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Da Lenin a Putin…
di Michele Castaldo
Premetto che ho riflettuto a lungo se pubblicare una nuova nota dopo aver scritto più di un articolo sulla guerra in corso in Ucraina. Ho sperato che in certi ambiti della cosiddetta ultrasinistra ci potesse essere un certo rinsavimento che lo scorrere dei fatti avrebbe consentito. Devo purtroppo prendere atto che certe chine iniziali si sono ulteriormente incancrenite.
Ci si potrebbe domandare: a che pro questo insistere su posizioni di gruppi politici ultra minoritari che rappresentano poco più che se stessi? La mia risposta è netta: viviamo una fase molto complicata della storia dove tra l’altro è apertamente tangibile la crisi di una teoria rivoluzionaria, proprio mentre sta arrivando al capolinea quella potenza dominatrice costituita dall’Occidente liberista. Insomma i nodi vengono al pettine e non è più possibile nascondersi e fare il pesce in barile. A maggior ragione se tutti i difensori del liberismo occidentalista scendono in campo in difesa dei valori a cui è giunta la loro storia fatta di rapina.
Propongo un modello diverso di organizzazione sociale? No, perché come ho più volte scritto la storia del modo di produzione capitalistico non è un modello definito a tavolino una volta per tutte, ma è un movimento fondato sullo scambio e sull’individualismo che ha sviluppato oltre misura tutti i rapporti di concorrenza fra i mezzi di produzione e le merci e per questa ragione è arrivato al capolinea, cioè in una crisi irreversibile. Chi pertanto oppone un nuovo modello di rapporti sociali non ha inteso bene che essi potranno scaturire solo dall’implosione per fine vita del capitalismo.
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Marx capovolto
Il metodo scientifico nel capitale di Marx
di Lorenzo Procopio
Recensione al libro di Massimo Mugnai “Il mondo capovolto"
Lo scorso anno è stato pubblicato per le Edizioni della Normale un agile e interessante libro del filosofo Massimo Mugnai dall’accattivante titolo “Il mondo capovolto. Il metodo scientifico nel capitale di Marx”. A fronte delle sue ridotte dimensioni è un libro molto denso e ricco di spunti di riflessioni che riprende e sviluppa temi già affrontati dall’autore in una vecchia pubblicazione edita dalla casa editrice Il Mulino nel lontano1984 dal titolo “Il mondo rovesciato. Contraddizione e valore in Marx”.
In questo nostro mondo “capovolto”, immerso nella più grave crisi epocale del sistema capitalistico, aggravata dal persistere della pandemia da Covid 19, che generalizza su miliardi di individui condizioni di vita miserevoli, guerre e disastri ambientali, il libro di Mugnai non ha suscitato particolare interesse neanche tra gli addetti ai lavori. A rompere la quasi indifferenza solo una brevissima e neanche molto generosa recensione di Sebastiano Maffettone pubblicata da Il Sole 24 ore lo scorso mese di ottobre 2021. Chiariamo subito che il nostro interesse per il libro di Mugnai non è determinato da una condivisione di quanto sostenuto dal filosofo fiorentino, lontano anni luce dal pensiero di Marx e che in alcuni passaggi del libro, come avremo modo di vedere, vengono attribuite a Marx tesi che non trovano riscontro nelle sue stesse opere distorcendo di conseguenza il suo pensiero. Ci spingono ad occuparci dell’opera di Mugnai l’importanza degli argomenti trattati, convinti che attraverso una loro disamina si possa contribuire a cogliere, anche in quest’epoca in cui predominano le forme di appropriazione parassitarie più raffinate ed in cui la produzione di capitale fittizio si accompagna al parallelo processo d’impoverimento di miliardi di esseri umani, la validità della critica dell’economia politica di Marx.
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Breve introduzione alla lettura di Bruno Latour
di Nicola Manghi
Bruno Latour (1947) è autore impossibile da assegnare stabilmente a un’appartenenza disciplinare. Sociologo, antropologo, filosofo, egli è oggi in prima linea nei dibattiti di ecologia politica: la portata teoretica ed euristica della sua opera va ricercata – questa l’ipotesi che ci ha guidati nel condurre l’intervista che segue – proprio nella sua indisciplinatezza. Tale indisciplinatezza non è, si badi, da confondersi con una mancanza di pertinenza dei suoi contributi; piuttosto, essa segnala la loro pertinenza simultanea per una serie di campi di studio abitualmente distinti.
La feconda intuizione che soggiace a tutta l’opera di Latour, saldamente ancorata a una serie di studi empirici (Latour, Woolgar, 1979; Latour, 1984; Latour, 1992), può essere riassunta così: l’immagine che si ha della scienza differisce radicalmente a seconda che la si osservi «in azione», nel suo farsi, oppure nel momento in cui essa si presenta «pronta per l’uso», ovvero come una «scatola nera» che può essere utilizzata senza che se ne conoscano storia o contenuto (Latour, 1987). Gli scienziati tendono a presentare ex post il proprio lavoro come un percorso lineare di scoperta della natura; a osservarli in laboratorio, tuttavia, li si trova alle prese con i numerosissimi passaggi di traduzione necessari per trasformare un evento sperimentale nel tassello di una conoscenza cumulabile.
Da qui la necessità di studiare le scienze etnograficamente, secondo modalità in tutto e per tutto analoghe a quelle impiegate dagli antropologi che si recano presso popolazioni lontane, interessandosi a particolari cui la sociologia classica non aveva ritenuto di attribuire importanza alcuna: «le fonti di finanziamento, il background dei partecipanti, i pattern di citazioni nella letteratura rilevante, la natura e l’origine della strumentazione, e così via» (Latour, Woolgar, 1986, 278).
