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L'insicurezza per legge
di Marco Revelli
La notizia, se confermata, è di quelle che fanno arrossire di vergogna. Dopo aver attaccato il diritto di sciopero e intaccato lo strumento contrattuale in materia di lavoro (cioè fondamentali diritti e strumenti collettivi), il governo si preparerebbe a dirigere la propria azione restauratrice sul terreno stesso della tutela di quel bene essenziale che è la vita - la sicurezza, la salute, l'integrità fisica - dei lavoratori. Le anticipazioni sul progetto di «riscrittura» del Testo unico in materia di sicurezza e salute sul lavoro in discussione nel prossimo consiglio dei ministri sono molto inquietanti. Dimezzate le sanzioni pecuniarie nei confronti dei datori di lavoro colpevoli di gravi inadempienze nelle misure di sicurezza (ridotte dagli originari 5-15.000 euro a 2.500/6.500). Abolito l'obbligo di arresto anche nei casi più gravi e per quanto riguarda aziende ad alto rischio industriale, e sua possibile sostituzione con una multa. Cancellato il riferimento alla «reiterazione». Attenuato il controllo pubblico sul rispetto delle norme a favore di «enti bilaterali» (organi concordati tra le parti sociali, consulenti del lavoro, università...).
C'è da augurarsi, con tutto il cuore, che le anticipazioni vengano smentite dai fatti (il ministero continua a ripetere che «un testo definitivo non c'è»).
Perché se, invece, fossero confermate, si tratterebbe di un fatto gravissimo.
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A cosa servono i "Tremonti bond"?
di Concetta Brescia Morra
I "Tremonti bond" mirano a conciliare le esigenze di rafforzamento patrimoniale delle banche italiane con quelle di sostegno dell'economia reale, creando disponibilità di credito per piccole e medie imprese e famiglie in difficoltà. La realizzazione di quest'ultimo obiettivo appare, peraltro, molto incerta. Il testo normativo riconosce correttamente che la scelta finale sulla concessione dei finanziamenti è rimessa alla valutazione del merito creditizio da parte delle imprese bancarie; di conseguenza, affida il conseguimento delle finalità del decreto a dichiarazioni di intenti e a codici etici. Per favorire in concreto l'afflusso di credito all'economia è necessario mettere in campo altri strumenti. L'annuncio di un importante contributo pubblico per il fondo di garanzia delle PMI è un primo passo.
Nei giorni scorsi sono state emanate le regole che disciplineranno l'emissione di strumenti finanziari innovativi da parte di banche quotate, destinati ad essere sottoscritti dal Ministero dell'Economia e delle Finanze. Sono norme di attuazione di una delle disposizioni contenute nel decreto "anti-crisi" del dicembre scorso per sostenere il nostro sistema economico. I "Tremonti bond" sono titoli, computabili nel patrimonio di vigilanza delle banche, privi di diritto di voto ed emessi a condizioni remunerative per rispettare i vincoli stabiliti dalla Commissione europea sugli aiuti di Stato.
I bond servono, in primo luogo, per il rafforzamento patrimoniale delle banche, per permettere loro di competere nel mercato europeo.
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Alle origini della più grande truffa della Storia
di Ugo Natale
In vasti settori dell’opinione pubblica americana c’è oggi la tendenza a ritenere Bush il colpevole della crisi che ha messo in ginocchio gli USA. Non vi è alcun dubbio che la presidenza di Bush junior sia stata una delle peggiori disgrazie capitate a questa giovane nazione. Sarà evidentemente la Storia a giudicarlo, anche se è già lecito dire che Bush il giovane è stato sicuramente il peggiore presidente della storia americana, certamente come immagine ma forse non come contenuti, almeno per quanto riguarda l’attuale crisi economica e finanziaria, perché per cercare di spiegare la più grande truffa finanziaria messa in atto da quando l’uomo ha cominciato a camminare da bipede, bisogna andare indietro a tempi pre-bushiani.
Nel 1980 il grande predicatore fu eletto presidente degli USA. Ronald Reagan era il classico discendente dei primi “pellegrini”. quelli cioè che di giorno massacravano gli Indiani e la sera si battevano il petto con la Bibbia. Uno dei suoi motti era:«L’intervento dello Stato non è la soluzione ai nostri problemi, anzi è proprio la presenza dello Stato ad essere il problema».
Gli sciacalli “banchieri” e “finanzieri” capirono che il cowboy era disposto a lasciare incustodito il pollaio e si misero quindi al lavoro. La loro strategia era semplice. Individuare il punto debole del recinto e convincere il cowboy a togliere i paletti che sostenevano il recinto di protezione. Una volta fatto ciò, la festa sarebbe stata assicurata.
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Nessuno è ancora riuscito a dominare la radioattività
di Gianni Mattioli*
Che da un pugno di metallo scintillante, l’uranio, si possa tirar fuori tanta energia quanta se ne trae da una montagna di carbone sporco è certamente cosa affascinante, ma questo fenomeno ha un compagno di strada meno affascinante che è la radioattività. E’ dal 1896, dall’anno cioè della scoperta di Becquerel, che non siamo riusciti a vincere la sfida scientifica di dominare la radioattività. Da qui il rischio per le popolazioni ed i lavoratori, che è superfluo illustrare a coloro che vivono nel sito della centrale nucleare del Garigliano.
