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La passione del fare politico
Rossana Rossanda
Rigore e semplicità. Le qualità de «Principia Iuris». Un'opera che interroga il secolo breve senza ritrarsi di fronte ai nodi che ha lasciato in eredità
Coloro che hanno seguito sia pur da lontano Luigi Ferrajoli nella stesura dei Principia Iuris sanno quanta fatica gli sia costato non l'impianto dell'opera, così radicato nella sua formazione intellettuale, quanto la determinazione a renderla come un pane da spezzare per qualsiasi cittadino che si interroghi sulle relazioni interindividuali e fra individui e società. Come darsi un sistema di regole al fine di garantire la reciproca libertà e sicurezza dei diritti? Antico problema, ma rivisto alla fine di un secolo che ha messo in causa sia le forme della democrazia, sia quello che si voleva un suo superamento in senso comunista. Ne è venuto un lavoro imponente e semplice, rigoroso e comunicante senza nulla togliere allo spessore dell'argomentazione, ai riscontri del e nel sistema, e alla genesi storica e teorica dei concetti.
Sembra impossibile che un titolo così severo e la mole delle pagine costituiscano un'opera che chiunque può prendere in mano senza sentirsi allontanato. Si deve certo all'eleganza della scrittura, ma soprattutto, credo, alla convinzione morale e politica di Ferrajoli che urge ricostruire un sistema di rapporti umani ormai a rischio di imbarbarimento. Bisogna e si può. È poi il fondamento del politico, una posta alta, il contrario d'un esercizio accademico. In questo Luigi Ferrajoli è proprio un illuminista, ne possiede (è posseduto da) quella passione di capire, dirimere e spiegare che si fonda sulla convinzione che la specie umana ha la capacità di darsi un senso e delle regole che ne consentano una terrena sopravvivenza.
Si potranno fare altre accuse all'illuminismo, non quello di non averci restituito la possibilità di quella salvezza, nei limiti della vita, che le religioni negano, rimettendo il nostro destino nelle nostre mani. Filo d'Arianna l'uso della ragione, strumento da usare e verificare nella sua struttura logica e fin matematica. Questa non è una fede, è una scelta. Controcorrente, a stare agli ormai trentennali assalti alla ragione tacciata di imperialismo occidentalista, astrazione, pretesa universalistica, misconoscenza delle differenze. E' proprio la sigla di Ferrajoli - si ricorderà Diritto e ragione - e non perché ignori quanto l'irrazionalità sia costituente dell'umano, ma per la persuasione che non è possibile fondare sull'irrazionale una rete di rapporti che garantisca la libertà. Libertà «di» e libertà «da».
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Disturbatori di attenzione
A cura del Telefono viola di Bologna
[Lo scorso sabato 24 novembre Bologna ha ospitato un convegno sul cosiddetto “disturbo di attenzione e iperattività", una nuova “malattia” che colpirebbe i bambini troppo vivaci. Alcuni membri del Telefono viola di Bologna hanno distribuito volantini informativi su questa pseudo-sindrome e sugli psicofarmaci di riferimento, tra cui spicca il Ritalin. Sul luogo si erano raccolti altri contestatori e mentre la tensione saliva sono volati un po' di spintoni. I “disturbatori” sono stati condotti fuori mentre sul luogo arrivava la polizia, che procedeva alla denuncia per concorso in violenza privata di due volontari del telefono Viola di Bologna e di una terza persona. Vista l'importanza della critica dei trattamenti farmacologici dell'alienazione e del disagio, riproduciamo il volantino sul Ritalin redatto dal Telefono viola.]A.P.
Il ministero della salute nel 2002 ha autorizzato la sperimentazione del RITALIN, un farmaco "dedicato" ai bambini che si appresta entro sei mesi a invadere il mercato italiano.
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La città e la metropoli
di Giorgio Agamben
Permettetemi di cominciare con qualche ovvia considerazione sul termine “metropoli”. Esso significa in greco “città-madre” e si riferisce al rapporto fra la polis e le sue colonie. I cittadini di una polis che partivano per fondare una colonia erano, come si diceva, in apoikia – letteralmente in “allontanamento dalla casa”- rispetto alla città, che, nella sua relazione alla colonia, veniva allora chiamata metropolis , città-madre. Questo significato del termine è rimasto fino ai nostri giorni per esprimere il rapporto fra il territorio della patria, definito appunto metropolitano, e quello delle colonie.
Il termine metropoli implica quindi la massima dis-locazione territoriale e, in ogni caso, un’essenziale disomogeneità spaziale e politica, qual è appunto quella che definisce il rapporto città-colonie. Ciò fa nascere ben più di un dubbio sull’idea corrente di metropoli come tessuto urbano continuo e relativamente omogeneo. L’isonomia spaziale e politica che definisce la polis è, almeno in via di principio, estranea all’idea di metropoli.