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Unione europea: l’ottobre imperialista
di Fosco Giannini
Dalla rimozione del piano Musk per la pace al decreto Zelensky per la continuazione della guerra; dalla Risoluzione Ue per le armi all'Ucraina al "portafolio digitale": un itinerario per il rafforzamento del polo imperialista europeo
L’informazione generale verso i popoli dell’Unione europea, verso i 450 milioni circa di cittadini e lavoratori dei 27 Paesi dell’Ue appare, oggi più che mai, oscura e incodificabile. Ma, appunto, appare, poiché in verità l’oscurità e l’incodificabilità, già ai primi tentativi di lettura razionale degli eventi, ai primi tentativi di metterli in relazione tra loro, si mostrano per ciò che sono: strumenti prescelti dalla “voce” dell’asse angloamericano ed europeo per la costruzione e l’imposizione del verbo imperialista, per la “verità” costruita in laboratorio, per un pensiero di massa che sempre più vuol essere ridotto a “batterio sintetico”.
La “vox” unica imperialista – ben più temibile, per i suoi sterminati “eserciti”, della pur orrenda Vox spagnola di Santiago Abascal, per la quale Giorgia Meloni lavora – manipola i fatti come un giocatore delle “tre campanelle”: li racconta e ce li porge o enfatizzandone i dettagli a sé favorevoli o rimuovendone quelli a sé sfavorevoli, confondendo, inoltre, la loro stessa sequenza, la loro conseguenzialità, in modo che il “batterio sintetico” del pensiero omologato non possa mai stabilire i nessi tra un fatto e l’altro. Il gioco delle “tre campanelle” è considerato dal diritto italiano una truffa e chi lo pratica un’associazione a delinquere. Nella differenza di verdetto giuridico tra una truffa perpetrata sui tavolini di una sagra del tartufo e l’orrore della costruzione scientifica di un senso comune di massa accecato sin dalla nascita, vi è tutta la verità sulla potenza del capitale.
Alla luce di questa premessa proviamo a “rileggere” i fatti accaduti in questa prima porzione di ottobre, fatti sui quali la “vox” imperialista, il fronte unico angloamericano ed europeo hanno lavorato al fine di epurare da essi elementi di pericolo per l’Impero e al fine di svuotarli di nessi e conseguenzialità. Dunque, di senso.
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L’onnipotenza, la crescita e i processi di liberazione
di Paolo Cacciari
Le devastazioni ambientali, il surriscaldamento dell’atmosfera e le guerre mostrano in modo sempre più evidente quanto l’agente distruttivo della vita sul pianeta siamo noi, a cominciare da chi alimenta la competizione economica. La soluzione, dicono alcuni, è la tecnologia. Non c’è alcun dominio della crescita infinita a orientare lo sviluppo tecnologico. Che fare? Il primo passo è aumentare la consapevolezza del baratro dentro cui siamo precipitati. Le giovani generazioni ci stanno insegnando molto. Le donne ancora di più. Ma non basta sapere. Per avere la forza di reagire bisogna anche sentire dentro di sé le sofferenze del mondo. «Per attivarci dovremmo coinvolgere la dimensione spirituale dell’essere – scrive Paolo Cacciari nell’introduzione del libro Re Mida (La Vela, 2022), di cui pubblichiamo ampi stralci – Non sto proponendo nessuna “pappetta new age”, come ci rimprovera Mario Tronti, ma al contrario l’avvio di un processo di liberazione dai condizionamenti eteronomi, dalla sottomissione alle logiche tecnocratiche falsamente neutrali, dalla delega ai poteri costituiti. Un vero conflitto, insomma, con i poteri costituti e una lotta con noi stessi per decolonizzare le nostre menti dall’immaginario produttivista e consumista. L’idea è quella della costruzione di una società della post-crescita come progetto di autogoverno comunitario…»
* * * *
I salti di specie di virus e batteri (spillover), le zoonosi unite alle malattie determinate dagli inquinamenti, dalla cattiva alimentazione e da pratiche mediche errate (iatrogenesi) provocano una “sindemia”, una interrelazione sinergica tra più malattie e cattive condizioni di vita.
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Draghistan: dalla coscienza di classe al letargo della consapevolezza
di Luca Busca
Per avere un’informazione completa bisogna anche leggere e ascoltare i media mainstream. Per questa ragione mi sottopongo quotidianamente allo stillicidio di leggere Repubblica e altri improbabili quotidiani, oltre a un paio di settimanali. La sera poi mi tocca il supplizio alternato del TG1, con i suoi servizi melensi da libro Cuore, o del veleno inoculato dal Mamba Mentana sulla 7. Negli ultimi giorni, su tutti questi media, imperversa il pianto del coccodrillo piddino. Mi ha particolarmente colpito la relazione del segretario Letta che “non ha risparmiato dure critiche al partito e a se stesso”.
Secondo il “nipote di suo zio” l’errore più grave del PD è stato quello di sacrificarsi per il bene del paese assumendosi le responsabilità dei governi “tecnici” di larghe intese che ormai caratterizzano la politica italiana. Quindi il “chierichetto di De Mita” ha sentenziato, con il plauso di tutta la dirigenza del partito, che “mai più al governo senza aver vinto le elezioni” e “quando il prossimo governo cadrà, chiederemo di andare alle elezioni, basta governi di larghe intese ...”. In poche parole la strategia vincente adottata dalla Meloni. In sostanza, l’ennesimo segretario democristiano che il PD si è regalato, come programma politico propone di copiare il compito in classe dalla compagna di banco!
La pesante autocritica non fa parola degli errori commessi e delle responsabilità che il partito ha avuto e ha ancora nella disastrosa gestione della pandemia; nell’aver condotto il paese in una guerra insulsa che sta massacrando economicamente la popolazione italiana; nella soppressione del diritto al lavoro, per non parlare di quelli civili; nell’appropriazione indebita dei beni comuni; nel massacro della scuola e della sanità pubblica; nella altre varie ed eventuali.