Il suo smantellamento è stato promesso da anni e ora si discute di bonifica delle trincee contenenti rifiuti solidi radioattivi o della stabilità sismica del camino. Basterebbe riflettere sul fatto che ci si interroghi se abbattere il camino o bonificare le trincee prima o dopo, alla luce delle dosi di radiazioni che nell’uno o nell’altro caso sarebbero assunte dalla popolazione e dai lavoratori addetti, per comprendere quanto un impianto nucleare sia profondamente diverso da un altro qualsiasi impianto industriale, proprio a causa del fatto che qui abbiamo a che fare con la radioattività, cioè con il grave rischio associato ai materiali radioattivi: malattie degenerative ed effetti ereditari. Ma a me non è stato chiesto di discutere i rapporti SOGIN, per parlare di Garigliano. Mi è stato chiesto di parlare di scelta nucleare, in generale: la sanguinosa geopolitica del petrolio, gli aspetti minacciosi del cambiamento climatico fanno dire ad alcuni che è ora, per il mondo, di tornare al nucleare e voci ricorrenti consigliano per l’Italia di ripartire, per nuove installazioni, dai siti che già furono scelti per ospitare reattori.
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Darfur, lo zampino d’Israele
di Enrico Piovesana
Il Mossad dietro ai ribelli darfurini. E agli indipendentisti sudsudanesi
Il mandato di arresto per crimini di guerra e contro l'umanità in Darfur emanato il 4 marzo dalla Corte penale internazionale dell'Aja nei confronti del presidente sudanese Omar Hasan Ahmad al-Bashir ha riportato l'attenzione mediatica mondiale sul Paese africano, ricchissimo di petrolio ma ostile all'Occidente. Un'attenzione che però sembra non riguardare i legami tra i ribelli sudanesi del Darfur (anch'essi accusati di crimini di guerra dalla Cpi) e Israele.
Abdel Wahid al-Nur e il Mossad. Poche settimane prima del clamoroso annuncio della Cpi, Abdel Wahid al-Nur, leader del Movimento di Liberazione del Sudan (Slm) - uno dei due principali gruppi ribelli darfurini - era in Israele per partecipare all'annuale Conferenza di Herzliya sulla sicurezza d'Israele e per incontrare due alti ufficiali del Mossad, i servizi segreti dello Stato ebraico. Oggetto della riunione riservata, secondo il Jerusalem Post, sarebbe stato il contributo dell'Slm alla lotta al contrabbando di armi verso la Striscia di Gaza che, a detta del Mossad, passerebbe proprio dal Sudan. Secondo quotidiano Haaretz, invece, le autorità israeliane si sono rifiutate di rivelare il contenuto della discussione.
Ufficio Slm a Tel Aviv da un anno. Abdel Wahid al-Nur, che dal 2007 vive in esilio a Parigi, era già venuto in Israele esattamente un anno fa, nel marzo 2008, per inaugurare un ufficio di rappresentanza del suo movimento ribelle a Tel Aviv per aiutare le centinaia di rifugiati politici che hanno trovato protezione in Israele. "Dobbiamo forgiare nuove alleanze, non più basate sulla razza o la religione, bensì sui valori condivisi di libertà e democrazia", dichiarò in quell'occasione Al-Nour. "Il Sudan che sognamo consentirà l'apertura di un'ambasciata d'Israele a Khartoum".
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Nouriel Roubini: «Vedo la luce in fondo al tunnel»
di Isabella Bufacchi
Chi ha il coraggio di domandare a Dr. Doom Nouriel Roubini se la crisi ha toccato il fondo, se il peggio è passato, deve anche avere il coraggio di ascoltare la risposta che, sintetizzata in due lettere, è prevedibilmente "no". Per il professore di economia della New York University che gode oramai di una indiscussa fama mondiale per aver previsto con ampio anticipo e accurate analisi la crisi che ha messo in ginocchio il mondo, i mercati devono ancora scontare qualche altra cattiva notizia: è dell'opinione - in verità non è il solo - che i rialzi delle Borse di questi ultimi giorni siano un "bear market rally", con nuovi ribassi in arrivo. Tuttavia, in una intensa presentazione tenuta ieri a Milano in un incontro a porte chiuse organizzato da Calyon Crédit Agricole, Dr. Doom ha concesso un barlume di speranza: "la luce in fondo al tunnel c'è", ha detto, anche se a denti stretti. E ha subito posto una serie di condizioni: purchè i Governi e le Banche centrali dei Paesi maggiormente colpiti dalla peggiore recessione dalla Grande Depressione del ‘29 – Stati Uniti, Unione Europea, Cina e Giappone in primis – "adottino misure anti-crisi molto aggressive di breve periodo". Quel che è stato fatto finora, tra stimoli fiscali e politiche monetarie anche non convenzionali, non basta. La gravità della crisi è tale ("l'economia mondiale rischia di cadere nel baratro della depressione", per dirla come la dice Roubini) da richiedere sforzi maggiori, azioni più tempestive e scelte più coraggiose da parte dei Governi. Ecco in sintesi il Doom-pensiero sulle principali questioni aperte che stanno più a cuore ai mercati, aggiornato al 20 marzo 2009.
Le banche
La "buona notizia" per Dr. Doom è che dopo il fallimento di Lehman Brothers il rischio sistemico dovuto alla bancarotta di una grande istituzione finanziaria è stato neutralizzato: i Paesi del G7 e l'Unione europea "hanno ammesso che far fallire Lehman è stato un errore" e hanno promesso che faranno di tutto per evitare che un evento di tale portata si ripeta.
