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Democrazia, ultimo atto?
di Laura Bazzicalupo
Il libro che qui si recensisce – Democrazia: ultimo atto? di Carlo Galli – è il libro di un maestro. Cioè di qualcuno capace di prendere la distanza dal coro dominate del pensiero unico, e indicare una rotta, un modo di pensare critico. Controcorrente rispetto al presentismo assoluto, statico e incapace di ragionare sulla complessità dei fatti, schiacciati su posizioni predefinite. Siano esse ciniche “è così e così deve andare”, o normative-astratte e moraliste: ineffettuali e, alla fin fine, funzionali allo status quo. Eppure l’urgenza è evidente: la democrazia sta morendo, forse è già morta e siamo al suo ultimo atto. Carlo Galli, certo, non poteva scegliere un titolo migliore per trasmettere il senso di urgenza, di fragilità e di chiamata all’impegno. Non c’è quasi più tempo: è l’ultima, più recente crisi della democrazia o è il suo tramonto, il finale del dramma?
Il metodo magistrale di Galli è storico-genealogico: dialettico, attiva anche la radicalità del pensiero negativo. Si fa carico totalmente della contingenza, focalizzando discontinuità e persistenze, sempre contestualizzate. Una storicità dunque non storicista, ma radicale e come tale inevitabilmente geostorica e geopolitica.
La storia non va di moda – al massimo la si evoca per farne un tribunale funzionale alla retorica, falsandola, dunque, e piegandola a piacimento.
Galli ci dice che è ora di riprenderla sul serio, assumendo quel pensiero non analitico e astratto ma dialettico che solo – mettendo in gioco tempi e spazi – rende tangibile appunto la contingenza della democrazia (dice Galli: non è un destino…), la sua fragilità, ma anche la sua modificabilità.
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Il multipolarismo imperfetto prossimo venturo
di Vincenzo Comito
La crisi dell’egemonia occidentale sul mondo potrebbe condurre a un multipolarismo imperfetto, con medie potenze che si muovono tra fronti opposti in cerca di benefici. Per non piombare in un caos sistemico è necessario ridisegnare le istituzioni internazionali affinché rispondano agli equilibri e alle esigenze del presente
La fine del vecchio ordine
Oggi si trovano quasi tutti d’accordo sull’idea che il mondo uscito dalla seconda guerra mondiale sta ora progressivamente svanendo, come intitolava, ad esempio, un recente articolo di “Le Monde” (Frachon, 2023) e come veniva anche ribadito, sempre recentemente, dal Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres (“le strutture attuali di governance mondiale riflettono il mondo di ieri”); ma ci sono idee piuttosto confuse, almeno in parte, su come esso si stia veramente trasformando e in che direzione si stia realmente andando. Peraltro non manca chi cerca di frenare il movimento.
Certo, non siamo nella situazione in cui si è trovato a suo tempo Claudio Rutilio Namaziano, che, partito un giorno in nave da Roma per ritornare alla natia Gallia dopo un soggiorno nella capitale dell’Impero, e facendo sosta ogni sera lungo il percorso in un porto diverso, assistette in tempo reale al crollo in pochi giorni del sistema imperiale, città per città, sotto in particolare la spinta dei Vandali da una parte, dei Goti dall’altra, come riferisce nella sua opera De reditu suo. Nel nostro caso il percorso appare invece lungo e tortuoso.
Un’altra cosa che trova quasi tutti d’accordo, collegata alla precedente, è il fatto che la potenza economica, finanziaria, tecnologica, militare degli Stati Uniti, sino a ieri paese di gran lunga dominante, si stia progressivamente riducendo almeno in maniera relativa rispetto al resto del mondo, anche se il dibattito è aperto su quanto forte sia tale riduzione e come si collochi oggi invece in termini di peso effettivo la potenza in ascesa, la Cina, rispetto a quello degli Stati Uniti.
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Operaio Sociale. Hans Jürgen Krahl
di Leo Essen
I
La malinconia di molti marxisti cosiddetti occidentali, malinconia dovuta alla scoperta che nell’Unione Sovietica il comunismo non si era avverato di botto, portò a un’avversione per l’Economico che ancora alla fine degli anni Sessanta, in una persona come Krahl, non accennava a passare.
In una notarella al Che Fare?, scritta nel 1967, all’età di 24 anni, il brillante marxista tedesco, cresciuto all’ombra di Adorno, scrive quanto segue: La prassi economicista rinuncia alla sovversione e alla rivoluzione, si schiera con la riforma. La prassi economica comprende la sola attività tradunionista. La lotta meramente economica integra le masse nei rapporti di dominio economico e le costringe all’apatia.
Nonostante le analisi di primo livello, analisi che in molti punti sono in linea, per esempio, con la decostruzione francese, segno dalla magna cucuzza del ragazzo; nonostante una lettura precisa del suo tempo, Krahl subisce il fascino di quella malinconia che aveva preso le menti di quei marxisti, i quali, per età, avevano vissuto direttamente la delusione sovietica.
Non c’era bisogno che Krahl (insieme ad altri, certamente) gettasse questo discredito sull’Economico spingendo molti marxista a perdere tempo sul Politico e sul Concetto di politico – sull’autonomia del politico, eccetera.
Rimane che il suo contributo, seppur frammentario, è di primissimo livello.
II
Nel 1969, in un saggio pubblicato su Corrispondenza Socialista, Krahl insiste su questo tema.
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Netanyahu, la parabola del capitalismo israeliano e la crisi di Israele
di Roberto Iannuzzi
E’ ormai una “classe capitalista transnazionale” a controllare le sorti economiche, e spesso anche politiche, del paese. Ed è il premier Netanyahu ad averne supervisionato l’ascesa
A fine ottobre, un gruppo di 300 economisti israeliani ha inviato una lettera al primo ministro Benjamin Netanyahu e al ministro delle finanze Bezalel Smotrich, chiedendo loro di bloccare immediatamente tutte le voci di spesa non essenziali nel bilancio statale, e di riconsiderare le priorità di spesa per far fronte all’incombente crisi economica provocata dalla guerra in corso con Hamas.
