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Il contributo di Nancy Fraser al dibattito su un nuovo socialismo democratico
Per un inquadramento critico
di Giorgio Fazio
Nancy Fraser: Cosa vuol dire socialismo nel XXI secolo, Castelvecchi. 2020
Non sembra esserci tempo più propizio di quello che stiamo vivendo in questo passaggio storico eccezionale, per tornare a riflettere – con serietà, realismo e alla luce di prospettive teoriche e politiche rinnovate – sul tema che dà il titolo all’intervento di Nancy Fraser: che cosa può significare socialismo nel XXI secolo.
Più volte è stato osservato in questi ultimi mesi: come tutte le emergenze che interrompono bruscamente lo svolgimento delle nostre routine sociali, economiche e politiche, la pandemia da Covid-19, investendo inesorabilmente per ondate successive i quattro angoli del pianeta, ha avuto il potente effetto rivelatorio di riportare alla luce, senza più diaframmi, le soglie critiche su cui è sospesa la nostra contemporaneità globalizzata. Soglie critiche di varia natura – sanitaria, ecologica, economica, democratica, sociale, razziale, etc. – eppure tra loro strettamente intrecciate, poichè tutte in qualche modo riconducibili al modello di capitalismo finanziarizzato e deregolamentato che si è imposto su scala globale negli ultimi decenni. Crisi che, tuttavia, la normalità sospesa nei mesi di emergenza epidemica tendeva a rimuovere dal centro dell’agenda politica, mentre ora, dopo e dentro questa emergenza, si ha l’impressione che quel rimosso ripresenti il conto e non possa essere più facilmente relegato sullo sfondo.
L’approccio di Fraser alla questione del socialismo si presenta come una pista di riflessione particolarmente idonea ad aiutarci a leggere “contropelo” questo passaggio storico e ad offrirci strumenti di orientamento politico. E questo per due ragioni fondamentali.
La prima di queste ragioni è che la sua riflessione su una rinnovata idea di socialismo democratico ruota fin dall’inizio attorno al tema della crisi.
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Che cos’è la paura?
di Giorgio Agamben
Che cos’è la paura, nella quale oggi gli uomini sembrano a tal punto caduti, da dimenticare le proprie convinzioni etiche, politiche e religiose? Qualcosa di familiare, certo – eppure, se cerchiamo di definirla, sembra ostinatamente sottrarsi alla comprensione.
Della paura come tonalità emotiva, Heidegger ha dato una trattazione esemplare nel par. 30 di Essere e tempo. Essa può esser compresa solo se non si dimentica che l’Esserci (questo è il termine che designa la struttura esistenziale dell’uomo) è sempre già disposto in una tonalità emotiva, che costituisce la sua originaria apertura al mondo. Proprio perché nella situazione emotiva è in questione la scoperta originaria del mondo, la coscienza è sempre già anticipata da essa e non può pertanto disporne né credere di poterla padroneggiare a suo piacimento. La tonalità emotiva non va infatti in alcun modo confusa con uno stato psicologico, ma ha il significato ontologico di un’apertura che ha sempre già dischiuso l’uomo nel suo essere al mondo e a partire dalla quale soltanto sono possibili esperienze, affezioni e conoscenze. «La riflessione può incontrare esperienze solo perché la tonalità emotiva ha già aperto l’Esserci». Essa ci assale, ma «non viene né dal di fuori né dal di dentro: sorge nell’essere-al-mondo stesso come una sua modalità». D’altra parte questa apertura non implica che ciò a cui essa apre sia riconosciuto come tale. Al contrario, essa manifesta soltanto una nuda fatticità: «il puro “che c’è” si manifesta; il da dove e il dove restano nascosti». Per questo Heidegger può dire che la situazione emotiva apre l’Esserci nel «essere-gettato» e «consegnato» al suo stesso «ci». L’apertura che ha luogo nella tonalità emotiva ha, cioè, la forma di un essere rimesso a qualcosa che non può essere assunto e da cui si cerca – senza riuscirci – di evadere.
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Usciamo dall’euro per tornare a essere un paese normale
di Thomas Fazi
Ormai, di fronte al fallimento sempre più conclamato dell’UE e della moneta unica e all’insofferenza sempre più diffusa nei confronti di quella che viene (giustamente) percepita come una camicia di forza che da troppo tempo sta soffocando l’economia italiana, l’unica argomentazione rimasta ai difensori dello status quo sembrerebbe essere quella per cui «le cose vanno male, è vero» – ormai neanche loro hanno più il coraggio di negarlo – «ma fidatevi, senza l’euro andrebbero anche peggio».
Un esempio da manuale di questa strategia sempre più disperata è un articoletto uscito l’altro giorno sul Sole 24 Ore a firma di Innocenzo Cipolletta, economista e dirigente d’azienda italiano, ex presidente delle Ferrovie dello Stato (2006-2010). Già dal titolo si intuisce che l’obiettivo dell’autore è uno solo, inculcare il terrore in chi legge: “COVID+lira = molta inflazione (e zero crescita)”. L’argomentazione di Cipolletta è semplice quanto prevedibile: se avessimo dovuto affrontare questa pandemia fuori dall’euro, cioè con la vecchia/nuova lira, «avremmo dovuto aumentare il nostro disavanzo pubblico per sostenere l’economia, come tutti gli altri paesi». A tal fine, continua Cipolletta, «la Banca d’Italia sarebbe stata indotta a comprare il debito italiano, ciò che avrebbe probabilmente tenuto bassi i tassi di interesse per un po’ di tempo, ma la lira si sarebbe immediatamente svalutata come sempre è avvenuto in passato». A quel punto «l’aumento dell’inflazione interna sarebbe stato automatico, visto che la svalutazione aumenta i costi di rimpiazzo delle nostre importazioni […]. Gli italiani avrebbero così perso, assieme al lavoro falcidiato dalla pandemia, anche potere d’acquisto e sarebbero stati più poveri». Insomma, conclude Cipolletta, «molto (ma molto) meglio abbiamo fatto noi ad aderire all’euro» e ad evitare così questo scenario da incubo.
