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Capitalismo, tecnologia, ambiente
E.R.
Il marxismo è spesso accusato di cecità in relazione agli effetti devastanti del capitalismo sull'ambiente naturale. Nella maggior parte dei casi, il marxismo è ritratto dai suoi critici e da molti dei suoi sostenitori, con una teoria che sostiene il trattamento e le relazioni che il capitalismo sviluppa con la natura, e anche come una teoria che sostiene l'estensione e la intensificazione crescente di questa distruzione. La crescita sempre maggiore della produzione e lo sviluppo di tecnologie per assicurarlo sono generalmente considerati come fine a se stessi per il marxismo.
In realtà, questo è vero per le varie varianti del marxismo dominanti durante il XX secolo. Tuttavia, questo non è vero per lo stesso Marx, per cui è possibile sviluppare una forma di marxismo critico che rifiuta questo punto di vista. Questo testo è un contributo a questa forma di critica. Anche se alcuni marxiani hanno voluto approfondite ricerche per dimostrare che Marx era in realtà tutt'altro che cieco all’antagonismo fondamentale tra il capitalismo e la natura (vedi Marx e la Natura (1999) di Paul Burkett e Ecologia di Marx (2000) di John Bellamy Foster), mi limito qui, inizialmente, a due brevi citazioni dagli scritti della maturità di Marx che illustrano chiaramente la sua consapevolezza di questa realtà.
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La bolla dell’insubordinazione
Christian Marazzi
La crisi del capitalismo finanziario che si è imposto negli ultimi trent’anni è speculare alla crisi del rapporto tra capitale e lavoro che ha siglato la fine del regime fordista d’accumulazione e la transizione verso un capitalismo caratterizzato dalla centralità della rendita rispetto alle variabili «reali» dell’economia, ossia salario, prezzo e profitto. La finanziarizzazione dell’economia prende avvio negli anni Settanta con la deregolamentazione dei mercati dei cambi che ha fatto seguito alla rottura degli accordi di Bretton Woods, si sviluppa con la deregolamentazione dei mercati finanziari con la nascita dei mercati obbligazionari ai quali gli Stati si rivolgono per finanziare i propri debiti pubblici, si espande ulteriormente alla fine degli anni Ottanta con lo sviluppo dei mercati dei prodotti derivati e, dalla metà degli anni Novanta a oggi, con la globalizzazione dei mercati monetari e finanziari. «Ma l’elemento più impressionante – scrive François Morin nel suo Un mondo senza Wall Street? – è senza alcun dubbio la rapidità con la quale i mercati di copertura si sono sviluppati. Nel 1987, sui mercati delle opzioni e dei futures il volume degli scambi era pari a 1,7 teradollari (T$), mentre alla fine 2009 aveva raggiunto i 426,7 T$. Se si eccettuano i Cds che sono passati da 0,9 T$ nel 2001 a 62,1 T$ nel 2007, prima di calare di nuovo a 30,4 T$ nel 2009, questa folgorante espansione non è stata arrestata dalla crisi». La creazione di liquidità, in altre parole, è praticamente illimitata e lubrifica una finanza di mercato in cui i rischi legati ai più diversi prodotti finanziari sono tra loro tutti correlati, dando origine a processi contagiosi che alimentano una bolla dopo l’altra, dalla bolla internet a quella dei subprime alla bolla dei debiti sovrani. È infatti nella natura stessa dei mercati finanziari il fatto di essere intrinsecamente instabili, soggetti cioè a processi autoreferenziali, tali per cui l’aumento del prezzo di un attivo finanziario non provoca la riduzione della sua domanda, bensì l’opposto, ossia un ulteriore aumento della domanda, facilitato dall’accesso al credito.
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L'euro è salvo. Almeno per qualche giorno
di Vincenzo Comito
Un accordo dell’ultima ora forse salva l’euro, almeno per ora. Ma politici e “tecnici” non sembrano in grado di far uscire il mondo dalla trappola in cui esso è stato spinto
“…anche se questo accordo funziona, …non c’è niente che risolva il problema di competitività che tocca i paesi più deboli dell’eurozona o che offra loro qualcos’altro che molti anni di dura austerità…” H. Stewart. “…questa, nella sostanza, è una crisi delle bilance dei pagamenti…” M. Wolf. “…noi non stiamo salvando i greci o gli italiani… noi stiamo salvando le nostre banche (quelle tedesche), noi stessi e le nostre poltrone… la questione è tutta qui…” F.-W. Steinmeier, leader della Spd tedesca. “...la percezione della minaccia di un disastro non sempre è sufficiente a impedire che esso poi accada…” The Economist, a.
Premessa
Appare ormai possibile, anche se non è certo, dopo le misure prese dal governo Monti, nonché gli accordi del vertice europeo del 9 dicembre, la nuova disponibilità ad ampliare i suoi interventi manifestata inoltre dalla Bce e infine la stessa stanchezza degli operatori, che il sistema dell’euro, almeno per il momento, non vada a pezzi e che la partita sia rimandata per qualche tempo. Certamente, comunque, ha probabilmente ragione Claude Junker quando afferma, appena conclusi i lavori, “…non penso che questo sia l’ultimo vertice per salvare l’euro…”.