“Non cogliete l’entità della crisi che l’economia israeliana sta per affrontare”, affermava la lettera. “Proseguire nell’attuale condotta danneggia l’economia, mina la fiducia dei cittadini nel sistema pubblico e compromette la capacità dello Stato di Israele di riprendersi dalla situazione in cui si trova”.
Tra i firmatari vi era l’ex governatore della Banca di Israele, Jacob Frenkel, ed altri economisti che avevano ricoperto ruoli di spicco nella banca, nel ministero delle finanze, e nel sistema economico e finanziario israeliano.
Ripercussioni economiche del conflitto
Secondo un sondaggio, già a fine ottobre circa il 70% delle aziende tecnologiche e delle startup israeliane si trovava a fare i conti con interruzioni delle proprie attività poiché molti dei loro dipendenti erano stati richiamati come riservisti nell’esercito.
Michel Strawczynski, economista presso l’Università Ebraica di Gerusalemme ed ex direttore del dipartimento di ricerca della banca centrale israeliana, ha affermato che due precedenti conflitti – la guerra in Libano nell’estate del 2006 e quella contro Hamas nel 2014 – erano costati a Israele fino allo 0,5% del PIL avendo colpito principalmente il settore turistico.
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Recensione a “La Cina al centro” di Maurizio Scarpari
di Giangiorgio Pasqualotto
Recensione a Maurizio Scarpari, La Cina al centro. Ideologia imperiale e disordine mondiale, Bologna, il Mulino 2023
Di Maurizio Scarpari, uno dei più importanti sinologi italiani – già docente di ”Lingua cinese classica” all’Università Ca’ Foscari di Venezia – l’editrice bolognese “il Mulino” ha appena pubblicato La Cina al centro. Ideologia imperiale e disordine mondiale, un volume importante, denso di aggiornatissime informazioni altamente qualificate, ma anche impreziosito da riflessioni di carattere strico e filosofico. Il libro si presenta in una prospettiva di continuità e di completamento rispetto al precedente Ritorno a Confucio, apparso nel 2015, sempre per i tipi dell’editrice “il Mulino”. I due volumi risaltano entrambi come strumenti indispensabili per conoscere, da un lato, i principi della grande tradizione culturale cinese e, dall’altro, l’enorme influsso che essi continuano ad avere nella storia recente della politica cinese tendente a rivendicare, con forza sempre maggiore, un ruolo egemone nel presente e nel futuro del mondo contemporaneo.
La Cina al centro si presenta in realtà come un notevole approfondimento dei problemi connessi alla ripresa e all’aggiornamento della grande tradizione culturale cinese in funzione egemonica con intenzioni globali. Le prime due parti del libro vengono dedicate a chiarire il più possibile i termini e i modi di tale ripresa e di tale aggiornamento, componendo in ‘figure’ leggibili un enorme quantità di dati ricavati sia dai documenti ufficiali cinesi sia dai commenti prodotti da alcuni dei più significativi esperti occidentali delle politiche cinesi recenti, attuali e future. Scarpari, tuttavia, regge ottimamente il peso di questo immenso materiale documentale, grazie, certo, a una collaudata esperienza di storico e di critico, ma anche grazie a un ‘pathos’ personale ben riassunto in questa considerazione: “E’ stata delusa la speranza di chi, come il sottoscritto, aveva coltivato l’idea […] che si potesse creare col tempo una forma ibrida di governance, che potremmo definire ‘morbida’.
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Noterelle sul concetto di “capitale” in Thomas Piketty, o meglio sulla sua assenza
di Clément Homs
Premesse del traduttore
Questi brevissimi appunti a firma del compagno Homs, animatore in Francia delle edizioni Crise&Critique e dell’omonimo gruppo ruotante attorno alla “Critica del valore” (Wertkritik), mettono in luce i grossi limiti di base delle analisi di Thomas Piketty, economista, accademico e autore di bestseller francese. Eppure c’è dell’altro. Infatti ci danno l’opportunità di chiarire un concetto marxiano imprescindibile – tanto quanto l’aria che si respira per vivere – ma che viene sempre più a mancare nelle premesse delle critiche che si vogliono radicali – proprio come l’aria che diviene irrespirabile nella tossicità e nell’inquinamento dei nostri contesti sempre più invivibili. Tale premessa è che il “capitale” non è una “cosa” ma un “rapporto sociale”. Homs dimostra come, mancando questo cominciamento, Piketty (che, pover’uomo, non è né il primo né sarà l’ultimo) caschi puntualmente in letture monche e nell’utilizzo aspecifico e astorico delle categorie costitutive e generalizzate del modo di produzione capitalistico. Eppure i pochi osservatori italiani che hanno dato una breve sbirciata al castello teorico della “Critica del valore” sono arrivati alla medesima conclusione: questa corrente di pensiero “cosifica” il “capitale” perdendosi per strada il fatto che si tratti di un “rapporto sociale”. Così, per esempio, l’economista Bellofiore scrive che “in Postone e in Kurz l’accento è, unilateralmente, sul solo Capitale come Feticcio, che si fa Soggetto Automatico, e non (anche) sul capitale come relazione, come rapporto sociale, da cui quel feticcio emerge”1; il sociologo Sivini, allo stesso titolo, scrive che “per la Critica del valore, invece, il capitale non è un rapporto sociale; è – un altro modo di interpretare Marx – il soggetto automatico che presiede all’accumulazione”2. La “Critica del valore” rimprovererebbe ad altri un limite che conterrebbe essa stessa in nuce? Il bue che dà del cornuto all’asino?
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Il corpo e il tempo nel soggetto produttivo delle piattaforme
di Stefano Rota
The politics of invisibility involves not actual invisibility, but a refusal of those in power to see who or what is there.
Robert JC Young, Postcolonial remains
Simonetta, la driver di Amazon che ha contribuito alla stesura de “La fabbrica del soggetto. Ilva 1958 – Amazon 2021“, ha portato la sua testimonianza a due presentazioni del libro organizzate a Genova tra luglio e novembre ‘23.
Senza giri di parole, Simonetta ha detto sostanzialmente di sentirsi a suo agio in Amazon, di lavorare in un ambiente amichevole e rispettoso, dove tutti si prendono cura dei problemi dei colleghi e dove gli standard di sicurezza sul lavoro sono molto elevati.