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La terapia del governo è tutta sbagliata
Paolo Andruccioli intervista Paolo Leon
Intervista all’economista Paolo Leon. La crisi parte dalla finanza, ma è una crisi di domanda. È necessario ripensare il sistema produttivo. Gli interventi sociali del governo creano clientes elettorali ma non garantiscono diritti. È beneficenza pubblica
Fare presto e soprattutto fare cose diverse da quelle che sono state fatte finora. Superare i tabù che hanno bloccato il pensiero economico e condizionato la sinistra. La settimana corta? Va bene, ma redistribuisce solo la disoccupazione. Le tasse ai redditi oltre i 150 mila euro? Bene, ma sono redistribuzione del reddito. Qui ci vuole una proposta forte che rivaluti il ruolo dello Stato e dell’economia pubblica. Bisogna assolutamente aumentare i redditi dei lavoratori.Anche le banche devono rendersi conto che non sono aziende come le altre: sono un servizio pubblico come i tram. E poi c’è l’Europa che deve cambiare il suo modo di affrontare i problemi del deficit (deve essere la Banca centrale a finanziare il deficit). E poi c’è Obama che chiede un incontro all’Europa e al Giappone. Paolo Leon, economista keynesiano della prima ora, ci fornisce le sue ricette contro la crisi. E ci parla di un governo – quello di Berlusconi – che non c’è. . “Il vero segreto per uscire dalla crisi? Far produrre ciò che non costa niente,ovvero che c’è già ma non produce”. Sbagliate anche le proposte sulle pensioni e sullo scambio tra allungamento dell’età e ammortizzatori sociali.
Rassegna Allora professore cominciamo dagli aiuti introdotti dal governo Berlusconi per le fasce più povere. Che ne pensa?
Leon Per chi riceve, questi aiuti sono efficaci. Il problema è la filosofia che li rende transeunti, frutto di una sorta di beneficenza pubblica e non espressione di un diritto come sarebbe il reddito minimo garantito. Sono misure che creano i clientes del governo e che per questo lo voteranno.
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Un'economia senza controllo e indirizzo: e siamo andati in mille pezzi
di Rossana Rossanda
Che si tratti di una crisi "nel" capitalismo o, come pensa Immanuel Wallerstein, "del" capitalismo le sinistre non sembrano opporvi né una propria diagnosi né un'alternativa. Chiedono per il lavoro dipendente un aumento dei salari e per la disoccupazione più ammortizzatori sociali. E qui si fermano: non sono in grado di esigere che si sfondi il patto di stabilità, né che si tassino robustamente i ceti medioalti. Non solo perché hanno davanti per lo più governi di destra, ma perché è anche loro la persuasione che tassare i più abbienti ridurrebbe gli investimenti nella produzione. Come se da oltre un ventennio non fosse in atto una diversione dei profitti dalla produzione alla finanza, la cui "creatività" è stata agevolata dallo sparire dei controlli sugli scambi e dalla totale liberalizzazione del mercato, che si sarebbe riequilibrato da solo. La tesi di una oggettività delle "leggi economiche", sulle quali ogni intervento del politico sarebbe dannoso, si era aperta un varco nel Pci degli anni sessanta, e dopo l'ondata del 68 si sarebbe affermata con quell'inatteso «la produzione è un bene in sé» di Berlinguer, per poi trionfare infine nel 1989. Risultato: nei primi anni 2000 i redditi da lavoro e pensioni erano scesi di dieci punti nella composizione della ricchezza rispetto agli anni '70. Le banche hanno facilitato i prestiti per l'immobiliare a ceti mediobassi, già diminuiti nella possibilità di rimborsare i crediti. Oggi, a bolle esplose, istituti di credito e di assicurazione falliti, calo precipitoso dell'occupazione e dei Pil, né governi né media sono in grado di dirci a quale composizione del reddito siamo. Nel solo dicembre gli Stati Uniti hanno perduto quasi settecentomila impieghi, e la previsione della Cgil di perderne cinquecentomila in Europa appare già superata dai dati spagnoli, francesi e tedeschi.
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Capitalismo tossicodipendente
Cronache della crisi che cavalca non risparmiando nessuno
Francesco Schettino
chi caga sotto la neve pure se fa la buca e poi la copre
quanno a neve se è sciolta la merda viè sempre fòri.
(Amendola/Girardi – Delitto a Porta Romana)
impigliati nei rapporti di produzione borghesi, sono gli agenti di questa produzione.
(K.Marx, Il Capitale, III; 48)
Ormai che la crisi si è manifestata, per quanto in piccola parte, nella sua cruenta e potenziale realtà, nessuno ha più la possibilità e la volontà – a parte forse la magnifica accoppiata Berlusconi-Scajola – di nascondersi dietro manifestazioni di mal celato ottimismo o, peggio ancora, all’ombra delle erudite curve degli insulsi economisti borghesi, magari pure premio-nobel. È così che, forse anche per tentare di non far trapelare del tutto la drammaticità della fase, attraverso un’inondazione mediatica di numeri e di dichiarazioni prodotte dai più insigni agenti del capitale mondiale sui mezzi di (dis)informazione di massa, si stanno iniziando a delineare più precisamente i pesanti effetti dell’esplosione della crisi più che trentennale che, ormai, senza più alcun dubbio, rappresenta il momento più difficile del modo di produzione capitalistico almeno dai primi del novecento.
Cifre apocalittiche, talvolta impronunciabili, vengono ormai quotidianamente rese pubbliche e regolarmente sono peggiori rispetto a quelle del giorno precedente.
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La crisi corre e il dibattito arranca
di Emiliano Brancaccio
Il dibattito sulle banche è già superato dagli eventi
I prefetti messi a vigilare sulle banche, per controllare che queste concedano i prestiti di cui imprese e famiglie hanno bisogno? Deve essere un altro scherzo del Presidente del Consiglio, l’ottimista nel deserto. Chiunque abbia un minimo di conoscenza del funzionamento interno del sistema bancario sa bene che l’ammontare dei prestiti negati rappresenta forse la variabile più opaca e più difficile da catturare in un sistema creditizio che già di per sé non brilla per trasparenza. Basti pensare che talvolta il numero complessivo delle richieste di prestito respinte sfugge persino ai membri dei consigli di amministrazione delle banche. Soltanto i massimi vertici delle strutture conoscono questo dato, e dispongono oltretutto di numerosi strumenti per rendere difficile la sua diffusione o la sua piena comprensione. Fantasiosa sembra pure l’idea che i prefetti attingano informazioni direttamente dalle imprese che si siano viste rifiutare i crediti. A quanti imprenditori converrà spargere la voce che sono stati appena considerati dei prenditori inaffidabili? Insomma, deve trattarsi davvero di una barzelletta. Non è un caso che la trovata dei prefetti abbia in questi giorni suscitato molti più sorrisi di sufficienza che reali preoccupazioni tra gli esponenti del mondo bancario.
