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Sul razzismo
intervista ad Alberto Burgio
Il razzismo può apparire una questione non così cruciale nell’analisi della nostra società. In realtà la sua analisi può invece rivelare meccanismi profondi e illuminare alcuni dei tratti più importanti della nostra contemporaneità. Abbiamo deciso di rivolgerci per questo al prof. Alberto Burgio, professore di Storia della Filosofia all’Università di Bologna, che da diversi anni ormai si è occupato del fenomeno, intuendone la rilevanza e rendendolo oggetto delle sue ricerche (che hanno dato origine a libri come Studi sul razzismo italiano, a cura di e con Luciano Casali, Bologna, CLUEB, 1996; L’invenzione delle razze. Studi su razzismo e revisionismo storico, Roma, Manifestolibri, 1998; Nonostante Auschwitz. Per una storia critica del razzismo europeo, Roma, DeriveApprodi, 2010; Razzismo, con Gianluca Gabrielli, Ediesse, 2012). Per il professor Burgio il razzismo non è un elemento estemporaneo ma qualcosa che si lega alle dinamiche più profonde della contemporaneità. Analizzare questo tema sarà dunque un’occasione per riflettere sul nostro tempo.
Domanda: L’attualità ci pone in maniera sempre più drammatica davanti a fenomeni migratori di portata crescente e al rinascere di atteggiamenti razzisti all’interno delle nostre società. Per interpretare tale fenomeno lei sottolinea la necessità di comprenderne le radici storiche profonde, al riguardo sottolinea quanto sia importante indagare quella che può esserne definita la genesi. Nel fare ciò lei mette in evidenza nei suoi libri un nesso decisivo che unisce il razzismo alla modernità. In che senso il razzismo può essere definito un fenomeno moderno?
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Play the riot
di Raffaele Alberto Ventura
Imbevuti di un immaginario videoludico, i black bloc che hanno assaltato Milano il primo maggio assomigliano più a gamer che a rivoluzionari
Le scritte, bisogna leggere le scritte. Così mi ha detto Leonardo Bianchi, che il primo maggio era a Milano e che sugli scontri ha scritto un reportage per VICE. Bisogna leggere le scritte sui muri per capire chi sono questi ragazzi in felpa nera, cosa pensano, cosa vogliono. Bisogna leggere le scritte per interpretare delle pratiche di guerriglia urbana che, malgrado le evidenti analogie e continuità, in qualche modo segnano una rottura rispetto alla vecchia tradizione della sinistra extra-parlamentare. E allora ho letto le scritte. Ho cercato di trattarle come indizi, anzi come tracce di un’ideologia nuova della quale una parte degli antagonisti non è nemmeno consapevole. Espressioni enigmatiche come “AUTONOMIA DIFFUSA MONDIALE”, “WE ARE GOD”, “LIBERI E SELVAGGI”, e poi una che mi ha colpito in particolare, “PLAY THE CITY”. Le ho lette, le ho analizzate, le ho googlate, e quello che ho scoperto mi ha fatto esplodere il cervello.
Milano, 01/05/2015: Play the city (foto Ivan Carozzi).
Oltre che scritta sul muro davanti alla banca UBI di Piazza Cadorna, l’espressione “Play the city” appare su alcuni manifesti affissi in città, che rimandano a loro volta a dei banner pubblicati sulla pagina del Comitato No Expo, che rivendica senza nessuna reticenza le operazioni del primo maggio. Ma cercando su Internet “Play the city”, si capita sul sito di un’azienda vicentina che organizza itinerari turistici per “scoprire la città in modo alternativo” attraverso quelli che vengono definiti “giochi urbani”.
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Un passaggio non aggirabile
di Marino Badiale
1. La casa editrice Jaca Book ha iniziato a pubblicare una collana di brevi testi intitolata ai “precursori della decrescita”. La collana è diretta da Serge Latouche, e ogni volumetto è formato da un saggio introduttivo e da una antologia di testi. Si tratta di una iniziativa che nasce a seguito di una analoga collana francese, sempre diretta da Latouche. L'uscita più recente della collana italiana è quella dedicata a Charles Fourier, uno dei più noti fra i “socialisti utopisti” del primo Ottocento. Il libro è curato da Chantal Guillaume, una filosofa che si interessa sia di Fourier (ha partecipato alla creazione della Association d'études fourieristes) sia di decrescita (ha fatto parte fa parte del comitato di redazione di “Entropia”, rivista dedicata appunto al pensiero della decrescita), ed è quindi senz'altro la persona più adatta per discutere sul tema “Fourier e la decrescita”.
Penso che una riflessione su questo tema sia un buon modo per discutere di un problema che mi sta molto a cuore, quello della creazione di un possibile nuovo movimento anticapitalista all'altezza dei problemi attuali, e del ruolo in esso del movimento della decrescita da una parte, e del pensiero marxista dall'altra. È noto che in genere i marxisti sono ostili, o quantomeno diffidenti, nei confronti della decrescita, ritenendo che si tratti di una realtà incapace di contrastare il capitalismo, o magari connivente con esso.