Inutile dire che queste dichiarazioni hanno suscitato qualche perplessità tra i presenti. Almeno alcuni di loro si aspettavano una posizione incentrata sulla critica alle forme di neo-taylorismo digitale, al dominio impersonale e onnipresente dell’algoritmo nel governare il lavoro in Amazon. In altre parole, la lettura più comune che si trova nelle riviste e nelle pubblicazioni che adottano un approccio radicalmente critico all’economia delle piattaforme, che sottoscrivo.
Niente di tutto questo. Simonetta è soddisfatta del suo lavoro in Amazon.
Di fronte alla comprensibile difficoltà di una parte del pubblico ad accettare quel discorso, ho tentato di riflettere sulla verità che quello stesso discorso enuncia, prendendo come punto di partenza un film dell’anno scorso, Nomadland, della regista Chloé Zhao.
La disincantata donna di mezz’età interprete del film di Zhao gira da sola negli spazi immensi del Mid West con un camper, fermandosi per lavorare nei magazzini di Amazon, ma subito pronta a ripartire alla volta del successivo parcheggio dove incontra amici in perenne movimento come lei. Non traspare nessuna particolare tensione o rivendicazione: ciò che Amazon propone a Fern, la protagonista del film, è né più né meno quello di cui lei stessa ha bisogno per il tipo di vita – nomade – che ha scelto, o che si è trovata costretta a scegliere.
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Intervista a Toni Negri
di Guido Borio, Francesca Pozzi, Gigi Roggero
L'intervista a Toni Negri che pubblichiamo oggi è tratta da Gli operaisti (DeriveApprodi, 2005), curato da Guido Borio, Francesca Pozzi e Gigi Roggero.
È un documento importantissimo per capire la storia e il pensiero di Toni Negri: nell'intervista, infatti, si parla dei nodi principali delle sue esperienze politiche, dai «Quaderni rossi» all'Autonomia; del suo percorso di formazione; sul rapporto movimenti-progettualità; sull'attualità, sulla ricchezza e sui limiti del pensiero operaista.
* * * *
Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale? Ci sono state persone e figure che hanno avuto una particolare importanza in tale percorso?
lo vengo da un’esperienza assai specifica che è quella di una famiglia laica nel Veneto, una famiglia di origini emiliano-lombarde.
Mia madre è mantovana e mio padre è bolognese, piccoli proprietari terrieri fascisti la famiglia di mia madre e comunisti quella di mio padre, famiglia di operai. Mio padre è morto quando avevo due anni, era un comunista che era stato perseguitato a lungo per questa tradizione, mia madre era praticamente neutrale dal punto di vista politico. La tradizione comunista me l'ha insegnata mio nonno con il quale ho vissuto parecchio a Bologna. Dopo di che ero un bravissimo studente, e nel Veneto degli anni Quaranta e Cinquanta praticamente trovai un’apertura di sinistra (ma piuttosto tardi, intorno alla maturità, in seconda liceo credo) in un gruppo di amici che erano più o meno cattolici, perché in realtà il Partito comunista, poco di più il Partito socialista, non esisteva a Padova, avevano una bassissima rilevanza dal punto di vista culturale all'interno dell'università, e io cominciai allora, alla fine del liceo vissuto a Padova, a parlare di politica con questi compagni, che erano cattolici di sinistra assai radicali.
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Contro “Impero”
di Onofrio Romano
Ricordiamo la figura complessa e sfaccettata di Toni Negri attraverso questo saggio-recensione di “Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione” (pubblicato da Harvard University Press e poi in lingua italiana da Rizzoli) con cui il filosofo e politico padovano, col sodale Michael Hardt, dopo le note vicende giudiziarie e l’esilio, tornò alla ribalta della scena intellettuale e politica internazionale.
* * * *
1. “Oppresso politicamente, dipendente e sfruttato fino al midollo economicamente, questo è l’aspetto generale dell’uomo, soprattutto dell’uomo che lavora in questa società. Su di esso gravano lo Stato, la chiesa, il proprietario, le istituzioni di ogni genere al loro servizio, l’ideologia, le usanze e le tradizioni che lo rendono schiavo e che si adoperano a stordirlo nella mente e nell’animo per tenerlo lontano dalla vera via della rivoluzione (…) Il socialismo emancipa l’uomo in tutti i sensi, gli consente di manifestare liberamente e con forza tutte le energie e tutti i potenziali umani, tutte le capacità e tutti talenti (…)”
2. “(…) Noi lottiamo in quanto crediamo che il desiderio non abbia limiti e che la vita possa ininterrottamente riprodursi e godere nella libertà e nell’uguaglianza (…) Il modo di produzione della moltitudine è contro lo sfruttamento in nome del lavoro, contro la proprietà in nome della cooperazione, e contro la corruzione in nome della libertà. Esso autovalorizza i corpi che si trovano al lavoro, si riappropria dell’intelligenza produttiva con la cooperazione e trasforma l’esistenza in esperienza di libertà.”
Il mondo è ingiusto. Gli autori dei due pezzi affermano le stesse cose, condividono la medesima visione, stanno all’evidenza dentro un paradigma unico. Eppure, i primi sono nella polvere, i secondi sugli altari. Dei primi si sono perse le tracce, sui secondi è tutto un pullulare di riflessioni, recensioni, dibattiti, assemblee, lezioni, seminari di approfondimento, ecc.
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Israele, Gaza e la lotta per il petrolio
di Charlotte Dennet*
La fine del gioco è probabilmente collegata al petrolio e al gas naturale, scoperti al largo delle coste di Gaza, Israele e Libano nel 2000 e nel 2010, per un valore stimato di 500 miliardi di dollari. La scoperta prometteva di alimentare massicci progetti di sviluppo che coinvolgevano Stati Uniti, Israele e Arabia Saudita. In gioco c’era anche la trasformazione del Mediterraneo orientale in un corridoio energetico fortemente militarizzato, che potesse fornire all’Europa il suo fabbisogno energetico mentre la guerra in Ucraina si trascinava. Ecco la polveriera in attesa di esplodere che avevo previsto nel 2022. Ora stava esplodendo davanti ai nostri occhi. E a quale costo in vite umane?