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Il destino dell’intellettuale /3
di Rino Genovese
[Le prime due parti dell'intervento di Genovese possono essere lette qui]
Se Marx avesse avuto ragione, se negli ultimi centocinquant’anni ci fosse stata una crescente polarizzazione della società in due campi – da un lato un pugno di capitalisti e, dall’altro, la stragrande maggioranza dei proletari al lavoro nell’industria, o fuori di essa come esercito di riserva –, e se questo processo fosse stato in grado di unificare culture antropologiche e lingue politiche così da precipitare in una rivoluzione mondiale, probabilmente non ci sarebbe mai stata una questione degli intellettuali come l’abbiamo conosciuta nel corso del Novecento. La distinzione tra l’intellettuale disorganico e il funzionario, che ho cercato di mettere a fuoco nelle pagine precedenti (o dovrei dire nelle “puntate”?), non sarebbe mai esistita, perché ci sarebbero stati soltanto intellettuali proletarizzati pronti a unirsi alla rivoluzione socialista. L’intellettuale disorganico, da Baudelaire a Walter Siti, non l’avremmo conosciuto. La sua possibilità, da un punto di vista sociologico generale, è data dall’enorme dilatazione dei ceti medi, dalla terziarizzazione dell’economia, dalla deindustrializzazione favorita dalle sofisticate tecnologie odierne. Quanto più i funzionari di basso, medio e alto livello hanno il sopravvento in organizzazioni di ogni tipo, tanto più un certo numero di privilegiati, o di spostati, può essere o sentirsi disorganico, sradicato, senza patria. Oggi, in clima neoliberale, ci si può indignare dell’inclinazione novecentesca di molti intellettuali per i totalitarismi di segno opposto (in certi casi, anche per ambedue): ma un piccolo borghese timoroso del crollo – sia esso quello del capitalismo o della civiltà occidentale – poteva facilmente credere, fuggendo dalla casa in fiamme, che sotto l’ala di avvolgenti ideologie potesse trovare un riparo.
Mussolini, socialista massimalista e poi inventore del fascismo, è il tipico rappresentante di una piccola borghesia intellettuale radicalizzata prima a sinistra, poi a destra.
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Strati di tempo
di Cristina Corradi
Nel suo ultimo, corposo saggio (Strati di tempo. Karl Marx materialista storico, Jaca Book 2011) Massimiliano Tomba ricostruisce l’itinerario marxiano – dalla dissertazione di dottorato sull’atomismo antico all’Ideologia tedesca, dai Grundrisse al confronto con i populisti russi – utilizzando come filo conduttore la maturazione del “materialismo storico”. L’espressione – ci ricorda l’autore – non è di Marx ma di Engels che la usa, congiuntamente alla dizione “socialismo scientifico”, con intenti divulgativi. Obiettivo del libro non è, tuttavia, la ricostruzione filologica del vero materialismo pratico o materialismo comunista di Marx, da contrapporre ai fraintendimenti del marxismo novecentesco. Esso esplora piuttosto la pluralità di significati del materialismo marxiano per ricavare dai testi una concezione della storia che sovverte quella sedimentata nel marxismo della II e della III Internazionale: una concezione più rispondente alla temporalità specifica del conflitto sociale e più consona alle esigenze di un’autonoma politica di classe.
In Italia il materialismo storico non ha mai goduto di buona fama: dal dibattito di fine Ottocento tra Labriola, Croce, Gentile e Sorel, la tendenza prevalente è stata quella di ridimensionare la concezione materialistica della storia, disconoscendone la portata scientifica, attenuandone il valore metodico o denunciando l’intima contraddittorietà di una teoria che affermi il primato dell’essere sulla coscienza. Nei Quaderni del carcere Gramsci si spinge a sostituire il materialismo storico con una filosofia della prassi che è chiamata a indagare la formazione della soggettività politica di classe.
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«Salva Italia»? Salvabanche
Leonardo Mazzei
L'omino della Trilateral lo ha implorato: lo si deve chiamare «Salva Italia». Ma il suo decreto passerà alla storia più prosaicamente come «Salvabanche». Per uno che è stato messo lì proprio per questo non è poi così disdicevole. Che poi le salvi veramente è tutto da vedere, diciamo che si sta impegnando. Tuttavia è questa la sostanza che va afferrata. Il decreto della domenica sera non salverà né l'Italia, né l'euro, tanto meno le condizioni di vita degli italiani. Di certo non quelle del popolo lavoratore. Cercherà invece di dissetare i vampiri della City e di Wall Street, i sadici banchieri di Francoforte, i quasi coniugi Merkozy. E darà un po' di respiro, non sappiamo per quanto, alle grandi banche del Belpaese, più o meno tutte con l'acqua alla gola, a partire da quella Banca Intesa che ha «prestato» al governo il signor Passera e la signora Fornero. A proposito del famoso conflitto d'interessi tanto evocato, ma oggi dimenticato, dagli antiberlusconiani alla Scalfari...
Da domenica sera anche i più duri di comprendonio dovrebbero avere inteso alcune cosette. Primo, che il governo Monti è il governo più classista ed antipopolare della storia repubblicana. Secondo, che la sbandierata «equità» altro non era che una scadente mercanzia propagandistica ad uso dei gonzi. Terzo, che il massacro sociale iniziato con le manovre d'estate ha compiuto un decisivo salto di qualità. Quarto, che il disastro che si dice di voler evitare è in realtà già iniziato.
La luna di miele del commissario Monti volge già al termine. Le sue carte sono ormai scoperte, ma questo non vuol dire che la stagione degli inganni sia finita. Anzi, il dibattito parlamentare alle porte ce ne offrirà un campionario vasto quanto non appassionante.
