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La versione del Dragone: oltre la “fine della storia”
di Francesco Giuseppe Laureti
Un ammonimento inequivocabile giunge forte e chiaro dalle celebrazioni del Centenario del Partito comunista cinese e, qualora l’Occidente non vi avesse prestato sufficiente attenzione, dovrebbe porre rimedio alla propria distrazione. Mentre il panorama politico e geopolitico internazionale non lascia dubbi sull’intensificarsi della competizione globale tra “aquila a stelle e strisce” e “dragone rosso”, il discorso pronunciato il primo luglio 2021 dal Segretario del PCC e Presidente della Repubblica Popolare Cinese Xi Jinping ha sciolto più di qualche interrogativo avanzato dagli esperti di relazioni internazionali. Sarà la sua allocuzione a fungere da filo conduttore dell’analisi che segue e che toccherà tematiche di natura storico-politica, economica e culturale sollevate dal Presidente cinese, che per l’occasione indossava la tipica divisa di Mao Zedong.
Alle radici del risveglio dell’orgoglio nazionale
Non si può comprendere il nuovo corso della politica estera cinese senza la consapevolezza di quanto il “secolo della vergogna” e l’imperialismo europeo – che nella versione occidentale corrisponde a un periodo di prepotente sviluppo economico e tecnico-scientifico – rappresentino una ferita aperta nella memoria collettiva della Cina. A grandi linee è lo stesso Xi Xinping a ripercorrere la tremenda pagina storica:
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Legge economica e lotta di classe*
I limiti dell’economia di Mattick
di Ron Rothbart
Introduzione redazionale
Sottraiamo all’oblio e proponiamo ai nostri lettori quest’articolo redatto una quarantina d'anni fa, e in apparenza slegato dalla più immediata attualità, per tre motivi essenziali:
♦ esso testimonia di un confronto fra posizioni che potremmo definire «operaiste» – la cui elaborazione e diffusione fu, nel contesto degli anni 1960-’70, ben più ampia del solo, e tanto celebrato operaismo italiano – e posizioni «ortodosse», lasciate in eredità da una parte delle Sinistre comuniste storiche, in merito alla dinamica dell’accumulazione del capitale e del ruolo che la lotta di classe svolge al suo interno;
♦ esso suggerisce non già la squalifica senza appello delle tesi operaiste in senso lato, accomunate dal postulato (implicito o esplicito) del salario come «variabile indipendente» e direttamente politica, ma la presa in conto della lotta salariale come lotta intorno al saggio di sfruttamento, e dunque come fattore che concorre in permanenza alla determinazione del saggio di profitto reale (è questa, a nostro avviso, la maniera corretta di impostare il problema);
♦ infine, esso evoca la questione, ancora oggi tutta da esplorare, del legame tra inflazione e rivendicazioni salariali.
In effetti, non solo il quasi-pieno impiego, ma anche l’inflazione galoppante – che, erodendo di volta in volta le conquiste salariali, rilanciava le rivendicazioni – si inscrive nella combinazione irripetibile che contraddistinse quel ciclo di accumulazione e di lotte che, nei paesi più industrializzati, raggiunse quasi ovunque il suo picco fra la fine degli anni ‘60 e l’inizio degli anni ‘70.
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Moneta Fiscale: i temi essenziali
di Marco Cattaneo
Il concetto di Moneta Fiscale
Si definisce Moneta Fiscale qualsiasi titolo o attività che possa essere utilizzato dal detentore per compensare obbligazioni finanziarie (di natura fiscale o di qualsiasi altro genere) dovute al settore pubblico. È in altri termini un titolo che dà diritto a uno sconto fiscale, e può essere scambiato ricevendo beni, servizi o un corrispettivo finanziario da soggetti che lo accettino su base volontaria. Il settore pubblico nazionale si impegna da parte sua ad accettarlo in compensazione (come sopra definita) ma non, in nessun modo, ad effettuare pagamenti in cash.
Deficit e debito pubblico non impoveriscono l’economia nazionale
Per comprendere la logica del progetto Moneta Fiscale è necessario sgombrare il campo da alcune affermazioni insensate che purtroppo ancora orientano (anche se per fortuna meno che in passato) il dibattito economico, nel nostro paese e altrove.
In particolare, si sente tuttora dire che il deficit e il debito del settore pubblico costituiscono gravami per l’economia di un paese.
L’affermazione è sbagliata, e la ragione fondamentale è che il deficit del settore pubblico è l’eccesso della spesa del settore pubblico medesimo, rispetto al prelievo fiscale. Questo eccesso di spesa, per evidenti ragioni contabili, si tramuta in un saldo positivo a disposizione del settore privato. Se il pubblico spende più di quanto tassa, il privato riceve più di quanto paga: incrementa, quindi, i suoi redditi e i suoi risparmi.
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Argentina in pandemia...
di Angelo Zaccaria
Riceviamo e pubblichiamo volentieri il seguente articolo inviatoci da Angelo Zaccaria che ci aggiorna nuovamente sulla situazione in Argentina tra pandemia e fase elettorale, dopo il suo precedente contributo del 2019.
Ma le lotte politiche e sociali non le ferma nemmeno il Covid 19, e neppure la “sindrome del governo amico”.
