario, è presto per dichiarare vittoria. Lo ha detto il presidente della Bce, Mario Draghi, durante un intervento al Fondo monetario internazionale a Washington".
Quindi la domanda è: per tutto il tempo necessario...a chi?
I mercati azionari europei (naturalmente eccettuata la Grecia...perchè sarebbe fuori dal QE) sono in forte rialzo e certamente c'era da aspettarselo.
2. C'è chi dice che il rally azionario dell'eurozona "non è una bolla"; si tratterebbe di aspettative giustificate dalla prospettiva di un rialzo dei profitti - dovuto naturalmente al traino delle esportazioni da "svalutazione"- per le euro-equities. Queste sarebbero ancora convenienti (rispetto ai titoli scambiati a Wall Street), registrando un rapporto prezzo/utili ancora dimezzato rispetto alle azioni scambiate a Wall Street; così il Sole 24 ore, riportando l'opinione di Goldman&Sachs!
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Claudio Napoleoni e il Capitale monopolistico di Baran e Sweezy
di Riccardo Bellofiore*
1.Introduzione
Lo scritto che viene pubblicato di seguito[vedi qui] (Napoleoni, 2015) è la trascrizione di una lezione del 12 marzo 1973 tenuta da Claudio Napoleoni nel corso di Politica economica e finanziaria1. Oggetto della lezione è il commento del libro di Paul Baran e Paul Sweezy, Il capitale monopolistico, da poco pubblicato negli Stati Uniti (1966) e subito tradotto in italiano da Einaudi (1968)2.
L’interpretazione fornita da Napoleoni ha più di un motivo di originalità e potrà risultare per molti versi sorprendente. L’economista italiano era impegnato allora in un’originale ripresa critica di Marx che faceva asse proprio sui suoi aspetti più controversi, la teoria del valore-lavoro e la teoria della crisi, temi su cui il contributo di Sweezy era stato fondamentale. Ciò non di meno egli si distacca dalla usuale critica marxista al libro di Baran e Sweezy, secondo cui i due autori si sarebbero collocati fuori e contro la teoria del valore-lavoro3.
Sorprendente era peraltro la stessa struttura del corso di Politica economica e finanziaria in cui quella lezione fu pronunciata. I corsi del 1971-1972 e del 1972-1973 avevano come titolo “La realizzazione del plusvalore e la politica economica nelle economie capitalistiche moderne”. In quel che segue faremo soprattutto riferimento alla lezione del 12 maggio 1973 che si può leggere alle pagine 41-51 di questo fascicolo. Un corso dove l’esposizione della macroeconomia neoclassica e keynesiana (lungo linee non molto distanti da una avvertita sintesi neoclassica, come la si leggeva nella prima edizione del bel manuale di Gardner Ackley (1971) adottato da Napoleoni, e come peraltro si poteva già ricavare dalle voci del Dizionario di economia politica che aveva curato4, come da qualsiasi altro scritto dell’economista abruzzese sul tema) veniva proseguita dalla discussione approfondita del dibattito sulla teoria della crisi nel marxismo (da Marx a Lenin, da Tugan Baranowskij a Rosa Luxemburg). Si adottavano inoltre come letture chiave testi così distanti nel marxismo come il Capitale monopolistico di Baran e Sweezy e il Marx e Keynes di Paul Mattick (1972).
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Sloterdijk, Macho, Byung-Chul Han
Antonio Lucci
La filosofia è morta, viva le scienze della cultura!
Un rapido sguardo ai nomi delle cattedre, ai programmi delle lezioni, alle monografie pubblicate dai docenti afferenti ai dipartimenti di filosofia delle università tedesche è sufficiente a rendere evidente quello che ai più potrà sembrare a prima vista un dato stupefacente: la filosofia intesa come teoria e produzione di teoria sulla realtà, e analisi critica della stessa, in Germania, nei dipartimenti di filosofia, è scomparsa.