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Nota su Da Marx al post-operaismo
di Salvatore Tiné
Da Marx al post-operaismo, Giovanni Sgro’ e Irene Viparelli (a cura di), Napoli, La Città del Sole, 2019
1. Tanti i temi e tanti gli autori marxisti e non solo affrontati in questo piccolo ma densissimo libro. E tuttavia mi pare che alcuni temi li leghino tra loro in profondità. Uno tra questi, forse il più importante, e non caso vi si rimanda esplicitamente nel sottotitolo, è quello della soggettività, delle sue figure e forme insieme sociali e politiche, teoriche e insieme pratiche. Un tema che ha attraversato l’intera storia del movimento operaio e del marxismo e che ha acquistato in questi ultimi decenni, quelli per l’appunto successivi alla fine dell’Urss e alla tragica sconfitta del movimento operaio che l’ha insieme preceduta e accompagnata, una straordinaria attualità nel dibattito teorico e politico.
2. I saggi del volume affrontano il tema della soggettività a partire da Marx, e soprattutto dal Marx in cui la nozione di soggetto e di soggettività è ancora esplicita e evidentemente centrale, il Marx giovane dei Manoscritti del ’44 e quello meno giovane della Ideologia tedesca, ma già approdato al materialismo storico, ebbene ancora nettamente al di qua della critica dell’economia politica e della teoria del modo di produzione capitalistico cui il pensatore di Treviri approderà compiutamente nei Grundrisse e poi nel Capitale.
3. Particolarmente nel saggio sui Manoscritti parigini di Luca Mandara, mi pare interessante il tentativo di una lettura insieme politica e materialistica del tema della soggettività che percorre tutta l’analisi marxiana del lavoro alienato e il suo sforzo di definire il carattere insieme attivo e passivo, ovvero al contempo soggettivo e oggettivo del lavoro, al di là della impostazione ancora troppo astrattamente e genericamente “umanistica” che caratterizza questa fase del pensiero di Marx, ovvero come dice bene Mandara la sua “ontologia umanista”: in tal senso egli individua nella storicizzazione del bisogno innescata dalla trasformazione o umanizzazione della natura attraverso il lavoro una delle premesse fondamentali della critica dell’economia politica del Marx maturo e anche della stessa teoria politica che egli comincerà ad elaborare dopo l’esperienza delle rivoluzioni del ’48.
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Covid-19: Cosa Rischiano i Bambini e i Ragazzi a Scuola?
di Alessandra Basso (TINT, Università di Helsinki), Valentina Flamini (Biologa molecolare), Eleonora Franchini (docente di scuola secondaria di secondo grado), Sara Gandini (IEO, SEMM)
Vi passo qui di seguito un testo scritto da un gruppo di ricercatrici italiane che è veramente una boccata di ossigeno nello tsunami di fesserie e di bugie che ci sta sommergendo. Non un testo facile, non un testo annacquato. Un esame approfondito della letteratura scientifica. Non è un testo di opinioni, è un testo di dati e di fatti. E che arriva alla conclusione che il rischio di un ritorno a scuola per i nostri bambini è minimo o inesistente, e che -- soprattutto -- è trascurabile rispetto ai danni psicologici che i bambini ricevono standosene isolati a casa.
La cosa più bella è il successo che questo testo ha avuto. Pubblicato sul sito Facebook "Pillole di Ottimismo" è stato condiviso oltre 2500 volte in 24 ore. E' un risultato eccellente considerato il marasma che è Facebook al momento attuale. Dei circa 500 commenti, praticamente tutti sono favorevoli, molti ringraziano per la spiegazione. Soprattutto, sono genitori e mamme preoccupate per i loro bambini costretti in una situazione innaturale di isolamento e segregazione.
Come sappiamo, l'informazione pubblica in Italia è dominata da sorgenti di informazione completamente inaffidabili e di solito impegnate nel raccontarci bugie. Ma quest storia ci fa vedere come c'è ancora spazio per raccontare le cose come stanno. C'è ancora gente in grado di recepire un messaggio anche complesso quando capiscono che gli autori (le autrici, in questo caso) hanno lavorato seriamente per fare un servizio di informazione pubblica. (UB)
* * * *
“I bambini non sono i più colpiti da questa pandemia, ma rischiano di essere le sue più grandi vittime”. Così apre il report delle nazioni unite dedicato all’impatto del Covid-19 sui bambini (1).
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Filosofia del ritiro, ritiro della filosofia. Sulle derive del post-marxismo
di Yuri Di Liberto
1. Sulla fobia del potere
Rivolgendo uno sguardo ricognitivo al lessico della filosofia dopo la fine del socialismo reale, dopo la caduta del muro di Berlino, ma - in realtà - già a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, non si può fare a meno di notare come le parole d’ordine della vecchia filosofia (rivoluzione, partito, contraddizione, lotta di classe ecc.) siano state lentamente sostituite da un lessico ad esse complementare, ma talvolta con esse incompatibile. Una certa insofferenza per il fantasma di Stalin, nonché un certo imbarazzo per l’adesione di tanta intellighenzia mitteleuropea al progetto comunista, hanno fatto sì che lo scibbolet, la parola d’ordine, del pensiero filosofico-politico post-Unione Sovietica diventasse - e lo è tuttora - quella del ritiro.
Se il progetto emancipatorio della rivoluzione si trasforma in totalitarismo, l’unica prescrizione che vale è quella di ritirarsi dall’ordine dato, rifuggire qualsiasi mira di potere, ripulirsi del fascismo che ciascuno di noi ha dentro di sé, non credere più ad alcuna guida partitica. Si tratta di una tendenza post-marxista che, agitando lo spauracchio di Stalin, ha prodotto vari elogi del ritiro, immanentismi pigri, apologie dell’inoperosità ecc.
Le «rivelazioni sul gulag», nota Jameson, hanno innescato «un’ossessione distopica, una paura quasi paranoica, di qualsiasi forma di organizzazione politica o sociale» (Jameson 2016:2), fobie che di volta in volta prendono di mira la forma-partito o la semplice speculazione su progetti che riguardano la società del futuro.