Questo ultimo viaggio in Argentina, quasi 4 mesi fra fine Gennaio e fine Maggio di questo anno 2021 , è stato certamente diverso da tutti gli altri, per le ragioni personali che lo hanno determinato ed accompagnato, per la mini-odissea burocratico-sanitaria che lo ha quindi reso possibile, per il fatto stesso di essere avvenuto mentre l’emisfero nord ed anche quello sud, Argentina inclusa, erano immersi e si dibattevano nella vicenda della nota pandemia da Covid 19.
Per dare un minimo di schema al racconto di questa permanenza a Buenos Aires, procederò per punti.
La piazza a volte rallenta ma non si ferma mai
Nel corso del mese di Febbraio non ci sono state mobilitazioni particolarmente significative. Paradossalmente infatti il primo concentramento di rilievo al quale partecipo, anzi per essere più preciso assisto, avviene il 27 Febbraio in Plaza de Mayo, ed è convocato dalla opposizione di destra. I temi sono quelli soliti della corruzione dei governi peronisti passati e presenti, e le critiche alla gestione attuale della pandemia. In realtà tutto quanto ormai accade nel paese, è influenzato dal prossimo appuntamento elettorale di rilievo, che sono le elezioni parlamentari parziali previste per fine anno.
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Ancora sulla maledizione pandemica che ha colpito la sinistra di classe (I)
di Nicola Casale
Nei precedenti Appunti (https://sinistrainrete.info/societa/21035-nicola-casale-appunti-e-spunti-di-riflessione-sulla-maledizione-pandemica.html) sono state esaminate criticamente alcune posizioni che caratterizzano la postura di gran parte della sinistra di classe dinanzi alla pandemia, alla sua gestione politico-sanitaria, e all’emergere di proteste contro quest’ultima. Lo scopo non era tanto di prendere le distanze dalla sua deriva, quanto di indagare lo stato oggettivo dei rapporti di classe, di cui quelle posture sono solo un riflesso, e, insieme, lo stato del rapporto sociale di capitale nel suo complesso, ciò che è decisivo per cercare di contribuire alla nascita di una nuova sinistra di classe, all’altezza, appunto, dello stato di entrambi, rapporto di capitale e antagonismo di classe.
In seguito alle sollecitazioni e osservazioni ricevute da lettori dei primi appunti si è deciso di estendere gli argomenti trattati affrontando almeno due altre questioni che si sono rivelate importanti nelle argomentazioni di molta sinistra di classe, e che lo sono anche per l’indagine più generale. Una questione sarà trattata in questa sede, l’altra in un prossimo articolo. Entrambi sono anche il frutto di un confronto e di suggerimenti da parte di altri compagni che ne hanno discusso prima della pubblicazione.
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Contro l’islamofobia, arma di guerra – I. L’industria dell’islamofobia
di Il Pungolo Rosso
La macchina dell’islamofobia ha riacceso i motori.
Dopo la bruciante sconfitta patita in Afghanistan dagli Stati Uniti e dalla Nato, era scontato. E il ventesimo anniversario dell’11 settembre è l’occasione d’oro per una ripartenza alla grande, chiamata a nutrire i propositi di rivincita.
A reti unificate tv, giornali e social presentano i talebani e gli attentatori suicidi dell’11 settembre come il prototipo di tutti gli “islamici”. E attraverso questa mossa propagandistica le popolazioni dei paesi a tradizione islamica vengono additate nella loro totalità come i nostri irriducibili nemici – a meno che non prendano apertamente posizione a favore dei “nostri valori” (di borsa), e pieghino la schiena davanti alla pretesa occidentale di dominare e spogliare il mondo “islamico” per diritto divino. Il “diritto” acquisito con il colonialismo storico.
L’islamofobia è un’arma di guerra: verso l’esterno, e all’interno delle “nostre” società. E per tale va denunciata e combattuta.
Un’arma per legittimare la guerra infinita che la gang degli stati imperialisti occidentali, l’Italia intruppata in essi, ha scatenato (da secoli) contro il mondo arabo e islamico per finalità che nulla hanno a che vedere con la civiltà, la democrazia, la libertà delle donne, e che non finirà certo con l’ingloriosa cacciata dall’Afghanistan. In questa guerra i poteri coloniali sono sempre riusciti – accade ora più che mai – a trovare collaborazione nelle classi proprietarie e negli strati privilegiati dei paesi arabi e islamici per torchiare a sangue, con il loro aiuto, i malcapitati contadini, minatori, braccianti, operai, diseredati, senza il minimo riguardo per la loro esistenza, tanto più se donne. E, in caso di loro ribellioni, sollevazioni o tentativi rivoluzionari, per usare il pugno di ferro per schiacciarli, o l’accerchiamento per soffocarli.
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Cultura della sorveglianza
di Gioacchino Toni
Pensare alla cultura della sorveglianza contemporanea facendo riferimento all’immaginario della distopia orwelliana rischia di far perdere di vista quanto sta accadendo nella realtà. Se ultimamente si guarda con preoccupazione all’incremento del livello di controllo sugli individui e sulla collettività dispiegato dagli apparati statali, decisamente meno allarme sembra destare quanto in termini di sorveglianza e indirizzo individuale e sociale l’ambito economico sta già, e da tempo, mettendo in atto. È stato detto che il ricorso alla digitalizzazione dell’esperienza umana a scopo di profitto ha potuto prosperare grazie a una certa propensione alla “servitù volontaria” che gli individui sembrano scambiare volentieri con qualche “servizio” offerto dal web o qualche piattaforma social attraverso cui supplire a una sempre più marcata carenza di rapporti sociali e di azione fuori dagli schermi, ma tale propensione più che riconducibile alle debolezze umane sembra piuttosto essere il risultato di alcune importanti trasformazioni – non solo tecnologiche – che hanno segnato gli ultimi decenni.