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La mistica del Capitalismo
Roberto Esposito
Dalle monete ai brand i nuovi oggetti di culto. Adesso gli studiosi discutono di come sia possibile uscire dal paradigma liturgico Il discorso economico e finanziario, nel corso del tempo, ha assunto toni quasi religiosi. L´analogia funziona anche per i paesi dell´Oriente dove l´accostamento è con il taoismo Il punto è come togliere questa impronta teologica tornando alle pratiche reali
«Nel capitalismo può ravvisarsi una religione, vale a dire, il capitalismo serve essenzialmente alla soddisfazione delle medesime ansie, sofferenze, inquietudini, cui un tempo davano risposta le cosiddette religioni». Queste fulminanti parole di Walter Benjamin – tratte da un frammento del 1921, pubblicato adesso nei suoi Scritti politici, a cura di M. Palma e G. Pedullà per gli Editori Internazionali Riuniti – esprimono la situazione spirituale del nostro tempo meglio di interi trattati di macroeconomia. Il passaggio decisivo che esso segna, rispetto alle note analisi di Weber sull´etica protestante e lo spirito del capitalismo, è che questo non deriva semplicemente da una religione, ma è esso stesso una forma di religione. Con un solo colpo Benjamin sembra lasciarsi alle spalle sia la classica tesi di Marx che l´economia è sempre politica sia quella, negli stessi anni teorizzata da Carl Schmitt, che la politica è la vera erede moderna della teologia. Del resto quel che chiamiamo “credito” non viene dal latino “credo”? Il che spiega il doppio significato, di “creditore” e “fedele”, del termine tedesco Gläubiger. E la “conversione” non riguarda insieme l´ambito della fede e quello della moneta? Ma Benjamin non si ferma qui. Il capitalismo non è una religione come le altre, nel senso che risulta caratterizzato da tre tratti specifici: il primo è che non produce una dogmatica, ma un culto; il secondo che tale culto è permanente, non prevede giorni festivi; e il terzo che, lungi dal salvare o redimere, condanna coloro che lo venerano a una colpa infinita. Se si tiene d´occhio il nesso semantico tra colpa e debito, l´attualità delle parole di Benjamin appare addirittura inquietante. Non soltanto il capitalismo è divenuto la nostra religione secolare, ma, imponendoci il suo culto, ci destina ad un indebitamento senza tregua che finisce per distruggere la nostra vita quotidiana.
Già Lacan aveva identificato in questa potenza autodistruttiva la cifra peculiare del discorso del Capitalista. Ma lo sguardo di Benjamin penetra talmente a fondo nel nostro presente da suscitare una domanda cui la riflessione filosofica contemporanea non può sottrarsi.
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La fabbrica dell’uomo indebitato*
Maurizio Lazzarato
In Europa la lotta di classe, così come è accaduto in altre regioni del mondo, si manifesta e si concentra oggi intorno al debito. La crisi del debito minaccia anche gli Stati Uniti e il mondo anglosassone, paesi dai quali ha avuto origine non solo l’ultimo crollo finanziario, ma anche e soprattutto il neoliberismo. La relazione creditore-debitore, che definisce il rapporto di potere specifico della finanza, intensifica i meccanismi dello sfruttamento e del dominio in maniera trasversale, perché non fa alcuna distinzione tra lavoratori e disoccupati, consumatori e produttori, attivi e inattivi. Tutti sono dei «debitori», colpevoli e responsabili di fronte al capitale, che si manifesta come il Grande Creditore, il Creditore universale. Una delle questioni politiche maggiori del neoliberismo è ancora, come illustra senza ambiguità la «crisi» attuale, quella della proprietà, poiché la relazione creditore-debitore esprime un rapporto di forza tra proprietari (del capitale) e non proprietari (del capitale). Attraverso il debito pubblico, la società intera è indebitata, cosa che non impedisce, ma anzi esaspera «le diseguaglianze», che è tempo di chiamare «differenze di classe».
Le illusioni politiche ed economiche di questi ultimi quarant’anni cadono le une dopo le altre, rendendo ancora più brutali le politiche neoliberiste. La New Economy, la società dell’informazione, il capitalismo cognitivo, sono tutti solubili nell’economia del debito. Nelle democrazie che hanno «trionfato» del comunismo, pochissime persone (qualche funzionario del Fmi, dell’Europa, della Banca centrale europea e qualche politico) decidono per tutti secondo gli interessi di una minoranza.
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Chi c'è, chi non c'è
di Roberta Carlini
Lavoro, pensioni, tasse. La manovra si accanisce contro chi la crisi l'ha già pagata. E la aggrava. Grandi assenti: patrimoni ed evasione fiscale. C'era un'altra strada? Sì.
“La prossima volta che vi diranno che in assenza di tagli alla spesa l'America farà la fine della Grecia, rispondete pure che tagliando la spesa in corso di depressione economica faremo la fine dell'Europa”.. La fine dell'Europa, descritta nelle parole di Paul Krugman, è quella dei medici che uccidono il paziente non perché danno una medicina troppo forte, ma perché hanno sbagliato la diagnosi: pensano che la crisi dipenda da un eccesso di spesa nei paesi indebitati, mentre il problema è che si spende troppo poco nell'insieme dell'Europa. Tagliando e tassando si spenderà ancora di meno, la domanda di beni e servizi scenderà e si aggraverà la recessione: andando avanti così, si uccide l'euro, dice Krugman. Per questo non consiglierebbe mai agli americani di seguire il mantra europeo dell'austerità.
Dall'eurotassa alla neuromanovra
Non la prendiamo alla lontana, ma stiamo proprio nel cuore del problema della manovra economica del governo Monti, se per introdurla ricorriamo alle parole del premio Nobel Paul Krugman. Il primo e irremovibile difetto della manovra da 24 miliardi varata a mercati chiusi dal governo, salutata dalle lacrime della ministra del lavoro la domenica e dai sorrisi delle piazze finanziarie il lunedì, è lì, nel suo stesso obiettivo dichiarato: stringere la cinghia, cioè il bilancio, aiutando in questo l'economia a ruzzolare giù per la sua strada. Manovra pro-ciclica, dicono gli esperti. “Se aumentano l'Iva e la gente compra di meno, quando ci riprendiamo?”, dicono sull'autobus.