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Mes o Recovery, comunque al guinzaglio
di Claudio Conti
Con un articolo in calce di Guido Salerno Aletta da Milano Finanza
La settimana che si apre dovrebbe essere quella decisiva per quanto riguarda la strategia europea per il post-pandemia (ammesso e non concesso che ci si trovi in un “post” anziché in una pausa stagionale). Gli iniziali atteggiamenti ritardatari dei “paesi frugali” (“l’importante è fare bene”) sono stati improvvisamente accantonati su indicazione della cancelliera Angela Merkel, per sei mesi presidente di turno di tutta l’Unione Europea, che intende sfruttare anche questa occasione – e la crisi ne sta offrendo a decine – per imporre l’imprinting sull’Unione 2.0.
Cuore della discussione continentale è il Recovery Fund, ossia il fondo straordinario “per la ricostruzione” da aggiungere al normale bilancio europeo. 500 miliardi, come nella proposta iniziale di Merkel e Macron, e non 750 come poi proposto dalla Commissione guidata da Von der Leyen. Tanto per far capire chi è che comanda (nonostante anche la presidente della Commissione sia tedesca, ma con una composizione ovviamente più “pluralista”).
500 miliardi di “trasferimenti a fondo perduto”, vincolati a investimenti per effettuare precise “riforme strutturali” che l’Unione Europea pretende da ogni Paese non le abbia ancora compiute o completate. I dettagli non sono ancora stati resi noti, ci si è limitati ad evocare “svolte green”, rivoluzioni digitali, ecc. Ma sono pià che intuibili…
Per esempio, l’incontro tra Giuseppe Conte e il suo omologo olandese Mark Rutte ha provveduto a sgomberare il campo da ogni equivoco, visto che il boero ha consigliato all’”avvocato del popolo” di eliminare “quota 100”. Una battuta informale, certo – “quota 100” vale pochissimo, in termini di bilancio, e comunque doveva scadere nel 2021 – ma che indica con nettezza la direzione da prendere: i Paesi con alto debito pubblico, quelli euromediterranei, insomma, devono tagliare ancora di più la spesa sociale, a cominciare da quella pensionistica.
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Democrazia a un bivio: ripensare la Rivoluzione al di là delle “riforme”
di Luca Cimichella
Lo scorso 20 giugno Michele Salvati, voce storica del PD e della sinistra riformista, scriveva sul Corriere della Sera: «Gli storici hanno da tempo messo in rilievo l’antica dannazione italica dei partiti “antisistema”, partiti che non potevano far parte delle coalizioni di governo anche se erano rappresentati in Parlamento. Non potevano farlo perché il loro programma politico contrastava con i principi in base ai quali una democrazia liberale e\o un’economia di mercato si erano di fatto assestate nel nostro Paese. (…) Finito questo conflitto per il collasso dell’Unione sovietica, ci si poteva attendere che fossero esaurite anche in Italia le ragioni per escludere come “antisistema” partiti che accettassero i criteri di una democrazia liberale, di un’economia capitalistica e fossero legittimamente rappresentati in Parlamento. E di fatto si instaurò per alcuni anni, tra il 1994 e il 2018, una alternanza destra\sinistra che includeva tutti (…). Poi, con le elezioni del 2013 e del 2018, arrivarono in Parlamento partiti populisti-sovranisti (…). Che si collochino a destra o a sinistra, la concezione di democrazia da essi condivisa è in conflitto con quella liberale, parlamentare e rappresentativa».
Un tono candido e lineare, un’argomentazione che non sembra fare una piega. Se non fosse per un solo dettaglio: il misterioso ritorno di questo spettro, i “dannati” partiti “antisistema”, che vengono periodicamente a turbare l’innocente rotta della democrazia liberale sugli intrascendibili, universali orizzonti del sistema vigente. Si tratta di una narrazione rassicurante quanto falsa e cieca, che dopo aver sedotto per circa trent’anni i cuori e le menti di quella sinistra “illuminata”, “moderata”, che esce dalle rovine di Pci, Psi e Dc – passando per i vari D’Alema, Amato e Prodi – risulta ormai indigeribile per le nostre coscienze disincantate, che in un contesto economico-politico sempre più insensato, soffocante e indistricabile, anelano disperatamente (spesso senza saperlo) ad una alternativa di mondo e di società.
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L'insostenibile impalpabilità del ceto dirigente
di Alberto Bradanini
Nell’Italia del XXI secolo chiunque può diventare capo del governo, persino un ignoto avvocato di provincia, sia detto con rispetto, privo fino al giorno prima di qualsiasi ombra di familiarità con politica, affari di Stato e relazioni internazionali. Egualmente, sia detto anche qui con rispetto, chiunque può diventare ministro degli esteri, delle finanze, dell’economia e via dicendo.
Si tratta di un’evidenza, solo in apparenza sorprendente, che va posta in termini strutturali, non personali. Sui futuri libri di storia questi dirigenti saranno menzionati in un riquadro a fondo pagina, raccolti in un freddo elenco di nomi e anni di riferimento: è improbabile che di essi si parli per lo spessore delle gesta, la tensione etica o le lotte combattute a favore della popolazione, a dispetto del pur oscillante frasario elogiativo destinato a evaporare a ogni tramontar del sole.
Nei paesi a democrazia liberale – Stati Uniti ed Europa, in primis - la selezione del ceto dirigente non è fortuita. E quando talvolta i meccanismi selettivi sfuggono di mano (Trump...), la sottostante struttura statuale supplisce alle insufficienze del livello politico. Anche in paesi lontani dalle tradizioni istituzionali occidentali, i processi selettivi non sono lasciati al caso. In Cina, ad esempio, sapere e potere vanno da sempre a braccetto. Nella millenaria storia cinese, l’imperatore, suprema espressione del potere assoluto, poneva massima attenzione a circondarsi di persone selezionate: a partire dall’epoca Tang, in particolare, i mandarini (rappresentanti dell’autorità imperiale) erano tenuti a superare esami pubblici faticosi, forse non sempre trasparenti, eppure sufficienti a evitare che giungessero a responsabilità elevate anonimi figli del vento, originati dal caso, dalla corruzione o dal nepotismo.
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Lo scientismo come nuova religione
di Ilaria Bifarini
Cos’è la scienza?