* * * *
È stato il segnale che mi ha colpito. Ero con i manifestanti fuori dal municipio di Burlington (VT) durante una manifestazione organizzata da Jewish Voice for Peace. Alla mia sinistra vidi un uomo, dal volto cupo e silenzioso, che teneva in alto un pezzo di cartone con queste parole graffite in nero:
“Ebrei contro il genocidio”.
“Quindi finalmente siamo arrivati a questo”, mi sono detta.
Perché, mi chiedevo, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e l’amministrazione Biden avrebbero rischiato la loro posizione nel mondo ignorando le richieste di cessate il fuoco? Avevano un programma inespresso?
Come cronista delle infinite guerre post-11 settembre in Medio Oriente, ho concluso che la fine del gioco era probabilmente collegata al petrolio e al gas naturale, scoperti al largo delle coste di Gaza, Israele e Libano nel 2000 e nel 2010 e stimati essere vale 500 miliardi di dollari. La scoperta prometteva di alimentare massicci progetti di sviluppo che coinvolgevano Stati Uniti, Israele e Arabia Saudita.
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Palestina è il mondo
Per un sostegno incondizionato alla resistenza palestinese
di Assemblea Militante
Gli eventi drammatici che sono seguiti all’iniziativa della resistenza palestinese del 7 ottobre, il genocidio di massa operato dalla Stato israeliano sostenuto e finanziato dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea, hanno sollevato il velo sulla bestiale opera colonizzatrice con cui si sfrutta, si reprime e si incarcera la popolazione palestinese. Ha dimostrato, al contempo, che è possibile e necessario ribellarsi e che nonostante il regime di apartheid, il controllo militare di uno degli eserciti più armati del mondo e l’utilizzo dei coloni come truppe di avanguardia per occupare, uccidere ed espellere i palestinesi, non si è fiaccata la loro volontà di resistere.
Una gigantesca e vergognosa propaganda di guerra si è messa in moto per giustificare l’intensificazione dell’opera, già in atto da ben prima il 7 ottobre in forma diluita e costante, di genocidio, repressione ed espulsione dai propri territori della popolazione palestinese che è sotto gli occhi di tutti. Una propaganda che non ha risparmiato menzogne si è attivata per derubricare a “bestiale” atto terroristico la resistenza palestinese e l’iniziativa militare contro il dispositivo militare e civile che circonda la Striscia di Gaza per incarcerare la popolazione palestinese, che lì sopravvive sotto il totale controllo delle risorse vitali (acqua, elettricità, cibo) da parte israeliana.
Nei mesi precedenti all’iniziativa militare del 7 ottobre, un attacco senza precedenti dell’esercito israeliano e dei coloni aveva investito l’altro piccolo bantustan dove vengono schiacciati i palestinesi: la Cisgiordania. Morte e repressione sono state disseminate in quei territori per espellere i palestinesi costretti a vivere in piccole isole territoriali incomunicanti e a dipendere dai permessi dei check point con tanto di dispositivi elettronici di riconoscimento facciale per poter accedere a quei pochi terreni che sono stati loro lasciati o uscire dalle proprie case per procurarsi da vivere.
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Un Vietnam israeliano?
di Giacomo Gabellini
Qualche giorno fa, il «Washington Post» ha rivelato che, a partire dallo scatenamento dell’Operazione Spade di Ferro, Israele ha lanciato contro la Striscia di Gaza oltre 22.000 bombe messe a disposizione dagli Stati Uniti, come si evince dai dati di intelligence di cui il Congresso ha recentemente autorizzato la divulgazione. Entro l’arco temporale in oggetto, Washington avrebbe fornito a Israele circa 15.000 ordigni (comprese le bombe anti-bunker da 2.000 libbre) e più di 50.000 proiettili di artiglieria. Un tipo di munizionamento smaccatamente incompatibile le cosiddette “operazioni chirurgiche”, ma perfettamente coerente con una campagna di bombardamenti a tappeto come quella che le forze israeliane stanno conducendo contro la Striscia di Gaza.
All’11 dicembre, il Ministero della Sanità di Gaza quantificava in oltre 18.200 morti e circa 47.000 feriti il numero delle vittime palestinesi mietute dagli attacchi israeliani, senza distinguere tra civili ed effettivi di Hamas. All’interno di un rapporto stilato dall’Israeli Defense Force, invece, si giudica “verosimile” un ammontare complessivo pari a circa 15.000 morti, tra cui “oltre 5.000” membri di Hamas. Un rapporto di due vittime civili per ogni miliziano di Hamas assassinato, che secondo il portavoce dell’esercito israeliano Jonathan Conricus certificherebbe il successo delle operazioni militari. A suo avviso, «qualora, come credo, i nostri numeri verranno confermati, si tratterebbe di un bilancio straordinariamente positivo e forse unico al mondo, se si confrontano questi dati con quelli afferenti a qualsiasi altro conflitto combattuto in territorio urbano tra un esercito e un’organizzazione terroristica incorporata nella popolazioni locale che utilizza i civili come scudi umani».
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Costituzione e politica economica
di Alessandro Volponi*
È possibile desumere dal testo della Costituzione i lineamenti generali della politica economica che ogni governo della Repubblica dovrebbe perseguire? Lineamenti generali ovviamente e non un articolato complesso di provvedimenti e atti valido per tutte le stagioni, per ogni fase del ciclo economico, per ogni grado dello sviluppo. Cercherò di mostrare che è possibile, anzi necessario, solo dopo avere esaminato alcuni articoli che precedono il titolo III della prima parte della Costituzione (Rapporti economici) e che determinano, nell’insieme, una notevole espansione della spesa pubblica: l’art. 7 che costituzionalizza gli onerosi patti lateranensi; l’art. 9 che impegna i governi a promuovere lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica, a tutelare ambiente e patrimonio storico e artistico; l’art. 10 che prevede il diritto d’asilo; l’art. 24 III comma che garantisce i mezzi per agire o difendersi davanti a ogni giurisdizione ai non abbienti; l’art. 28 che estende allo Stato la responsabilità civile per atti compiuti in violazione di diritti da dipendenti dello Stato; l’art. 30 comma II che impone allo Stato il mantenimento dei figli in caso di incapacità dei genitori; l’art. 31 che assicura misure economiche per la formazione della famiglia e protezione per la maternità, l’infanzia e la gioventù; l’art. 32 che fonda il diritto alla salute e garantisce cure gratuite agli indigenti (già molto numerosi si erano moltiplicati nel corso della guerra); l’art. 34 che stabilisce l’istruzione obbligatoria e gratuita, almeno per otto anni, in un paese ancora afflitto da analfabetismo e semianalfabetismo di massa e che dispone inoltre borse di studio per i capaci e meritevoli che vogliano raggiungere i gradi più alti degli studi; l’art. 35 I comma che impegna lo Stato a curare la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori; l’art. 37 I comma che assicura alla madre lavoratrice una speciale adeguata protezione; l’art. 38 che istituisce il diritto al mantenimento degli inabili al lavoro, il diritto dei lavoratori ai mezzi per vivere in caso di infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia e disoccupazione involontaria, infine il diritto dei minorati all’educazione e all’avviamento professionale.