La polemica sui prefetti è solo l’ultima di una serie interminabile di controversie sul pericolo del credit crunch, ossia sul rischio che per rimpinguare un capitale ridotto ai minimi termini le banche decidano di tagliare drasticamente i finanziamenti a imprese e famiglie.
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Le pensioni di Alesina
Sergio Cesaratto
Con frequenza ossessiva dalle colonne de Il Sole 24 Ore il tridente Tabellini, Perotti e Alesina attribuisce molti mali del paese alla troppo bassa età di pensionamento, tesi ripetuta da Alberto Alesina nel suo editoriale del 14 marzo. Beninteso, il benaltrismo è un vizio odioso, ma lo è altrettanto il riduzionismo che sfocia nel semplicismo. “Le donne italiane al lavoro tra i 55 e i 64 anni – argomenta il docente di Harvard – sono circa il 23% del totale. In Svezia il 70% delle donne di quell’età lavora, negli Stati Uniti il 50%. La media europea (Ue-15) è di circa il 41%. Per gli uomini nella stessa fascia di età le quote sono 46% in Italia, 76% in Svezia, 58% nella media Ue e 70% negli Stati Uniti (dati Ocse 2007)”. Ineccepibile, così come il fatto che ciò accade per tutte le altre fasce d’età, con la sola eccezione dei maschi della fascia d’età centrale. Il tasso di occupazione fra i 15 e i 54 anni (occupati 15-54 su popolazione con più di 15 anni) nel 2007 è 69% per l’Italia (donne 57%) contro 76% (71%) della Francia, 79% (74%) della Germania, 77% (68%) della Spagna, 81% (79%) della Svezia (dati di fonte Ilo). Quindi il problema di cui parla Alesina ha un carattere ben più generale. Le donne, in particolare, lavorano in poche in tutte le fasce d’età e Alesina usa inappropriaamente i dati nell’attribuire alla “bassa” età pensionistica i bassi tassi di occupazione femminili per le over-55 (come mi ha prontamente segnalato Antonella Stirati).
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L'uragano a Pechino
Vabbè guardarsi l’ombelico. Ma giornali e tiggì italiani, questa settimana, hanno superato sè stessi. Ci hanno fatto sapere tutto dei (falsi) stupratori della Caffarella. Poi: ci hanno bombardato con i primi passi della campagna elettorale per le prossime europee (con tanto di solito codazzo di promesse annesse e connesse: dalle tasse ai ricchi ai ponti sugli stretti). E alla fine: hanno sostanzialmente ignorato un paio di notiziole che arrivavano dal resto del nostro pianetino. Che forse non avranno avuto lo stesso fascino dei dolori del giovane principe Hanry (notizia di oggi del Corriere.it). Ma che potevano interessare anche gli italiani che non conoscono l’inglese. Così, giusto per sapere dove va e come gira il mondo. E per capire perchè - oggi come oggi - una farfalla (subprime) a New York può provocare un uragano (di velate minacce) a Pechino.
Ma andiamo con ordine. Ecco la numero uno. Scrive l’agenzia di stampa americana Bloomberg (tra le prime al mondo in campo finanziario e di proprietà del sindaco di New York, Micheal Bloomberg), giusto lunedì scorso:
Secondo un rapporto dell’Asian development bank, il valore di tutti gli strumenti finanziari del globo - incluse azioni, bond e monete -probabilmente nel 2008 è sceso di 50 trilioni di dollari (che non sono i fantastilioni di Zio Paperone; un trilione sono mille miliardi di dollari, ndA), l’equivalente di un anno del Pil mondiale”.
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Il sistema finanziario statunitense è di fatto insolvente
di Nouriel Roubini*
Per coloro che sostengono che il tasso di crescita dell’attività economia stia ritornando positivo – e cioè che le economie si stiano contraendo ma ad un ritmo più lento rispetto al quarto trimestre del 2008 – gli ultimi dati non confermano questo relativo ottimismo. Nel quarto trimestre del 2008 il prodotto interno lordo è diminuito di circa il 6% negli Stati Uniti, del 6% nell’Eurozona, dell’8% in Germania, del 12% in Giappone, del 16% a Singapore e del 20% in Corea del Sud. Quindi, le cose sono addirittura più agghiaccianti in Europa e in Asia rispetto agli Stati Uniti.
Esiste, in effetti, un rischio crescente di una depressione globale a forma di L che sarebbe addirittura peggiore dell’attuale dolorosa recessione globale a forma di U. Ecco perché.
Innanzitutto, notate come la maggior parte degli indicatori mostrino che la derivata seconda dell’attività economica sia ancora fortemente negativa in Europa e in Giappone e vicina alla negatività negli Stati Uniti e in Cina. Alcuni segnali del fatto che la derivata seconda stava volgendo alla positività per Stati Uniti e Cina si sono rivelati dei fuochi di paglia. Per gli Stati Uniti, gli indici Empire State e Philly Fed per l’attività manufatturiera sono ancora in caduta libera; le richieste dei sussidi di disoccupazione sono ancora a livelli preoccupanti, suggerendo un’accelerazione della perdita di posti di lavoro. E l’incremento delle vendite di gennaio è un caso fortunato – più un rimbalzo da un dicembre molto depresso, dopo le impetuose vendite post-festività, che una ripresa sostenibile.