Se la digitalizzazione di numerosi servizi ha praticamente imposto il costante ricorso a Internet – tanto da discriminare nettamente la componente più anziana della popolazione, meno capace di ricorrere alla tecnologia digitale, e quella più svantaggiata economicamente, inevitabilmente meno dotata delle risorse necessarie – non di meno è oggettivamente difficile sottrarsi da quelle piattaforme digitali che sembrano offrire gratuitamente una sensazione di partecipazione, di relazione sociale, di identità e di protagonismo, tanto che vi viene fatto ricorso anche per protestare contro quel controllo sociale a cui si sta contribuendo immettendo dati in rete.
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Ostaggi in Assurdistan, ovvero: il lasciapassare e noi / Seconda puntata
di Wu Ming
La prima puntata a questo link
6. Voci contro il lasciapassare e l’Emergenza
Non ci sono più gli shitstorm di una volta
La prima puntata di questa miniserie ha avuto molti riscontri. E stata discussa, citata e utilizzata come base per ulteriori riflessioni. È anche servita a molte persone per rintuzzare gli scomposti attacchi ad Alessandro Barbero – ne parliamo tra poco – e dimostrare che ci sono ottime ragioni per criticare la politica del lasciapassare sanitario.
Negli ultimi giorni si sono alzate nuove voci critiche, non solo sul lasciapassare ma, retrospettivamente, sull’intera gestione dell’emergenza pandemica. Voci provenienti dall’anticapitalismo, o quantomeno da ciò che resta di una sinistra che si oppone alle logiche neoliberali. In appendice a quest’articolo troverete una rassegna di quelli che ci sono parsi gli interventi più utili.
La sensazione è che ormai l’accerchiamento sia rotto. Come già detto, siamo sempre in minoranza. Lo siamo eccome, se non a pensare certe cose – l’insofferenza è sempre più vasta –, quantomeno a cercare di esprimerle in modo articolato. Ma è lontano il tetro 2020, quando a noi tre e alla nostra community sembrava di essere Pike, Dutch e i fratelli Gorch nell’ultima, disperata camminata. Andavamo allo scontro così, con l’unico obiettivo di lasciare una testimonianza, le prove che qualcuno aveva detto qualcosa di diverso.
Nel 2020 e per buona parte del 2021 criticare l’Emergenza o anche solo un singolo provvedimento era garanzia di scomunica, amicizie rotte, isolamento, linciaggio via social e cavalloni di ingiurie su cui toccava manovrare l’asse da surf tipo Un mercoledì da leoni. Tutto questo c’è ancora, ma non ha più quella forza.
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Economia delle piattaforme e uberizzazione del lavoro
di Bollettino Culturale
Negli ultimi cinquant'anni abbiamo assistito alla devastazione delle forme tradizionali di lavoro. Non c'è dubbio che la forma del lavoro salariato, sotto il modello taylorista-fordista, caratteristico del XX secolo, contenesse sfruttamento, alienazione e costrizione. Tuttavia, era stato forgiato e regolato da innumerevoli lotte portate avanti da coloro che lavoravano per sopravvivere, fin dalla Rivoluzione Industriale. La crisi dell'accumulazione di capitale, iniziata negli anni '70, è stata momentaneamente superata da una serie di ristrutturazioni produttive che sono state chiamate postfordismo, toyotismo o accumulazione flessibile. Dalla crisi del 2009, il modello che si è diffuso in tutto il mondo è stato l'economia delle piattaforme e il lavoro uberizzato, usate per il superamento della crisi dell'accumulazione. Questi due elementi possono essere studiati molto bene nel settore dei servizi, a causa dell'intensificarsi della flessibilità, della precarietà, dell'informalità e dell'ideologia dell’autoimprenditorialità.
La discussione sulla flessibilità deve considerare il processo di ristrutturazione produttiva, basato sull'incorporazione di nuove tecnologie basate sulla “microelettronica e connettività di rete al sistema produttivo”, nonché nuove modalità di organizzazione, gestione e controllo del lavoro. Ciò implica un intenso aumento dell'uso delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione (ICT) nell'organizzazione del lavoro, con il risultato di lavoratori sempre più sfruttati, isolati e sempre più precari.
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La vittoria dei Talebani in Afghanistan va considerata come un processo di “liberazione nazionale”?
di Redazione
Il sociologo italiano Pino Arlacchi, già vicesegretario dell’ONU, dispone di una esperienza di oltre 25 anni proprio in Afghanistan. Si tratta di una delle poche voci fuori dal coro sulla stampa europea e ha invitato “a informarsi sull’ Afghanistan evitando di leggere i maggiori quotidiani italiani”. L’Afghanistan – spiega – “sembra essere stato vittima di una invasione di mostri pervenuti dallo spazio e dotati di poteri sconfinati. Mostri che sono riusciti a far scappare da Kabul, terrorizzate, le forze del bene. Mostri assetati di vendetta e di sangue, soprattutto femminile, e che si apprestano a far diventare l’Afghanistan il santuario del narcotraffico e del terrorismo mondiale”. Questa immagine caricaturale del paese appena abbandonato dagli USA emerge scandalosamente anche dal servizio pubblico radiotelevisivo svizzero che sembra fare da grancassa alla propaganda del presidente USA Joe Biden.