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Il vero volto della politica economica del governo Meloni
di Andrea Fumagalli
La fine del mese di novembre 2023 e la prima settimana di dicembre verranno ricordate dai posteri per aver mostrato il vero volto della politica economica del governo Meloni, proprio nel momento in cui la stampa mainstream e di destra si sforzavano di sottolineare come fosse stato raggiunto il più elevato tasso d’occupazione mai registrato in Italia, a riprova della bontà delle scelte governative…
1. Il mercato del lavoro in Italia
“Nonostante l’economia in frenata, l’occupazione continua a crescere: in un anno + 458mila lavoratori”, con 27 mila occupati in più nel solo mese di ottobre. Così titolava il Sole 24ore di giovedì 30 novembre 2023. Un titolo più o meno simile a quello di tutti gli altri grandi quotidiani. Tale performance ha portato il tasso di occupazione al 61,8% (+0,1 punti), toccando così un nuovo record. Nel mese di ottobre 2023, ultima rilevazione, cresce anche il numero di persone in cerca di lavoro (+2,3%, pari a +45mila unità): un aumento che coinvolge sia gli uomini sia le donne e riguarda tutte le classi d’età a eccezione dei 35-49 che registrano un lieve calo. Il tasso di disoccupazione totale sale così al 7,8% (+0,1 punti) e quello giovanile al 24,7% (+1,5 punti). Tale apparente paradosso (la simultanea crescita di occupati e disoccupati) è spiegata dalla forte riduzione degli inattivi: -69mila unità sul mese.
Occorre ricordare che a partire dal 2021, sono considerate occupate “le persone che, durante la settimana di riferimento, hanno lavorato per almeno un’ora a fini di retribuzione o di profitto, compresi i coadiuvanti familiari non retribuiti”. Il dato tanto sbandierato come il più elevato dal 1977 (anno di inizio delle serie storiche Istat sull’occupazione) dal governo Meloni non può quindi essere comparato con i dati sull’occupazione precedente al 2021. Alla luce della nuova definizione, l’essere occupato/a non è più garanzia di un reddito stabile superiore alla soglia di povertà relativa. Differenziando i dati per settore, infatti, l’occupazione cresce di più nei settori caratterizzati da “lavoro povero” a minor valore aggiunto, quali costruzioni, terziario arretrato, logistica, servizi di cura e pulizie.
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Pietra: materiale sovente impiegato per la costruzione di cuori
di Alberto Bradanini
Nelle righe che seguono è assunta quale base di riflessione la coraggiosa analisi[1] della tragedia di Gaza da parte del politologo americano di scuola realista, John J. Mearsheimer
Solo un cupo cinismo che rispecchia l’esecrabile deficit di etica umana che permea una società asservita a una capillare manipolazione consente di obliterare l’immensità dei crimini contro l’umanità che Israele (e personalmente i singoli membri del governo/esercito israeliani) continuano a commettere a Gaza contro persone inermi, uomini, donne e bambini, che muoiono sotto le bombe della sola democrazia del Medio Oriente, come i media al libro paga amano definire lo Stato Ebraico dell’Apartheid. Ciò che si dipana ogni istante sotto lo sguardo impotente del mondo eticamente evoluto costituisce un massacro deliberatamente pianificato. Insondabile è la profondità della tragedia umanitaria che si abbatte sul corpo di persone innocenti[2]. Che tale condotta cada o no sotto la definizione di genocidio è una questione che va lasciato ai legulei giustificazionisti.
Di certo non saranno queste parole di esecrazione a fermare i responsabili di tali atrocità, impermeabili come sono a ogni umana empatia. La storia, tuttavia, resta implacabile, ogni accadimento viene registrato e alla fine rimbalza. Sebbene oggi appaia improbabile, non si può tuttavia escludere che i criminali impuniti vengano un giorno tradotti sul banco degli imputati.
In ogni caso, se non a quello degli uomini essi dovranno rispondere delle loro nefandezze al tribunale della storia. A quel punto, insieme agli aguzzini, vedremo allungarsi le ombre dei loro complici, in prima fila le oligarchie americane che tollerano tutto ciò e a seguire quelle europee (e nella sua nota posizione del missionario anche quella italiana). A fianco di costoro vedremo quindi sfilare la schiera degli indifferenti, non certo caratterizzata da umana partecipazione, che farà i conti con la lacerazione della coscienza o quel che di essa sarà rimasto.
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L’eternità ci abbracci
di Toni Negri
Con queste parole, quattro anni or sono, concludendo Storia di un comunista 3 – Da Genova a domani, Toni parlava con serenità della propria morte
Mi sembra talora di essere completamente estraneo al mondo che mi sta attorno. Curiosa sensazione per qualcuno che ha riempito tre volumi di una storia di intensa immersione nell’esistente. Probabilmente, mi dico, avviene perché sono vecchio – per quanto mi agiti nel cercare di tenere aperta la comunicazione con amici più giovani e svegli, la mia percezione è ottusa. Poi però mi chiedo: non può darsi che questa mia considerazione del mondo e questa convinzione di estraneità non siano vere? Vere? Intendo che quella percezione di estraneità non dipenda da me, dalla mia insufficiente o ridotta attenzione, ma che il mondo che mi circonda sia davvero brutto e inconsistente. Non sarà che alla mia fiducia nell’essere, alla mia ammirazione per quello che è vivo, non corrisponda più qualcosa che si possa amare?