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Le paure sbagliate del governo
Felice Roberto Pizzuti
Le posizioni emerse nel dibattito sulla proposta di aumentare gli assegni ai disoccupati sono sintomatiche dell’estemporaneità con la quale ancora si affronta il tema degli ammortizzatori sociali e, più in generale, dell’inadeguatezza delle politiche sociali correnti rispetto alle esigenze anche economiche accentuate drammaticamente dalla crisi in atto.
Quella che oramai senza enfasi può essere chiamata “la grande crisi del 2008” rende incontestabilmente più urgente il potenziamento degli ammortizzatori sociali, cosicché oggi appaiono particolarmente ingiustificate le contrarietà ad attuarlo o a subordinarlo alla riduzione delle prestazioni pensionistiche. Va tuttavia sottolineato che le carenze delle misure di sostegno al reddito del nostro sistema di welfare sono da anni sotto gli occhi di chi vuol vedere (o leggere: ad esempio, le periodiche edizioni del “Rapporto sullo Stato sociale” elaborato annualmente presso il Dipartimento di Economia Pubblica della “Sapienza”).
Fatta pari a 100 la spesa sociale procapite della media dell’Unione europea a 15, il dato italiano, dopo una riduzione di 7 punti negli ultimi dieci anni, è arrivato a 75. Se si fanno confronti omogenei, il divario è sensibilmente superiore a quello che emerge dai dati ufficiali.
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Innovazioni e crisi finanziaria
di Marcello De Cecco
L’argomento qui trattato è stato oggetto di una lezione che il prof. De Cecco ha tenuto presso la facoltà di Economia “R. Goodwin” di Siena il 25 febbraio.-Con un commento di Antonio Pagliarone
Gli pfandbriefe, dice un dizionario dei termini finanziari sono letteralmente, dal tedesco, ‘lettere o certificati di cauzione’. Sono un tipo di bond emesso dalle banche tedesche specializzate nei mutui immobiliari: in pratica le banche che prestano denaro a chi vuole comprare una casa raggruppano i crediti che hanno con i loro clienti, creano delle maxiobbligazioni, e le frazionano poi in piccole tranche di titoli che ricollocano sul mercato per gli investitori. Questi tipi di bond rappresentano il segmento più largo del mercato dei debiti privati tedeschi e sono considerati della massima sicurezza.
Gli pfandbriefe sono dunque un esempio eminente di cartolarizzazione e di impacchettamento di mutui immobiliari, in uso da qualche secolo. Una innovazione finanziaria, per quanto riguarda non la Germania ma gli Stati Uniti, sono certamente le mortgage backed securities, che risalgono invece solo a qualche decennio, e che non mostrano molta differenza rispetto agli pfandbriefe.
In tutta la loro lunga storia gli pfandbriefe sono stati, dunque, un mezzo di investimento di assoluta solidità e tranquillità per i risparmiatori tedeschi. Ciò dipende non solo dal nome delle banche che li emettono e vendono, ma specialmente dalla solidità dei mutui che sono impacchettati in bonds e ridotti in certificati di piccolo importo da vendere ai risparmiatori. E dalla tradizionale severità della vigilanza bancaria.
E’ notevole, tuttavia, che il principale operatore su tale mercato sia ora in condizioni di virtuale insolvenza, tanto che il governo tedesco ha appena varato una apposita legge che permetterà la nazionalizzazione delle banche per essere in grado di salvarlo .
Che cosa è accaduto?
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O le banche o la vita. Meglio nazionalizzare
Joseph E. Stiglitz
I consigli del premio Nobel per l'Economia a Barack Obama. Tanto per cominciare, seguire il detto: «l'inquinatore paga». E a New York la storica rivista della sinistra Usa chiama a raccolta ospiti illustri e presenta gli articoli con cui dimostra di aver previsto tutto. I suoi lettori accorrono, soprattutto per capire se c'è una via per uscire a sinistra dalla crisi Fare in fretta, prima di buttare altri soldi in salvataggi
La notizia che la nazionalizzazione delle banche potrebbe essere necessaria anche secondo Alan Greenspan dimostra quanto la situazione sia disperata. Come è evidente da tempo, l'unica soluzione è che il nostro sistema bancario sia rilevato dal governo, forse sulla falsariga di quanto fecero Norvegia e Svezia negli anni '90. Bisogna farlo, e farlo in fretta, prima che altri soldi vadano sprecati in manovre di salvataggio.
Il problema delle banche americane non è solo un problema di liquidità. Anni di comportamentisconsiderati, tra cui la concessione di crediti inesigibili e l'avere giocato d'azzardo con i derivati, le hanno ridotte in bancarotta. Se il nostro governo rispettasse le regole del gioco - che prevedono tra l'altro la chiusura delle banche il cui capitale è inadeguato - sono molte, se non moltissime, le banche che uscirebbero dal mercato.
Nessuno sa con certezza quanto sia grande il buco; secondo alcune stime la cifra ammonterebbe a duemila o tremila miliardi di dollari o più. Dunque la domanda è: chi si farà carico della perdite? Wall Street non chiederebbe di meglio che uno stillicidio continuo del denaro dei contribuenti. Ma l'esperienza di altri paesi suggerisce che quando sono i mercati finanziari a comandare, i costi possono essere enormi. Paesi come l'Argentina, il Cile, l'Indonesia, per salvare le proprie banche hanno speso il 40% e oltre del loro prodotto interno lordo. Il costo per il governo è di particolare importanza, dato l'indebitamento ereditato dall'amministrazione Bush, che ha visto il debito nazionale lievitare da 5.700 miliari di dollari a oltre 10.000 miliardi di dollari.