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Eric Hobsbawm. Marxismo, scienza e politica negli studi di uno storico militante
di Alberto Pantaloni
Pubblichiamo un ritratto di Eric Hobsbawm, storico e militante marxista, autore della grande tetralogia di storia generale – L'età della rivoluzione 1789-1848, Il trionfo della borghesia 1848-1875, L'età degli imperi 1875-1914 e Il secolo breve 1914-1991
Il 2 ottobre del 2012 si spegneva a Londra Eric Hobsbawm. A distanza di un decennio, sono ancora diverse le iniziative, editoriali e non solo, che ne ricordano, anche criticamente, la biografia tanto personale quanto intellettuale. Ricordandone solo le più recenti: un altro grande storico inglese, Richard J. Evans ha dato alle stampe nel 2019 una monumentale biografia dal titolo Eric Hobsbawm: A Life in History [1]; nel 2020, la storica Anna Di Qual ha pubblicato in modalità open access il volume Eric J. Hobsbawm tra marxismo britannico e comunismo italiano [2], nel 2021 la London Review of Books ha prodotto un documentario dal titolo Eric Hobsbawm: The Consolations of History, regia di Anthony Wilks, disponibile gratuitamente in rete [3].
L’autore nato ad Alessandria d’Egitto si chiese nella sua biografia del 2002:
«perché una persona come me dovrebbe scrivere un’autobiografia o, più precisamente, perché altri, senza particolari collegamenti con me, o con che potrebbero non aver saputo della mia esistenza prima di aver visto la copertina in libreria, dovrebbero pensare che valga la pena di leggerla» [4].
Parafrasando questa frase, potremmo chiederci se ha senso, dopo 10 anni, ricordare una figura come quella di Hobsbawm e cercare di farla conoscere a una platea più vasta della comunità degli addetti e delle addette ai lavori. Di primo acchito, la risposta sembrerebbe facile: ma come, l’autore de Il secolo breve, uno dei più grandi storici del Novecento! Tuttavia, se si trattasse solo di questo, sarebbe tutto relativamente facile, come si fa in occasione di anniversari che riguardano eventi storici o personalità «importanti», per i quali si preparano bei discorsi agiografici che «santificano» il personaggio.
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Una tabella di marcia per sfuggire alla morsa dell’Occidente
di Pepe Escobar
Il percorso geoeconomico di allontanamento dall'ordine neoliberale è irto di pericoli, ma le ricompense per l'instaurazione di un sistema alternativo sono tanto promettenti quanto urgenti
È impossibile seguire le turbolenze geoeconomiche inerenti alle “doglie del parto” del mondo multipolare senza le intuizioni del professor Michael Hudson dell’Università del Missouri, autore del già seminale Il destino della civiltà.
Nel suo ultimo saggio, [qui tradotto su CDC] il professor Hudson approfondisce le politiche economiche e finanziarie suicide della Germania, il loro effetto sull’euro, già in caduta, e accenna ad alcune possibilità per una rapida integrazione dell’Eurasia e di tutto Sud globale per cercare di spezzare la morsa dell’Egemone.
Ne è nata una serie di scambi di e-mail, in particolare sul ruolo futuro dello yuan, riguardo al quale Hudson ha osservato:
“I Cinesi con cui ho parlato per anni e anni non si aspettavano un indebolimento del dollaro. Non stanno piangendo per il suo aumento, ma sono preoccupati per la fuga di capitali dalla Cina, poiché penso che, dopo il Congresso del Partito [che inizierà il 16 ottobre], ci sarà un giro di vite nei confronti dei fautori del libero mercato di Shanghai.” La pressione per i prossimi cambiamenti si sta accumulando da tempo. Lo spirito di riforma per il controllo del ‘libero mercato’ aveva iniziato a diffondersi già più di dieci anni fa tra gli studenti [cinesi], e molti loro sono saliti in alto nella gerarchia del Partito.”
Sulla questione chiave dell’accettazione da parte della Russia del pagamento dell’energia in rubli, Hudson ha toccato un punto raramente esaminato al di fuori della Russia: “Non vogliono essere pagati solo in rubli. È l’unica cosa di cui la Russia non ha bisogno, perché può semplicemente stamparli. Ha bisogno di rubli solo per bilanciare i pagamenti internazionali e stabilizzare il tasso di cambio, non per farlo salire.”
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Il neomercantilismo tedesco alla prova della guerra*
di Joseph Halevi
Questa breve nota di riflessione cerca di cogliere le possibili conseguenze del conflitto russo-ucraino sulle prospettive di sviluppo di lungo periodo dello spazio economico che abbiamo definito blocco tedesco. Dopo un excursus storico che ne descrive la formazione, vengono esaminate le caratteristiche dei paesi che lo compongono, osservando che le forze dinamiche che lo caratterizzano si proiettano particolarmente verso la Cina, con un ruolo cruciale della Russia
In questa breve nota di riflessione tratterò alcuni aspetti dell’economia tedesca nell’ambito europeo, cercando di cogliere le possibili implicazioni delle rotture causate dal conflitto russo-ucraino sulle prospettive di lungo periodo che si andavano delineando nell’ambito di detta economia e della zona con cui è direttamente connessa.
A tal fine verrà descritto uno spazio economico che chiameremo blocco tedesco, termine privo di qualsiasi connotazione politica, utilizzato solo per definire un livello di rapporti settoriali e di scambio molto più interconnessi della semplice egemonia economica.
La nota inizia con un excursus storico il cui obiettivo consiste nel definire il passaggio dall’egemonia della Germania in Europa alla formazione di un gruppo di paesi ad essa strettamente connessi.
In tale quadro verranno esaminate le caratteristiche di alcuni stati dell’Europa orientale. Verrà poi osservato che le forze dinamiche del blocco tedesco si proiettano particolarmente verso la Cina, ma che tale proiezione non può essere mantenuta senza il coinvolgimento della Russia. In tal caso si renderebbe possibile una crescita europea trainata dalle esportazioni nella maniera concepita da Nicholas Kaldor.
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Marx e gli stalloni dello storpio
di Stefano Borselli
Bianchi denti ha Lecania, e Taide neri. Perché? Quelli son finti, e questi veri.
Marziale
Così Feticcio nell’enciclopedia Treccani: «Oggetto inanimato al quale viene attribuito un potere magico o spirituale». L’enciclopedia aggiunge che il termine fu «adottato nel xvi sec per designare gli idoli e gli amuleti che comparivano nelle pratiche cultuali di popoli indigeni africani» e in seguito fu esteso «a qualsiasi oggetto ritenuto immagine, ricettacolo di una forza invisibile sovrumana».