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Partitura per soggetti precari e pratiche politiche
di Andrea Fumagalli
Continuiamo il dibattito post 1 maggio. Stavolta ci soffermiamo sulle questioni aperte da quella giornata, in una prospettiva che non vuole analizzare i pro e i contro del 1 maggio ma piuttosto sottolineare le questione aperte.
Preludio
A più di una settimana dal primo maggio milanese, la discussione su ciò che è successo ha perso attualità. È tempo di spostarci dalle ragioni e dai torti di questo o di quel gruppo (discussione che non ci appassiona più di tanto) ai problemi e ai nodi che ci trasciniamo da tempo e che quella giornata ha posto ancor più in risalto.
La NoExpo-Mayday del primo maggio era organizzata da una rete (a cui poco può essere addebitato) e non da un singolo gruppo/collettivo che faceva da punto riferimento. E, in quanto rete, le relazioni di partecipazione – potremmo dire di cooperazione politica – che vengono attivate difficilmente riescono a convergere verso una gestione unitaria, su un unico obiettivo, con il risultato che prevalgono le forze centrifughe. L’autoreferenzialità, da sempre malattia del centrosocialismo nostrano, non è certo mancata in questa occasione, anzi. Possiamo parlare di una black (dark) side della cooperazione politica di movimento?
Adagio
D’altro lato, tutto ciò è esattamente specchio della “cooperazione sociale” agìta dalla condizione precaria. Le generazioni precarie sono infatti attivate dai processi di rete, si riconoscono dentro la pluralità del loro essere sociale, tuttavia stentano a ammettere che la propria evoluzione può darsi solo passando attraverso azioni non identitarie.
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L’uscita dall’euro non è un tema da “oracoli”
Nadia Garbellini*
Il dibattito sugli effetti di una uscita dall’euro, promosso da economiaepolitica.it, si arricchisce con l’intervento di Nadia Garbellini, autrice di alcuni recenti saggi sul tema in collaborazione con Emiliano Brancaccio. Secondo Garbellini, i fautori della moneta unica a tutti i costi generalmente abbandonano il difficile campo della riflessione analitica e del confronto sulle evidenze empiriche per rifugiarsi in quello ben più comodo del dogmatismo
La controversia sulla possibile implosione dell’attuale eurozona e sulle conseguenze di un abbandono della moneta unica risulta tuttora pervasa da un diffuso dogmatismo. I fautori dell’uscita dall’euro sono accusati di semplificare il problema e di restare volutamente nell’ambiguità per non affrontare la questione decisiva inerente a quale politica economica adottare e quali interessi sociali difendere una volta fuori dall’Unione. In alcuni casi si tratta di una critica assolutamente fondata. Tuttavia, è soprattutto tra i sostenitori della permanenza nell’euro che sembra prevalere una retorica banalizzatrice, che in alcune circostanze rasenta la superstizione. Molti di questi, infatti, continuano ad agitare lo spauracchio della catastrofe economica in caso di uscita dall’euro senza prendersi la briga di fornire la minima evidenza scientifica a sostegno delle loro predizioni. Questa tendenza all’oracolismo caratterizza non solo i giornalisti ma sembra diffondersi anche tra alcuni economisti e policymakers coinvolti nella discussione. Un celebre esempio è fornito dal Presidente della BCE Mario Draghi, che in un’intervista del 2011 sostenne che «i paesi che lasciano l’eurozona e svalutano il cambio creano una grande inflazione» (Draghi 2011). Da queste poche parole diversi commentatori hanno tratto l’implicazione che uscire dall’eurozona determinerebbe una violenta caduta del potere d’acquisto dei redditi fissi, in particolare dei salari dei lavoratori. Nessuno, per quel che ci risulta, si è posto il problema di verificarle empiricamente.
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A che punto è l’euro-notte
Federico Dezzani
L’allentamento quantitativo varato due mesi fa da Francoforte ha generato una bolla nel mercato delle obbligazioni sovrane europee ma ha fallito nell’imprimere una svolta all’economia reale, dove al contrario si registra la caduta dell’attività di Francia e Germania. Gli insuccessi di Mario Draghi e la concomitante debacle del “piano Junker” aprono la strada allo sfaldamento dell’eurozona, scaturibile dall’imminente default di Atene. La disgregazione dell’eurozona sarà accompagnata da una escalation militare in Ucraina, dove Washington e Londra stanno convogliando uomini e mezzi con intenti provocatori. Fallito il progetto degli Stati Uniti d’Europa, la minaccia strategica più temibile per gli angloamericani è sempre l’integrazione tra Germania e Russia.