Resta al suo posto la storia della filosofia (una filosofia trattata come bene museale, come un oggetto in sé conchiuso, immutato e immutabile, e per questo oggettivamente analizzabile), dunque – nel migliore dei casi – l’analisi storica di un oggetto concettuale cristallizzato in uno spazio e tempo altri, del tutto separati dal presente e dalla sua interpretazione. Accanto ad essa la filosofia analitica, di matrice anglo-sassone. Ma della filosofia come interpretazione critica dell’esistente, analisi e produzione di immagini del mondo, non resta praticamente (fatte salve le dovute, rare ma presenti, eccezioni) traccia.
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Per chi spara il bazooka
di Agenor
L’avvio del programma di acquisto di attività finanziarie e titoli di stato a media e lunga scadenza da parte della BCE, comunemente etichettato come “quantitative easing”, ha rinfrancato chi pensava che il tassello mancante per la sostenibilità dell’unione monetaria fosse la politica della banca centrale. In molti hanno voluto vedere in questa misura la risposta europea all’espansione monetaria della Fed in America, della Bank of England in Gran Bretagna, o della Banca del Giappone, che ha aiutato questi paesi a uscire prima e meglio dalla crisi, soprattutto perché eseguita in combinazione con politiche fiscali espansive. Gli effetti benefici del cosiddetto “bazooka” di Draghi dovrebbero quindi far sparire come per magia i problemi che hanno portato la zona euro sull’orlo del collasso. L’obiettivo principale è quello di abbassare i tassi sui titoli di stato a lungo termine e generare in tal modo una spinta inflattiva. Il conseguente deprezzamento dell’euro rispetto alle altre monete dovrebbe poi anche far ripartire l’export, proprio come ai tempi della lira. Tutto perfetto, quindi. O no?
Purtroppo, quest’analisi pur comunemente diffusa trascura alcuni fattori decisivi. Primo, la tempistica. La BCE è arrivata a questa decisione con circa sei anni di ritardo rispetto al resto del mondo, quando l’intera zona euro è ancora al disotto del livello di reddito di sette anni fa, quando alcuni paesi membri – e al loro interno le fasce più deboli – sono stati letteralmente devastati, quando l’obiettivo del suo mandato, cioè un tasso d’inflazione sotto ma vicino al 2%, è stato clamorosamente, sciaguratamente, e prolungatamente mancato e la spirale deflazionistica è ormai cosa fatta.
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Marx contro Dracula
di Marco Zerbino
In “Sangue e plusvalore”, romanzo fantahorror di Luca Cangianti, un Karl Marx sull'orlo della depressione fa la conoscenza del giovane Daniel Pieper, che diventerà il suo assistente personale. Insieme, i due si mettono sulle tracce di un industriale-vampiro, Emil Constantin, addentrandosi in un'avventura che sarà anche un'esplorazione dell'arcano della produzione capitalistica...
“Caro Frederick, il gran freddo che è sopravvenuto qui e l'assoluta mancanza di carbone nel nostro alloggio mi costringono – sebbene questa sia per me tra tutte le cose del mondo la più penosa – a chiederti di nuovo del denaro. Mi ci sono deciso soltanto in seguito alla forte pressione esterna. Preferirei stare cento tese sottoterra piuttosto che seguitare a vegetare così. Tornare sempre importuno agli altri e per di più personalmente esser tormentato di continuo dalle più meschine miserie, alla lunga è cosa insopportabile”.
A scrivere queste amare righe indirizzate all'amico Engels è un Karl Marx in preda alla depressione e allo sconforto. Siamo nel gennaio del 1858 e il filosofo, esiliato a Londra da quasi un decennio in seguito al fallimento della rivoluzione tedesca del 1848, assediato da creditori che poche settimane prima aveva descritto in un'altra lettera come “lupi famelici”, assillato dall'indigenza e da vari problemi di salute, attraversa nei primi mesi di quell'anno un periodo particolarmente duro sul piano personale, tanto da mostrare i segni di una rassegnazione che suona un po' come un disarmante contraltare simbolico all'iconografia “diamat” del quadruplice profilo trionfante.