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La dittatura dei mercati
di Guido Viale
L'Europa, intesa come Unione europea, è divisa in due: non tanto tra nazioni deboli e stabili, popoli viziosi e virtuosi, porci e porcari (Pigs). La linea di demarcazione è la Bce che governa e custodisce la valuta in cui sono espressi i debiti pubblici e privati. Ai piani alti ci sono «i mercati»: una massa sterminata di denaro e "simildenaro" (valute, bond, certificati di credito, derivati, futures) la cui consistenza è stimata da 10 a 20 volte il Pil mondiale; che può spostare (esentasse) in poche ore tanto denaro quanto tutte le banche centrali del mondo non ne riescono a creare in un anno.
Ai piani bassi ci sono i cittadini dell'Unione, sempre più simili, nella loro condizione di impotenza e di dipendenza dai diktat della finanza, agli altri 6 miliardi e mezzo di esseri umani che popolano il pianeta. Niente di quello che accade o accadrà loro dipende più da una loro scelta: né «individuale» (esercitando la cosiddetta «sovranità del consumatore»), né espressa a maggioranza (esercitando la loro asserita «sovranità» di cittadini). Persino le differenze tra un cittadino greco, italiano e tedesco si attenuano di giorno in giorno: tutti vivono ormai sotto la cappa di una catastrofe economica su cui non hanno alcuna possibilità di influire. Perché a decidere non sono loro, ma «i mercati».
Se questa è la vera ripartizione dell'Europa, la linea di demarcazione tra i due piani è invece meno chiara. Innanzitutto perché da questa parte del confine ci sono molti infiltrati: partiti e sindacati che si occupano più di predicare rinunce e sacrifici che di progettare un futuro dignitoso per le persone che rappresentano; economisti e giornalisti che imbrogliano i conti;
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31 tesi sulla società della miseria (e oltre)*
Message in a bottle
produzione capitalistico si presenta come una “immane
raccolta i merci (Karl Marx Il Capitale)
L’intera esistenza delle società nelle quali predominano le
moderne condizioni di produzione si presenta come
un’immensa accumulazione di ‘spettacoli”
(Guy Debord, La Società dello spettacolo)
I. Diversamente da quanto solitamente immaginato, la "politica" non ha mai avuto alcun ruolo rilevante nelle società capitalistiche, specie riguardo l'influenza da essa esercitata sulle fasi del trend economico. Essa ha goduto dei favori della crescita economica un tempo (Golden Age) come è caduta in disgrazia quando si è entrati in una fase di pronunciato declino economico.
II. A partire in specie dal secondo dopoguerra e relativamente ai Paesi industrializzati, il capitalismo ha intrapreso una notevole fase di crescita economica, caratterizzata da consistenti investimenti in capitale fisso ed ampio incremento dell'occupazione in ogni settore dell'economia. La crescita dei primi si è accompagnata - come sempre nella storia di questo sistema sociale - alla crescita della seconda.
economica della società come processo di storia naturale”
(K. Marx, Il Capitale)
III. In questa fase il capitalismo sembra aver portato a compimento, in alcune aree del pianeta, la sua più essenziale natura, ossia trasformare la popolazione in una massa di lavoratori salariati. Il sistema capitalistico così non è altro che il sistema del lavoro salariato; è attraverso questa forma del lavoro infatti che si producono beni e servizi, ossia quella parte del reddito monetario costituito da profitti e salari.
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La BCE deve agire
intervista a Vladimiro Giacchè
Secondo la tesi prevalente nelle istituzioni europee per uscire dalla crisi del debito sovrano in Europa sono essenziali rigorose manovre di austerity. E’ vero?
No. “Il momento giusto per effettuare manovre di austerity sono i periodi di espansione, non quelli di recessione”. Queste parole di buon senso, scritte da John Maynard Keynes nel 1937, sono valide ancora oggi. Le manovre di austerity hanno adesso, come unico effetto certo, quello di deprimere la domanda e dunque di rallentare la crescita del prodotto interno lordo o addirittura di portarlo in negativo. E quindi quello di peggiorare il rapporto debito/pil. È la lezione della Grecia, che dopo misure draconiane ha visto crescere il rapporto debito/pil di oltre il 20% in un solo anno.
Il Fondo Europeo salva Stati può essere la soluzione?
No. Sono gli stessi ritardi nell’approntare questo Fondo che lo rendono ormai del tutto inservibile. Avrebbe potuto funzionare quando in crisi era soltanto la Grecia, ma ormai la sua dimensione (440 miliardi di euro) è insufficiente per coprire i vari fronti di crisi, e lo sarebbe anche una dotazione molto superiore. Oltretutto il Fondo, essendo finanziato dagli stessi Stati europei, finisce per rappresentare una gigantesca partita di giro.
Gli Eurobond possono essere la soluzione?
Gli Eurobond sono titoli di Stato emessi a livello europeo e garantiti congiuntamente dai diversi paesi che fanno parte della zona dell’euro. Quindi essi avrebbero un rating (ossia un merito di credito) superiore a quello degli Stati in difficoltà, e di conseguenza potrebbero rendere meno oneroso il servizio del debito (ossia il pagamento degli interessi) per gli Stati in crisi.
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Vi sbagliate, stampare denaro può fermare la crisi europea
di Ambrose Evans-Pritchard
Farò arrabbiare molti lettori, specialmente gli attenti “austriaci” internettiani, ma lo devo proprio dire.
Si è diffusa una convinzione quasi universale che la crisi dell’Europa possa essere risolta solamente dalle politiche fiscali e governative, con vari spunti sul giusto dosaggio di sofferenze da applicare.
Mi si consenta di dissentire. Questa è una crisi monetaria, causata da scialba banca centrale che ha abortito una fragile ripresa alzando quest’anno i tassi di interesse, provocando un collasso a ritmi vertiginosi della quantità di moneta in Europa meridionale e una recessione totalmente innecessaria, e si parla di una recessione pesante, giudicando dal crollo dei nuovi ordini del PMI a novembre.