L’ultima offensiva di Francoforte e Bruxelles è fallita
Un’unione monetaria senza una parallela integrazione fiscale è inevitabilmente destinata al fallimento tra i miasmi dell’austerità. L’euro, anziché essere il coronamento di un democratico processo d’integrazione europea, votato ed approvato dai cittadini, è stato all’opposto scelto come primo passo verso l’unione politica, proprio in virtù dei suoi prevedibili effetti destabilizzanti. Un sistema a cambi fissi calato su un’area valutaria non ottimale (l’eurozona) avrebbe nell’arco di un decennio accumulato tali tensioni (la crisi del debito sovrano e l’emergenza spread) da obbligare i Parlamenti nazionali a procedere spediti verso gli Stati Uniti d’Europa, con l’acquiescenza dei cittadini ammutoliti da possibili crack finanziari e default sovrani.
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Psicochimica e psicoarchitettura
Franco Berardi Bifo
Stimolanti e tranquillanti per cognitari metropolitani
Sul New York Times del 20 aprile 2015 sono usciti casualmente in contemporanea due articoli diversi per stile e per intenzione che descrivono da prospettive opposte e complementari la psicosfera americana contemporanea. Il primo, a firma Alan Schwarz reca il titolo “Workers under pressure abuse ADHD drugs” e appare nella pagina Business. Schwarz si occupa dei nuovi risvolti di un tema che da due decenni interessa medici, psicologi e pedagoghi: i disturbi dell’attenzione. Una sindrome che si può descrivere sinteticamente come incapacità di concentrare l’attenzione sullo stesso oggetto per più di qualche secondo è chiaramente legata all’intensificazione della stimolazione infosferica, al multitasking e alla riduzione dei tempi di esposizione dei dati al sistema occhio-cervello.
In passato il deficit d’attenzione venne segnalato e diagnosticato tra i ragazzini delle scuole elementari e medie. A milioni di pre-adolescenti venne somministrato un farmaco che si chiama Ritalin, composto di metilfenidato.
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Desperate Capitalism
di Pierluigi Fagan
Diciamo subito che “Capitalismo, desiderio e servitù” di Frederic Lordon, (Derive ed Approdi 2015) ci ha interessato molto. Il capitalismo in sé ma sempre più nella più recente versione neoliberale, appare a Lordon come un macchinario del desiderio. L’essere umano è un animale desiderante sofisticato, nel senso che alle necessità e bisogni animali, aggiunge appunto la dimensione del desiderio, dimensione imprecisabile poiché animata da una instancabile meccanica della possibilità (poter desiderare questo e quello…) a fronte della quale, il desiderio esiste prima ed al netto del suo possibile oggetto (tesi già di Freud). Non è quindi detto che tale pulsione fondamentale possa mai avere una soddisfazione, se non momentanea. Molte cose della nostra natura sono fatte per svolgere una funzione ma noi, che siamo il prodotto dell’interrelazione di queste funzioni, possiamo trovarci e spesso ci troviamo alle prese col problema di armonizzarle. Ridurre il loro molteplice ad uno e convivere con le contraddizioni strutturali che ci creano è un difficile lavoro che non sempre ha felice esito.
Nel ’68, si credette che il desiderio avesse addirittura un potenziale rivoluzionario. In realtà, il macchinario che chiamiamo capitalismo, nacque proprio per produrre un ordine alimentandosi della cosa meno apparentemente ordinata che c’è, appunto, il “desiderio”. Se note sono le origine meccaniche del macchinario, le enclosures e la frantumazione dei commons, meno note sono le origini psichiche o spirituali. La variegata famiglia dei discepoli della libertà (in effetti ogni discepolo è di sua natura schiavo) che comprende il neo-liberismo, il liberismo, i libertariani, i liberali, origina storicamente da una prima elementare ma precoce manifestazione, quella dei libertini.
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L’intelligenza di John Maynard Keynes
Vittorio Capecchi
Perché bisogna sostenere Varoufakis contro la Troika? Perché bisogna attaccare il modello antisindacale di Marchionne e appoggiare Landini? Quali sono gli scenari della economia oggi? Per rispondere a queste domande si può raccontare la storia dello scontro tra l’intelligenza di Keynes, Adriano Olivetti e la FLM contro l’opacità del neoliberismo e provo a fare questo racconto utilizzando esperienze personali [1] tra gli anni ’50 e gli anni ‘70 nello stile delle 150 ore che mi piacerebbe tanto contribuire a rilanciare
John Maynard Keynes (1883-1946) è l’economista che ha rappresentato e ancora oggi rappresenta un’alternativa politica e teorica al neoliberismo. Due interrogativi: Che tipo di economista è stato Keynes e quale era il suo metodo di analisi? Le sue proposte sono ancora attuali?
1. La definizione di economia per Keynes
Keynes precisa nel 1924 che cosa intende per economia e per economista:
L’economia è una materia facile in cui però pochissimi eccellono. Il paradosso trova una spiegazione forse nel fatto che il grande economista deve possedere una rara combinazione di qualità. Deve raggiungere una certa perizia in svariati ambiti e coniugare doti che raramente si trovano nella stessa persona. Deve essere, in una certa misura, un matematico e uno storico, uno statista e un filosofo. Deve sapersi esprimere, ed essere in grado di comprendere i simboli. Deve saper cogliere il generale nel particolare, e abbracciare l’astratto e il concreto nello stesso moto del pensiero.