Brutto, bello, vivo, amato… sono aggettivi di difficile definizione e di altissima relatività. Forse allora, per confermare il mio dubbio, a questi termini non dovrei affidarmi. Forse l’unico aggettivo che vale, fra i molti che fin dall’inizio utilizzo, è “estraneo”. Un effetto di straniazione è quello che provocano in me linguaggi e umori, non importa se individuali o collettivi, che risuonano nella società, fuori di me. Penso di esser sordo e di sentire suoni confusi. In realtà, un po’ sordo sono ma i suoni confusi non li sento con l’orecchio ma con l’anima, con il cervello. Mi sfugge il mondo attorno. Ho avuto una lunga vita, ho conosciuto contraddizioni enormi e conflitti mortali, sempre tuttavia sapevo di che si trattava, gli elementi della contraddizione e del conflitto stavano dentro un quadro noto, comunque significante – perché allora il significato degli eventi che oggi si dànno attorno a me s’iscurisce e mi sfugge? In cosa consiste la loro insignificanza? A rappresentare questa estraneità c’è un mondo nuovo. Un mondo nuovo ma affaticato, prostrato davanti alle difficoltà fisiche, politiche e spirituali, della propria riproduzione.
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Chi ha scritto la regola del gioco?
Alessandro Lolli intervista Raffaele Alberto Ventura
La comunicazione ai tempi del politicamente corretto. Una conversazione con Raffaele Alberto Ventura a partire dal suo La regola del gioco
All’inizio del decennio scorso consigliai a un amico un blog che seguivo da un po’. La sua risposta la ricordo ancora oggi. Si trattava di Eschaton, un blog di commento obliquo all’attualità da una prospettiva… particolare. L’autore si chiamava Raffaele Alberto Ventura, aveva appena trent’anni, si era laureato con una tesi in epistemologia sulle dispute eucaristiche e osservava la modernità con sospetto, con uno sguardo insieme conservatore e postmoderno. Il mio amico invece era -ed è - un punk anarchico individualista e, leggendo queste riflessioni così ai suoi antipodi, mi disse: “un bellissimo blog di controcultura”.
Mi è rimasto impresso quel giudizio, un punk che conferiva la medaglia della “controcultura” a un conservatore. E lo trovavo pertinente: entrambi, da posizioni diverse, si trovavano ai ferri corti con una certa egemonia culturale. Di acqua ne è passata sotto i ponti da allora, Ventura oggi è un autore affermato con quattro libri all’attivo. L’ultimo, appena uscito per Einaudi, si chiama La regola del gioco e, dopo averlo letto, per la prima volta in tutti questi anni, ho avuto l’impressione che Raffaele non si meritasse più quella medaglia. Mi sembrava infatti che avesse scelto consapevolmente di difendere quell’insieme di norme, consuetudini, ingiunzioni esplicite e implicite che regolano il nostro mondo in modo molto più strutturato di dieci anni fa e che insomma si fosse arreso a quella cultura con cui un punk anarchico lo aveva giudicato incompatibile. Allora ho deciso di parlargliene. Questa è la discussione che abbiamo avuto.
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Alessandro Lolli: Chi è il target di questo libro?
Raffaele Alberto Ventura: Il “lettore ideale” del libro è qualcuno che non ha mai letto un mio libro e che mai lo leggerebbe, qualcuno che non cerca una “teoria” astratta ma uno strumento concreto.
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La dottrina Brzezinski e le (vere) origini della guerra russo-ucraina
Francesco Santoianni intervista Salvatore Minolfi
Pubblicato dall’Istituto italiano per gli studi filosofici e presentato in una davvero affollata serata trasformatasi in una appassionata assemblea (con interventi di de Magistris, Santoro, Basile…) il libro di Salvatore Minolfi “Le origini della guerra russo-ucraina”. Un libro basato anche su documenti diplomatici, quest’anno resi pubblici da Wikileaks e che attestano come la guerra, lungi dal nascere da “mire imperiali di Putin” (come sbandierato dai media mainstream e da qualche “anima bella” della “sinistra”) è la inevitabile conseguenza, in primis, di un accerchiamento della Russia, mirante a impossessarsi delle sue risorse, e, poi, dall’esigenza di sottomettere una Unione europea “colpevole” di commerciare con partner ostili agli USA.
Di questo e di altro abbiamo parlato con l’autore del libro.
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Poco prima di quel fatidico 24 febbraio 2022, davanti al protrarsi (avrebbe dovuto concludersi il 20 febbraio) dell’esercitazione militare congiunta Russia-Bielorussia ai confini con l’Ucraina, da una parte la CIA e alcuni organi di stampa davano come imminente una invasione russa, dall’altra il governo di Kiev e parte del governo USA smentivano questa ipotesi. Perché questa strana situazione?
<<Sulle circostanze in cui prende forma l’invasione russa dell’Ucraina circolano le più diverse e contraddittorie ricostruzioni. A esse si aggiungono sempre nuove rivelazioni sulla presenza e sulla consistenza di gruppi militari stranieri in Ucraina sin dall’inizio della guerra o addirittura prima. La verità è che, allo stato delle attuali conoscenze, mancano gli elementi per ricostruire in modo documentato e attendibile il contesto in cui il conflitto esplode ufficialmente.
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7 Ottobre: chi c'era dietro?
di Moreno Pasquinelli
Visto il prezzo inaudito che i palestinesi e Gaza stanno pagando è inevitabile porsi la domanda: perché HAMAS e gli atri movimenti della Resistenza palestinese hanno compiuto la devastante azione del 7 ottobre?
C’è chi fornisce una risposta terribile: l’attacco di HAMAS sarebbe stata un’operazione sotto falsa bandiera.
Il teorema si regge su due gambe: il falso mito della potenza militare israeliana e dell’infallibilità della sua intelligence, e una concezione sbagliata della relazione causa-effetto.
Per ciò che concerne i miti ogni ragionamento oppositivo risulta vano; impossibile convincere chi crede che i miti, per quanto degni d’attenzione possano essere, sono come minimo improbabili se non frutto di fantasia.