Freud rimase dunque perfettamente nel significato del termine usandolo, ad esempio, per un guanto che diviene generatore di desiderio, surrogato della donna che ne era proprietaria.
Marx intitola «Il carattere di feticcio della merce e il suo arcano» un paragrafo, celeberrimo, del primo libro del Capitale. In quello Marx descrive (corsivi miei)
fino a che punto una parte degli economisti sia ingannata dal feticismo inerente al mondo delle merci ossia dalla parvenza oggettiva delle determinazioni sociali del lavoro
e prosegue:
Poiché la forma di merce è la forma piu generale e meno sviluppata della produzione borghese — ragion per la quale essa si presenta cosi presto, benché non ancora nel medesimo modo dominante, quindi caratteristico, di oggi — il suo carattere di feticcio sembra ancor relativamente facile da penetrare. Ma in forme piu concrete scompare perfino questa parvenza di semplicità. Di dove vengono le illusioni del sistema monetario?
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Ucraina: una tragedia annunciata
di Ennio Bordato
Pochi giorni fa la morte di Michail Sergeevič Gorbačev ha segnato la fine di un’era. Per molto tempo la politica estera della Russia verso l’Occidente è stata determinata dal suo approccio e dalla sua eredità, fino a quando non si è scontrata con un nuovo muro invisibile, ma del tutto reale, costruito dall’Occidente tra sé e la Russia negli ultimi 20-25 anni. Questo nuovo muro ha svelato la debolezza della politica e delle concessioni di Gorbaciov, politica applaudita calorosamente in Occidente, ma che ha condannato la Russia alla dipendenza e alla capitolazione geopolitica. Gorbaciov, infatti, credeva nella ristrutturazione delle relazioni internazionali e nella possibilità di costruire una casa comune europea. Gli sviluppi in Europa, così come l’evoluzione delle relazioni tra Russia e Stati Uniti, hanno mostrato l’ingenuità di questo approccio. Il suo tentativo strategico di avvicinarsi all’Occidente attraverso concessioni unilaterali risale alla fine del 20° secolo, ma è stato respinto nel 21° secolo. La dottrina di Gorbaciov, ammesso che si possa parlare di dottrina, non ha resistito all’impatto con la realtà e alla prova del tempo.
Ciò che è accaduto dalla fine dell’Unione delle Repubbliche Socialista Sovietiche in Ucraina (e negli Stati Baltici) è il risultato di questo approccio errato. Nel dicembre del 1991 la settantennale esperienza sovietica cessava di esistere. Smentendo il referendum democratico del marzo dello stesso anno che aveva visto il 78% della popolazione esprimersi a favore del mantenimento dell’Unione, i tre presidenti delle repubbliche dell’URSS – Russia, Ucraina e Bielorussia – decidevano di “ascoltare” le voci dei consiglieri statunitensi che da tempo erano presenti nel caos della perestrojka gorbacioviana.
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«Grigio è l'albero della vita, verde è la teoria»
di Sandrine Aumercier
Il testo di Robert Kurz che recava questo titolo, apparve su Exit! nel 2007. In esso Kurz si prefigge di smontare tutte le «teorie dell'azione» che a partire dagli anni Sessanta si sono via via succedute, e delle quali è stato un contemporaneo, e persino un militante. Per mettere le cose in prospettiva: Kurz è stato un militante attivo nel movimento studentesco del 1968, dapprima all'interno dell'SDS (Sozialistischer Deutscher Studentenbund) e poi sotto le bandiere dell'opposizione extraparlamentare (APO, in contrasto sia con l'SPD, il Partito Socialdemocratico della Germania Ovest, sia rispetto all'URSS). Dopo la disgregazione dell'SDS, si venne a formare una costellazione di K-Gruppen; piccoli gruppi, per lo più maoisti, che formarono la Nuova Sinistra. Kurz vi ebbe parte attiva, scrivendo articoli e opuscoli insieme ad altri. Espulso dal suo gruppo nel 1976, insieme ad altri partecipò poi alla creazione di una «nuova corrente» marxista-leninista, che si rivelò essere un altro fallimento. Mentre molti altri ex partecipanti alle K-Gruppen si convertirono via via ai Verdi tedeschi e ai movimenti antimperialisti, nel 1984 Kurz lanciava, insieme ad altri, l'Iniziativa Marxistische Kritik, una struttura che avrebbe dovuto costituite le premesse per uno studio delle basi teoriche della militanza di sinistra [*1]. Nel 1984 pubblica un pamphlet dal titolo «Epitaffio per il nuovo piagnisteo», seguito nello stesso anno da «Crepe e provocazioni. Un regolamento di conti con la sinistra e la scena alternativa». Gli autori (tra cui Kurz) attribuiscono alla loro «critica radicale... della coscienza della scena oppositiva in questo paese», tutte le veementi reazioni. La critica era quindi già specificamente rivolta alla «coscienza di sinistra», e l'obiettivo di questo regolamento di conti era, in maniera particolare, la fantasmagoria di una «scena» alternativa, a partire dalla quale si sarebbe potuto rovesciare il sistema capitalistico.
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Il grano e il tulipano: a lezione da Dgiangoz (“La D è muta”. “Lo soooo”!)
Cronache marXZiane n. 9
di Giorgio Gattei
1. Nel corso del mio prolungato soggiorno sul pianeta Marx, dove sono stato trascinato dall’astronave marxziana “La Grundrisse” (vedi Cronache MarXZiane n. 1) mi ero fatto l’idea che la presenza delle cosiddette “merci non-base”, che sono una componente significativa del suo panorama, potesse avere una qualche parte nella “legge di caduta” del suo Saggio Massimo (di profitto). Ricordo i due termini in questione: Saggio Massimo è il maggiore dei saggi del profitto qualora non si paghino salari (il che succede in una estrema periferia del pianeta che ho visitato) e questo è evidente: essendo il profitto P = (Y – W) con Y = prezzo del Prodotto al netto del capitale impiegato K e W = ammontare dei salari, per W = 0 sarà:
max r = R = Y/K
da cui si vede subito come Saggio Massimo non sia poi altro che l’inverso del ben più noto rapporto Capitale/Reddito (sebbene questa coincidenza non abbia mai ricevuto sufficiente attenzione).