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Come impedire la nascita del regime renziano
Tattica e strategia
di Leonardo Mazzei
Dopo l'italicum e prima che sia troppo tardi
Le cose hanno un nome, a volte poco gradevole. Quello del futuro disegnato dall'Italicum è regime.
Più precisamente: regime renziano.
Anche se la legge elettorale non è materia direttamente costituzionale, è questa legge che disegna il sistema politico e determina in buona parte la stessa distribuzione dei poteri.
Così ha scritto il Consiglio nazionale di ORA qualche giorno fa:
Ieri l'altro questo obbrobrio è stato approvato dalla Camera. Ed oggi arriverà anche la firma dell'integerrimo Mattarella, messo lì da Renzi a far da palo.
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Sull’uso capitalistico della crisi
Stefano Lucarelli
La crisi messa a valore. Scenari geopolitici e la composizione da costruire, a cura di Commoware, Effimera e Unipop, raccoglie gli interventi sviluppatisi, prima, durante e dopo, due intense giornate dello scorso novembre tenutesi presso il Centro sociale Cantiere e lo Spazio di Mutuo Soccorso a Milano. L’occupazione dei luoghi conta, guardarsi in faccia è importante, discutere senza bastare a sé stessi e senza ridurre l’altro a una “tiro a segni” è possibile; altrimenti “la ricomposizione delle lotte... animate da soggettività diverse” rimane un pensiero lontano, un’eco mentale.
Oggi La crisi messa a valore è un ebook liberamente scaricabile dal web, concepito in un tempo che precede l’attentato parigino a Charlie Hebdo e le elezioni greche (di cui però tiene conto il dialogo fra Gigi Roggero e Christian Marazzi). “L’incapacità di fare i conti con la diversità della composizione di classe, l’ansia di armonizzare che ha come contropartita la riduzione della possibilità di produrre innovazione”, sono i due fuochi attorno ai quali si sviluppano ipotesi e narrazioni di esperienze concrete, oltre che riletture anche critiche delle categorie e delle pratiche politiche messe in campo in questi tempi duri. Leggendo si cerca di riprender fiato per uscire dall’oceano di crisi nel quale si è naufragati, fra colpi di reni insufficienti a risalire, piedi che sbattono e corpi che si agitano in un’acqua melmosa in cerca delle correnti amiche.
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Marx dietro le quinte
di Michele Basso
Ci sono compagni che, una volta compiuta un’analisi economica e politica generale delle cause delle guerre, trovano inutile e sviante la ricerca di quali stati e servizi segreti stiano dietro gli attentati con cui si cerca d’impaurire la popolazione e di renderla prona alle politiche di repressione e di guerra. Non si tratta di complottismo o dietrologia, ma di un lavoro utile per contrastare la permanente opera di disinformazione compiuta dai regimi e dai loro pennivendoli. In Marx ed Engels si possono trovare numerose denunce delle trame di Napoleone III o della diplomazia zarista, di Thiers o di Bismarck. Marx cercava di avere notizie, dai suoi contatti russi, sull’attività della “Terza divisione”, cioè della polizia segreta zarista. Giova ricordare qualche esempio: nel 1873, un reparto russo guidato dal generale Golovašov, che dipendeva dall’aiutante generale K.P. Kaufmann, condusse una terribile spedizione punitiva contro la tribù turkmena degli Jomudi. In un libro, uscito nel 1876, il diplomatico americano Eugene Schuyler rese nota tale carneficina. La polizia segreta russa entrò in azione per neutralizzare gli effetti di tale rivelazione. Poiché la notizia era diffusa dai giornali londinesi, la signora Nokivova, moglie dell’interprete russo a Costantinopoli e cognata dell’ambasciatore russo a Vienna, nel cui salotto s’incontravano letterati, scienziati e politici di diverse nazionalità, scrisse, in combutta con Gorlov, addetto militare all’ambasciata russa a Londra, una lettera a Gladstone in cui protestava contro gli “sporchi attacchi” di certa stampa londinese alla Russia.
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Perché l'islamismo non può essere spiegato a partire dalla religione
di Norbert Trenkle
Come avviene sempre, dopo un atto di terrorismo islamico, come la strage nella redazione di Charlie Hebdo e nel supermercato ebraico a Parigi, anche il dibattito pubblico viene indirizzato intorno alla questione di sapere cosa "l'Islam" abbia a che vedere con tutto ciò. Tuttavia, a livello politico ufficiale e nei media, questa domanda stavolta è stata posta con minore aggressività rispetto agli avvenimenti precedenti. La campana dominante è quella che dice che la società non deve lasciarsi dividere, e che nessun punto di vista religioso può giustificare la violenza terroristica. Ma questo, come soffiare in un violino, non serve a niente. Dal momento che purtroppo è chiaro che le azioni mostruose di Parigi portano acqua al mulino del fondamentalismo razzista e nazionalista che si sta diffondendo in tutta Europa e che afferma, a voce sempre più alta, che l'Islam, per sua essenza, sarebbe incompatibile con i valori della "civiltà occidentale" e che, quindi, i musulmani non devono stare qui.