Non è necessario ripetere che la drastica austerità fiscale sta peggiorando molto le cose. Non si può spingere due terzi dell’eurozona in una sincronizzata contrazione fiscale e monetaria senza patire conseguenze.
Va notato che per l’Italia gli spread di break-even a cinque anni sono andati sotto zero, e ciò significa che i mercati stanno prezzando per una deflazione categorica. Per un paese con uno stock di debito pubblico del 120 per cento del PIL, si tratta di una condanna a morte.
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Il Documento degli Economisti e la manovra
Francesca Coin intervista Antonella Stirati
Il Governo Monti ha appena approvato i contenuti del “decreto salva Italia”. Come previsto, la manovra è incentrata su forti tagli alle pensioni e alla sanità. Ho chiesto un commento ad Antonella Stirati, professore ordinario di Economia all’Università di Roma Tre e promotrice di un Documento degli Economisti firmato da molti nomi di prestigio nazionale e internazionale
Prof.ssa Stirati, prima di entrare nel merito della manovra, ci sa spiegare perché la speculazione finanziaria si accanisce contro paesi dell’area Euro – con situazioni economiche e di indebitamento pubblico tra loro molto diverse – mentre paesi al di fuori di questa area, come gli Usa o il Giappone, ne sono rimasti immuni anche se hanno un debito molto elevato?
La risposta è che il vero problema non è l’ammontare di debito pubblico ma la particolare situazione istituzionale ed economica della Unione Monetaria Europea: in primo luogo l’assenza di una banca centrale che svolga il ruolo di prestatore di ultima istanza, e poi i crescenti squilibri economici interni, con la Germania che accumula un surplus crescente di esportazioni verso gli altri paesi dell’area, che invece tendono ad importare più di quello che esportano, una situazione che fa ritenere agli operatori finanziari che la moneta unica sia insostenibile.
Sulla base di una visione economica che ha una tradizione di prestigio, il documento esprime allarme per le politiche che vengono intraprese in Italia e in Europa. Le politiche di austerità creano recessione, come dimostrano Grecia, Spagna, Portogallo e ora Italia. Una recessione che si va ad aggiungere alla riduzione di Pil e occupazione già avvenuta nel 2008 e dalla quale non ci si è ancora ripresi. Sui giornali si legge che “arriva” la recessione – come se fosse un fenomeno metereologico.
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Stato del debito etica della colpa
Ida Domimijanni intervista Christian Marazzi
La missione impossibile del salvataggio dell'euro, la frana della de-europeizzazione, il cataclisma geopolitico che ne può derivare. Ma con l'austerità non si esce dalla crisi, si produce recessione e depressione. Intervista a Christian Marazzi sulla penitenza dopo l'abbuffata neoliberale e sull'antidoto del comune
Economista, docente alla Scuola universitaria della Svizzera italiana e, in passato, a Padova, New York e Ginevra, militante e intellettuale di riferimento dei movimenti della sinistra radicale, Christian Marazzi è uno degli analisti più lucidi della crisi economico-finanziaria in corso. Fra i primi a diagnosticarne il carattere storico e l'impatto globale, già nel 2009, quando la crisi impazzava negli Usa, aveva previsto l'inevitabile coinvolgimento dell'eurozona. Fine analista della finanziarizzazione come modus operandi del biocapitalismo postfordista, non crede nella possibilità di uscire dalla crisi o di contenerne le contraddizioni attraverso le politiche del rigore. Partiamo dal salvataggio dell'euro per ragionare di quello che ci attende.
L'andamento della crisi ha dato ragione alle tue analisi. Nel giro di due anni l'epicentro si è spostato dagli Stati uniti all'Europa, e nel giro di poche settimane siamo passati dal rischio di default di alcuni paesi, Italia compresa, al rischio del crollo dell'intera eurozona, che equivale al crollo dell'Unione per come è stata fin qui (malamente) realizzata. Secondo te come può evolvere la situazione?
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Come può venir realizzato il comunismo?*
di David Harvey
Introduzione al Manifesto del Partito Comunista
Il Manifesto del Partito Comunista del 1848 è un documento straordinario, ricco di intuizioni, di significati e di opportunità politiche. Milioni di persone in tutto il mondo – contadini, lavoratori, soldati, intellettuali e professionisti di ogni sorta – vi sono negli anni state toccate ed ispirate. Non solo ha reso il dinamico mondo politico-economico del capitalismo più facilmente comprensibile, ma ha spinto milioni di tutti i ceti sociali a partecipare attivamente nella lunga, difficile e apparentemente interminabile lotta politica per alterare il cammino della storia, per fare del mondo un posto migliore attraverso il loro sforzo collettivo. Ma perché ripubblicare oggi il Manifesto? Può la sua retorica creare ancora l’antica magia che creava un tempo? In quali modi può parlarci oggi questa voce del passato? Hanno i suoi appelli alla lotta di classe ancora senso?
Mentre possiamo non avere il diritto, come Marx ed Engels scrissero nella loro Prefazione all’edizione del 1872, di alterare ciò che già da allora era diventato un documento storico chiave, abbiamo entrambi il diritto e l’obbligo politico di riflettervi sopra e se necessario reinterpretare i suoi significati, di interrogare le sue proposte, e soprattutto di agire sugli spunti che vi traiamo. Certamente, come Marx ed Engels avvertono, “l’applicazione pratica dei principi dipenderà, come il Manifesto stesso dichiara, ovunque e in ogni momento dalle condizioni storiche” (e aggiungerei geografiche) “esistenti nel dato momento”.
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L’idiota in politica
Gianvito Brindisi
Lynda Dematteo
L’idiota in politica. Antropologia della Lega Nord
trad. it. di M. Schianchi, prefazione di G. Lerner.