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Perchè il piano di Obama non salverà l'economia
di Paul Krugman
Il piano del presidente Obama mirante a stimolare l´economia era "imponente", "colossale", "gigantesco": così è stato riferito agli americani nel periodo immediatamente precedente alla sua approvazione. Seguendo i telegiornali ci si sarebbe potuti chiedere una cosa sola: il piano non sarà per caso troppo mastodontico, troppo ambizioso?
Eppure, molti economisti e tra loro anche il sottoscritto sostenevano che il piano fosse inadeguato e troppo prudente. Gli ultimi dati confermano queste preoccupazioni, e suggeriscono che le politiche economiche dell´Amministrazione Obama già adesso stanno rivelandosi inadeguate e lente rispetto alle necessità.
Per comprendere come stanno andando male le cose si consideri, per esempio, che tra le varie proposte di budget dell´Amministrazione si era messo in conto per l´intero anno 2009 un tasso medio di disoccupazione dell´8,1 per cento. In realtà quel livello di disoccupazione è stato raggiunto già nel mese di febbraio e sta continuando a salire rapidamente. L´occupazione è già diminuita considerevolmente di più in questa recessione che nella crisi del periodo 1981-82, giudicata la più grave dai tempi della Grande Depressione. Di conseguenza, la promessa di Obama di creare o salvare 3,5 milioni di posti di lavoro entro la fine del 2010 con il suo piano appare a dir poco scoraggiante.
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Le virtù della rigidità
Francesco Garibaldo
Il Financial Times del 22 Febbraio ha ospitato un articolo del professor Paul de Grauwe dell’Università di Lovanio che sin dal titolo - la flessibilità cede il passo alle virtù della rigidità - indica un cambio di paradigma. La argomentazione piena di buon senso e chiarezza dovrebbe aprire una riflessione critica anche in Italia dove dobbiamo ancora sorbirci l’ennesima predica del professor Pietro Ichino sul Corriere della Sera del 23 Febbraio - è finito il tempo del “ma anche”.
De Grauwe in sintesi spiega che in una deflazione da debiti, come quella in corso, se le istituzioni sociali sono troppo flessibili – ad esempio le imprese possono licenziare facilmente e tagliare i salari senza indugi – gli effetti negativi saranno ampliati a dismisura perché le insolvenze si aggiungono una sull’altra senza freni, dato che la spinta alla pauperizzazione di vaste masse di lavoratori non trova freni. In tali circostanze sono necessari degli “interruttori” che siano in grado di fermare la spirale perversa, frenando il meccanismo cumulativo. Ebbene – udite, udite -i paesi con salari rigidi, buona sicurezza occupazionale sociale sono più favoriti perché la deflazione da debiti trova un pavimento su cui fermarsi, insomma la società non può impoverirsi oltre un certo livello e, aggiungo io, le aziende sono costrette più rapidamente ad aggiustamenti strutturali, piuttosto che scaricare il costo per intero sul lavoro.
Questa riflessione, di solare evidenza, cosa suggerisce sul tipo di rapporto tra Capitale e Lavoro che le presenti circostanze richiederebbero? La risposta quasi naturale è: un miglior bilanciamento dei rapporti di forza che sbarri la strada al Capitale verso la sua naturale tendenza a scaricare sul Lavoro il costo dell’aggiustamento, tendenza facilitata dall’oggettivo ricatto sui lavoratori che la crisi comporta.
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Crisi globale – Proletarizzazione globale – Contro-prospettive
Prime ipotesi di ricerca
Karl Heinz Roth
Introduzione
Stiamo entrando in una situazione storica mondiale nella quale tutti i meccanismi di scambio tra vita politica e vita socioeconomica sono disposti in modo nuovo. Per la mia generazione, questo sarà il secondo mutamento d'epoca dopo il periodo 1967-1973. Tutti i fatti e gli indicatori principali delle trascorse settimane suggeriscono l'inizio di una crisi economica mondiale che sorpassa sin da ora il livello raggiunto da quella del 1973 e dalle crisi intermedie del 1982 e del 1987. La crisi attuale si sta avvicinando alle dimensioni della crisi mondiale e della depressione che ne è seguita negli anni tra il 1929 e il 1938.
Come dobbiamo reagire a fronte di una simile sfida gigantesca? Questa è ormai la domanda decisiva. Per questo ho completamento riscritto un saggio sul quale stavo lavorando e che avevo impostato come una replica alle critiche indirizzate alle mie ipotesi sulla «condizione del mondo» nel 2005. Presento qui i pensieri e i risultati della ricerca che ho prodotto sinora; lo stato è provvisorio, si tratta di una sintesi, perché tali risultati dovranno essere rivisti, corretti e ampliati in un dialogo costante prima della pubblicazione del libro. Vi sono compresi i primi risultati della discussione tenutasi il 27 novembre alla Schorndorf Manufaktur, le conclusioni del dibattito collettivo della lista Wildcat, gli esiti di un seminario dell'Interventionistische Linke del 13 dicembre, nonché i risultati di diverse discussioni che ho intrattenuto con alcuni amici.
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Beshir-Tpi, quali conseguenze?
Irene Panozzo
Il mandato d'arresto per il presidente sudanese Omar al-Beshir è stato deciso. Una misura che secondo i sostenitori dell'azione del Tpi dovrebbe favorire la pace nel paese più grande dell'Africa. Ma è davvero così?
Dopo mesi di attesa, la conferenza stampa di ieri all’Aja ha reso nota la decisione dei giudici del Tribunale penale internazionale (Tpi) sul procedimento nei confronti del presidente sudanese Omar al-Beshir. Ma ha aperto un’altra, importante, questione: quali saranno le sue conseguenze?