A fronte di questa concezione fondata sul presunto cuore della società, gli appelli all'armonia, fatti dalla politica ufficiale, appaiono impotenti. E questo non attiene soltanto al fatto che gli atteggiamenti razzisti sono del tutto sordi a qualsiasi argomentazione razionale, ma anche al quadro di riferimento del discorso stesso.
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Comunismo Ermeneutico. Da Heidegger a Marx : note critiche
di Roberto Finelli
La coppia concettuale “comunismo ermeneutico” rivela, a mio avviso, una contraddizione in termini, perché mette insieme due tradizioni interpretative della modernità profondamente diverse, anzi pressoché opposte tra loro: come sono il marxismo di Marx da un lato, profondamente ispirato al dialettismo di Hegel, e l’analitica esistenziale, profondamente antidialettica, di Martin Heidegger.
La dialettica si può dire, assai schematicamente, studia la costruzione della realtà attraverso nessi di opposizione e di distinzione: a partire dalla definizione platonica per cui la dialettica è l’arte di dividere secondo generi e specie e di conoscere quali idee si connettano tra di loro e quali invece si distinguano e si escludano. In Hegel la dialettica rimanda alla tessitura di una realtà che si costruisce solo mediante opposizione, e questa è, di fondo, la medesima concezione di Marx, anche se con un profondo cambiamento di categorie oppositive rispetto a quelle teorizzate da Hegel. In Heidegger il motivo teorico fondamentale è invece, anziché quello dell’opposizione-contraddizione, quello della differenza: cioè della differenza radicale, quanto a statuto e qualità di realtà, che si dà tra Essere, Esserci ed Ente, e che concerne appunto l’abisso di distanza ed eterogeneità di piani che si dà il Sein, il Dasein e il Seiendes.
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Le passioni sediziose dell’operaviva
Federico Chicchi
È cosa nota che Marcel Duchamp decise di lasciare quella che diverrà poi la sua opera più importante, Le grand verre, incompiuta. Durante la lavorazione americana dell’opera, nel 1923, infatti, si ruppe il sottile vetro che doveva, sostituendo la tradizionale tela, contenere la sua sibillina rappresentazione. Ma come spesso accade nell’arte, l’incompiuto della forma ci dice molto sul suo contenuto espressivo rendendolo ancor più prezioso.
Per tentare di decifrare la complessa e controversa opera di Duchamp si deve partire dal suo famoso sottotitolo: La Mariée mise à nu par ses célibalaires, meme. È, in tal senso, il grande vetro, una straordinaria figurazione del rapporto tra capitalismo e desiderio, la storia di un amore impossibile tra una sposa semicompiacente e uno scapolo ansioso (Arturo Schwarz). È la storia di una interpellanza, di una chiamata, che (fortunatamente) non potrà mai realizzarsi fino in fondo, perché il rapporto sessuale non esiste. Il n'y a pas de rapport sexuel, riproporrà Lacan qualche decennio dopo. E neanche l’astuta macchina capitalistica è in grado di trasfigurare una volta per tutte, ricoprendo il buco di merci, il “mondo in giallo”. Il punto di partenza: l'Eros, motore del tutto. Chi sono i soggetti che mettono in scena l’opera di Duchamp? la Vergine nella sezione superiore del vetro a citare l'Assunzione come nei dipinti medievali e rinascimentali e i suoi Scapoli o Celibi sottostanti, in trepida, macchinica attesa di consumare e macinare gioia e dolore.
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La Cina non è più il maggior detentore dei titoli del debito pubblico statunitense
Inizia il declino del dollaro con un segnale storico
Attilio Folliero
Si avvicina il collasso e il collasso sarà economico, político, ambientale e sociale come scrive Dane Wigington (1). In particolare, gli Stati Uniti, come abbiamo scritto tante volte in passato (2) sono immersi in una grave crisi che diventerà terminale con il crollo del valore della sua moneta. A titolo di esempio sulla situazione attuale degli USA diamo solamente due dati: il debito pubblico statunitense è superiore ai 18.000 miliardi (3); la Federal Reseve, la Banca Centrale degli USA, una banca privata, nel 2007 aveva un bilancio di 869 miliardi ed oggi è attorno ai 4.500 miliardi (4). La Federal Reserve come ha potuto accrescere il proprio bilancio di ben 5/6 volte in pochissimi anni? Stampando dollari!
Questa estate si svolgeranno negli Stati Uniti delle esercitazioni militari conosciute col nome in codice "Jade Helm"; l'esercito e varie agenzie governative realizzeranno delle esercitazioni congiunte e, come dicono in molti, queste esercitazioni hanno per obiettivo il controllo della popolazione civile. In sostanza molti intravedono un peggioramento della crisi, conseguenti disordini sociali ed il governo che impone la legge marziale.