Feltrinelli, Milano 2011, pp. 266, euro 16,00
ISBN 978-88-07-17207-6
Quella attuale è certamente per la Lega Nord una delle crisi più gravi che si ricordino nella sua oramai ventennale storia politica: mai come negli ultimi mesi il partito di Umberto Bossi è apparso infatti dilaniato dai conflitti interni, ciò a cui ha fatto seguito l’ennesimo e disperato tentativo di recupero dei vecchi miti fondatori della secessione e del razzismo, nella speranza di cementare nuovamente l’unione padana ed epurare le frange più ostili ai padroni del partito. A fronte di ciò, la lettura del volume di Lynda Dematteo, L’idiota in politica. Antropologia della Lega Nord, restituisce perciò l’effetto di un ulteriore affondo nel travaglio della formazione nordista. In questo libro, di scrittura chiara e di agevole lettura, la Dematteo ricostruisce la storia simbolica della Lega attingendo alla sua esperienza di un anno e mezzo all’interno dell’ambiente leghista bergamasco e raccogliendo una vasta gamma di aneddoti che ben rendono il senso vissuto dell’ideologia padana. Un senso che sfiora talvolta il tragicomico, come nel caso del sindaco di Coccaglio che ha inventato il White Christmas per rivendicare il Natale come festa identitaria, e che pur sostenendo l’assenza di criminalità nel proprio comune, ha ritenuto tuttavia doveroso controllare a tappeto le case degli extracomunitari; o in quello della giovane militante che ha rivendicato la necessità, per lavorare nella bergamasca, di apprendere il dialetto locale – nella stessa misura in cui per lavorare all’estero è necessaria la conoscenza della lingua inglese; o infine in quello del ministro ideatore del Maiale day, che ha condotto un suino al guinzaglio nel luogo in cui doveva sorgere una moschea per ‘infettarne’ il terreno.
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Goethe non serve più
Elisabetta Teghil
Il governo Monti, prima ancora di prendere qualsiasi decisione, ha ottenuto due effetti positivi.
Il primo è che si può parlare di “Trilaterale”, parola tabù che nessuno/a pronunciava , anche perché aveva un peccato originale, quello che , per prime, ne avevano parlato le Brigate Rosse nei loro documenti.
Il secondo effetto positivo è che si può parlare del gruppo Bilderberg, del Think Tank Bruegel, del Council on Foreign Relations- CFR- e del panfilo Britannia senza che chi lo fa sia subito etichettato, e perciò emarginato, come complottista.
E’ inutile , qui, elencare quello che farà il governo in carica, perché lo sappiamo tutti.
E’ inutile ricordare che saranno prese decisioni molto dolorose per i cittadini/e italiani/e.
Invece, vale la pena di sottolineare che saranno presi provvedimenti simili a quelli attuati in Grecia ed, altresì, che saranno portate a compimento le iniziative già prese con gli esecutivi a guida PD, compresa la svendita delle imprese e dei beni pubblici ai privati, eufemismo per dire alle multinazionali.
Ed ancora, la riforma, mai parola fu tanto stravolta nel suo significato, dei servizi pubblici, anche questi privatizzati con conseguente definitivo affossamento dello stato sociale.
Necessari tasselli del mosaico, il lavoro precario, normale e normato, la precarizzazione di massa, l’allargamento della platea dei poveri e delle fasce di cittadini in condizioni disperate.
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Guerra e paura
intervista a Danilo Zolo
Nel nostro colloquio con il giurista e filosofo del diritto Danilo Zolo, continuiamo le nostre indagini sulle idee per la Transizione, piccoli avviamenti a pensieri capaci di immaginare il futuro, particolarmente suggestivi nel momento in cui vogliamo uscire dalla gabbia delle idee troppo legate al XX secolo: la solita destra-sinistra, le isole culturali incomunicanti, gli scontri di civiltà, il mercato delle idee funzionale alle ideologie dell'accumulazione, sullo sfondo delle possibilità autodistruttive della nostra specie. Questo colloquio è parte dello sforzo di conoscere menti creative, libri davvero originali, pensieri diversi in vista di un cambiamento difficile.
1. Nel suo ultimo libro (Sulla paura. Fragilità, aggressività, potere) lei sostiene che vi sia un intimo rapporto fra potere globale (essenzialmente anglo-americano) e reazioni terroristiche di matrice islamica. Senza giustificare mai la violenza lei fa comunque intendere che il terrorismo internazionale è l’esito, drammatico e prevedibile, della paura diffusa fra le popolazioni soggette da decenni all’occupazione militare delle potenze occidentali. Potrebbe spiegarci questo legame fra la paura e il terrore?
In Occidente si è diffusa l’idea che il terrorismo islamico esprima la volontà di annientare la civiltà occidentale assieme ai suoi valori fondamentali: la libertà, la democrazia, lo Stato di diritto, l’economia di mercato. La figura del terrorista suicida, affermatasi soprattutto in Palestina, sarebbe l’espressione emblematica dell’irrazionalità, del fanatismo e del nichilismo terrorista. Al fondo del terrorismo islamico ci sarebbe esclusivamente l’odio teologico dei mujahidin contro l’Occidente, diffuso dalle scuole coraniche. A mio parere si tratta di tesi molto dubbie, come risulta da analisi rigorose della tradizione coranica e in generale della cultura arabo-islamica. Come hanno accertato le ricerche empiriche di Robert Pape, la ragione determinante nella genesi del terrorismo non è il fondamentalismo religioso: si tratta in realtà, nella grande maggioranza dei casi, di una risposta collettiva a ciò che viene percepito come uno stato di occupazione militare del proprio paese.