Sono stati in molti, in questi mesi, a parteggiare per un’incriminazione di Beshir, nella speranza non solo di vederlo rispondere di fronte alla giustizia internazionale per le sue responsabilità nel conflitto del Darfur, ma anche di una soluzione più rapida alle guerra in corso dal 2003. Ma ad oggi le prospettive sono di tutt’altro tenore. Nelle more della decisione dei giudici dell’Aja, nell’ultimo mese e mezzo le cronache hanno registrato sia una ripresa dell’offensiva militare sia un riavvio, a tratti potenzialmente promettente, di negoziati di pace. Protagonista accanto al governo di Khartoum, in entrambi i casi, è stato il Movimento per la giustizia e l’uguaglianza (Jem) di Khalil Ibrahim, uno dei primi gruppi ribelli del Darfur, legato a doppio filo al governo ciadiano e piuttosto forte sul terreno. Il Jem, che lo scorso maggio era riuscito ad arrivare alle porte della capitale in un attacco senza precedenti, ha prima preso Muhajiriya, cittadina del Sud Darfur, scatenando la reazione violenta dell’esercito. Poi ha accettato, per la prima volta dopo i fallimentari dialoghi di Abuja, in Nigeria, conclusi nel maggio 2006, di sedersi al tavolo negoziale con Khartoum, firmando solo due settimane fa una prima intesa preliminare sulla cui base intavolare nuovi colloqui.
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Ma quale Marx
Rossana Rossanda
Breve il terrore seguito al crac della finanza: cielo, torna Marx! E perché? Perché i governi sono corsi in aiuto alle banche, rifinanziandole. L'intervento fatale dello stato, cioè il riaffacciarsi di Marx...
Che sciocchezza. Intanto lo spavento non è durato molto. Stati, o meglio governi, non sembrano chiedere nulla in cambio. Si limitano a dire che non si può lasciar fallire una banca perché questo trascinerebbe nel vortice risparmiatori e imprese. Lasciar fallire Lehman Brothers è stato un errore; salvare una banca è un atto di salute pubblica, come far fronte a una inondazione. Quindi altre imprese chiedono aiuto, per prime le grandi costruttrici di auto, perché quote ingenti dei loro clienti hanno smesso di cambiare la vettura, per cui rischiano il licenziamento centinaia di migliaia di lavoratori, che da disoccupati costano allo stato e producono tensione sociale. Solo in Europa si moltiplicano le cifre di disoccupati a breve, per non parlare dell'est che, gettato spensieratamente nel libero mercato, vi sprofonda più degli altri. Perfino gli oligarchi che avevano ammassato ricchezze nella svendita della proprietà pubblica ne stanno perdendo una parte.
Quindi gli stessi che per venti anni hanno strillato «meno stato più mercato» adesso chiedono l'intervento statale. C'entra Marx? Per niente. Prima di tutto non è mai stato un fautore dello stato, del quale anzi prevedeva a termine l'estinzione; se mai fu Lenin a pensare che la proprietà statale, ma d'uno stato proletario, fosse l'ultima fase prima della socializzazione della proprietà stessa. Nulla di simile passa per la testa dei governi, né delle opposizioni attuali.
I primi sono reticenti perfino a dichiarare la natura di queste erogazioni.
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Crisi finanziaria: il peggio deve ancora venire
Nouriel Roubini, Stephen Roach, David Smick, Robert Shiller e Dean Baker
"Il mondo è quel disastro che vedete, non tanto per i guai combinati dai malfattori, ma per l'inerzia dei giusti che se ne accorgono e stanno lì a guardare." Albert Einstein
Cinque economisti hanno dato avventimenti che non sono stati ascoltati, è ora di gettare uno sguardo alla prossima fase della crisi globale. Ecco cosa dicono:
• Attenzione: Si avvicinano tempi bui. Nouriel Roubini
• Uno shock letale. Stephen Roach
• Buona fortuna, Barack. David Smick
• Quanto manca? Robert Shiller
• Si deve controllare il dollaro. Dean Baker
Nouriel Roubini. Avviso: Si avvicinano tempi bui.
Le peggiori previsioni dello scorso anno si sono realizzate. La pandemia finanziaria globale che alcuni avevano previsto è già qui. Ma siamo ancora nelle prime fasi di questa crisi. La mia previsione per l'anno che inizia, purtroppo, è ancora più pessimista: le bolle, che sono state molte, hanno appena iniziato ad esplodere.
L'idea che più ha preso piede è che i prezzi di molti attivi finanziari a rischio sono caduti così tanto, che abbiamo toccato il fondo. E' vero che essi hanno subìto una forte contrazione rispetto al loro massimo alla fine del 2007, ma è anche vero che possono scendere ancora di più. Nei prossimi mesi, le notizie macroeconomiche negli Stati Uniti e in tutto il mondo saranno molto peggiore di quelle attese. I dossier sui guadagni delle aziende sorprenderebbero qualsiasi analista di valori che ancora creda che la situazione economica sarà lieve e breve.
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La comune legge
I piccoli protezionisti del mercato
Ugo Mattei
La parola d'ordine è che serve una «nuova Bretton Woods». Per stabilire però norme non vincolanti per gli stati nazionali. In nome della continuità, per escludere i paesi emergenti e le vittime del neoliberismo dalle decisioni necessarie per uscire dalla recessione economica
Difficile immaginare un gruppo più screditato rispeto a quello dei ministri economici del G7 che si è tenuto a Roma in vista dello sfoggio muscolare annunciato per quest'estate alla Maddalena, quando i capi di stato degli otto paesi più industriailizzati si incontreranno per decidere la sorte del mondo. Un gruppo di impotenti «ex potenti» che si ritrova per discutere di una crisi di fronte alla quale non ci sono che due certezze dettate dal puro buon senso: a) che essa è la conseguenza strutturale di un modello di sviluppo capitalistico di cui i paesi del G7 sono stati, chi più chi meno, i principali interpreti da Bretton Woods (1944) in poi; b) che la soluzione della crisi non può essere indicata dagli stessi interpreti che l'hanno causata. In primo luogo, per la «dipendenza da percorso» (path dependency) che li rende del tutto prigionieri di modi di pensare superati. In secondo luogo, perchè essi continuano a non dialogare con quei soggetti politici internazionali con i quali viceversa si dovrebbe concertare qualsiasi via d'uscita. Mi riferisco da un lato ai paesi del Bric (Brasile, Russia, India, e Cina), dall'altra a rappresentanze estese dei continenti che più hanno subito (e ancor stanno subendo) gli effetti della dissennata politica del saccheggio post-coloniale, dal mondo arabo all'Africa al Sud Est Asiatico al cono sud Americano solo per citarne alcuni.