“La scienza non è democratica” è il nuovo mantra utilizzato come scudo per allontanare chiunque provi a manifestare un pensiero divergente da quello accreditato dalla vulgata dominante e per questo inconfutabile, non passibile a critiche di alcun tipo. Il monito è molto efficace, ed emana quell’autorevolezza che ci si aspetta dal rigore e dall’inaccessibilità della scienza, intesa come campo esclusivo di un élite di esperti, la cui competenza e preparazione implicano qualità tali da giustificare un certo distacco dal popolo, il demos appunto. Mai come in questo periodo di diffusione della paura collettiva legata al Covid-19 la scienza, o come meglio vedremo la sua degenerazione scientista, ha avocato a sé il ruolo di padre primigenio, che sorveglia i propri figli e impone loro la propria indiscussa autorità.
Ma cosa è la scienza?
Sciens, participio presente del verbo latino scire, sapere, essa comprende quel sistema di cognizioni acquisito con lo studio e la riflessione.
Ricostruire la genesi della scienza richiederebbe un trattato a sé, ed esula dall’obiettivo della nostra esposizione; peraltro esiste già una vasta e importante letteratura in merito da poter esaminare.
Già nella cultura classica i filosofi greci distinguevano due diverse forme di conoscenza, l’opinione (doxa), fondata sull’esperienza sensibile e perciò ingannevole e incerta, e la scienza (epistème), basata sulla ragione e dunque fonte di conoscenza sicura e incorruttibile.
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Quale comunismo? Un invito a rileggere il “Manifesto del Partito Comunista”
di Michele Martelli
Il “Manifesto” non è la sacra Bibbia, né il Catechismo dei comunisti, ma un’opera aperta, laica, profana, imperfetta, incompiuta, in fieri, con luci e ombre, intuizioni geniali e difetti innegabili. Un’opera che va letta e studiata senza estrapolarla dall’epoca in cui fu scritta e senza pregiudizi fideistici, al pari di ogni altro classico della politica
Comunismo si dice in molti modi
«Il Manifesto del Partito comunista è uno dei più grandi scritti politici di tutti i tempi»[1]. Così un filosofo e stu
dioso liberale italiano ultracritico di Marx, allacciandosi a un giudizio analogo del giovane Max Weber, poi divenuto il grande sociologo, denominato l’Anti-Marx, o «il Marx della borghesia»: «il Manifesto è una realizzazione scientifica di prim’ordine. Questo è innegabile»[2].
Ma perché, chiediamoci in via preliminare, Marx ed Engels l’hanno intitolato Manifesto del Partito comunista, e non «socialista»? In primo luogo, per ragioni politiche contingenti: a) perché il compito di scriverlo gli era stato affidato nel dicembre del 1947 dal Congresso londinese della Lega dei Comunisti (ex-Lega dei Giusti)[3], in cui militavano da qualche tempo: b) perché – lo spiegò poi Engels nella Prefazione del 1890 al Manifesto – «socialisti» si definivano in quel tempo i seguaci di «vari sistemi utopistici» (Owen e Fourier), e molti «ciarlatani sociali» e riformatori borghesi (tra cui Proudhon), mentre invece con «comunismo» si intendeva il «movimento» reale, le agitazioni e le lotte concrete degli operai[4]. In secondo luogo, per ragioni filosofiche e teoriche: la loro idea di comunismo era stata già da loro elaborata nelle sue linee fondamentali dal 1844 al 1847 in diversi scritti di critica e confutazione del socialismo utopistico e del riformismo borghese. Il loro comunismo, lungi dall’essere «un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi», coincideva col «movimento reale che abolisce lo stato di cose presente»[5].
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Pedagogia hacker trasgredire la norma tecnocratica
Intervista al Collettivo Ippolita
Questi mesi di distanziamento sociale hanno reso evidenti e aggravato molte delle contraddizioni relative alle grandi corporation del web e all’uso e agli effetti delle tecnologie digitali nelle nostre esistenze quotidiane, su cui voi avete scritto in maniera molto lucida negli ultimi anni. Un primo tema su cui vi chiediamo un commento riguarda il ruolo politico, economico, sociale, che hanno giocato e stanno giocando corporation come Amazon, Google, Microsoft, Facebook, Apple, nel periodo del distanziamento sociale e nella gestione sanitaria e sociale della pandemia.
Mentre scriviamo i quotidiani ci dicono che circa 500mila persone hanno scaricato la app Immuni. Interessante notare che a distribuire questa app non sia un sito del Governo che ha finanziato l’operazione, ma gli store di Apple e Google, che sono società private con un fatturato che supera il Pil di molti stati nazione e che hanno delle regole interne spesso in conflitto con quelle delle democrazie occidentali presso le quali nella maggior parte dei casi non pagano le tasse.
Apple e Google, due Big tech, collaborano per la prima volta imponendo delle scelte di decentralizzazione privata sulla distribuzione di un software di Stato dedicato alla salute pubblica. Cosa diranno di ciò i fedayn della decentralizzazione? Per noi questa è la dimostrazione che la decentralizzazione di per sé non è un valore, cioè non è una garanzia di orizzontalità democratica e si sposa benissimo con il liberismo senza regole delle corporation tecnologiche.
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"Venezuela e guerra in Siria sono fondamentali per individuare i pacifinti"
Geraldina Colotti intervista Massimo Zucchetti
Massimo Zucchetti è un ingegnere nucleare italiano che ha al suo attivo una impressionante quantità di pubblicazioni specialistiche, ma anche militanti. Infatti, quando firma i suoi articoli che coniugano la precisione dei dati con una visione radicale e controcorrente rispetto alla subalternità culturale che di solito abita il mondo accademico italiano, si definisce “scienziato, comunista, disordinatore delle narrazioni tossiche del potere”.
* * * *
Che significa, Massimo, questa definizione? Qual è stato il tuo percorso professionale e come si è intrecciato con l’impegno politico?