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L’enigma del senso di colpa
Elettra Stimilli
Quello che segue è un estratto del saggio Debito e colpa, il nuovo libro della collana «Fondamenti» in libreria in questi giorni per la casa editrice Ediesse. Un saggio che muove dal nesso tra debito e colpa con l'intento di mettere a nudo i nodi teorici contenuti in questa relazione semantica, e di collocare il problema del debito in un contesto più articolato rispetto a quello strettamente tecnico della scienza economica
Il neoliberismo è una forma di governo che si pratica con l’autogoverno, implica strutture istituzionali di tipo amministrativo e una razionalità politica dotata di una «macchina antropogenica» diversa da quella a cui miravano le società moderne. Come si è cercato di mostrare sulla scia dello stesso Foucault, «l’invenzione» di questo dispositivo va genealogicamente individuato nel cristianesimo e nell’istituzione amministrativa dell’Ekklésia, che per prima scombina sul piano pubblico della comunità politica il dualismo dell’attività e della passività del potere, su cui si fondavano le società nel mondo antico e su cui, per altri versi, ha continuato a basarsi il patto politico moderno. Molte sono le differenze tra il «prototipo» e l’attuale realizzazione. Ma in ogni caso il suo funzionamento è dovuto al coinvolgimento di risorse specificheper la caratterizzazione della vita umana.
A queste risorse è rivolta l’attenzione di Judith Butler, intenta ad un’indagine sul potere che, al di là della sua struttura moderna, risalga piuttosto alle sue radici psichiche. La sua analisi presuppone la rottura con la logica repressiva del potere patriarcale moderno messa in atto dalle pratiche e dalle teorie femministe e mette al tempo stesso in discussione la naturalità di genere e dell’identità sessuale, pure rivendicate da un certo femminismo, a favore di una ricerca volta a individuare la loro origine culturale e la loro provenienza da pratiche sociali performative.
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“Trickle-down economics”
Guido Viale
Trickle-down (in italiano, sgocciolamento) è il nome di una teoria economica, ma anche di una filosofia, che molti hanno conosciuto attraverso la parabola di Lazzaro che si nutriva delle briciole che il ricco Epulone lasciava cadere dalla sua mensa (Luca, 16, 19-31). Dopo la loro morte le parti si sono invertite perché Lazzaro è stato ammesso al banchetto di Dio, in Paradiso, mentre Epulone è finito all’inferno a soffrire fame e sete. La teoria e la filosofia del Trickle–down in realtà si fermano alla prima parte della parabola. La seconda parte è compito nostro realizzarla; e non in Paradiso, dopo la morte, ma su questa Terra, qui e ora.
In ogni caso, secondo la teoria, più i ricchi diventano ricchi, più qualche cosa della loro ricchezza “sgocciolerà” sulle classi che stanno sotto di loro, per cui che i ricchi siano sempre più ricchi conviene a tutti. Discende da questa teoria la progressiva riduzione delle tasse sui redditi maggiori (fino alla flat tax, l’aliquota uguale per tutti, predicata negli USA dal partito repubblicano e, in Italia, da Matteo Salvini) che, a partire dagli anni settanta, ha inaugurato la crescita incontrollata delle diseguaglianze. In Italia la progressiva riduzione delle aliquote marginali dell’imposta sui redditi più elevati (al momento dell’introduzione dell’Irpef era di oltre il 70 per cento; oggi supera di poco il 40) è stata giustificata sostenendo che aliquote troppo elevate incentivano l’evasione fiscale, mentre aliquote più “ragionevoli” l’avrebbero eliminata. I risultati si vedono. L’altro cavallo di battaglia della Trickle-down economics è che le misure di incentivazione economica dovrebbero essere destinate esclusivamente alle imprese, perché sono solo le imprese a creare buona occupazione e, quindi, reddito e benessere anche per i lavoratori. Tutte le altre spese, specie se di carattere sociale, sono, in termini economici, “sprechi”.
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Il redde rationem: la Corte in mezzo al guado
L'emergenza democratica più grave dal 1948
di Quarantotto
1. Nel post del 1° maggio avevamo messo in risalto la questione del "quando e perchè" un diritto costituzionalmente tutelato dovesse trovare tutela integrale, cioè attraverso la piena espansione del principio della restituzione di quanto indebitamente percepito ovvero non erogato (dallo Stato), in applicazione della norma dichiarata incostituzionale.
Quello che può apparire un tecnicismo, è in realtà un punto fondamentalissimo per poter qualificare la (permanenza o meno della) sovranità di uno Stato, in relazione al concomitante principio della "scarsità delle risorse finanziarie" dello stesso, derivante dalla limitazione del deficit e dall'adesione all'euro, cioè dal "vincolo esterno" dei trattati europei.
In presenza del pareggio di bilancio, nella nuova formula dell'art.81 Cost., poi, il problema diviene di primaria importanza, perchè accelera e rende tangibile, anche a chi prima non se ne rendeva conto, lo stato di progressivo smantellamento dell'assetto sociale derivante dai principi fondamentali della Costituzione stessa.
