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Soggettivazioni
di Federico Chicchi
Il soggetto come estimità del capitale
Non è per nulla facile costruire una riflessione sistematica sul soggetto. La soggettività è un concetto teorico a dir poco scivoloso, che scappa da tutte le parti quando provi a includerla in paradigma interpretativo.
Il soggetto (come la sua etimologia mostra chiaramente) è al contempo il risultato della presa dell’ordine simbolico sul bios, dell’azione del potere sull’individuo, e al contempo quell’elemento che rende strutturalmente insaturo quello stesso ordine e che bucandolo lo costringe ad un processo dinamico di continua trasformazione. Il capitalismo non è un cristallo.
Il soggetto è in altre parole l’esito dei dispositivi che lo attualizzano e al contempo, osservando il processo di soggettivazione a rovescio, ciò che facendo resistenza a essi costituisce un punto d’inassimilabilità al discorso capitalista. In questo senso possiamo dire che il capitalismo “si nutre” di soggettività ma al contempo deve continuamente “risolvere” il problema di come rendere, quest’ultima, adatta ai suoi processi di accumulazione.
Anche per questo motivo può essere molto utile (se non addirittura necessario) provare a osservare la soggettività sul piano del suo processo di costituzione, (che in fondo è ciò che lo rende consistente fenomenologicamente) e parlare cioè di soggettivazioni piuttosto che di soggetto/i.
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Il disagio della democrazia
di Stefano Petrucciani
È da qualche giorno presente sugli scaffali delle librerie il nuovo libro di Stefano Petrucciani, Democrazia (Einaudi). Quella che qui vi forniamo è un’anticipazione del testo, che l’autore ci ha gentilmente concesso di pubblicare, con numerosi riferimenti al contenuto della discussione fra Urbinati e McCormick che stiamo ospitando in questo periodo sul “Rasoio di Occam”
Un ragionamento sullo stato di salute della democrazia oggi[1] non può che partire da un incontestato dato di fatto: il tasso di credibilità ovvero la fiducia che i cittadini nutrono nelle istituzioni tradizionali della democrazia rappresentativa scende di anno in anno sempre più basso[2]. Alla questione sono stati dedicati, nell’ultimo quindicennio, molti studi politologi anche empirici[3], e oggi si può dire che essa sia esplosa in tutta la sua forza e la sua drammaticità. La sfiducia, lo scontento, il disagio, sono messi in evidenza dai più attenti politologi (mi riferisco rispettivamente a Rosanvallon, Mastropaolo, Galli[4]); ma non ce ne sarebbe bisogno, perché il fenomeno risulta ormai del tutto evidente e manifesto. E non si tratta, giova precisarlo, solo di una questione italiana: anche se da noi la crisi è certamente più acuta, essa è da molto tempo oggetto di studi ad ampio spettro che indagano panorami internazionali.
Più che constatare questa crisi si dovrebbe dunque cercare di comprenderne le motivazioni: se la gente ha sempre meno interesse verso i partiti e le elezioni, se ha sempre meno fiducia nei suoi rappresentanti, delle ragioni ci devono pur essere; e dunque è necessario cercare di indagarle[5]. La mia convinzione è che la crisi di fiducia sia ben motivata: che risponda cioè a una effettiva situazione critica della democrazia contemporanea, almeno in Italia e in Europa; dal mio punto di vista si tratta dunque di capire quali mutazioni o quali processi involutivi siano all’origine della insofferenza o del rifiuto che i cittadini manifestano nei confronti delle istituzioni o delle pratiche della democrazia rappresentativa come si è venuta articolando da qualche lustro a questa parte.
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ClashCityWorker e il balzo di tigre (da fare)
CortoCircuito Firenze
Ancora una recensione, più che meritata, del libro "Dove sono i nostri?", redatto dal collettivo di ClashCityWorkers. Il merito, lo ripetiamo per i sordi, sta nel guardare i processi reali per arrivare a definire anche quelli della "soggettività trasformatrice". Il contrario di quanto proposto rumorosamente - in mancanza di numeri adeguati - da chi ascolta se stesso (e poco altro) sperando che il mondo risponda positivamente.
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Non pensiamo sia eccessivo, riferendosi al testo Dove sono i nostri dei Clash City Workers, parlare del primo, organico, e soprattutto riuscito tentativo di allontanamento dall’auto-inflittosi “Medioevo” politico di quella che un tempo era giornalisticamente considerata la sinistra extra-istituzionale. Per la prima volta infatti, la forza dei numeri si sostituisce al balbettio del senso comune, la consapevolezza di dover giungere ad un’attenta ponderazione su cosa concentrarsi alla tendenza ad aumentare “smaniosamente le iniziative, gettandosi su ogni cosa che si muove” (pag. 10). Per comprendere però con maggiore chiarezza lo straordinario valore teorico del lavoro dei Clash, permetteteci un lungo salto indietro al 1936, anno di elezioni presidenziali negli Stati Uniti.