Mi sono laureato in ingegneria nucleare magna cum laude nel 1986, ma, un mese dopo: ecco il disastro di Chernobyl! Un decennio prima, al liceo, divenni anarchico leggendo “In his own write” di John Lennon: niente Bakunin o Kropotkin, niente laurea in scienze politiche su Marcuse, purtroppo non tutti hanno nobili origini come i Grandi Padri Fondatori della Sinistra Intellettuale. L’abitudine alle discipline tecniche mi ha lasciato il colpo d’occhio e l’intuizione per capire quando dietro una bella narrazione si nasconda il nulla montato a neve, come d’uso nella sinistra, oppure si celino depositi ideali di liquami tossici e fecali, come di norma nel centro-destra-sinistra di governo. Questa specie di talento è un dono di natura e, sebbene io sia ateo, ritengo sarebbe un peccato non metterlo a frutto, un po’ come nella parabola dei talenti, appunto. Da qui discende il mio impegno come anarco-comunista, scienziato contro la guerra, ambientalista. Sono un professore universitario da ormai un trentennio, ma non sono democristiano.
Tu insegni anche in una prestigiosa università statunitense. Come valuti le due esperienze, come funziona negli USA?
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Il popolo in seno alle contraddizioni. Una risposta ad alcune critiche
di Diego Melegari e Fabrizio Capoccetti
A partire dalla pubblicazione dell’articolo scritto per la fionda I «bottegai», l’ultimo argine? Spunti per una politica oltre purismo e subalternità, diverse sono state le reazioni e le letture che hanno dato luogo a un proficuo dibattito, che ci auguriamo possa proseguire e continuare ad avvalersi degli importanti spunti analitici mossi da più parti. Due sono i fronti della critica su cui ci concentreremo, non potendo ritenere validi i rilievi secondo i quali indicheremmo nella piccola borghesia una “nuova classe rivoluzionaria”[i], essendo piuttosto evidente che una tale intenzione non emerge in alcun punto del nostro contributo. Da una parte, abbiamo il fronte costituito da chi ravvisa nella nostra analisi una lettura della fase che non prenderebbe in sufficiente considerazione i rischi insiti nella costruzione di un’alleanza con la piccola e media borghesia, la quale nella futura e imminente gestione della crisi (Recovery fund, Mes, etc.) sarà ancora una volta portata ad ascoltare il “richiamo della foresta” di arricchirsi e distinguersi dai proletari, dal momento che uscire dalla condizione di immiserimento è sempre stata, resta e sarà la sua sola parola d’ordine. Per semplificare e rendere più chiara la nostra esposizione, chiameremo questo fronte il “fronte A”[ii]. Dall’altra, c’è chi osserva nel nostro punto di vista un certo indeterminismo, insito nell’uso della teoria di Ernesto Laclau, che finirebbe per «gettare nel cesso» il materialismo storico e, che pur nella giusta decisione di puntare sulla piccola e media borghesia per la costruzione di un «blocco storico nazional-popolare», vedrebbe nella nostra rivendicazione della sovranità nazionale contro l’UE, non tanto un secondo momento (la teoria dei due tempi), quanto piuttosto un momento secondario rispetto alla centralità assunta dalla conquista socialista dello stato. Chiameremo questo fronte, il “fronte B”[iii].
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Lotte interclassiste: obiettivi ed esiti
Estratti da Le ménage à trois de la lutte des classes
di Bruno Astarian e Robert Ferro
A margine del sostanziale riflusso del movimento sociale negli Stati Uniti, pubblichiamo un altro breve estratto da Le Ménage à trois de la lutte des classes, uscito in Francia nel dicembre 2019, e in fase di traduzione in italiano. Degli Stati Uniti, avremo modo di riparlare in maniera più circostanziata prossimamente. Nel frattempo, per chi volesse procurarsi il volume di cui sopra, ricordiamo che è ormai possibile ordinarlo direttamente sul sito della casa editrice: https://editionsasymetrie.org/ouvrage/le-menage-a-trois-de-la-lutte-des-classes/.
Obiettivi delle lotte interclassiste
Fatta eccezione per i Gilets Jaunes nel momento più alto della loro mobilitazione, nei movimenti interclassisti attuali – tali quali si manifestano attraverso scioperi, manifestazioni e sommosse – la presenza del proletariato è meno evidente di quella della classe media. Lo si è visto in Francia nel 20161 e in molte altre occasioni, che dimostrano come all’interno della lotta interclassista sia la classe media a parlare più forte. Questo vuol dire forse che è essa a menare le danze? No, vuol semplicemente dire che è essa ad avere i mezzi per esprimere il discorso più appropriato al terreno sul quale si colloca la lotta interclassista: quello politico, in cui ci si rivolge allo Stato perché difenda il posto che le due classi occupavano precedentemente nella società capitalistica. Quella interclassista non è una lotta in cui il proletariato giochi un ruolo secondario sottomettendosi agli imperativi della CMS [classe media salariata, NdT]. Il proletariato non rinuncia alla sua posizione specifica. Semplicemente, è impegnato in una lotta rivendicativa e/o riformista. Fino a un certo punto, le sue rivendicazioni sono le stesse della classe media, reclama le stesse riforme. Fin quando si rimane al di qua di questa soglia, la classe media è il portavoce meglio capace di formulare gli obiettivi congiunti delle due classi. Ma quali sono questi obiettivi? Li si può analizzare secondo il ventaglio seguente.
1) Standard generali di riproduzione. Si tratta dei fattori che determinano le condizioni di vita delle due classi in generale (disoccupazione, inflazione etc.). Il problema non riguarda solo il proletariato. Abbiamo visto quale sia stata l’importanza della questione dei disoccupati diplomati durante le Primavere arabe.