A loro volta le “merci non-base” sono quelle merci che, secondo la definizione rigorosa data da Piero Sraffa, pur essendo state prodotte come ouput non entrano come input nella produzione delle altre merci – e non si pensi che siano poche queste merci se in esse vanno compresi i “beni di lusso” dei signori ma pure i beni-salario acquistati dai lavoratori oltre il loro consumo necessario e le spese pubbliche improduttive dello Stato, come gli armamenti o le “buche per terra” di keynesiana memoria. Insomma, sono così tante e diverse queste merci non-base che, per non far torto a nessuna di loro, le ho generalizzate ai tulipani che sono un bene ad esclusivo utilizzo ornamentale e che sono anche stati curiosamente oggetto, come ho ricordato nella Cronaca precedente, della prima speculazione finanziaria “di massa” della storia.
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Giudizio universale senza pause (e senza appelli)
di Il Rovescio
Anche il Giudizio Universale ha le sue pause.
Christian Friedrich Hebbel, Diari (1835-1863)
L’appello di rado evita di cadere nel missionario; e v’è chi se ne turba. Certo, tutti sanno quanto siano rudi e per nulla pensosi di sé e degli altri gli edili e i villici; dubito, tuttavia, che se andremo ad avvertirli che la guerra atomica fa male, quelli si metteranno a scuotere le teste dialettali, chiosando: «Be’, se lo dicono quelli, qualcosa di vero ci deve essere». […] Certo, a firmare o compilare codesti documenti «si ha ragione»; ma non v’è una qualità corruttrice, qualcosa di stranamente degradante nell’«aver ragione», quasi quanto nel vincere una guerra?
Giorgio Manganelli, «Alcune ragioni per non firmare gli appelli», in Lunario dell’orfano sannita, 1973
«Mai mettere in gioco la propria sorte se non si è disposti a giocare con tutte le proprie possibilità». Il vecchio adagio non vale solo per i poveri e per i rivoluzionari, ma anche per gli Stati, i capitalisti e i tecnocrati. Quando i dadi sono tratti, e oggi lo sono, si possono pagare care tanto le avventure della potenza quanto la titubanza delle mezze misure. Le prime possono diventare la classica fine nell’abisso, le seconde l’altrettanto classico abisso senza fine.
La mossa da parte della Federazione russa di annettere i territori di Donetsk, Lugansk, Kherson e Zaporož’e alza drammaticamente la posta in gioco, rendendo, come noto, eventuali attacchi dell’esercito ucraino oltre i nuovi confini una «minaccia esistenziale» per lo Stato russo, minaccia che consentirebbe l’uso di ogni mezzo, comprese le armi atomiche “tattiche”. La concomitante «mobilitazione parziale» di trecentomila riservisti è stata accompagnata da due fenomeni interni opposti: da un lato, il riaccendersi delle proteste (e delle azioni dirette contro i centri di reclutamento) nonché la fuga di migliaia di giovani dal Paese; dall’altro, gli inviti dei settori più bellicisti a schiacciare le forze ucraine una volta per tutte.
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L’anti-Clausewitz
di Enrico Tomaselli
Formalizzato da Carl von Clausewitz nel suo Della Guerra, pubblicato negli anni trenta dell’800, il principio della guerra come proseguimento della politica con altri mezzi è in realtà sempre stato considerato da tutti i teorici dell’arte militare – da Machiavelli a Sun Tzu, da Giap a Gerasimov. Si potrebbe in effetti dire che sia un principio talmente vero da risultare ovvio, ma in realtà non è poi così nei fatti. Quel che è certo è che questo principio trova la sua massima applicazione nel corso del 900, quando alle classiche linee di frattura geopolitiche si aggiungono quelle ideologiche, facendo quindi della guerra uno strumento quasi privilegiato della/dalla politica
La guerra rivoluzionaria
È interessante notare come, proprio nel corso del novecento, l’ideologizzazione della guerra produca un fenomeno speculare, le cui ricadute – come vedremo – si presentano ancora oggi in modo per certi versi sorprendente. Il secolo scorso, infatti, vede la nascita della guerra rivoluzionaria, che non è semplicemente lo strumento bellico messo al servizio di una politica – appunto – che si prefigge la rivoluzione, ma è a tutti gli effetti, e prima d’ogni cosa, una rivoluzione della guerra. Per certi versi paragonabile a quella napoleonica.
Anche se tendenzialmente il pensiero va al Mao Tze Dong della lunga marcia, il vero teorico della guerra rivoluzionaria è il vietnamita Võ Nguyên Giáp. È lui che guiderà la lotta di liberazione del popolo vietnamita, dapprima contro la Francia e poi contro gli Stati Uniti. Ed a questi due conflitti sono legati altri due fattori importanti, ai fini della presente riflessione.
Innanzitutto, è nel corso del conflitto indocinese (e poi durante la guerra di liberazione algerina) che l’idea di guerra rivoluzionaria viene assimilata (e rielaborata) da un esercito occidentale; all’interno dell’esercito coloniale francese, infatti, la temperie di questi due conflitti fa maturare la consapevolezza che la guerra non è più semplicemente una questione tra eserciti contrapposti e, pertanto, va affrontata con logiche strategiche e tattiche assai diverse.
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Senza mobilitare le masse e abbandonare il culto del passato sarà difficile la vittoria di Lula
di Juraima Almeida*
In questo articolo l’autrice sostiene che in questo mese che ancora manca al secondo turno la candidatura di Lula deve cambiare la strategia seguita finora: mobilitare le masse e abbandonare il culto del passato, che si riassume nel tormentone di Lula ‘durante il mio governo…’
Nelle elezioni brasiliane di domenica scorsa l’ex presidente Luiz Inácio Lula da Silva è stato il candidato più votato per la presidenza, ma gli è mancato l’1,7% dei suffragi per imporsi al primo turno sull’attuale presidente dell’ultradestra Jair Bolsonaro: l’epico duello tra i due si risolverà nel ballottaggio del 30 ottobre.