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Il programma di Tsipras
Ovvero come fare concorrenza a George Romero
di Paolo Giussani
Nell’immondo bordello in cui l’Europa è precipitata si sentiva proprio il bisogno di altre anime belle, di qualcuno candido e ingenuo, che portasse sulla scena un po’ di calore umano e di spirito da educanda. Ed ecco venire in soccorso la lista Tsipras per le elezioni europee, nella quale i pii desideri si mescolano mirabilmente con l’ignoranza delle cose del mondo e con un dolce spirito da agnello sacrificale, differente da quello di una certa parte dei popoli di oggi, certo sempre volti al sacrificio ma più come recalcitranti pecore nevrotizzate.
Il programma di Tsipras, diffuso anche in milioni di volantini distribuiti nelle abitazioni, si compone di dieci punti, tutti di carattere economico. Una solenne novità, questa, perché sino all’altro ieri molti dei sinistri e dei loro intellettuali “di massa” minimizzavano le faccende economiche nascondendole dietro quelle politiche, sia perché di cose economiche normalmente non capiscono nulla sia perché la cosiddetta politica offre l’illusione di maggiore libertà di movimento e quindi di leaderismo.
Sviluppo e Austerity
Anche se la successione dei dieci punti non segue un ordine logico cerchiamo di seguirlo noi in modo da cercare di avere un quadro coerente. Il primo punto riguarda l’austerity:
“1. L’Austerità è una medicina nociva somministrata al momento sbagliato con devastanti conseguenze per la coesione della società, per la democrazia e per il futuro dell’Europa.”
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I tabù della sinistra radicale
di Spartaco A. Puttini
Note sulla posta in gioco, a margine di una recensione
Aurélien Bernier, di Attac France, ha da poco pubblicato il suo libro sui tabù della sinistra radicale: La gauche radicale et ses tabous: pourquoi le Front de Gauche échoue face au Front national. Il libro non è stato ancora tradotto in italiano, forse non lo sarà mai. Appare per certi versi troppo legato alla dimensione politica transalpina per poter sperare di rompere la coltre di provincialismo che interessa la politica nostrana. Eppure parla anche a noi. Per questo vale la pena soffermarsi sul testo e sui suoi rilievi, perché può arrecare alcuni elementi di giudizio e riflessione anche alla sinistra italiana, che mai come ora procede a tentoni, a fari spenti nella nebbia.
Tratta dell’ascesa del Front national, del suo sfondamento nelle classi popolari e della modifica di indirizzo che, almeno apparentemente, ha impresso la nuova leadership di Marine Le Pen. Ma il soggetto vero dell’analisi e della ricostruzione di Bernier è la sinistra radicale francese. Con la sua ambizione di contenere l’estrema destra e intercettare il malcontento verso le politiche euro-liberali praticate dai socialisti e dagli esponenti della destra ex-gollista convertita al neoliberismo.
Bernier ricostruisce le varie fasi in cui, dal 1984 ad oggi, l’elettorato comunista e apparentato si è assottigliato, specie a seguito della mutation, il processo di allontanamento dalle proprie radici ideologiche e di cultura politica, mentre parallelamente cresceva la fiamma lepenista.
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N\Euro-fobia
(estratto di un articolo in uscita sul no.147 della Contraddizione)
origini della questione
Introduzione al 1° gennaio 2002 della moneta unica coincide con una evidente impennata dei prezzi (“1000 lire sono come 1 €”). Il ministro dell’economia Tremonti (governo Berlusconi 2) attribuisce l’aumento dei prezzi alla mutata attitudine psicologica dei consumatori; secondo il ministro Trecarte, il problema consisteva nel fatto che i “cònzumatori” italiani non avendo adeguata confidenza con monete dotate di un valore così alto (1 € e 2 €), le sperperavano impoverendosi “a loro insaputa”. Per ovviare a ciò, propone l’introduzione dell’euro di carta (la proposta resta inevasa anche a livello europeo).
euro-fobia moderna
Bibliografia: “Il tramonto dell’Euro” (A.Bagnai, 2012), criticato da alcuni per cui la sua prospettiva culturale sarebbe “populista, nazionalista, socialista” ma divenuto punto di riferimento imprescindibile per parte della sinistra sedicente antagonista.
Tesi principale: il problema dell’euro è che l’adozione di una valuta unica a livello europeo permette un trasferimento di risorse dai paesi del sud Europa alla Germania. L’adozione dell’euro ha privato lo stato italiano di uno strumento, a suo dire, fondamentale, ossia quello della cosiddetta svalutazione competitiva che molti anni ha permesso di deprezzare la lira; quindi l’Italia non può adottare una manovra sul tasso di cambio per stimolare la vendita delle merci locali all’estero, migliorando così il saldo della bilancia commerciale.
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L’errore filosofico della decrescita
Antonio Allegra
Sostenere la «qualità» contro la quantità significa proprio solo questo: mantenere intatte determinate condizioni di vita sociale in cui alcuni sono pura quantità, altri qualità.