2. E dunque avevamo evidenziato il concreto manifestarsi di questa accelerazione in questi termini:
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Euro: pensare di tornare indietro fa perdere tempo alla sinistra
Salvatore Biasco
Nessuna delle misure di economia di guerra ci salverebbe da un disastro. I difetti analitici di chi pensa sia opportuno autoinfliggercelo. Rimanere “dentro” è l’unica opzione possibile, anche se per nulla tranquillizzante. Il modo con cui uscire dalla crisi da sinistra è ciò su cui dovrebbe impegnarsi la sinistra politica
Per prima cosa si rendono necessari alcuni puntini suglii. Smettiamola di dividere il mondo tra coloro che sono coscienti dei disastri che ha comportato l’euro per l’economia italiana e propongono un rimedio a portata di mano (la riappropriazione del cambio) e coloro che non vedono quei disastri, sono indifferenti allo sconquasso sociale, non se ne preoccupano o sono resi ciechi dalla scelta di campo, rifiutando di prendere in considerazione una leva così ovvia e a immediata disposizione.
Chi vive in modo più angoscioso la china dell’economia italiana è proprio chi pensa che un rimedio semplice non vi sia (e che quello proposto sia di gran lunga peggiore del male). Ma non vi è alcun dubbio che l’Italia non ha retto alla crisi mondiale del 2007 nell’ambito delle regole e dei vincoli dell’euro, finendo in un vicolo cieco, dal quale sarà difficile districarsi. Personalmente rinvio alla straordinaria tavola rotonda che, all’apparire del progetto di moneta unica (siamo nel 1989!), mostra che vi era una profonda consapevolezza di ciò che sarebbe successo1. Successivamente – all’epoca in cui l’ingresso fu deciso (nella prima metà degli anni Novanta) – sarebbe stato difficile per un Paese che nel 1992 aveva rischiato il default non prendere l’opportunità per porre fine alle varie spirali che in modo perverso percorrevano l’economia italiana (interressi-debito pubblico; prezzi-salari-cambio, ecc.).
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Se il capitale è l’avanguardia di se stesso
di Marco Dotti
Talvolta sottovalutato, talaltra sopravvalutato, al contributo di Walter Lippmann si deve, tra le tante cose, la nozione di pseudo-ambiente. Lo pseudo-environment è un concetto chiave, non solo per comprendere il “chi” e il “che cosa” di quell’opinione pubblica a cui l’autore americano dedicò nel 1922 un libro capitale per la formazione del pensiero e la strutturazione delle pratiche neoliberali.
Mitocrazia ambientale
La nozione di pseudo-ambiente appare, infatti, fondamentale soprattutto per comprendere il “come”, ossia con quali forze e attraverso quali coordinate, tra complessità vitali e semplificazioni cognitive, un’opinione si costituisca in forma pubblicamente rilevante e determinante, ma proprio in tal modo venga depotenziata e recuperata nel sistema.
È però vero che Lippmann faceva ancora in parte dipendere lo pseudo-ambiente informazionale da una selezione e, in definitiva, da una barriera. Oggi, al contrario, anziché a una barriera bisognerebbe pensare a un filtro o a una membrana porosa: un punto, come scriveva Yves Citton nel suo <>Mythocratie (2010), dove pratiche della narrazione e dispositivi di potere si incontrano, dando luogo a quella pratica di “scenarizzazione” che ha radicalmente esteso lo pseudo-ambiente informazionale.
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Integraciòn o muerte! Venceremos?
L'America Latina nel suo labirinto
Daniele Benzi
II. L'ombra degli Stati Uniti [Qui la prima parte]
Gli ultimi due secoli dell’America Latina sono stati profondamente segnati dalla costante ingerenza politica, economica e militare degli Stati Uniti. La pretesa egemonica di escludere l’influenza di altri paesi e di mantenere salda la propria è un fatto facilmente constatabile e determinante per l’evoluzione storica della regione. La dottrina Monroe e quella del Destino Manifesto rappresentano in questo senso il nucleo fondante attraverso cui gli USA hanno elaborato, messo in pratica e costantemente aggiornato la propria politica emisferica. In base ad esse, hanno lavorato assiduamente per frenare ogni tentativo di unificazione politica ed integrazione economica a Sud del Rio Bravo che ne minacciasse, fosse anche minimamente, gli interessi.
La singolarità di questo rapporto di dominazione, ritratto metaforicamente dall’immagine in qualche modo familiare e per questo ambigua del «cortile di casa», sempre in tensione fra una persistente interferenza e una indifferenza in mala fede, si spiega plausibilmente alla luce della storia nazionale degli Stati Uniti, espansionista per necessità forse, sicuramente per vocazione, e della loro progressiva scalata al potere mondiale. Panamericanismo, «Big stick diplomacy» o «Politica di buon vicinato», così come la «Diplomazia del dollaro», sono stati strumenti ricorrenti della politica estera statunitense verso l’America Latina. Non sorprende, quindi, dal punto di vista delle élite governanti latinoamericane, che le relazioni internazionali con il vicino del Nord siano state improntate a un atteggiamento costantemente oscillante, a seconda del momento storico e/o blocco o leader al potere, tra l’acquiescenza e imitazione o la ricerca di autonomia.