Riguardo alla concezione della relazione causa-effetto, salta agli occhi il meccanicismo per cui, visto l’effetto una soltanto la causa. In verità, nel mondo reale, tanto più quello storico-sociale, abbiamo sempre un concorso di cause per cui diversi e spesso imprevedibili possono essere gli effetti. Il ragionamento del cospirazionista si può esprimere in questi termini: se la reazione del soggetto A va a buon fine, se ne deve dedurre che il soggetto B, il quale ha compiuto l’azione, è oggettivamente funzionale, se non addirittura soggettivamente al servizio, di quello che ha reagito. La fallacia della deduzione è evidente: solo le azioni politiche che ottengono un successo indiscusso sarebbero genuine e prive di zone d’ombra mentre, se si concludono con una sconfitta, dietro ci sarebbe lo zampino del diavolo.
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Violenza sulle donne: perché la propaganda mainstream vince facile
di Luca Busca
Raramente una tematica suscita un fervido dibattito a “sinistra” come ultimamente è accaduto intorno alla questione femminile. Va premesso che con il termine “sinistra”, in questo contesto, tenderei a identificare quella vasta area di dissidenza al neoliberismo che va dai delusi dal voto, né di destra né di sinistra, ai “rossobruni” (termine odioso ma purtroppo appropriato in alcuni casi), dai vetero ai neo comunisti, dagli anarchici ai pacifisti, dai collettivi femministi a quelli della famigerata comunità LGBTQ+. In sostanza la sinistra un po’ persa, un po’ nostalgica ma che ancora crede in quei valori che sono incompatibili con il neoliberismo. Quella sinistra che ancora tenta di dissentire e di svincolarsi dal pensiero unico. Escludo quindi la cosiddetta sinistra di regime ormai schiava della cultura “woke” e, ovviamente, tutto il pensiero destrorso che, anche quando dissente, finisce per essere neoliberista, autoritario, gerarchico e repressivo.
Bene questa sinistra è riuscita a infiammarsi, non per una nuova proposta politica che ormai latita da diversi decenni, ma per la violenza sulle donne. Tema questo su cui si è frammentata nei consueti piccoli pezzettini isolati tra loro. Anche io ho detto la mia, rivolgendomi a quell’ampia schiera destrorsa che, tra governo e illustri pensatori come il Generale Vannacci, sta tentando di allungare le minigonne e rinchiudere le donne in casa nel loro ruolo di mamme. Purtroppo il titolo, "mai discutere con un idiota ti porta al suo livello e ti batte con l'esperienza", ha indotto più di un lettore di sinistra a immedesimarsi. Sfortunatamente, infatti, il fervido dibattito, suscitato da una campagna mediatica mainstream che ha fatto invidia a quella pandemica, ha prodotto una miriade di pareri diversi, alcuni dei quali di stampo palesemente conservatore.
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Morte e distruzione a Gaza
di John J. Mearsheimer
Traduciamo questo scritto a futura memoria sul massacro di Gaza di John Mearsheimer: “Non credo che qualsiasi cosa io dica su ciò che sta accadendo a Gaza influenzerà la politica israeliana o americana in quel conflitto. Ma voglio che sia messo a verbale in modo che quando gli storici guarderanno indietro a questa calamità morale, vedranno che alcuni americani erano dalla parte giusta della storia.” [Roberto Buffagni]
Non credo che qualsiasi cosa io dica su ciò che sta accadendo a Gaza influenzerà la politica israeliana o americana in quel conflitto. Ma voglio che sia messo a verbale in modo che quando gli storici guarderanno indietro a questa calamità morale, vedranno che alcuni americani erano dalla parte giusta della storia.
Quello che Israele sta facendo a Gaza alla popolazione civile palestinese – con il sostegno dell’amministrazione Biden – è un crimine contro l’umanità che non ha alcuno scopo militare significativo. Come afferma J-Street, un’importante organizzazione della lobby israeliana, “la portata del disastro umanitario in atto e delle vittime civili è quasi insondabile”[1].
Permettetemi di approfondire.
In primo luogo, Israele sta massacrando di proposito un numero enorme di civili, di cui circa il 70% sono bambini e donne. L’affermazione che Israele stia facendo di tutto per minimizzare le vittime civili è smentita dalle dichiarazioni di alti funzionari israeliani. Ad esempio, il portavoce dell’IDF ha dichiarato il 10 ottobre 2023 che “l’enfasi è sui danni e non sulla precisione”. Lo stesso giorno, il Ministro della Difesa Yoav Gallant ha annunciato: “Ho tolto tutti i freni – uccideremo tutti quelli contro cui combattiamo; useremo ogni mezzo”[2]
Inoltre, è chiaro dai risultati della campagna di bombardamenti che Israele sta uccidendo indiscriminatamente i civili. Due studi dettagliati sulla campagna di bombardamenti dell’IDF – entrambi pubblicati da riviste israeliane – spiegano in dettaglio come Israele stia uccidendo un numero enorme di civili. Vale la pena citare i titoli dei due articoli, che riassumono sinteticamente ciò che ciascuno di essi ha da dire:
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Hersh, Lieven e la disperata mossa di Washington per porre fine alle ostilità in Ucraina
di Gilbert Doctorow - gilbertdoctorow.com
Alcuni giorni fa, Seymour Hersh, famoso giornalista investigativo e vincitore del premio Pulitzer, ha pubblicato sul suo account substack.com un articolo intitolato “Da Generale a Generale. In Ucraina i leader militari stanno trattando la possibilità della pace”.
Per essere precisi, Hersh ha detto che i colloqui segreti su una possibile pace sono attualmente condotti dal comandante in capo militare ucraino, generale Valery Zaluzhny, e dal più alto ufficiale militare russo Valery Gerasimov.
Il paragrafo più interessante dell’articolo è il seguente:
“La forza trainante di questi colloqui non è stata Washington o Mosca, Biden o Putin, ma piuttosto i due generali di alto rango che conducono la guerra, Valery Gerasimov e Valery Zaluzhny”.
Un altro clamoroso passaggio dell’articolo riguarda il fatto che l’accordo comporterebbe l’accettazione da parte della Russia dell’adesione dell’Ucraina alla NATO, a patto che la NATO si impegni formalmente a “non collocare truppe NATO sul suolo ucraino” o a installare armi offensive in Ucraina.