(Antonio Gramsci, Quaderno 10)
Il libro di Giovanni Mazzetti, dal titolo Critica della decrescita, Edizioni Punto Rosso 2014, benché sia stato scritto da un economista, porta a segno una critica al progetto politico della decrescita che non ricorre ad argomentazioni economiche ma filosofiche. Per essere più precisi, quella di Mazzetti si presenta come una «critica alla prospettiva culturale» dei sostenitori della decrescita (Latouche, Pallante), mettendone in evidenza contraddizioni oggettive e soggettive (intendendo con le prime quelle che sorgono dal confronto con la realtà storica, con le seconde quelle che sorgono dall’interno delle tesi di tale prospettiva). A nostro avviso le prime sono più importanti delle seconde, anche perché sono quelle quantitativamente e qualitativamente più consistenti.
La prima osservazione è di natura metodologica. Poiché, secondo la definizione datane dai suoi sostenitori, la decrescita non è una teoria ma un progetto politico che intende modificare una realtà, Mazzetti sostiene che, per capire cosa sia necessario fare e come cambiare tale realtà, occorre «verificare se, grazie al proprio sistema di orientamento, si è realmente in grado di individuare correttamente dove ci si trova e come [vi] si è giunti». Insomma, siamo sicuri di capire con le nostre categorie interpretative la realtà su cui si vuole intervenire politicamente?
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L’inchiesta come stile di militanza
In ricordo di Vittorio Rieser
Questa notte è venuto a mancare Vittorio Rieser, compagno e militante fin dagli anni ’50 impegnato nei processi di studio e organizzazione della lotta di classe, in particolare nella sua Torino. Vittorio è stato una figura importante dei Quaderni Rossi, straordinario laboratorio di formazione politica ed elaborazione militante per un’intera generazione: a cominciare da allora ha cominciato la pratica dell’inchiesta operaia, uno stile che avrebbe portato avanti per tutta la vita. La storia di Vittorio è dentro una storia collettiva, che ha assunto percorsi differenti ma ha una radice comune: l’irriducibile scelta e parzialità del punto di vista. Per questo motivo vogliamo ricordarlo con un’intervista uscita nel volume sull’operaismo Futuro anteriore. Dai «Quaderni Rossi» ai movimenti globali: ricchezza e limiti dell’operaismo italiano. Per dire ancora una volta con Fortini che “chi ha compagni non morirà”.
* * * * *
INTERVISTA A VITTORIO RIESER – 3 OTTOBRE 2001
Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale e quali le eventuali figure di riferimento nell’ambito di tale percorso?
Il fatto di essere arrivato presto alla politica è legato anche alle mie origini famigliari: i miei genitori erano antifascisti, tutti e due hanno avuto periodi più o meno lunghi di militanza comunista. Mia madre è stata in carcere un anno, condannata dal Tribunale Speciale perché era responsabile del Partito Comunista clandestino a Grosseto; mio padre era un ebreo polacco comunista che ha fatto per alcuni anni il rivoluzionario di professione, poi si è rifugiato in Italia perché in Polonia era colpito da mandato di cattura.
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Manifesto per un’Europa egualitaria
di Karl Heinz Roth e Zissis Papadimitriou
Pubblichiamo qui un’anticipazione dal «Manifesto» di Roth e Papadimitriou, in libreria da oggi per DeriveApprodi.Alla vigilia delle elezioni europee un manifesto per il futuro dell’Europa
La situazione attuale
L’Europa si sta impoverendo. I poteri forti stanno trascinando le classi lavoratrici verso la rovina. Sono gli agenti di un sistema definito dai principi del massimo profitto e della concorrenza. Un sistema instabile che puo sopravvivere soltanto finché continuerà a espandersi in maniera spasmodica: in pochi continueranno ad arricchirsi ricorrendo alla progressiva espropriazione, allo sfruttamento e all’immiserimento della maggioranza. Questa dinamica rischia di subire una battuta d’arresto a causa del crollo dei profitti, per questo le classi dominanti corrono ai ripari per mantenere ben salde le disuguaglianze e accelerare lo sfruttamento selvaggio delle risorse naturali.
Le loro strategie più rilevanti al riguardo sono l’accrescimento e la stabilizzazione delle riserve economiche, il consolidamento dei processi di produzione, la riduzione dei salari e la privatizzazione dei beni pubblici e dei servizi sociali, cosi come l’introduzione di un sistema creditizio piu restrittivo. Il risultato saranno fenomeni complessi di precarizzazione e di impoverimento di massa. Le classi subalterne si vedranno deprivate dei loro fondamentali diritti all’esistenza e saranno costrette a sopportare la pressione di una disoccupazione sempre crescente, di insicurezza sociale e rapporti di lavoro sempre piu malpagati e limitati nel tempo.
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Chi di precarietà ferisce
Davide Gallo Lassere intervista Andrea Fumagalli
DGL: Dal pacchetto Treu fino al Jobs Act di Renzi, passando per la Riforma Fornero, negli ultimi anni in Italia si è assistito a una progressiva precarizzazione del mondo del lavoro. Nei tuoi interventi parli spesso di “trappola della precarizzazione”. Che cosa intendi con questa espressione?