L’Afganistan non è Kabul
Arlacchi dà una lettura molto diversa di quanto accaduto nel paese asiatico: siamo di fronte, secondo lui, allo “sbocco finale di due guerre. Una guerra civile tra i talebani ed i loro avversari iniziata quasi trent’anni fa, ed una guerra di liberazione contro una potenza occupante iniziata venti anni fa esatti.
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Siamo sicuri che l’attuale strategia anti-Covid sia quella giusta?
di Pino Cabras
L’Italia ha appena lo 0,75% della popolazione mondiale, ma crede fortemente che anche per il rimanente 99,25% dell’umanità la questione covid sia affrontata negli stessi modi, con le stesse parole d’ordine e con le stesse pandemistar a dominare gli schermi. Fuori dalla Bolla Italia esiste invece una realtà diversa, un mondo “Burioni Free” che ha sì cambiato la propria profilassi, ma fa meno drammi e fa stare meglio la gente.
Vi propongo alcune riflessioni in merito all’attuale situazione della crisi Covid che nascono dal confronto con alcuni analisti politici e con molti significativi dati ormai a nostra disposizione. Quella che chiamo Bolla Italia è una sorta di “bolla locale” che chiude in un universo separato e provinciale le azioni delle istituzioni e dei partiti, l’impaginazione degli organi di informazione, il modo di leggere le statistiche, la polarizzazione estrema dei rapporti fra le persone dentro le comunità, l’organizzazione dei viaggi e del lavoro sotto una cappa di regole di confinamento in continua evoluzione. Nel giro di breve tempo si è formata una casta di “intellettuali organici della pandemia” a servizio permanente ed effettivo di una sola narrazione legittimata, organica a un blocco d’interessi, che ragiona nei confronti delle narrazioni diverse con la stessa logica confessionale della “scomunica”. I social network, i cui principali azionisti sono gli stessi delle banche e delle case farmaceutiche, sigillano in modo sempre più occhiuto le parole e i pensieri consentiti.
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La Transizione come variante
di Sergio Bellucci
Relazione introduttiva al convegno La Transizione come Variante: Pandemia, Conflitti, Partito nella Società Digitale Globale, Frattocchie, 3/4 settembre 2021
Ci sono momenti della Storia che sembrano squassare i tempi.
Se agli accadimenti umani, pensiamo alle decisioni e agli scontri su come affrontare la prima Pandemia dell’era globale o le vicende geopolitiche e umane legate al dramma odierno dell’Afghanistan, delle sue bombe e dei suoi morti o a quello della Palestina, della Siria, della Libia, delle decine di teatri di guerra in Africa e nel resto del mondo, di cui poco si sa e meno si vuole sapere; oppure se pensiamo alla fine di un modello economico, troppo forte per collassare in un sol colpo e troppo debole per continuare ad illudere l’umanità che sia capace di regalare l’autorealizzazione umana; oppure agli impatti della tecnoscienza sulle società in termini di stravolgimento della produzione, delle forme del lavoro, di quelle delle relazioni individuali e sociali fina alla possibilità di intervento sulla stessa forma di vita e la modifica del DNA umano.
Se a questi accadimenti umani sommiamo le notizie del superamento della soglia di non ritorno del disastro climatico e ambientale, il senso di impotenza e di collasso può prendere corpo e, nel nostro Occidente benestante, svilupparsi una richiesta di massa del “ripristino” di ciò che c’era e che non ci sarà più.
L’impressione che si ricava da questo intreccio è quella di una crisi concentrica in cui i problemi “gestionali” dei singoli paesi (quelli della cosiddetta “politica” che, in realtà, è la mera gestione amministrativistica del presente e dello status quo) si sommano a quelli della crisi della vecchia forma e logica economica e l’esplosione di quella geopolitica.
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L’indipendenza di classe e i suoi avversari, oggi come ieri
di Rostrum
K. Marx-F. Engels – Indirizzo del Comitato centrale alla Lega del marzo 1850, scaricabile in formato PDF a questo link
Nel mettere a disposizione dei nostri lettori la trascrizione completa dell’importante testo di Marx ed Engels Indirizzo del Comitato centrale alla Lega del marzo 1850, vorremmo sottoporre una modesta riflessione sui numerosi temi da esso affrontati; sforzandoci di mettere nel giusto rilievo gli insegnamenti più pertinenti alle battaglie che il movimento operaio internazionale si trova ad affrontare anche nella fase attuale e cercando di contestualizzare le preziose assunzioni che afferiscono all’epoca specifica nella quale il testo fu elaborato.
Uno dei temi principali della circolare del Comitato centrale della Lega dei comunisti, indirizzata da Londra ai membri della Lega che operavano in Germania, è la valutazione della natura sociale del processo rivoluzionario che si riteneva imminente sia nei paesi tedeschi che, più in generale, nel continente.
Su questo tema, l’Indirizzo del 1850 non si discosta molto dall’impostazione già espressa ad esempio da Engels nel 1845 nel suo Principi del comunismo, o dal Manifesto del 1847, ma, come vedremo, sulla base delle esperienze maturate in seguito ai movimenti rivoluzionari del 1848-49, approfondisce il quadro, definisce maggiormente i rapporti fra le classi in Germania e tratteggia con maggiore precisione le tappe della “rivoluzione in permanenza”.