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Dossier Odessa*
di Nico Macce
Immaginatevi centinaia di squadristi che attaccano e incendiano la camera del lavoro della vostra città, immaginatevi che all’interno di questo edificio brucino vive decine di persone, che quelli che cercano di scappare fuori vengono assassinati all’esterno a colpi di mazza. E infine, immaginate gli squadristi entrare nella camera del lavoro ancora fumante, a finire i superstiti.
Questi fatti sono accaduti un anno fa, il 2 maggio, a Odessa. Non in Ruanda, ma in Ucraina, Europa.
Altro che qualche auto e banca bruciata in centro a Milano! Con l’assalto alla casa dei Sindacati di Odessa, mi riferisco a una strage, un orrendo eccidio, un crimine taciuto e minimizzato dai nostri media ufficiali (come nel resto dell’Occidente). Gli stessi così zelanti a stigmatizzare ogni cacata di cane che imbratti i salotti buoni dell’ennesima fiera del profitto e che in questi giorni ci ha fatto vedere le vetrine rotte milanesi da ogni angolo possibile e immaginabile. Media che però sono censori e falsi verso fatti macroscopici come i pogrom nazisti in Ucraina. Il che mi porta a dire che questo giornalismo dei grandi network e delle testate controllate dai gruppi finanziari non può rappresentare la coscienza democratica di un paese civile. Non ne ha più la cifra etica già da molto tempo.
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Le trattative tra Tsipras e Merkel dimostrano che l'Europa è già fallita
di Enrico Grazzini
In apparenza Tsipras e Merkel si stanno giocando il futuro dell'Europa. Ma in effetti, il sogno europeo è già morto e sepolto sotto i colpi dell'euro-marco. Comunque vadano le trattative tra la Grecia del socialista Alexis Tsipras e l'Unione Europea, guidata dal mastino Angela Merkel, il destino dell'Unione Europea è già segnato. Le illusioni di una Europa più forte e più giusta sono ormai del tutto ingiustificate. La UE è ormai apertamente nemica dei popoli. L'Europa è ormai solo l'alibi dei governi europei di tutti i colori per imporre le riforme strutturali neo-liberali volute dalla grande finanza: riduzione del costo del lavoro, disoccupazione, abbattimento selvaggio del welfare, privatizzazioni, compressione dei diritti sociali e politici, riduzione della democrazia a feticcio formale.
Le regole europee della moneta soffocano l'Europa, ma nessuna regola vincola invece la grande finanza. “Vi tolgo tutto in nome dell'Europa”. Questo è ormai lo slogan dei governi “europeisti” per perseguire drastiche politiche di destra, come quelle di Matteo Renzi. I governi europei e le elite dirigenti delle nazioni europee sono diventati dei semplici portavoce di interessi sovranazionali – istituzioni europee e grande finanza – che perseguono politiche di prolungamento della crisi.
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Grecia, la misura è colma
di Domenico Mario Nuti
Una domanda di uscita unilaterale della Grecia dall’Ue avrebbe effetto solo due anni dopo, lasciando ampio tempo per eventuali rinegoziazioni. Ma potrebbe essere un modo efficace e rapido di far venire a più miti consigli Schäuble e gli altri falchi della troika che hanno traumatizzato il paese spingendola verso il default a tutti i costi
Nei panni di Alexis Tsipras farei domanda immediatamente perchè la Grecia lasciasse unilateralmente l'Unione europea, come previsto dall'art. 50 del TUE (versione consolidata del Trattato sull'Unione europea, Gazzetta Ufficiale dell'Unione Europea, C 115/15, 9/5/2008).
Dall’inizio della crisi della Grecia nel 2010 la Troika (scusatemi, ora si deve dire “le istituzioni internazionali") ha impegnato nel suo salvataggio circa 245 miliardi di euro, ossia più di quanto sarebbe stato sufficiente a quell’epoca a estinguere l'intero debito greco. Tutti sanno che questi fondi non hanno beneficiato i greci ma sono andati quasi interamente a salvare le banche francesi, svizzere e tedesche dalla loro massiccia esposizione ai titoli di stato greci. E nel Financial Times del 21 aprile Martin Wolf demistifica la "mitologia" greca, tra cui il mito che "la Grecia non ha fatto nulla":
"La Grecia ha subìto un enorme aggiustamento dei saldi del suo bilancio pubblico e dei suoi conti con l’estero. Tra il 2009 e il 2014, il saldo primario di bilancio (al lordo degli interessi) si è ridotto del 12 per cento del PIL, il disavanzo di bilancio strutturale del 20 per cento del PIL e il saldo delle partite correnti del 12 per cento del PIL."
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