L’ultimo elemento chiave dell’accordo, che bilancerebbe l’acquiescenza della Russia all’adesione dell’Ucraina alla NATO, sarebbe il riconoscimento della Crimea come irrevocabilmente russa e lo svolgimento di un referendum nelle regioni del Donbass e della Novorossiya (Zaporozhie e Kherson) che erano state liberate dalla Russia e che avevano poi aderito alla Federazione Russa, una misura che, in effetti, sarebbe una foglia di fico per definire formalmente e definitivamente il destino di questi territori come parte della Russia.
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Il crepuscolo del giardino occidentale
di Danilo Ruggieri
Gli ultimi due anni segnano uno spartiacque con il prima, con il mondo che abbiamo conosciuto. Qualcuno potrebbe obiettare, a ragione, che il movimento della storia è un processo in cui i cambiamenti sono spesso lenti e contraddittori, in cui le accelerazioni e i salti di qualità sono rari, sono l’eccezione che conferma la regola. La storia si muove attraverso tendenze, alcune principali e strategiche, che rispondono alle contraddizioni profonde che muovono le relazioni sociali tra gli uomini e altre e molteplici concause, spesso contingenti nel tempo e nello spazio.
A mio avviso, nonostante il mainstream anglosassone abbia fin dagli anni novanta raccontato con varie pubblicazioni e centri di orientamento culturale che il movimento storico fosse finito in una sintesi definitiva e pacificata, in quanto il regno del male, il comunismo, era stato seppellito dalla forza di attrazione del bene personificato dal modello capitalistico occidentale; nonostante una gigantesca manovra di diversione, falsificazione e revisione della storia a partire, guarda caso, proprio dalla lettura della Rivoluzione francese, oggi la storia si rimette in marcia e anche a passi veloci. Alla fine si dimostra una legge generale della storia umana che i fatti sono più duri della testa. Questo lo dico senza alcun credenza assoluta nell’oggettività matematica dei fatti che sono soggetti anche essi a un campo specifico della lotta di classe, la lotta delle idee, delle ideologie, delle narrazioni, delle interpretazioni. Certo la storia non si ferma e questo, è chiaro, e non porta con sé inevitabilità e necessità, ma solo possibilità. In questo, forse, dobbiamo iniziare a fare pulizia con un certo positivismo che ha albergato per molti anni anche nelle fila del movimento marxista occidentale.
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Vincenzo Costa, Categorie della politica. Dopo Destra e Sinistra
di Giulio Menegoni
“La Pace è finita” titola un fortunato saggio di L. Caracciolo recentemente pubblicato. La Storia si è rimessa in moto ed è appena il caso di starne al passo, se non si vuole esserne travolti. Ma il passo, per muoversi, ha da superare l’inciampo. La pietra che gli vieta la via. Il laccio che lo trattiene. Nulla si muove da sé, nessun ostacolo si toglie senza resistenza. Un vecchio ordine deve cadere affinché uno nuovo possa apparire.
Nel solco di questa titanica impresa si situa il saggio di Vincenzo Costa (Categorie della Politica. Dopo Destra e Sinistra, Rogas Edizioni, 2023) che qui presentiamo. L’autore, docente di Filosofia Teoretica presso l’Università Vita-Salute di Milano, non nasconde a sé e al lettore l’alta finalità e l’improbo obiettivo del testo. Si tratta, infatti, di «iniziare a sgomberare il campo da un ordine concettuale» (cit.), il pensiero binario, soprattutto quello che irretisce la sovrabbondanza del politico nelle maglie strette della diade Destra/Sinistra, vera e propria superfetazione retorica a uso e consumo delle classi dominanti, dispositivo di riproduzione del dominio trasversale del mercato contro ogni altro interesse. Nel caso specifico, la Diade Destra/Sinistra va superata, afferma Costa, «perché non rispecchia l’articolazione dell’esperienza, la sovrascrive e le toglie la parola» (cit.). Ma lo scopo del saggio è ben più ampio di questa singola rimozione, e infatti l’Autore invita con forza a «lasciarsi alle spalle l’organizzazione binaria che caratterizza il pensiero politico della modernità» (cit.) in senso globale. Non si tratta, infatti, di operare per sostituzione, optando per una diade migliore (popolo/elites; basso/alto) – azione a cui peraltro molta letteratura critica si è dedicata negli ultimi anni.
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False promesse e ristrutturazioni ai danni dei lavoratori
di Alessandra Ciattini e Federico Giusti
Prima e dopo il neoliberismo
Lavorare meno per lavorare tutti\e, era uno slogan, anzi un obiettivo, del movimento operaio per ridurre l’orario giornaliero e settimanale, allentare la morsa dello sfruttamento, favorire nuova occupazione sapendo che un esercito industriale di riserva avrebbe potuto alla lunga determinare la contrazione dei salari e un sostanziale arretramento delle condizioni di vita e di lavoro. Il progresso tecnologico, consentendo di ridurre il lavoro necessario alla produzione rende la riduzione dell’orario di lavoro non solo possibile, ma anche necessaria se vogliamo garantire il lavoro a tutti. Perciò tale riduzione a parità salariale, in un determinato contesto storico, ha rappresentato anche una richiesta legata alla riconquista dei tempi di vita a favore dello studio, del tempo libero e delle relazioni familiari e sociali. Per lo stesso motivo il capitale rifugge la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario in quanto il ricatto della disoccupazione costituisce un formidabile fattore di disciplinamento della classe lavoratrice.
Erano gli anni nei quali le ricette neo liberiste in economia e in campo sociale non avevano ancora preso il sopravvento e lo Stato sociale, costruito prevalentemente sulle famiglie monoreddito, per quanto incompleto era tale da consentire una pensione dignitosa (gli anni maturati erano calcolati con il sistema retributivo con un assegno previdenziale in linea con gli ultimi stipendi percepiti), servizi pubblici in campo educativo e sanitario tali da far studiare i figli all’università, grazie anche alle allora famose 150 ore, assicurando alla popolazione il diritto alla cura e alla prevenzione, alla tutela insomma della salute.
Erano anche gli anni nei quali si rivendicava una medicina del lavoro atta a prevenire malattie professionali o a curarle con ampio ricorso a servizi gratuiti e semi gratuiti.
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