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Il Circo Liberale – Dal Ferro arrugginito su Marx (1/3)
di Sergio_LON
“Il Circo Liberale” nasce con l’intento di discutere, criticamente e con un linguaggio tagliente, autori e intellettuali del pensiero liberale. Inauguro la rubrica con una serie di tre articoli su Riccardo Dal Ferro, divulgatore del pensiero liberale su youtube
Introduzione
Vorrei iniziare questo scritto porgendo le scuse ai miei pochi lettori. Avrei infatti voluto inaugurare questa rubrica partendo dalla critica di un autore classico del liberalismo, o che perlomeno sia considerato come una loro punta di diamante (un Popper, per esempio). Ma la mia poca tolleranza per le bestialità mi costringe ad iniziare da un divulgatore. Non solo: mi costringe ad iniziare da un divulgatore che ha una fastidiosissima sindrome della vittima. Nella live apparsa sul canale del Cerbero Podcast infatti, Riccardo Dal Ferro si è prodigato nel tentativo di spiegare il pensiero di Marx. Il risultato è stato analogo a quello che sarebbe accaduto se Adolf Hitler fosse stato chiamato a spiegare biologia: un pasticcio tragicomico. Comico, per la grande quantità di assurdità inanellate una dietro l’altra senza la minima coscienza di starle dicendo; tragico, perché il tipo ha una notevole influenza. Vorrei però spezzare una lancia in favore del leader nazionalsocialista: non avendo Hitler una laurea in biologia, è normale che dica idiozie su quel campo.
Cosa c’entra questo col vittimismo? Nel video, Rick si fa ripetutamente beffe di uno strawman del marxista, secondo cui “solo i marxisti possono parlare di Marx” (ponendolo in analogia con un altro strawman, quello del femminista, secondo cui “solo le donne possono parlare di femminismo”). Il sottotesto retorico è semplice: “povero me, so già che i marxisti che mi criticheranno lo faranno con argomenti stupidi!” Ma io voglio rassicurare il nostro furbacchione, e dirgli, con una carezza, che lui può parlare di ciò che vuole, finché lo fa con buoni argomenti.
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Gli Usa sono fottuti, parola di finanziere
di Claudio Conti
In calce un intervento di Maurizio Novelli
Dare un’occhiata a quel che pensano e scrivono gli “operatori sul mercato” (finanzieri, ossia “investitori professionali”) è sempre molto interessante. Permette infatti di vedere cosa c’è al di sotto dell’oceano di pessima informazione depistante che sgorga dai media mainstream.
Per la terza volta ci ha colpito l’analisi di Maurizio Novelli, del fondo di investimento svizzero Lemanik, che con grande disinvoltura elenca problemi del capitalismo attuale senza troppi giri di parole né rassicurazioni consolanti per i non addetti ai lavori.
Il titolo, anche stavolta su Milano Finanza, è decisamente “acchiappesco”: Perché è il momento di vendere Usa allo scoperto.
Le “vendite allo scoperto” sono una tecnica di mercato finanziario con cui si vendono titoli (azioni, bond statuali o aziendali, prodotti derivati, ecc) che non si possiedono. Come si fa? Ce li si fa “prestare” a termine prefissato, con la garanzia di restituirli al prezzo che avranno a quella scadenza.
Di fatto, una volta avuti li si vende massicciamente al prezzo di oggi, quindi si provoca un’offerta esagerata di quei titoli sul mercato, dunque un abbassamento drastico del loro prezzo in modo da resituirli avendoci guadagnato la differenza tra il prezzo attuale e quello futuro abbassato scientemente.
Speculazione pura, certo, ma dagli effetti molto reali.
Ma perché un finanziere svizzero (di lingua italiana) è pronto a speculare su titoli statunitensi di ogni tipo manco fossero i Cct italiani ai tempi della lira?
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Il gioco tedesco
di Leonardo Mazzei
Ci siamo già occupati della virulenta campagna politico-mediatica a favore del Mes che imperversa ormai da settimane nel nostro Paese. Abbiamo spiegato come la volontà di attivare questo meccanismo niente abbia a che fare con le enormi necessità economiche dell’Italia. Cosa c’è allora dietro a tanta foga, a tante falsità diffuse a piene mani dalle forze sistemiche? Ecco una domanda che può portarci lontano.
Ricapitoliamo anzitutto i termini della questione. Qualora attivato il Mes può fornire all’Italia un prestito pari al 2% del Pil, in soldoni 36 miliardi di euro. La propaganda vorrebbe farci credere che, a differenza di quello “vecchio”, il “nuovo” Mes sia privo di stringenti condizioni, ma – come abbiamo spiegato qui – ciò è falso. Al “nuovo” Mes si accede sì incondizionatamente, ma le regole statutarie di questa trappola ammazza-Stati scatteranno per statuto subito dopo.
Il Mes non è però figlio unico. Esso fa invece parte di un’allegra famigliola di tre pargoli generati dall’oligarchia eurista. Gli altri due fratelli si chiamano Sure e Recovery fund (adesso rinominato dalla fantasiosa anagrafe brussellese come Next generation EU). Secondo la narrazione prevalente delle èlite italiote, i tre fratelli (Mes compreso) sarebbero ormai pura espressione del bene, manifestazione quasi ultra-terrena di una solidarietà europea mai vista né conosciuta finora. Ed anche per i più prudenti, la generosa natura dell’ultimo nato, il Recovery fund, basterebbe comunque a bilanciare il proverbiale cattivo carattere del primogenito. Peccato che sia la solita menzogna, visto che il Recovery fund altro non è che un Mes più grande, dove al posto delle “condizionalità” ci sono le “riforme”. Il che, in linguaggio eurista, se non è zuppa è pan bagnato.
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Anschluss, l'ultima lezione di Vladimiro Giacché
di Leo Essen
È da poco uscita per Diarkos una nuova edizione del fortunato libro di Vladimiro Giacché «Anschluss. L’annessione». Non si tratta di un raffinato esercizio culturale (alla francese), ma di un brutale abbattimento o de-costruzione (Rückbau) di tutti i luoghi comuni sulla Germania.
Il libro racconta la storia di come uno Stato, la RDT o Germania Orientale, orgoglio industriale del blocco sovietico, sia stato annesso alla Germania Occidentale e fatto regredire ad uno stadio preindustriale.
Dopo il passaggio del rullo capitalista, nei grandi centri industriali di Lipsia, Merseburgo, Magdeburgo, Vittimberga, Halle, Bitterfeld, Eggesin erano rimasti in piedi solo la pubblica amministrazione, l’artigianato, il commercio e il turismo.