Il vantaggio di Lula su Bolsonaro è stato di quattro scarsi punti percentuali, nonostante tutti i sondaggi e le indagini prevedessero un vantaggio tra sette e dieci punti: questa è stata la prima vittoria dell’attuale mandatario. Ma la vittoria più pesante è stata riportata sia nella formazione di quello che sarà a partire dal 2023 il Congresso che nei governi provinciali.
Bolsonaro è riuscito a mantenersi in partita e continuare nella competizione per almeno altre quattro settimane: c’è stata la crescita di una base ampia e apparentemente solida che oscilla tra la destra e l’ultradestra.
Per qualsiasi analisi sul futuro bisogna partire dalla realtà, perché come segnala il direttore del Centro Latinoamericano de Análisis Estratégico, Aram Aharonian, la società brasiliana non è la stessa di 19 anni fa, quando quell’ex operaio metallurgico di Sao Bernardo do Campo e dirigente della Central Única de Trabajadores (CUT), cavalcando un’ondata di speranza, arrivò al governo (e al potere?). Il tempo passa…
Ed è assolutamente vero: molto è successo in questi ultimi due decenni e domenica le urne hanno dimostrato che i più poveri dei poveri delle periferie urbane non hanno votato -come si credeva- massicciamente per il PT e il suo candidato. Ora, anche vincendo, sarà difficile governare essendo in minoranza in Parlamento.
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Filosofia della praxis e “apprendimento storico”
Su "La questione comunista" di Domenico Losurdo
di Massimo Baldacci (Università di Urbino)
0. Premessa
La questione comunista, il libro postumo di Losurdo (2021) curato da Grimaldi, mi pare avvicinabile ad altri volumi di questo studioso: Marx e il bilancio storico del Novecento (2009); Il marxismo occidentale (2017). In queste opere, infatti, la ricostruzione storica appare indirizzata a un ripensamento degli orizzonti odierni e di quelli futuri, secondo un taglio critico che non cade mai nel dottrinarismo.
In questo saggio, intendo avanzare una chiave di lettura particolare (concepita da un’angolatura pedagogica) di questo lavoro postumo di Losurdo; indicare la problematica che autorizza l’uso di tale chiave interpretativa; e, infine, mostrare un esempio paradigmatico reperibile nel testo in questione.
1. La filosofia della praxis come pedagogia sociale
In questo volume, Losurdo legge la storia dell’idea di comunismo secondo il metodo del materialismo storico, non come una astratta disputa ideologica, bensì muovendo dall’esperienza storica reale. Questo atteggiamento teorico è espressamente dichiarato nelle conclusioni del volume:
«Marx ed Engels: nell'analisi della Rivoluzione francese o inglese non prendono le mosse dalla coscienza soggettiva dei loro protagonisti o degli ideologi che le hanno invocate e ideologicamente preparate, bensì dalla indagine sulle contraddizioni oggettive che le hanno stimolate e sulle caratteristiche reali del continente politico sociale scoperto o messo in luce dagli sconvolgimenti verificatisi […] Perché dovremmo procedere diversamente nei confronti della Rivoluzione d’ottobre?»1.
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Le tendenze del capitale nel XXI secolo, tra "stagnazione secolare" e guerra
di Domenico Moro
La realtà geopolitica dell’inizio del XXI secolo va studiata a partire dalla categoria di modo di produzione. Tale categoria definisce i meccanismi di funzionamento del capitale in generale, astraendo dalle singole economie e dai singoli Stati. Per questa ragione, dobbiamo far interloquire la categoria di modo di produzione con quella di formazione economico-sociale storicamente determinata, che ci restituisce il quadro dei singoli Stati e delle relazioni tra di loro in un dato momento.
Inoltre, il nostro approccio dovrebbe essere dialettico, basato cioè sull’analisti delle tendenze della realtà economica e politica. Tali tendenze non sono lineari, ma spesso in contraddizione con altre tendenze. Solo lo studio delle varie tendenze contrastanti può permetterci di delineare i possibili scenari futuri.
- La “stagnazione secolare”
L’economia capitalistica mondiale è entrata in una fase di “stagnazione secolare”. A formulare tale definizione è stato nel 2014 Laurence H. Summers, uno dei principali economisti statunitensi, ministro del Tesoro sotto l’amministrazione Clinton e rettore dell’Università di Harvard. Summers ha mutuato il termine di “stagnazione secolare” dall’economista Alvin Hansen, che lo coniò durante la Grande depressione degli anni ’30, che iniziò con la crisi borsistica del 1929. L’attuale “stagnazione secolare” inizia, invece, con la crisi del 2007-2009, seguente allo scoppio della bolla dei mutui subprime.
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Non so più a chi appartengo. Autodafé dell’antropologia culturale
di Andrea Sartori
Nel 1892, il medico e sociologo ungherese Max Nordau pubblicava un libro che avrebbe avuto immediatamente una grande eco in tutta Europa, Degenerazione. In piena fin de siècle, Nordau se la prendeva non solo con l’arte che considerava corrotta – a partire da quella decadente, incluso Oscar Wilde – ma dava soprattutto voce a un disagio innescato dalla turbolenza politica, sociale ed economica di quegli anni, per altro verso ricchi di speranze nel progresso e pertanto di promesse tutte da mantenere. In sintesi, scriveva Nordau, “le sensazioni dell’epoca sono straordinariamente confuse, constano di instancabilità febbrile e di scoraggiamento represso, di presentiti timori e di umorismo forzato. Il sentimento che prevale è quello d’una fine, di uno spegnimento” (Degenerazione, Bocca, 1913, p. 5). Un iper-attivismo che girava a vuoto – ma a cui i media dell’epoca davano grande risalto – faceva velo a una disillusione di fondo; i sorrisi comandati e falsi dell’ipocrisia sociale, e della sua insopportabile retorica – più tardi messa sulla graticola da Luigi Pirandello – a stento nascondevano paure profonde circa la direzione che l’Europa stava prendendo, e che in poco più di vent’anni l’avrebbe condotta sul baratro della Grande Guerra.