AF: Nel capitalismo contemporaneo, la precarietà si presenta come condizione generalizzata e strutturale, oltre che esistenziale. È qui che entra in campo il concetto di trappola della precarietà la cui concettualizzazione non è però uniforme. Una prima definizione si riferisce a una sorta di circolo vizioso, che impedisce agli individui di liberarsi dalla loro condizione precaria perché cercare un lavoro stabile costa troppo. Vivere in condizioni precarie significa sostenere i cosiddetti costi di transazione, che incidono pesantemente sul reddito disponibile: stiamo parlando del tempo necessario per compilare una domanda di lavoro, della perdita del lavoro temporaneo e della ricerca di un nuovo impiego, dei tempi e dei costi di apprendimento che il nuovo lavoro richiede.
Un’altra definizione più ampia ha a che fare con la constatazione che vivere una condizione precaria implica sostenere in modo individuale il peso dell’insicurezza sociale e del rischio che vi è connesso. Da questo punto di vista, la trappola della precarietà è il risultato della mancanza di un’adeguata politica di sicurezza sociale e può essere considerata come un fenomeno congiunturale. In alcune recenti analisi, partendo dal fatto che la precarietà è più diffusa nei servizi avanzati e nelle industrie creative, si sostiene che un intervento di politica economica in tali settori potrebbe risolvere la situazione.
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L’uso e la norma
di Augusto Illuminati
Il ciclo dedicato dalla Lum dedicato all’uso ha già fornito una messe di problemi e suggerimenti di grande interesse, di cui è apparsa subito chiara la connessione con i punti ciechi non solo della teoria ma anche della prassi politica in cui siamo coinvolti. Uso e istituzione da un lato hanno a che fare, come alternativa, con un’ontologia della trascendenza, dall’altro investono in diretta l’ideologia della legittimità, insomma se questo sia il solo mondo possibile, cui al massimo opporre un altro mondo speculare fondato sull’inversione di tutti i valori e le pratiche. L’uso, invece, ci è sembrato fertile per tracciare un sentiero fra i due poli astratti di un potere sempre ineludibile e malvagio e l’assenza di potere o la rinuncia ad esso, fra qualsiasi arché (comando, principio, effettualità egemonica) e an-archia.
La discussione negli incontri della Lum è stata ampia e partecipata, con una considerevole affluenza di pubblico che ha toccato il culmine in occasione della molto attesa relazione di Giorgio Agamben. La sua fascinosa e controvertibile conferenza si è conclusa con una battuta contro le regole in generale (neppure le leggi statuali, ma ogni forma di norma), con una domanda provocatoria sull’amore per le norme che caratterizzerebbe troppi che si pretendono rivoluzionari e restano prigionieri dell’illusione dell’operatività, della potenza-di, senza aprirsi all’efficacia destituente della potenza-di-non, dell’onnivalenza del Qualunque disgiunto strutturalmente da ogni forma di stato o diritto.
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Euro, quelli che ‘se ne usciamo ci sarà la corsa agli sportelli’ (Diritto di replica)
di Alberto Bagnai
Siamo al redde rationem.
Mentre gli oligarchi, quelli per i quali i suicidi provocati dalla crisi sono “l’emersione di una contraddizione tale da aprire la strada a un progetto costituente europeo”, se ne stanno ben rinchiusi e defilati nei loro bunker, nelle strade, casa per casa, lotta un’improbabile armata Brancaleone di bambini soldato, mandati allo sbaraglio con argomenti tanto insulsi quanto terroristici. Fra questi, come spesso accade, il più convincente ad occhi inesperti è anche il più ridicolo agli occhi del professionista. Ma se il pubblico non coglie immediatamente il ridicolo, la colpa non è certo sua: la colpa è di un sistema dell’informazione volto da trent’anni a distorcere i più elementari fatti economici. Per ripristinare un minimo di buon senso, però, basta poco, come spero di chiarirvi se avrete la pazienza di leggermi.
Dunque: li avete mai sentiti quelli che raccontano che se si uscisse la nuova lira si svaluterebbe, e quindi, nell’imminenza di questa prospettiva, ci sarebbe una fuga di capitali all’estero, preceduta da una corsa agli sportelli (che gli espertoni chiamano bank run)? La conclusione dei nostri economisti improvvisati è che privando di liquidità il sistema economico italiano, questo fenomeno condurrebbe rapidamente l’Italia al collasso.
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Ancora sul ceto politico
di Marino Badiale
Continuo il discorso sul ceto politico, iniziato in un paio di post di qualche tempo fa (questo e questo) che avevano suscitato un po' di dibattito fra i nostri lettori. Poiché alcuni passaggi di quei post erano forse un po' stringati, provo adesso ad argomentare le mie tesi in modo più disteso, cercando di inserirle nelle riflessioni che vado facendo da tempo.