Una fondamentale acquisizione nell’Indirizzo è il ripiegamento della grande borghesia liberale nel campo della reazione, il suo definitivo – alla scala storica – compromesso con le forze feudali nel timore delle sempre più assertive istanze del proletariato.
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Dall’era della certificazione verde: Dialogo tra un Credente e uno Scettico
di Andrea Zhok
C) Ciao, ho visto che hai sottoscritto un documento di protesta contro il Green Pass e, confesso che la cosa mi ha sorpreso. Cosa c’è che ti sembra così sbagliato nella gestione della pandemia? Cosa temi?
S) Credo che la gestione della pandemia da parte dei vari governi italiani sia sempre stata discutibile. All’inizio scusabile con la sorpresa e l’impreparazione, per divenire progressivamente, con l’accumularsi di crescenti manchevolezze, sempre meno tollerabile, fino al punto terminale dell’adozione del Green Pass, che ribadisce tutti gli errori fatti prima, li santifica e si avvia ad esiti potenzialmente catastrofici.
In concreto, credo che con la campagna vaccinale recente si siano creati i presupposti per ottenere il peggiore degli scenari possibili.
In primo luogo, con l’uso a tappeto di vaccini ‘imperfetti’ (leaky) stiamo creando condizioni propizie all’imporsi di varianti vaccino-resistenti, sempre più aggressive.[1] Per quanto, trattandosi di processi stocastici, nessuno possa dare certezze, la strategia che abbiamo adottato è per i virus qualcosa di analogo a ciò che si raccomanda di non fare con gli antibiotici per non creare antibiotico-resistenze. In quel caso si raccomanda di non somministrarli a chi non ne ha bisogno e soprattutto, nel caso in cui lo si faccia, di concludere il ciclo antibiotico fino ad aver debellato i bacilli, perché lasciarne una parte attivi creerebbe le condizioni per l’emergere di ceppi resistenti.[2]
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Cingolani e il nucleare: la risposta (non del tutto) giusta a una domanda sbagliata
di Angelo Piga
Negli ultimi giorni, la scuola di formazione politica di Italia Viva ha fornito spunti per due grosse polemiche: una riguarda la convenienza, per i suoi giovani partecipanti in rampa di lancio nella politica-pop renziana, di ostentare il Rolex; l’altra segue le dichiarazioni del ministro per la transizione ecologica Roberto Cingolani sull’ambientalismo e sull’opportunità di riutilizzare l’energia nucleare (l’intervento completo può essere visto sul canale YouTube di Renzi). Sono affermazioni che vanno prese molto sul serio:
“Il mondo è pieno di ambientalisti radical chic ed è pieno di ambientalisti oltranzisti, ideologici: loro sono peggio della catastrofe climatica verso la quale andiamo sparati, se non facciamo qualcosa di sensato. Sono parte del problema, spero che rimaniate aperti a un confronto non ideologico, che guardiate i numeri. Se non guardate i numeri rischiate di farvi male come mai successo in precedenza.”
Poi sul nucleare:
“si stanno affacciando tecnologie di quarta generazione, senza uranio arricchito e acqua pesante. Ci sono Paesi che stanno investendo su questa tecnologia, non è matura, ma è prossima a essere matura.”
“Io voglio energia sicura, a basso costo e senza scorie radioattive. Se è nucleare di quarta generazione diventa semantica. È vietato nell’interesse del futuro dei nostri figli ideologizzare qualsiasi tipo di tecnologia. Quando avremo i numeri decideremo”
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“L’essenza, per le fondamenta”
Alessandro Testa intervista Alessandro Volponi
Alessandro Volponi, laureato in filosofia e giurisprudenza, ha insegnato per qualche decennio storia e filosofia nel liceo classico di Fermo; durante gli anni ‘70, militando nel P.C.I., ha ricoperto ruoli istituzionali come consigliere e assessore comunale e in seguito, negli anni ‘90, consigliere e assessore provinciale con Rifondazione. Collabora con diverse riviste, tra cui “Cumpanis”, nonché con l’Istituto per la Storia del Movimento di Liberazione. È membro del direttivo della sezione provinciale dell’A.N.P.I.
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Le teorie degli economisti classici, “eretici” e marxisti, al di là delle inevitabili e ben conosciute differenze, manifestano talora inaspettati e sorprendenti punti di convergenza; potresti dirci cosa ne pensi?
Se c’è un “eretico” divenuto nel tempo un classico, quello è certamente John Maynard Keynes, protagonista inconsapevole del più straordinario caso di convergenza tra economisti dal background così diverso quale quello dell’accademico inglese e quello di Michal Kalecki.
Lord Keynes rifiuta persino di leggere Marx, malgrado l’insistenza dell’amico Sraffa, arriva a rivalutare Malthus per affermare la centralità del problema della domanda effettiva, scopre delle verità contro-intuitive come il fatto che è falso che la flessibilità dei salari renda impossibile la disoccupazione e finalmente sconcerta il mondo proponendo il deficit di bilancio come rimedio alla crisi; Kalecki, scrivendo in polacco tre anni prima della Teoria generale e poi ancora un anno prima, formula nel modo più preciso ed essenziale i temi sostanziali della “rivoluzione keynesiana”.