Come conseguenza dell’annessione tutti i titoli di studio e le carriere apicali, come quelle degli amministratori delegati, dei quadri industriali, dei giudici, dei maestri e dei professori, degli avvocati, eccetera, furono azzerati. Stimati luminari, come il professore universitario Horst Klinkmann, quando non furono arrestati e condannati, furono sbattuti fuori dai loro posti di lavoro. Nemmeno il regime nazista era riuscito a far peggio.
La furia liquidatoria nei confronti della RDT giunse sino al punto di far pagare ai tedeschi orientali non solo i debiti contratti dal regime precedente, ma anche debiti inesistenti.
In una ragioneria impazzita il debito verso i soci di tutte le imprese della RDT, dunque il capitale di rischio, non venne considerato come il pareggio contabile dell’attivo. L’attivo venne assimilato ai rottami ferrosi, mera sopravvenienza di archeologia industriale di valore contabile pari a zero. Mentre il passivo venne assimilato a debiti verso terzi, debiti giustificati contabilmente da insussistenze passive, ovvero da ammanchi di cassa, dovuti a ruberie e distrazioni di fondi.
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Composizione della classe operaia e frammentazione
di Fronte militante per la ricostruzione del partito comunista
Le frammentazioni sono il frutto del lavoro del capitale contro i lavoratori
Nei partiti comunisti della III Internazionale l’analisi delle composizioni di classe era uno strumento metodologico fondamentale, derivante dall’applicazione diretta del materialismo scientifico di Marx e Lenin, propedeutico ad ogni sviluppo analitico di un contesto dentro una fase politica determinata.
La prima esperienza di un tale lavoro, a partire dall’iterazione prassi-teoria-prassi, fu realizzata da Marx ed Engels, con quest’ultimo attore e testimone diretto, intorno alla composizione della classe operaia britannica nella prima metà del secolo XIX. In quel Paese si erano succedute in tempi brevi sia la prima che la seconda rivoluzione industriale, non solo grazie alle invenzioni scientifico-tecniche che le connotarono (telaio meccanico + macchina a vapore), quanto per l’enorme accumulazione primaria che l’impero britannico riusciva a realizzare grazie alle politiche, particolarmente aggressive e piratesche, messe in atto dal suo espansionismo coloniale, a sua volta reso possibile da una marina mercantile imponente, appoggiata da una marina militare tecnologicamente avanzata. Solo la potenza cinese avrebbe potuto, in quel secolo, ma già nel secolo precedente, anticipare quei ritmi e quelle quantità di accumulazione primaria, necessari al salto di paradigma verso una società capitalistica matura. La scelta di politiche puramente mercantili, accompagnata dalla scelta di tecnologie navali che, escludendo le chiglie profonde, avevano limitato le rotte della imponente marina mercantile cinese al solo cabotaggio, avevano bloccato l’evoluzione verso l’applicazione delle tecnologie ad un’economia industriale.
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Salvini, un liberista fuori dal tempo (e dalla Costituzione)
di Thomas Fazi
L’altro giorno, a Piazza del Popolo, Matteo Salvini ha citato per l’ennesima volta uno dei suoi modelli di riferimento, Margaret Thatcher: «Non esiste libertà, se non c’è libertà economica». È uno dei mantra dei neoliberisti. L’idea di fondo è semplice quanto stravagante, ovverossia che i mercati sono fondamentalmente autoregolantesi e dunque che questi, se lasciati a sé, cioè con la minor interferenza possibile da parte dei governi (riassumibile nello slogan “meno tasse, meno burocrazia”), sono in grado di generare automaticamente crescita, stabilità sociale e piena occupazione (purché i lavoratori siano disposti ad accettare qualunque salario venga loro offerto, essendo questo il risultato del “naturale” meccanismo della domanda e dell’offerta).
Peccato che sappiamo almeno dagli Venti-Trenta del secolo scorso che l’economia capitalistica non funziona così: la crisi finanziaria del 1929 e la successiva Grande Depressione dimostrarono non solo che i mercati (in particolare quelli finanziari), se “lasciati a sé” tendono a generare enormi bolle e squilibri che finiscono inevitabilmente per scoppiare, portando giù con sé l’intera economia; ma anche che il mercato, da sé, non è assolutamente in grado di garantire la crescita e la piena occupazione, soprattutto in seguito a una crisi finanziaria, poiché queste sono determinate da quella Keynes chiamò “domanda aggregata”, cioè dalla quantità di beni e servizi complessivamente richiesta dai soggetti economici, che può essere sostenuta solo da un attore “esterno” al mercato – il tanto vituperato governo, ovviamente –, attraverso la politica di bilancio e in particolare la spesa in disavanzo.
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Keynes e la verità del capitalismo
di Salvatore Bravo
La verità del capitalismo nella sua fase imperiale è resa palese dai trattati di pace, i quali non sono che saccheggi in nome della legge del più forte. In tal modo ogni pace non è che la premessa per una futura guerra, ogni pace è già guerra. Il capitalismo imperiale non conosce che la verità della guerra, con la quale non solo consolida le sue strutture e risolve le crisi di sovrapproduzione, ma specialmente con la guerra perenne il capitalismo rende visibile la sua verità: la violenza dell’accaparramento e del saccheggio sono l’epifenomeno dell’illimitato che lo muove, ogni legge razionale e ogni misura sono polverizzate dal movimento onnivoro del capitale.
Il trattato di Versailles (1919) non fu che la continuazione della guerra che l’aveva preceduta. Keynes ne analizza gli effetti e le novità inaudite profetizzando che la violenza della pace sarebbe stata la madre delle future guerre. Nel trattato il popolo tedesco è privato delle sue proprietà private, l’aggressione alle ricchezze private è il vulnus che contribuirà a portare il popolo tedesco verso il nazionalsocialismo. La violenza subita, l’irrazionalità dei provvedimenti, si trasformerà nella tempesta di fuoco che si abbatterà sull’Europa e sul pianeta. I beni dei tedeschi nelle colonie e nei territori persi vengono espropriati a favore degli alleati, in nessun trattato di pace era stata messa in atto l’espropriazione dei beni privati, il diritto internazionale è così calpestato in nome del plusvalore, l’unica vera legge che guida i destini degli stati e dei cittadini è la rapina per legge e per sistema:
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Da Raniero Panzieri alla rete-fabbrica-integrata
Noi, forza-lavoro del padrone Gafam
di Lelio Demichelis
Cambia e continua a mutare – oggi sembrerebbe addirittura smaterializzarsi – la forma della fabbrica. Ma in realtà (e per avere conferma di questa tesi rileggiamo ora il pensiero analitico di Raniero Panzieri, dopo averlo fatto, nelle settimane scorse con quello di Claudio Napoleoni[1]), se sembra cambiare la forma resta invece immutata la norma di funzionamento della fabbrica, cioè: suddividere/individualizzare per poi totalizzare/integrare/connettere ciascuna parte, uomini compresi, in qualcosa di maggiore della semplice somma delle parti prima suddivise.