Tempo addietro, in una serie di lavori scritti assieme a Massimo Bontempelli, (per esempio questo e questo) avevamo introdotto la nozione di “capitalismo assoluto”, con la quale cercavamo di esprimere quello che ci sembrava uno degli aspetti più significativi dell'attuale organizzazione sociale ed economica, il fatto cioè che negli ultimi decenni la logica capitalistica del profitto si è estesa all'intero ambito sociale. Riporto un passaggio tratto da “La Sinistra rivelata”, che sintetizza questi concetti:
“Si tratta della completa pervasività sociale del capitalismo storico (…) ogni aspetto della società umana, compresi i corpi biologici degli individui e i caratteri della loro personalità, viene sussunto sotto il capitale come materia della produzione capitalistica (…). Chiamiamo capitalismo assoluto il capitalismo storico che è penetrato in ogni poro e in ogni profondità della vita umana associata. Esso è assoluto perché la sua logica di funzionamento regge completamente ogni ambito della vita, senza più lasciare alcuna autonomia di scopi e di regole ad altre istituzioni. L'azienda, cioè l'istituzione che promuove la produzione e la circolazione della merci in funzione del profitto, diventa allora non più soltanto la cellula del sistema economico, ma l'alfa e l'omega della società, perché la società è diventata una società di mercato, in cui ogni bene pubblico è stato convertito in bene privato, e ogni bene privato in merce. Di conseguenza ogni istituzione viene concepita come azienda, persino l'ospedale, persino la scuola, e persino l'intero paese, che non è più nazione, ma azienda, l' “azienda-Italia”.
(M.Badiale-M.Bontempelli, La sinistra rivelata, Massari editore, pagg.171-172)”
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La violenza invisibile
Isidoro Strano
Leggere un’opera di Slavoj Žižek è sempre piacevole, anche quando l’argomento trattato non lo è affatto. La violenza invisibile non fa eccezione: in questo libro, il filosofo sloveno analizza il fenomeno della violenza con “sguardo obliquo”, diremmo quasi ambiguo. Perché mai una questione così importante deve essere aggirata? Questo procedere circospetto non equivale forse ad un non cor-rispondere all’ingiunzione che ci intima di “far qualcosa”, subitaneamente, contro la violenza?
Questo è dunque il punto di partenza: occorre mantenere una distanza di sicurezza dall’orrore straziante provocato dalla violenza, poiché è proprio questo orrore a causare lo shock che blocca, mette fuori uso le nostre facoltà mentali. È a partire da queste premesse che Žižek si appresta ad affrontare l’imponente tema che ha ossessionato i pensatori di tutte le epoche. I capitoli, come sei sguardi “obliqui” gettati intorno alla violenza, costituiscono le traiettorie mobili attraverso cui l’autore, orbitando intorno a quella sorta di buco nero che ci impedisce di uscir fuori dal suo campo gravitazionale, cerca di cogliere gli aspetti inediti, spesso taciuti, travisati, fraintesi della violenza. Noi sfrutteremo solo alcune traiettorie.
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Uscire o no dall’euro: gli effetti sui salari
Emiliano Brancaccio* e Nadia Garbellini**
Uno studio sugli effetti salariali e distributivi della permanenza o dell’uscita dall’euro. Il pericolo di una “grande inflazione” in caso di uscita, evocato da Draghi, non trova riscontri adeguati. Ma anche l’opinione secondo cui gli effetti salariali e distributivi di un abbandono dell’euro non dovrebbero destare preoccupazioni è smentita dalle evidenze empiriche. Se si vuole salvaguardare il lavoro, la critica della moneta unica deve essere accompagnata da una critica del mercato unico europeo.
Negli ultimi cinque anni la Germania ha conseguito una crescita del Pil di quasi tre punti percentuali, a fronte di una caduta superiore ai sette punti in Italia. Si tratta di una divaricazione che non ha precedenti dal secondo dopoguerra. Giovedì scorso, gelando gli ottimisti al governo, Eurostat ha confermato la tendenza: confrontando il Pil del primo trimestre 2014 rispetto allo stesso trimestre dell’anno precedente, si rileva una crescita superiore ai due punti percentuali in Germania e una ulteriore diminuzione di mezzo punto in Italia.[1] Semmai ve ne fosse stato bisogno, siamo di fronte all’ennesima conferma del “monito degli economisti” pubblicato sul Financial Times nel settembre scorso: le politiche di austerity e di flessibilità del lavoro non riescono a ridurre le divergenze tra i paesi membri dell’Eurozona, ma per certi versi tendono persino ad accentuarle.[2]
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Sulla difficoltà di leggere
Giorgio Agamben
Il testo che proponiamo qui è tratto dalla raccolta di saggi di Giorgio Agamben Il fuoco e il racconto, che la casa editrice Nottetempo manda in libreria venerdì 16 maggio. Si tratta della trascrizione, finora inedita, dell’intervento presentato alla tavola rotonda Leggere è un rischio durante la Fiera della piccola e media editoria di Roma, nel dicembre 2012.
Vorrei parlarvi non della lettura e dei rischi che essa comporta, ma di un rischio che è ancora piú a monte, cioè della difficoltà o dell’impossibilità di leggere; vorrei provare a parlarvi non della lettura, ma dell’illeggibilità.
Ciascuno di voi avrà fatto esperienza di quei momenti in cui vorremmo leggere, ma non ci riusciamo, in cui ci ostiniamo a sfogliare le pagine di un libro, ma esso ci cade letteralmente dalle mani. Nei trattati sulla vita dei monaci, questo era anzi il rischio per eccellenza cui il monaco soccombeva: l’accidia, il demone meridiano, la tentazione piú terribile che minaccia gli homines religiosi si manifesta innanzitutto nell’impossibilità di leggere.