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Giorgio Agamben e l’“homo sacer”
di Marco Pacioni
L’estrema versatilità disciplinare e tematica ha potuto disorientare per un po’ i lettori di Giorgio Agamben, renderli perplessi riguardo gli obiettivi ai quali mirava la sua opera. Si pensi, ad esempio, all’apparente eclettismo del suo secondo libro, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale (Einaudi 2011, prima ed. 1977), che si interroga sul rapporto tra poesia e critica passando per la lirica provenzale (da cui deriva il titolo), la melanconia di Dürer, Baudelaire, Freud, Marx, Heidegger (a lui il libro è dedicato), per personaggi e miti come Odradek, Beau Brummel, Edipo, Narciso, Pigmalione, la Sfinge. Analoghe considerazioni si potrebbero fare per Infanzia e storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia (Einaudi 2001, prima ed. 1978), raccolta di saggi di estetica, antropologia culturale, teoria della storia che spaziano da Hegel a Heidegger, da Lévi-Strauss a Benveniste, da Adorno a Benjamin. Ma chi sulla base di un’apparente dispersione pensava che Agamben fosse un pensatore capace soltanto di grandi exploits, un disseminatore di spunti accattivanti privo di sistematicità si è dovuto ricredere.
E non soltanto perché Agamben con le sue escursioni etimologiche, erudite ed estetiche stava rimettendo mano al nodo fondamentale della filosofia che è, come da tradizione nel pensiero occidentale, l’essere, ma anche perché quando ci si è accorti della portata della sua ricerca, non si è dovuto prendere partito soltanto su questioni teoretiche, ma con queste ultime anche sulla politica e la vita. L’aver rimesso il dito nella piaga dell’essere e della sua negazione, con Agamben ha significato affrontare la bio-politica dalle sue dimensioni più astratte come quella della sovranità fino alle sue manifestazioni più concrete e storiche come Auschwitz.
Con Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, (vol. I, Einaudi 1995), libro che ha destato attenzione internazionale, i nodi ontologici, estetici e politici della sua riflessione sono venuti veramente al pettine.
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La crisi neoliberista e un nuovo modello di sviluppo
Alberto Russo*
Sembra che il consistente aumento del debito pubblico, seguito alla socializzazione delle perdite private prodotte dalla recente crisi, sia diventato negli ultimi tempi il principale problema di molti paesi occidentali (in particolare, dell’area Euro). Molti commentatori sostengono che per uscire dalla crisi sono necessarie politiche economiche di “austerità”. Altri, invece, che le politiche restrittive causeranno una grave recessione (e un peggioramento dei conti pubblici). Esistono, quindi, posizioni alternative rispetto agli interventi di politica economica da intraprendere per contrastare la crisi. Da una parte, infatti, la spiegazione dei fatti recenti come una “crisi finanziaria” (con “effetti reali”), dovuta al fallimento di aspetti specifici dei mercati finanziari, potrebbe suggerire una soluzione “tecnica” dei problemi emersi, per continuare a percorrere la strada neoliberista “una volta riparate alcune buche”; dall’altra parte, l’inquadramento degli attuali problemi come il risultato di una “crisi sistemica” dovuta a “cause reali” (con “effetti finanziari” che hanno prima posticipato e poi amplificato la crisi) dovrebbe invece condurre ad un cambiamento radicale volto alla costruzione di un nuovo modello di sviluppo.[1]
A nostro modo di vedere, le cause della crisi sono “reali” e derivano dalla svolta politica “neoliberista” avvenuta a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 del Novecento. Un ampio processo di deregolamentazione – dal mercato del lavoro alla globalizzazione dei processi produttivi, dalla finanza nazionale a quella internazionale – ha consentito un parziale recupero di profittabilità del sistema capitalistico, contrastando il declino post-bellico del tasso di profitto sfociato nella “stagflazione” degli anni ’70. A ciò è seguita una progressiva diminuzione della quota dei salari (soprattutto dei lavoratori low-skilled) sul reddito complessivo e un aumento delle disuguaglianze. I tagli al welfare state sono stati in parte compensati dall’“effetto di ricchezza” prodotto dalle bolle mobiliari ed immobiliari, mentre l’espansione del credito al consumo ha “risolto temporaneamente” il problema della carenza di domanda aggregata.
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Se il femminismo è un brand*
di Cristina Morini
Far nuovamente detonare la radicalità del pensiero e dell’agire delle donne è un compito arduo. Il femminismo ha segnato diverse generazioni in modo vivace e vitale. Ma adesso? Ha perso la forza rivoluzionaria delle origini? Di certo non gli è stato risparmiato lo strazio che è capitato ad altri ambiti (dal sindacato ai partiti politici fino ai movimenti). Il periodo attuale, con una povertà imbarazzante di argomenti ma con profonda e sottile violenza, non fa che alimentare la spirale del silenzio attraverso il potere di persuasione e di repressione dei propri complessi dispositivi di comando. Precarietà, pubblicità, giornali, televisioni, opinionisti, mercati finanziari (ed entità “metafisiche” correlate): tutto è predisposto per omologare e comprare, incanalando verso un solco prestabilito ogni dinamica conflittuale, ogni pulsione dell’anima, piegandone il verso nel senso della compatibilità, della razionalità, della misurabilità, della “normalità”. Tuttavia l’essere umano - la donna come l’uomo - non può mai avere una sola dimensione. C’è sempre un che d’insopprimibile, qualcosa che manca nel conto, che sfugge, fortunosamente, a ogni previsione.
Il libro di Nina Power, La donna a una dimensione ci dice questo in sole, densissime, 90 pagine e noi facciamo sfacciatamente il tifo per lei. Tradotto recentemente in Italia dopo la sua pubblicazione in Gran Bretagna nel 2009 [One Dimensional Woman, Zero Books], è un libro per il nuovo femminismo, fuori da ogni retorica, fuori da ogni tentazione nostalgica e identitaria. Guarda con acuto e a tratti - per chi legge - doloroso disincanto ai processi di manipolazione a cui le donne sono oggi sottoposte. L’ironia tagliente a cui l’autrice ricorre non è solo un tratto dello stile ma una probabile soluzione per prendere distanza dai nuovi mostri che ci assediano (finanza e protesi, pratica del cutting e “masturbazione come precondizione alla shopping”).