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Crisi permanente
L’azione regressiva della tecnologia nell’era post-pandemica
di Onofrio Romano
La tecnologia è un acceleratore. Consente di fare le cose più velocemente e più efficacemente. Dinamizza i processi sociali. La società avanza più rapidamente, passando da stadi meno evoluti a stadi più complessi. Questo effetto, che intuitivamente associamo alla tecnologia, va problematizzato. La vicenda che nel nostro tempo occupa a livello globale il centro della scena ce ne dà buon saggio. La “tecnologia vaccinale” ci sta consentendo di uscire velocemente dalla pandemia. Se nel recente passato la messa a punto dei rimedi vaccinali contro i virus più disparati ha richiesto in media dodici anni, questa volta, grazie ad uno sforzo straordinario e concentrico, abbiamo impiegato meno di un anno per produrre un esteso e variegato menù di antidoti al male. È un risultato straordinario che testimonia dell’elevato grado di avanzamento delle nostre società. Si fosse presentato solo un secolo fa, lo stesso virus avrebbe probabilmente mietuto un numero di vittime ben più alto e soprattutto sarebbe durato molti anni. Indubbiamente, siamo stati veloci. Il problema è capire: veloci rispetto a quale destinazione, a quale traguardo? Lo siamo stati sicuramente rispetto alla soluzione del problema specifico, dando ad esso una replica istantanea e diretta: l’antidoto al virus. Ma se guardiamo le cose da un’altra altezza, la scena cambia. Scopriamo che la tecnologia può anche giocare un ruolo regressivo, diventando – come, a nostro avviso, in questo caso – un fattore di rallentamento della società. Il vaccino ne ha bloccato l’evoluzione verso un assetto più avanzato.
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Lettera dagli “Studenti contro il Green pass”
Condivido, in tutti i sensi, la lettera inviata ai parlamentari dagli “Studenti contro il Green pass”. La considero molto ben argomentata e utile ad approfondire un dibattito che altrove (nei media, in parlamento, nelle formazioni sociali) è degenerato nella banale semplificazione e nella sciatta demonizzazione. L’appello degli studenti più avvertiti ci aiuta a inquadrare il problema della gestione della sindemia e delle sue incombenti drammatiche ripercussioni sulla vita democratica del nostro Paese. [Pino Cabras]
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Onorevoli parlamentari,
Siamo un numeroso gruppo di studenti universitari creatosi in seguito all’estensione del Green Pass alle università, ci trovate sulle piattaforme col nome di “Studenti contro il Green Pass”.
Come sapete, il 6 settembre si discuterà la conversione in legge del decreto legge n. 105/2021, concernente la certificazione Covid-19 in merito alla sua estensione ai luoghi della cultura, dello svago, della ristorazione, e, nel prossimo futuro, del decreto legge n.111/2021 riguardante l’estensione alle scuole, alle università e ai trasporti a lunga percorrenza.
Come universitari, studenti di discipline sia umanistiche che scientifiche, da subito ci è parsa evidente la natura violenta e discriminatoria della misura.
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Vax governance
Appunti sul Green Pass e sulla morale vaccinale
di Mattia Galeotti
Le ipotetiche diramazioni delle normative pandemiche sono un esercizio mentale interessante, ma abbastanza noioso. In questi giorni mi ritrovo spesso a pensare cose come “come si fa a definire dove finisce la zona fieristica?”, perché nel paesino toscano dove mi trovo le bancarelle sono considerate zona fieristica, e nelle zone fieristiche secondo l’ultimo DPCM è obbligatorio portare il Green Pass. Oppure “chi è autorizzato a controllare che il Green Pass corrisponda ai miei documenti?”, davvero chiunque può fare funzione di pubblico ufficiale?
Un altro grattacapo riguarda la condizione dei vaccinati non residenti nel luogo di vaccinazione: sembra una cazzata, ma se non sei iscritto al sistema sanitario che ti ha vaccinato, ottenere il Pass è assai complicato, perché il documento è integrato col sistema di registrazione delle residenze. E non è un problema che riguarda solo le persone extraeuropee. E quelli che ho nominato sono solo alcuni dei casi singolari creati da una legislazione confusa e disorganizzata.
Ovviamente però, queste divagazioni ipotetiche non hanno nessuna utilità: l’efficacia del Green Pass non si misura a partire dal suo concreto utilizzo in ogni contesto dove è formalmente obbligatorio, né a partire dal numero di persone che “lascia indietro”. Il lasciapassare, in funzione da inizio agosto, è uno strumento di controllo e in quanto tale non funziona perché viene effettivamente controllato, ma perché ci sottopone alla possibilità di una verifica. Non funziona nemmeno perché è inclusivo, ma perché permette di nominare le soglie di esclusione, e naturalizzarle.