Se v’era una Stimmung, essa aveva a che fare con un graduale rallentamento del ritmo della vita, anzi, con un “sentimento” di “spegnimento”. Quest’ultimo contrastava la baldanza, la frenesia e lo slancio cinetico con cui da una nazione all’altra s’idolatravano i passi in avanti della scienza, dell’organizzazione sociale, riflessi tra l’altro nel sogno colonialista.
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Kharkov e la mobilitazione
di Jacques Baud - thepostil.com
La riconquista della regione di Kharkov all’inizio di settembre sembrerebbe essere un successo per le forze ucraine. I nostri media hanno esultato e trasmesso la propaganda ucraina allo scopo darci un quadro non del tutto accurato. Uno sguardo più attento alle operazioni avrebbe potuto indurre l’Ucraina ad essere più cauta.
Da un punto di vista militare, questa operazione è una vittoria tattica per gli Ucraini e una vittoria operativa/strategica per la coalizione russa.
Da parte ucraina, Kiev era sotto pressione per ottenere qualche successo sul campo di battaglia. Volodymyr Zelensky temeva che l’Occidente si sarebbe stancato, riducendo quindi gli aiuti militari all’Ucraina. Per questo motivo, gli Americani e gli Inglesi avevano fatto pressioni affinché portasse a termine alcune offensive nel settore di Kherson. Queste offensive, intraprese in modo disorganizzato, con perdite sproporzionate e senza successo, hanno creato tensioni tra Zelensky e il suo staff militare.
Per diverse settimane gli esperti occidentali hanno messo in dubbio la presenza dei Russi nell’area di Kharkov, dato che chiaramente non avevano intenzione di combattere per la città. In realtà, la loro presenza in quest’area aveva solo lo scopo di bloccare le truppe ucraine e impedire il loro trasferimento nel Donbass, che è il vero obiettivo operativo dei Russi.
Ad agosto, alcuni indizi avevano suggerito che i Russi avevano pianificato di lasciare l’area ben prima dell’inizio dell’offensiva ucraina. Si erano quindi ritirati in buon ordine, insieme ad alcuni civili che avrebbero potuto essere oggetto di rappresaglie.
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Fuga o protesta?
di Mauro Boarelli
Cosa dicono i numeri (e cosa non dicono)
La previsione si è avverata. Il partito (post)fascista è stato quello più votato alle ultime elezioni politiche. Per la prima volta nella storia del dopoguerra il governo sarà guidato da una personalità proveniente da una cultura politica antitetica a quella che ha dato origine all’Italia repubblicana, una cultura avversata nella lotta politica, nelle carceri e al confino, nella guerra partigiana da tutte le correnti di pensiero che hanno cooperato nella scrittura della Costituzione. Un mutamento di paradigma sintomo e causa al tempo stesso della lunga crisi del sistema politico e rappresentativo che giunge ora a un punto di svolta.
Certo, il dato elettorale va contestualizzato. L’affermazione della destra non è così netta come emerge dalla distribuzione dei seggi. La coalizione, infatti, ha ottenuto circa 150.000 voti in più rispetto alle elezioni precedenti, un incremento molto modesto. L’effetto valanga è dovuto unicamente a una legge elettorale che distribuisce un numero rilevante di seggi in modo del tutto abnorme rispetto al reale peso elettorale, una legge targata Pd e concepita da un ceto politico incapace e irresponsabile. La maggioranza parlamentare (e di conseguenza la composizione del governo) sarebbe stata diversa se gli strumenti della democrazia rappresentativa fossero stati usati tenendo fermi i principi costituzionali, ma in ogni caso l’espansione impressionante di Fratelli d’Italia (che aumenta del 410% i propri voti) è un segno inequivocabile del mutamento culturale in atto.
L’altro aspetto centrale del mutamento è l’astensionismo.
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L’euro senza l’industria tedesca
di Michael Hudson*
La reazione al sabotaggio di lunedì 26 settembre di tre dei quattro gasdotti Nord Stream 1 e 2 si è concentrata sulle speculazioni su chi sia stato e se la NATO farà un serio tentativo di scoprire il colpevole. Tuttavia, invece del panico, si è tirato un grande sospiro di sollievo diplomatico, persino di tranquillità. La disattivazione di questi gasdotti pone fine all’incertezza e alle preoccupazioni dei diplomatici USA/NATO, che, la settimana precedente, avevano quasi raggiunto l’apice di una crisi, quando in Germania si no svolte grandi manifestazioni per chiedere la fine delle sanzioni e la messa in funzione del Nord Stream 2 per risolvere la carenza di energia.
L’opinione pubblica tedesca stava capendo il vero significato della chiusura delle aziende siderurgiche, di fertilizzanti, di vetro e di carta igienica. Queste aziende prevedevano di dover cessare completamente l’attività – o di trasferirla negli Stati Uniti – se la Germania non si fosse ritirata dalle sanzioni commerciali e valutarie contro la Russia e non avesse permesso la ripresa delle importazioni di gas e petrolio russi e, presumibilmente, la riduzione da otto a dieci volte del loro astronomico aumento dei prezzi.
Eppure, la guerrafondaia Victoria Nuland del Dipartimento di Stato aveva già dichiarato a gennaio che “in un modo o nell’altro il Nord Stream 2 non sarebbe andato avanti” se la Russia avesse risposto all’incremento degli attacchi militari ucraini contro gli oblast orientali russofoni. Il 7 febbraio, il presidente Biden aveva ribadito l’intenzione degli Stati Uniti, promettendo che “il Nord Stream 2 non ci sarà più. Vi porremo fine. Vi prometto che saremo in grado di farlo.”