Ecco la descrizione che ne dà san Nilo: Quando il monaco accidioso prova a leggere, s’interrompe inquieto e, un minuto dopo, scivola nel sonno; si sfrega la faccia con le mani, distende le dita e va avanti a leggere per qualche riga, ribalbettando la fine di ogni parola che legge; e, intanto, si riempie la testa con calcoli oziosi, conta il numero delle pagine che gli rimangono da leggere e i fogli dei quaderni e gli vengono in odio le lettere e le belle miniature che ha davanti agli occhi finché, da ultimo, richiude il libro e lo usa come un cuscino per la sua testa, cadendo in un sonno breve e profondo.
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Le elezioni europee e il treno di Lenin
di Sandro Moiso
“Era necessario che la Italia si riducessi nel termine che ell’è di presente, e che la fussi più stiava che li Ebrei, più serva ch’e’ Persi, più dispersa che li Ateniensi, sanza capo, sanza ordine; battuta, spogliata, lacera, corsa, et avessi sopportato d’ogni sorte ruina.[...] In modo che, rimasa sanza vita, espetta qual possa esser quello che sani le sue ferite, e ponga fine a’ sacchi di Lombardia, alle taglie del Reame e di Toscana, e la guarisca di quelle sue piaghe già per lungo tempo infistolite. Vedesi come la prega Dio, che le mandi qualcuno che la redima da queste crudeltà et insolenzie barbare. Vedesi ancora tutta pronta e disposta a seguire una bandiera, pur che ci sia uno che la pigli.” (Niccolò Machiavelli – Il Principe – cap.XXVI)
Machiavelli era, per il suo tempo, un autentico rivoluzionario, anche se Renzi non l’ha ancora capito poiché ogni tanto lo cita a vanvera come quei cattivi studenti che sparano cazzate sperando di salvarsi in corner dall’insufficienza grave, citando luoghi comuni per sentito dire (spesso neanche in classe, ma al bar). Nel disastro il fiorentino doc sapeva, infatti, intravedere la possibilità della ripresa della lotta e della vittoria anche se oggi qualcuno allevato alla scuola del pensiero positivo di Jovanottiana memoria vedrebbe sicuramente in lui uno sfascista.
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Valore d’uso
di Sandro Mezzadra
1. “Il movimento del valore d’uso”. Così, in un articolo pubblicato sul primo numero di “Metropoli” (Prima pagano, meglio è), Franco Piperno definiva i comportamenti sociali che avevano violentemente acquisito visibilità e forza attorno al ’77: “queste nuove forme di vita che pretendono di usare tutta la ricchezza disponibile e intendono lavorare solo quando attività e bisogno coincidono”. Era il 1979, era passato da poco aprile, e Piperno scommetteva sulla continua moltiplicazione ed espansione di una “domanda selvaggia di una vita quotidiana degna di essere vissuta”, a un tempo esito e motore del lungo Sessantotto italiano. Si cercherebbe invano nell’articolo di Piperno una “teoria” del valore d’uso, ma il riferimento alla categoria è di per sé significativo. Anche al di fuori dell’Italia, negli anni Sessanta e Settanta, non erano mancati usi originali del concetto di valore d’uso (se mi si passa il bisticcio). Ne menziono soltanto uno, in qualche modo suggerito dal riferimento alla “vita quotidiana” da parte di Piperno. Henri Lefebvre costruì interamente la sua teoria dell’urbano attorno alla connessione tra uso, valore d’uso e “opera”, distinguendo quest’ultima dal “prodotto”, legato a doppio filo al valore di scambio.
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Caccia all’ultrà! Tifo, violenza e carogne*
di Fabio Milazzo
«Sono stati invece gli stessi buoni, vale a dire i nobili, i potenti, gli uomini di condizione superiore e di elevato sentire ad avere avvertito e determinato se stessi e le loro azioni come buoni, cioè di prim’ordine, e in contrasto a tutto quanto è ignobile e d’ignobile sentire, volgare e plebeo».
Friedrich Nietzsche, La Genealogia della morale.
«Se il pensiero si liberasse dal senso comune e non volesse più pensare se non alla punta estrema della propria singolarità? Se, anziché ammettere benevolmente la propria cittadinanza nella doxa, praticasse malvagiamente la scappatoia del paradosso? Se anziché ricercare il comune sotto la differenza, pensasse differenzialmente la differenza? Il pensiero allora non sarebbe più un carattere relativamente più generale che manipola la generalità del concetto, ma sarebbe – pensiero differente e pensiero della differenza – un puro avvenimento; quanto alla ripetizione, essa non sarebbe più il triste avvicendarsi dell’identico, ma differenza spostata».
Michel Foucault,Theatrum Philosophicum
Il godimento nel senso.
«Ultrà, hooligans, tifosi, fans, supporter: una selva intricata di termini, un coacervo fobico di vecchi e di nuovi significati in cui allignano sovrane le gramigne del Moral Panic e dell’approssimazione linguistica» (Marchi 2004, p. 189). Questo l’incipit di uno dei saggi che Valerio Marchi, il sociologo ultrà della Roma prematuramente scomparso nel 2006, ha dedicato all’universo del conflitto giovanile nelle sue diverse declinazioni. Questi contributi -che spaziavano dagli «skinheads» (Marchi 1997) alla galassia della destra radicale in Europa-, andrebbero riletti, nella loro inattualità, per dribblare le secche costituite dai qualunquismi dei tanti benpensanti che urlano la loro sdegnata opinione su di un mondo che non conoscono.