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Prassi, prassi produttive e crisi
Gramsci, Wittgenstein e Sraffa
di Guido Seddone
1. Premessa
Lo stabilirsi di una procedura sociale dominante viene considerato spesso in ambito filosofico con sospetto per via del rischio di polarizzazione o accentramento di potere politico e finanziario da parte di forze o classi sociali spesso minoritarie. La fase successiva allo stabilirsi di una procedura sociale è la sua giustificazione che in ambito marxista è solitamente definita come Ideologia. Tale ideologia ha una base filosofica in quanto coinvolge e presuppone una coerente unità del pensiero e una concezione del reale che si differenzia dal senso comune per il fatto di non essere frammentata ed occasionale. Inoltre, l’elemento ideologico si concretizza sia attraverso teorie economiche e politiche sia attraverso un assetto istituzionale e legale che rende possibile la conservazione e stabilizzazione delle attività produttive e dei conseguenti equilibri sociali.
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Alla catena sotto una triplice cappa
di Ferruccio Gambino e Devi Sacchetto
Pubblichiamo l’introduzione di Ferruccio Gambino e Devi Sacchetto al volume da loro curato Morire per un Iphone. La Apple, la Foxconn e la lotta degli operai cinesi, che comprende contributi di Pun Ngai, Jenny Chan e Mark Selden. Il libro è uscito in questi giorni per I tipi di Jaca Book. Una lunga anteprima dell’introduzione è stata pubblicata su «il Manifesto» del 12 maggio 2015 con il titolo L’atelier infernale degli smartphone.
Se il computer potesse parlar di sé
Il computer e le sue applicazioni sono tra le prime macchine che potrebbero parlare ai loro fruitori in viva voce e in modo discreto. Potrebbero raccontare di sé, a cominciare da chi li produce. in altri termini, si tratta di macchine potenzialmente in grado di dialogare con i loro consumatori a proposito non solo delle varie fasi di lavorazione ma anche delle vite che in quelle fasi si sono consumate. Tuttavia chi è interessato a conoscere in quali condizioni è stato fabbricato il computer o il telefono che ha tra le mani si trova di fatto davanti a una cortina fumogena, quella che avvolge l’elettronica, uno dei settori industriali più segreti, insieme con quelli delle armi e del petrolio.
In genere, i fruitori dei prodotti elettronici si tengono tanto lontani dal mondo dei rapporti sociali della produzione elettronica quanto ne vengono tenuti lontani dalle imprese. Indubbiamente, il software attira qualche attenzione in più dell’hardware, poiché la storia del software è punteggiata da sorprendenti invenzioni. Per contro, l’elaborazione dei modelli di hardware appare pedestre, anche se si è dimostrata decisiva per le fortune di alcuni grandi marchi dell’elettronica, a cominciare dalla Apple. Nel software è lunga la galleria delle innovazioni presentate come colpi di genio di singoli individui. La galleria sarebbe più corta se si tenesse conto dei gruppi di ricerca non orientati al profitto, i cui risultati sono stati spesso fatti propri da predatori corporate1.
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Lavoro, reddito, genere
Che dibattito sia...
Marco Palazzotto
Reddito minimo, reddito incondizionato, reddito di dignità? Attraverso questo intervento di Marco Palazzotto – che esamina criticamente le proposte di legge attualmente in ballo - PalermoGrad entra nel dibattito in corso oggi in Italia, con l’ambizione di precisarne ulteriormente i termini e di allargarlo a tutte le realtà di movimento, sindacali, politiche etc. etc. disposte a confrontarsi. L’obiettivo politico che ci interessa è impedire che la montagna inaccessibile del Reddito Universale Incondizionato finisca col partorire il ratto di una riforma “alla tedesca”, con un mercato del lavoro spezzato in due tronconi; e, visto che siamo in Italia, col rischio tangibilissimo che il troncone “buono” cominci a gravitare verso il basso, “tanto c’è il reddito minimo”. Pensiamo che, accanto alla doverosa erogazione di un reddito sociale per i disoccupati, la crisi occupazionale vada affrontata nell’ottica del “Lavorare Meno, Lavorare Tutti”. Una logica solidale che peraltro può reggersi soltanto sulle gambe della creazione di nuovo lavoro, attraverso l’imprescindibile intervento del “pubblico”.
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