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Sraffa, Il rapporto con Marx
La parabola dell’economia politica – Parte XXIV
di Ascanio Bernardeschi
Il modello di Sraffa rappresenta un’economia in equilibrio statico e ha finalità completamente diverse da quelle di Marx che intendeva indagare le leggi di movimento del modo di produzione capitalistico. Pertanto non è opportuno giudicare la coerenza del sistema di analisi marxiano con il metro di Sraffa.
Abbiamo visto che Sraffa utilizza la merce tipo, come metro che consente di valutare le merci senza fare alcun riferimento al tempo di lavoro e al contempo senza subire l’influsso delle variazioni nella distribuzione del reddito. Siamo di fronte a un modo completamente nuovo di determinare i prezzi e la distribuzione del reddito attraverso i parametri della tecnica, tutti ugualmente influenti a tale scopo, e non a partire dal solo tempo di lavoro diretto e indiretto, una volta conosciuta una variabile distributiva. Pertanto non si parla più di plusvalore, ma di sovrappiù, di una quantità di merci eccedente quella impiegata nella produzione.
Il sistema tipo, che ci consente di ragionare in termini di quantità fisiche a prescindere dai prezzi, rende visibile la relazione inversa tra salario e saggio del profitto. Viene designato con R il rapporto incrementale tra l’intero neovalore, o prodotto netto, e l’input di lavoro e mezzi di produzione, rapporto che è possibile determinare in termini di quantità fisiche. È chiaro che se il salario fosse pari a zero R sarebbe anche il corrispondente saggio del profitto, il limite massimo che può assumere tale saggio. Ponendo ω come la quota del prodotto netto che va ai salari, otteniamo che il saggio del profitto effettivo è dato da
r=R(1-ω) (1)
cioè sono evidenti gli interessi contrapposti di lavoratori e capitalisti.
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Sull’attacco terroristico al reddito di cittadinanza
di Tendenza internazionalista rivoluzionaria
Grigia è ogni teoria, caro amico. Verde è l’albero aureo della vita.” (Goethe – Faust)
Chi ci conosce, sa bene che abbiamo sempre ritenuto il reddito di cittadinanza come poco più che un’elemosina di stato, e ciò da molto prima che il governo Conte 1 lo rendesse realtà.
Per decenni la “fu” sinistra di classe si è fronteggiata duramente e si è divisa attorno al tema delle rivendicazioni immediate per il contrasto alla disoccupazione di massa, fattore fisiologico e “necessario” al normale funzionamento del modo di produzione capitalistico ad ogni latitudine.
Tale confronto si è articolato nel tempo essenzialmente attorno a 3 posizioni:
A) i sostenitori del “lavorismo a tutti i costi”, in larga parte eredi delle concezioni staliniste e togliattiane, secondo i quali “solo il lavoro nobilita l’uomo” e solo attraverso la (s)vendita della propria forza-lavoro, a qualsiasi condizione imposta dai padroni, un proletario può acquisire la “patente” di soggetto antagonista al capitale: per costoro il disoccupato, in sostanza, non è altro che un proletario di “serie B”, o peggio un “sottoproletario“, in quanto tale non meritevole di particolare attenzione politica né tanto meno portatore di interessi che vadano al di là di quello a trovare un impiego, qualsiasi esso sia.
B) la vulgata “post-operaista”, secondo la quale le trasformazioni del capitalismo contemporaneo prodotte dalla cosiddetta “globalizzazione”, e in primis dall’automazione su larga scala, avrebbero portato al definitivo superamento della centralità del conflitto capitale-lavoro e all’emergere di una “moltitudine” di esclusi dal ciclo di produzione, quindi di un “nuovo soggetto” sociale la cui ricomposizione dovrebbe avvenire principalmente attraverso la rivendicazione di un “reddito di base universale“.
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‘Spazio-tempo' e potere alla luce della teoria dell'egemonia
di Fabio Frosini
Da L. BASSO , S. BRACALETTI , M. FARNESI CAMELLONE , F. FROSINI , A. ILLUMINATI , N. MARCUCCI , V. MORFINO, L. PINZOLO , P.D. THOMAS , M. TOMBA: Tempora multa. Il governo del tempo, Mimesis, 2013
1. Temporalità plurale e/o contingenza?
Esiste nei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci1 una teoria delle temporalità plurali? La risposta è all’apparenza semplicissima: alla luce della nozione di egemonia, ogni identità è il prodotto di un’unificazione politica di elementi eterogenei. Pertanto, se per ‘tempo’ s’intende il ritmo unitario di un’esperienza storica, l’unitarietà di tale ritmo è l’esito contingente di una serie di pratiche egemoniche, e non ha altra esistenza, che quella conferitale dall’intreccio di tali pratiche. L’unità sorge sullo sfondo della pluralità senza annullarla mai del tutto, l’universalità è condizionata dalla parzialità.
Questa tesi, sostenuta con intelligenza da Ernesto Laclau2, finisce per fare dell’egemonia un equivalente dell’esercizio del potere e un sinonimo di ‘oggettività’. La ‘verità’, che all’oggettività dei significati istituiti dal potere sfugge come un suo scarto ineliminabile (secondo una modalità di tipo post-strutturalistico), si dà ai margini del funzionamento ‘a regime’ dell’egemonia. Per pensare il nesso di co-implicazione e, al contempo, di mutua esclusione di oggettività e verità, di egemonia e politica, Laclau fa appello alla dicotomia spazio/tempo, laddove il tempo va pensato non nella forma spazializzata della diacronia, ma come «l’esatto opposto dello spazio»3, e pertanto, se lo spazio è struttura, organizzazione chiusa di significati, il tempo sarà necessariamente una «dislocazione della struttura», cioè un suo «malfunzionamento irrappresentabile in termini spaziali», in una parola: un «evento»4. In questo modo, la pluralità dei tempi può essere ritrovata solo dal lato delle diacronie spazializzate nei vari discorsi (o racconti, o miti5) dell’ordine; mentre l’innovazione, lo scarto, la politica come accadere della verità, in quanto estranea allo spazio, è irrappresentabile e dileguante, del tutto vuota, puntuale e sempre identica: in una parola, la temporalità non è pluralizzabile perché indeterminabile; o si dà, o non si dà, senza altre possibilità.
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