Un universo misterioso, quello delle controculture, come è emerso in occasione dei tragici avvenimenti che hanno preceduto e fatto da contorno alla finale di Coppa Italia del 3 Maggio 2014 tra la Fiorentina e il Napoli.
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La Renzeconomics alla prova dei fatti
di Alfonso Gianni
In un libriccino assai denso di un paio di anni fa, dedicato a Edoarda Masi e Lucio Magri, scomparsi in quel periodo, (1) Riccardo Bellofiore tornava su uno dei suoi temi preferiti, la definizione di “social-liberismo” con queste parole su cui vale la pena di riflettere: “Il social-liberismo è, per certi aspetti, una impostazione ben più liberista del neoliberismo. Lo è, per esempio, nella sua mitologia della concorrenza come regolatore dei monopoli, per quel che riguarda i mercati dei beni e dei servizi. E si è mostrato ben più affezionato agli equilibri del bilancio pubblico – per ragioni certo discutibili, ma meno banali di quelle che gli sono state spesso attribuite dalla sinistra. Ha, d’altro canto, una sua anima sociale, il social-liberismo. Vorrebbe piegare la globalizzazione e la finanza regolate ad una qualche redistribuzione universalistica. Peccato che quella redistribuzione regolarmente svanisca all’orizzonte quando si arriva al governo, per l’ossessione di ripristinare gli equilibri del bilancio pubblico, che sono stati appunto mandati in rosso dai neoliberisti. Così, quando si va al governo la redistribuzione scompare dall’agenda, rimangono i tagli e le politiche di flessibilizzazione e ci si avvita in un ciclo economico e politico sempre più perverso, sino ad una soglia di non ritorno. Per questo, paradossalmente, l’anima sociale del social-liberismo finisce con l’essere più dannosa della sua anima liberista. Che vuole liberalizzare per riregolamentare”.
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Esercizi di retorica sul debito pubblico
di Maurizio Sgroi
La leggenda della sostenibilità
Sempre perché è bene sapere ciò di cui si parla, quando parliamo di economia nel nostro tempo, è utile continuare a svolgere i nostri esercizi di retorica dedicando qualche ora all’analisi di uno degli strumenti più rilevanti tramite i quali si decidono i nostri destini: l’indice di sostenibilità del debito pubblico.
Come gran parte di questi indicatori, anche l’indice di sostenibilità, che pure contribuisce a stringere il laccio attorno alla nostra economia, è materia riservata agli addetti ai lavori, segnalandosi per la sua particolare astrusità e la fumosità delle sue premesse metodologiche, che spinge pure gli specialisti a considerarlo quantomeno approssimativo.
Ciò malgrado, l’indice, nelle sue varie versioni, fa bella mostra di sé in tutti i rapporti che parlano dello stato di salute della nostra finanza pubblica, a cominciare da quello della Banca d’Italia dedicato alla stabilità finanziaria e a finire dai vari documenti di previsione del governo.
Non a caso. Per chi ha un debito pubblico alto come il nostro, un indice che questioni circa la sua sostenibilità mette di sicuro in affanno i nostri collocamenti di bond statali. Perciò, imperfetto o meno che sia, l’indice diventa un importante punto di riferimento per gli asset manager che decidono cosa comprare, nel meraviglioso mercato finanziario.
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Sulla democrazia machiavelliana di McCormick
Perché il populismo può essere democratico
di Lorenzo Del Savio e Matteo Mameli
I populismi, o perlomeno alcune forme di populismo, sono una risorsa fondamentale per la democrazia in questa fase della sua travagliata storia. In uno scenario globale in cui le disuguaglianze si estremizzano e si radicano sempre più, lo sviluppo di idee e movimenti anti-oligarchici e anti-plutocratici è fondamentale per la sopravvivenza della democrazia. Forse solo il populismo può salvare la democrazia
Nel saggio Sulla distinzione tra democrazia e populismo,[1]John McCormick argomenta che il populismo sia necessario per rendere più democratichele democrazie contemporanee. Il tanto lamentato deficit democratico degli esistenti sistemi elettorali-rappresentativi ha indubbiamente tanti aspetti e tante cause. Ma, tra questi, ce n’è uno che è particolarmente rilevante per una discussione sul potenziale democratico dei populismi, un fattore che va al cuore della riflessione sul valore della libertà e dell’uguaglianza politica e su come la democrazia possa difendere ed estendere questi valori. Il problema principale è la preoccupante crescita delle disuguaglianze economiche e la deformazione dello spazio politico che ne consegue.