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Contro la democrazia
Contributo a una critica dell'autonomia della politica
di Gilles Dauvé e Karl Nesic
Potremmo interrogarci sul senso dell’ennesima riflessione su un soggetto apparentemente secondario, se paragonato a questioni più urgenti come l’attuale crisi. Tutto sembra in effetti essere stato già detto sulla democrazia, dai suoi nemici e dai suoi cantori o riformatori. È di buon gusto nei paesi capitalistici detti sviluppati denunciare la desuetudine delle pratiche parlamentari e il disinteresse che suscitano.
Nessun elettore auspica che il suo voto possa cambiare profondamente la sua vita. Tuttavia, non appena si avverte che c’è qualcosa in gioco, l’interesse rinasce. Gli USA hanno un bell’essere il paese in cui la politica assomiglia più a uno show e a un business, dove milioni di brave persone si mobilitano per portare la parola dei candidati alla Casa Bianca. Si parla di ampliare il campo della democrazia, di renderla partecipativa, di farla scendere nel quartiere, nella strada, nella scuola, e alcuni sognano di instaurarla nel luogo di lavoro. La democrazia viene vissuta, se non come la risposta a tutti i problemi, quanto meno come la risposta che contiene tutte le altre. Al cospetto della democrazia ogni critica diventa sospetta, ancor più se la critica in questione mira addirittura a un mondo senza classi, senza salariato né capitale, senza Stato. Di solito l’opinione corrente ha moti di comprensione (pur con relativa condanna) per il “reazionario” che disprezza la democrazia, qualora neghi la capacità degli uomini di organizzarsi e dirigersi da sé, perché questo rientra nel gioco delle parti. Ma chi rifiuta il principio democratico nel nome stesso della capacità di auto-organizzarsi, reputando la democrazia inadatta all’emancipazione dei proletari e dell’umanità, costui è destinato a non essere compreso. Nel caso migliore passa per un provocatore amante dei paradossi, nel caso peggiore per un intellettuale traviato che a furia di non apprezzare la democrazia finirà come quelli che più l’hanno attaccata: i fascisti.
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Il nuovo autoritarismo: dalle democrazie alle dittature tecnocratiche
James Petras*
Introduzione
Viviamo in un tempo di cambiamenti di regime, dinamici, regressivi. Un periodo in cui sono in piena accelerazione grandi trasformazioni politiche e l’arretramento drammatico di norme legislative di natura socio-economica introdotte un mezzo secolo fa; tutto questo provocato da una crisi economica prolungata e sempre più profonda e da un’offensiva portata avanti dalla grande finanza in tutto il mondo.
Questo articolo analizza come gli importanti cambiamenti di regime in corso hanno un profondo impatto sui modi di governare, sulle strutture di classe, sulle istituzioni economiche, sulla libertà politica e la sovranità nazionale.
Viene individuato un processo in due fasi di regressione politica.
La prima fase prevede il passaggio da una democrazia in disfacimento ad una democrazia oligarchica; la seconda fase, attualmente in atto in Europa, coinvolge il passaggio dalla democrazia oligarchica ad una dittatura colonial-tecnocratica.
Si individueranno le caratteristiche tipiche di ogni regime, concentrando l’attenzione sulle specifiche condizioni e sulle forze socio-economiche che stanno dietro ad ogni “transizione”.
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Un Audit sul debito
Guido Viale
Agli storici del futuro (se il genere umano sopravviverà alla crisi climatica e la civiltà al disastro economico) il trentennio appena trascorso apparirà finalmente per quello che è stato: un periodo di obnubilamento, di dittatura dell'ignoranza, di egemonia di un pensiero unico liberista sintetizzato dai detti dei due suoi principali esponenti: «La società non esiste. Esistono solo gli individui», cioè i soggetti dello scambio, cioè il mercato (Margaret Thatcher); e «Il governo non è la soluzione ma il problema», cioè, comandi il mercato! (Ronald Reagan). Il liberismo ha di fatto esonerato dall'onere del pensiero e dell'azione la generalità dei suoi adepti, consapevoli o inconsapevoli che siano; perché a governare economia e convivenza, al più con qualche correzione, provvede già il mercato. Anzi, "i mercati"; questo recente slittamento semantico dal singolare al plurale non rispecchia certo un'attenzione per le distinzioni settoriali o geografiche (metti, tra il mercato dell'auto e quello dei cereali; o tra il mercato mondiale del petrolio e quello di frutta e verdura della strada accanto); bensì un'inconscia percezione del fatto che a regolare o sregolare le nostra vite ci sono diversi (pochi) soggetti molto concreti, alcuni con nome e cognome, altri con marchi di banche, fondi e assicurazioni, ma tutti inarrivabili e capricciosi come dèi dell'Olimpo (Marco Bersani); ai quali sono state consegnate le chiavi della vita economica, e non solo economica, del pianeta Terra. Questa delega ai "mercati" ha significato la rinuncia a un'idea, a qualsiasi idea, di governo e, a maggior ragione, di autogoverno: la morte della politica. La crisi della sinistra novecentesca, europea e mondiale, ma anche della destra - quella "vera", come la vorrebbero quelli di sinistra - è tutta qui.
Ma, dopo la lunga notte seguita al tramonto dei movimenti degli anni sessanta e settanta, il caos in cui ci ha gettato quella delega sta aprendo gli occhi a molti: indignados, gioventù araba in rivolta, e i tanti Occupy.
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