Una norma appunto sempre uguale, semmai sempre meglio perfezionata, generalizzata e pervasiva/pervadente – applicata all’operaio pre-fordista e poi all’operaio-massa fordista-taylorista come oggi all’operaio massa (o in forma di folla) individualizzato di quella che chiamiamo rete-fabbrica-integrata-globale. Sempre uguale e figlia dell’industrialismo e del positivismo ottocenteschi (e prima ancora, della rivoluzione scientifica), ma soprattutto della totalizzante razionalità strumentale/calcolante che ci domina dall’inizio della rivoluzione industriale al digitale di oggi. Digitale – così come ciò che il neo-operaismo definisce capitalismo cognitivo (Vercellone) o capitalismo bio-cognitivo (Fumagalli: “un concetto del tutto materiale, che nulla ha di etereo o sganciato dalla realtà dei corpi, ma che si incarna proprio nella messa in produzione delle facoltà di vita, dei corpi e della loro trasformazione in parti meccaniche e/o in processi di mercificazione”[2]) – che non rappresenta però un cambio di paradigma e neppure un momento di rottura con il sistema precedente (come pensano i neo-operaisti, ma non solo), ma solo la sua ultima fase evolutiva secondo l’essenza (infra) di tecnica e capitalismo.
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La storia della terza rivoluzione industriale*
5-La nuova povertà di massa
di Robert Kurz
Quinto capitolo della sezione VIII dello Schwarzbuch Kapitalismus (“Il libro nero del capitalismo”) di Robert Kurz
Nel frattempo nessuno dubita più del fatto (ormai incontestabile anche empiricamente) che le avanzate della crisi degli anni Ottanta e Novanta, associate agli effetti della ritirata dello Stato dalle sue responsabilità sociali e della crociata neoliberale, abbiano provocato la peggiore ondata di impoverimento di massa dalla prima fase del XIX secolo. Tutte le residue speranze, risalenti all’epoca fordista delle ex-regioni coloniali, in uno “sviluppo” autonomo nel quadro del mercato mondiale capitalistico si sono volatilizzate. La maggior parte del cosiddetto Terzo mondo è finita completamente in rovina, da ultimo perfino i pochi paesi del Sud-est asiatico, la cui industrializzazione di recupero sembrava avere avuto successo. In paesi come la Corea del Sud, la Thailandia, l’Indonesia o la Malaysia questa spaventosa disillusione, il brusco allontanamento dalla tavola imbandita del consumo da società pienamente industrializzata, poco dopo esservisi accomodati, si è lasciata alle spalle conseguenze traumatiche. Questa esperienza deve essere ancora più spaventosa negli Stati in via di disintegrazione della ex-URSS e in tutta l’Europa Orientale, dove era esistito per decenni un sistema industriale con tutti i crismi nelle forme del capitalismo di Stato, anche se con un livello di consumo inferiore rispetto all’Occidente. In questi paesi, nel giro di pochi anni, gli standard raggiunti in tutti i settori dell’esistenza sono stati completamente spazzati via. Adesso però anche in Occidente intere regioni e settori della popolazione sempre più ampi stanno sperimentando una discesa altrettanto traumatica nella povertà di massa, partendo per giunta da un livello di vita più elevato. Come molti neoliberali, Orio Giarini e Patrick Liedtke, gli autori del più recente rapporto del “Club di Roma”, riconoscono la crescente povertà di massa globale e la contraddittoria esistenza di una quantità immensa di risorse con parole asciutte:
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Il virus dell'occidente
di Stefano G. Azzarà
Stefano G. Azzarà: Il virus dell'Occidente. Universalismo astratto e sovranismo particolarista di fronte allo stato d'eccezione, mimesis, 2020
La pandemia ha fatto emergere le contraddizioni delle società capitalistiche - stremate da decenni di politiche neoliberali all’insegna della guerra ai salari e ai diritti delle classi subalterne, delle privatizzazioni, della deregulation e dello smantellamento del Welfare - che le hanno rese sempre più disuguali. Incapace di immaginare un modello di società diverso e certo della propria eternità, l’Occidente ha creduto che il “virus cinese” colpisse solo i paesi arretrati o ritenuti autoritari e che mai potesse diffondersi nelle efficienti e trasparenti società liberali. Invece di prendere sul serio l’esperienza di altre realtà che hanno gestito meglio l’emergenza grazie alla capacità dello Stato e della politica di guidare l’economia e la produzione subordinando gli interessi privati a quelli della maggioranza, ha negato loro ogni riconoscimento, fino a procurarsi da solo un rischio estremo per eccesso di hybris. A questa incapacità suicida di aprirsi all’altro non è sfuggito il dibattito filosofico: sia le posizioni dirittumaniste astratte ispirate al liberalismo universalista, sia il sovranismo particolarista e populista – che del liberalismo rappresenta non l’alternativa ma una scissione conservatrice – condividono infatti di fronte allo stato d’eccezione il suprematismo occidentale, con il rifiuto di elaborare un universalismo concreto e di pensare una diversa configurazione del rapporto tra individuo, società civile e Stato ma anche dei rapporti tra le nazioni.
“Proprio il mancato riconoscimento dell’altro… ha impedito il riconoscimento della realtà stessa; impedendo al contempo di prendere le necessarie precauzioni ed esponendo l’Occidente a un rischio autoprocurato per eccesso di sicurezza e per presunzione di civiltà: in una parola, per hybris”.
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