Il deficit democratico genera sfiducia verso le istituzioni e le loro procedure. Questa sfiducia è alimentata da quelli che le persone comuni percepiscono come i risultati insoddisfacenti di queste istituzioni e procedure. A sua volta, la sfiducia è un ostacolo a processi di riforma che portino a un controllo popolare più robusto. La sfiducia e il disimpegno lasciano mano libera alle élite economiche e finanziarie, le quali possono così influenzare il processo politico in modo disfunzionale, promuovendoper esempio politiche favorevoli a coloro che Machiavelli chiamava i grandi e sfavorevoli al popolo. È all’interno di questo circolo vizioso che il populismo può agire da leva e scardinare la polarizzazione della ricchezza e del potere che è la vera radice del deficit democratico.[2]
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Studiare in Erasmus per lavorare in un call center
Uno sguardo all'integrazione europea
Pubblichiamo un interessante contributo di uno studente lavoratore italiano in Erasmus a Lisbona. Ci pare che l’esperienza che racconta e le riflessioni che faccia siano decisive per capire, a pochi giorni dalle elezioni europee, qual è il vero volto dell’Unione e dell’integrazione di cui padroni e politici del continente parlano tanto…
Durante la mia esperienza di studente Erasmus a Lisbona ho avuto l'opportunità o, sarebbe meglio dire, la necessità, di lavorare in una delle grandi multinazionali di servizi: la Sitel, azienda che ha seminato di call center diverse città d'Europa e non solo, accaparrandosi commissioni da varie compagnie, marchi e imprese. Nel mio caso specifico si è trattato di fare per tre mesi l'assistenza clienti per il mercato italiano delle carte di credito della Barclays Bank. Cioè, ricevere chiamate dall'Italia, parlando in italiano, per conto della Barclays Bank, ma senza essere in Italia e senza lavorare direttamente per la Barclays Bank.
Fare lo stesso lavoro ma avere un lavoro peggiore.
Come è noto, sono molte le cose che si possono denunciare rispetto a questo modello di gestione dei servizi. Nulla mancava a questa azienda delle varie forme di controllo asfissiante di tempi e spazi di lavoro che si possono mettere in campo, attraverso telecamere, monitoraggio costante delle telefonate, porte che per mezzo dell'apertura con l'impronta digitale sono in grado di identificare in quale stanza si trovi un lavoratore, discrezionalità su tempi di pausa, di uscita e giorni liberi, e tutte quelle cose che oramai nell'immaginario di molti lavoratori identificano il sistema dei call center, nonostante non siano certo pratiche esclusive di questo comparto.
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Una storia che viene da lontano
di Elisabetta Teghil
L’avvio della rivoluzione arancione in Ucraina si può datare 17 febbraio 2002. L’amministrazione Bush entra a piedi tesi nella campagna elettorale con cospicui finanziamenti così come la Fondazione di Gorge Soros che dichiara di aver speso, sempre in Ucraina, cinquanta milioni di dollari tra il 1990 e il 1999.
Ed ancora, la segretaria di Stato Madeleine Albright invita i rappresentanti delle duecentottanta Ong presenti nel paese a contestare il governo. Si mette così in moto un meccanismo già oliato con la così detta “rivoluzione delle rose” in Georgia.
La strategia è dettata da uno dei fondatori della Trilaterale e tra i più autorevoli consiglieri dei presidenti americani, Zbigniew Brzezinski “...l’allargamento dell’orbita euro-atlantica rende fondamentale l’inserimento dei nuovi stati indipendenti ex sovietici e in particolare dell’Ucraina”.
E, nel 2004, per l’esattezza il 10 dicembre, Peter Zeihan arricchisce e completa la strategia statunitense “..la sconfitta della Russia non è completa”.
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Contro Platone
L’Uno e il Complesso
di Pierluigi Fagan
Il pensiero complesso, incontra difficoltà strutturali a farsi strada nel canone occidentale. I motivi di questa difficoltà si devono per gran parte alle forme portanti del sistema di idee che strutturano questo canone. Le gettate iniziali di queste forme si trovano nel pensiero platonico[1].
Il cuore dell’impianto platonico[2], impianto che afferma l’essere pieno solo del mondo intelligibile (Io) e non di quello sensibile (Mondo), risponde a quattro punti ritenuti problematici: i) il problema del molteplice che viene ridotto ad Uno; ii) il problema del divenire e transitorio che viene ridotto al permanente ed eterno; iii) il problema del relativo che viene ridotto all’assoluto a partire dal concetto di verità; iv) il problema generale del disordine che viene ridotto dall’ordine fisso della gerarchia. L’Uno (il Bene), vero, eterno, assoluto, a capo di una gerarchia discendente è l’impianto finale che istruisce l’immagine di mondo dell’ateniese.
Platone si trovava in un momento storico particolare, un momento di transizione che infine condusse alla fine del concetto di polis. Tra la morte di Platone e la sconfitta di Cheronea (-338) che sancirà la fine dell’autonomia (e della centralità) ateniese e con essa della vigenza del concetto di polis nella Grecia tutta, passa solo un decennio. Platone non era individuo privo di ambizioni, anche politiche, e l’intera sua filosofia, come pensiero e come pratica, può esser inteso come un ultimo, disperato, tentativo di resistere al collasso del sistema. L’Idea prende il posto di Mondo. Questa idealizzazione prende una forma tanto più estrema ed astratta, quanto più la situazione contingente rimanda una immagine della realtà sconfortante e lontana dai propri giudizi di valore[3].
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