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Tesi sul Covid-1984
di Il Rovescio
Pubblichiamo queste Tesi, uscite sul numero 13 (luglio 2021) della rivista anarchica “i giorni e le notti”. Ci sembrano un’utile cornice teorica, uno sfondo meno immediato in cui collocare i posizionamenti rispetto all’Emergenza, ai vaccini dell’ingegneria genetica, alla tecno-scienza, al “complottismo”, al lasciapassare sanitario e al mondo della costrizione digitale. Se c’è qualcosa che l’attuale guerra ai cervelli (e ai corpi) sta determinando, è senz’altro la condizione in cui ciascuno si trova di dover pensare da sé senza schemi ereditati e rassicuranti. Che padroni e tecnocrati, per restare all’Italia, abbiano schierato il “migliore” – il Banchiere, il Contabile, il Tecnico di sua Maestà il Capitale, la cui mimica e i cui toni privi di ogni passione somigliano alla Macchina che è chiamato a far funzionare; che i loro valletti più chiacchieroni auspichino fin da ora il ritorno di Bava Beccaris a mitragliare le piazze dei renitenti al verbo scientista, dipinte (troppa grazia) come sovversive, testimonia sia del carattere di ultimatum dei provvedimenti in corso, sia di una certa coscienza storica e prospettica dal lato del dominio. Raramente nella storia, invece, si è assistito a uno scarto paragonabile a quello attuale tra la qualità della posta in gioco e la qualità di chi è disposto a battersi dal lato dell’umano. Il piano inclinato sui ci troviamo è dato dall’intreccio tra il processo di atomizzazione sociale seguìto alla sconfitta dei precedenti cicli di lotta e l’impatto senza precedenti della dismisura tecno-industriale (il cui obiettivo è «rinchiudere l’umanità nella sua prigione tecnologica e gettare via la chiave»). Non c’è alcun “soggetto storico” a cui fare affidamento per risalire la china. Solo degli scossoni sociali possono setacciare, in mezzo alla sabbia che si accumula e confonde gli sguardi, le «perle rilucenti di sale».
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Professionale amore mio. Scuola al crepuscolo?
di Roberto Fineschi
La politica scolastica fin qui seguita dimostra che il capitalismo crepuscolare non è più in grado di esercitare un’egemonia e opta per la formazione di una neo plebe ignorante e facilmente manipolabile, calcolando anche il rischio di forme di ribellismo fuorvianti
Chi ha recentemente affermato che i modesti risultati delle prove INVALSI dimostrerebbero la scarsa qualità dei professori italiani - soprattutto in relazione alle drammatiche prove in professionali e “scuole di frontiera” - probabilmente non è mai entrato in una di queste scuole o, se lo ha fatto, ha capito poco o niente di come funzionano le cose. In Italia ci sono dei pessimi professori? È sicuramente vero. Nell’esperienza scolastica di chiunque si annovera qualche personaggio più unico che raro, egregio rappresentante del mondo dell’incompetenza o con delle spalle tondissime. Per capire quali professori rispondano a questo identikit sono necessari studi pedagogici, sofisticate tecniche o procedure altamente formali? No, in genere basta parlarci cinque minuti, anche informalmente, per chiarirsi le idee.
Pare evidente che non ci sia alcuna intenzione di individuarli (e non si nascondono). Ciò detto, se ne può dedurre che tutti i professori siano così? Be’, questo è semplicemente senza senso e, evidentemente, offensivo per un’intera categoria. Parlare delle persone senza i contesti è una facile scorciatoia e un modo per non affrontare davvero le molte questioni sul tavolo.
Prendiamo le famigerate scuole di frontiera, i professionali. Il nostro professore, per lo più supplente, viene mandato incontro a un branco (purtroppo quasi mai in senso metaforico) di ragazzi in genere non scolarizzati (nel senso che non riescono a stare a sedere per più di dieci minuti, non sanno rispettare le regole minime di una conversazione, a stento conoscono la lingua italiana), interessati alla scuola come un vegetariano alla carne, con capacità di attenzione modeste. Spesso sono anche parecchi
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Individuo e terrore
di Leo Löwenthal
Secondo un'opinione ampiamente condivisa, il terrore fascista è stato solo un effimero episodio della storia moderna e per fortuna ora si trova alle nostre spalle. Non riesco a condividere tale parere. Ritengo piuttosto che il terrore sia profondamente radicato nella dinamica della civiltà moderna, in particolare nella moderna organizzazione economica. La riluttanza ad affrontare senza riserve questo fenomeno in tutte le sue implicazioni è già di per sé un sintomo subliminale del terrore. Indubbiamente per quanti vivono nel terrore è pressoché impossibile riflettere su di esso e ampliare la conoscenza dei suoi meccanismi. Ma questa spiegazione non basta certo a comprendere il sorprendente riserbo, se non addirittura la rassegnazione, messa in mostra dal mondo occidentale, pur così amante dei fatti, dinanzi al terrore totalitario. L'Occidente ha esitato davanti ai fatti del terrore fascista, sebbene fossero resi disponibili da fonti affidabili, finché questi non gli sono stati scaraventati addosso negli orrori senza veli di Buchenwald, Oswiecim, Belsen e Dachau. Esita oggi davanti ai fatti del terrore successivo alla fine della guerra militare. All'irrigidimento al servizio dell'autoconservazione, che regna nei paesi in preda al terrore, sembra fare riscontro, nel cosiddetto «mondo libero», una rimozione psichica di massa, una fuga inconscia davanti alla verità.
Essenzialmente, il moderno sistema del terrore comporta l'atomizzazione dell'individuo. Il pensiero delle conseguenze e degli effetti della tortura fisica inflitte ai corpi ci riempie di raccapriccio; non meno orribile è la loro minaccia per lo spirito.