In questo scenario surreale, con i generali senza truppe in preda ai sussulti finali di un delirio di onnipotenza inconcludente, si invoca l'intervento del «diritto» e delle «regole». Si cerca così di mettere all'ordine del giorno la necesità di produrre dei legal standards per ovviare al Far West finaziario; standards, si fa intendere,dalla vocazione potenzialmente espansiva che si candidino a disciplinare una nuova globalizzazione delle regole, senza perciò «limitarsi» alla finanza.
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Così è la vita
Felice Cimatti
SUPERARE IL DETERMINISMO GENETICO. Un incontro con il fisiologo Denis Noble, del quale è uscito da Bollati Boringhieri un saggio titolato «La musica della vita». Il codice del Dna - dice - somiglia a un cd perché convoglia informazioni digitali. Ma così come un disco non scrive la musica il Dna non «causa» la vita
Cos'è la vita? Da un punto di vista scientifico la risposta non è affatto ovvia. Che differenza c'è fra uno stesso gatto quando è vivo e quando è morto? Il gatto morto è composto della stessa materia di quello vivo, eppure, evidentemente, c'è una differenza radicale fra i due. La risposta non va cercata direttamente nella materia organica, perché essa è - come ci ricorda il biologo Denis Noble, di cui è stato da poco pubblicato La musica della vita (Bollati Boringhieri) - materia esattamente come quella non organica. Non c'è un'essenza della vita che si possa individuare al microscopio. Il libro di Noble affronta questo tema, così dolorosamente attuale, proponendo un orientamento singolare, e allo stesso tempo antico, allo studio dei fenomeni viventi. Oggi, e non solo nella biologia, prevalgono le spiegazioni riduzionistiche, che cercano di rendere conto dei fenomeni trattandoli come l'effetto superficiale di qualche meccanismo nascosto al loro interno (e il riduzionismo non è solo scientifico ma anche religioso). È un procedimento spesso molto fruttuoso, ma talvolta no: per esempio nel caso dei fenomeni complessi, o emergenti, in cui interagiscono una moltitudine di componenti elementari. Prendiamo il caso del battito cardiaco: come illustra Noble nel suo libro una spiegazione riduzionista di questo fenomeno biologico fondamentale semplicemente non esiste (non esiste, cioè, il gene del battito del cuore, così come non esiste il gene della vita). Altre spiegazioni le lasceremo allo stesso fisiologo di Oxford.
L'uso che lei fa della analogia fra la musica e la vita le serve a sostenere che i fenomeni vitali non hanno, al loro interno, qualche essenza misteriosa. Come la musica esiste soltanto se viene eseguita, così la vita c'è solo in quanto e finché è vivente. Nel sempre - lei dice - per dare conto di un fenomeno complesso è vantaggioso cercare una spiegazione riduzionista, cioè più semplice del fenomeno che intende spiegare.
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La scienza esatta di Louis Althusser
Cristian Lo Iacono
Louis Althusser non è stato soltanto il filosofo marxista più influente negli anni Settanta. L'anti-umanesimo, la critica del riduzionismo, della categoria di soggetto, di ogni filosofia dell'origine e del fondamento, tutti discorsi marcati da un'appartenenza difficile allo strutturalismo, sopravviveranno anche nelle teorie poststrutturaliste degli anni Ottanta. Il decorso decostruttivo entro il marxismo non ha avuto gran successo in Italia e ciò ci fa apparire erroneamente il filosofo francese come un pensatore «datato». Invece, alcuni saggi di Per Marx - di recente ritradotti a cura di Maria Turchetto - soddisfano esigenze ancora attuali, come quella di pensare l'articolazione delle soggettività e delle istanze strutturali e sovrastrutturali entro un quadro capace di ispirare nuova progettualità politica. Possiamo dire, con una battuta, che Per Marx, a dispetto delle sue intenzioni restauratrici, inaugurò l'ultimo ciclo di crisi del marxismo a noi noto.
In effetti, l'afflato che attraversa tali scritti pare quello di restaurare il pensiero di Marx contro le deformazioni dei marxisti, di liberare Marx dalle catene dell'hegelismo, ma anche dalle incrostazioni etiche e filosofiche che la riscoperta dei Manoscritti del 1844 aveva contribuito a formare attorno al suo corpus dottrinale. Il concetto di rottura epistemologica permette ad un tempo di pensare il marxismo come scienza, poiché è la rottura costituente una episteme, ma quanto al suo oggetto permette di isolare Marx rispetto a Hegel e allo hegelismo. La tesi storiografica ed epistemologica di Per Marx è quella della doppia distanza di Marx sia dall'antropologia di Feuerbach, sia dall'idealismo assoluto di Hegel. Althusser riteneva strategica questa pars destruens prima di descrivere in termini positivi «la filosofia di Marx» in Leggere il Capitale. Inoltre, dietro la biografia intellettuale del filosofo di Treviri Althusser pare fare i conti con la propria coscienza filosofica precedente, dall'umanesimo a Hegel.
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