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Imperialismo USA: “Un nuovo paradigma per invadere i popoli con il pretesto del cambio climatico”
Geraldina Colotti intervista Ricardo Molina
In occasione del Secondo re-incontro con la Madre Terra, organizzato a Caracas, abbiamo conversato con il deputato Ricardo Molina, presidente della Commissione di eco-socialismo dell’Assemblea Nazionale
Tu hai avuto importanti e ripetuti incarichi nella rivoluzione bolivariana. Qual è il tuo ruolo ora?
Dal 2010 sono stato ministro di Habitat y Vivienda, prima con il comandante Hugo Chávez, poi con il presidente Nicolas Maduro. Nel 2015 sono stato eletto deputato in Parlamento, poi il presidente mi ha nominato ministro del Trasporto e vicepresidente di governo per il settore Servizi. Poi, durante il periodo delle violenze di piazza, mi sono impegnato nel progetto dell’Assemblea Nazionale Costituente che, come sappiamo, è stata una misura necessaria e importantissima per riportare la pace e difenderci dalle aggressioni continuate degli Stati Uniti. Nel 2017, sono stato eletto come costituente. In seguito, nel 2020, ho partecipato alla campagna per il recupero dell’Assemblea Nazionale che ha assunto funzioni a gennaio di quest’anno e sono stato eletto deputato. Attualmente, presiedo la Commissione permanente di eco-socialismo dell’Assemblea Nazionale, che porta avanti il progetto e gli ideali eco-socialisti, in base alla visione bolivariana e umanista del comandante Chavez, in difesa della Madre Terra. Ho anche un altro incarico alla Scuola bolivariana di Pianificazione: per continuare a formare i quadri nei diversi livelli di governo nazionale, regionale e municipale, e in special modo – e ancora più importante – a livello comunale.
Com’è stato organizzato il Secondo re-incontro con la Madre Terra e con quali obiettivi?
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Note di carattere militare sulla disfatta occidentale in Afghanistan
di Sandro Moiso
Il lettore non deve aspettarsi di trovare uno studio generale di «scienza militare» o l’esposizione sistematica di una teoria dell’arte militare. No, il problema di Engels era […] di aiutare il lettore ad orientarsi sul corso delle operazioni e anche di sollevare, di quando in quando, quello che si usa chiamare il velo dell’avvenire. (Lev Trotsky, Prefazione a Note sulla guerra del 1870-71 di F. Engels)
C’è una fotografia che in questi giorni ha fatto il giro del mondo. E’ quella di una giovane marine di 23 anni, Nicole Gee, mentre stringe tra le braccia un bambino afghano pochi giorni prima di rimanere uccisa nell’attentato all’aeroporto di Kabul del 26 agosto. Ma ciò che si vuole fare qui non è la solita cronaca, pietistica e inutilmente retorica, cui ci ha abituato la narrazione mediatica degli ultimi eventi afghani.
Quella foto e quella notizia devono farci riflettere, invece e soprattutto, sul piano storico e militare, poiché la soldatessa americana, a conti fatti, doveva avere all’incirca 3 anni quando gli USA invasero l’Afghanistan con la scusa di colpire gli organizzatori dell’attentato alle Twin Towers dell’11 settembre 2001.
Vent’anni dopo, Nicole Gee è morta nella stessa guerra, non a caso indicata come quella più lunga combattuta dagli Stati Uniti nel corso della loro storia.
Se si esclude la guerra dei Trent’anni, scatenatasi in Europa tra il 1618 e il 1648, forse in nessun’altra guerra degli ultimi quattrocento anni è capitato che chi fosse nato durante o all’inizio della stessa facesse in tempo a farsi ammazzare nel corso della medesima. Si intenda: come militare poiché, è chiaro, i civili di ogni genere ed età fanno sempre in tempo a cadere come vittime in qualunque istante di qualsiasi conflitto.
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Green pass e libero arbitrio
di Michele Castaldo
Grande è il disordine sotto il cielo, diceva Mao, e capire diventa sempre più complicato, mi viene da aggiungere, perché nella sinistra, anche quella che ama definirsi estrema, ci si arrovella senza venirne a capo, non per cattiva volontà dei singoli ma perché mancano gli strumenti necessari per poterlo fare; si procede perciò a tentoni sbandando a volte un poco a destra e spesso un poco a “sinistra”, ovvero verso posizioni nell’alto dei cieli dell’individualismo. Cerchiamo perciò di mettere i piedi per terra, sapendo che dobbiamo ragionare con quelli che in carne e ossa sono il popolo, cioè masse informi che vivono sotto leggi precise e obbligate, quelle del modo di produzione capitalistico e delle regole politiche e sociali che esso detta. Questo dovrebbe essere – almeno – un corretto rapporto di chi si rifiuta di riconoscere nel capitalismo l’unico mondo possibile e aspira al suo superamento, alla sua caduta, al suo crollo, alla sua implosione e cosi via.
Ora, il modo di produzione capitalistico vive su leggi semplici: produzione e consumo; aumento della produzione e del consumo; e ancora aumento della produttività e dei consumi di ogni tipo di merci, comprese le merci della sanità sia di quelle inanimate che di quelle animate, cioè infermieri, medici e scienziati al servizio della salute del popolo.
Il capitale, cioè quell’impersonale meccanismo che ingloba nel suo processo innumerevoli funzioni finalizzate, comunque, all’estrazione del massimo profitto, pena la sua decadenza, ha interesse a che la giostra continui sempre a girare e possibilmente sempre più veloce.
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