In questa comunicazione mi servirò, pertanto, del termine “metropoli” per designare qualcosa di sostanzialmente eterogeneo rispetto a ciò che siamo abituati a chiamare chiamiamo città. Vi propongo, cioè, di riservare il termine metropoli al nuovo tessuto urbano che si viene formando parallelamente ai processi di trasformazione che Michel Foucault ha definito come passaggio dal potere territoriale dell’ Ancien régime al biopotere moderno, che è, nella sua essenza, un potere governamentale.
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Sudan: gli sviluppi interni
Alberto Grossetti
Dopo la firma nel 2005 del Comprehensive Peace Agreement (CPA) che ha messo fine ad una guerra civile durata 22 anni, il paese sta difficilmente affrontando le sfide della ricostruzione e della pacificazione nazionale. L’implementazione dell’accordo è caratterizzata da rallentamenti ed incomprensioni che potrebbero causare un ulteriore irrigidimento dei già precari rapporti tra Khartoum e Juba creando tensioni destabilizzanti. Il governo di El Bashir è inoltre sotto stretta sorveglianza dalla comunità internazionale per la sua condotta in Darfur: durante le negoziazioni di ottobre in Libia il presidente dovrà assumersi impegni e responsabilità precise per riacquistare credibilità internazionale, anche per rafforzare la sua leadership interna, in vista delle elezioni del 2009.
Il perdurare delle tensioni
A 2 anni dalla firma del CPA, il controverso rapporto tra nord e sud del paese è ancora continuo motivo di preoccupazione.Era preventivabile che la firma di un accordo di pace non sarebbe stata sufficiente a curare le profonde ferite derivanti da 22 di guerra civile, e che le sfide maggiori avrebbero riguardato il periodo post-bellico. Le relazioni tra Khartoum e Juba sono gelide, con il Sudan People's Liberation Movement (SPLM) che accusa il presidente El Bashir e il National Congress Party (NCP) di ostacolare volontariamente la realizzazione delle disposizioni del CPA e di prendere decisioni politiche chiave di interesse nazionale unilateralmente, mettendo in discussione il principio “comprensivo” di condivisione del potere stabilito dall’accordo.
Tra i motivi di frattura a cui il CPA doveva mettere rimedio vi è la gestione del petrolio e l’utilizzo dei suoi proventi. Il settore estrattivo ha avuto uno sviluppo molto rapido negli ultimi anni, passando dai 1.500 barili di produzione giornaliera nel 1999 ai 500.000 odierni, che potrebbero aumentare sensibilmente in futuro e si prevede che le entrate petrolifere quest’anno raggiungeranno i 4 miliardi di dollari, portando ad una crescita del PIL superiore al 10%.
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Stato e mercato
Sole 24 Ore, il «momento Minsky» e il liberismo impossibile
Riccardo Bellofiore
Valentino Parlato ha invitato il Sole 24 Ore all'apertura di un dibattito. L'invito è stato raccolto da Fabrizio Galimberti. L'occasione è il salvataggio della Northern Rock da parte dello stato, ma la discussione investe spazio e ruolo del liberismo. Vorrei proporre un punto di vista inusuale, forse intrigante anche per i giornalisti del Sole, che sono di buone letture.
La crisi dei subprime, in incubazione da tempo, si è fatta seria a marzo, ed è esplosa a luglio. Proprio a marzo e a luglio George Magnus, senior economic advisor dell'Ubs di Londra, in due rapporti ha avvertito che si avvicinava un «momento Minsky». L'espressione è circolata nei blog finanziari, ed è diventata una valanga. Non ha risparmiato il Financial Times o il Wall Street Journal, il Guardian e Le Monde Diplomatique, da noi persino Repubblica. Di che si tratta?
Hyman P. Minsky è un economista eterodosso americano, morto nel 1996. Una Cassandra che ricordava sempre che la «stabilità è destabilizzante». La crescita capitalistica degenera ineluttabilmente in instabilità finanziaria. Quando le bolle scoppiano, la deflazione da debiti è dietro l'angolo. I suoi libri sono tradotti, in italiano da editori prestigiosi. Ma nessuno se ne ricordava più. Come mai tanta notorietà, ora?
La risposta è facile: Minsky ha avuto fastidiosamente ragione. La sua visione è semplice e potente.
Nel capitalismo, produzione e investimento devono essere finanziati, e al centro del sistema dei pagamenti ci sono le banche. Dopo una grave crisi, il ciclo riparte con una crescita «tranquilla». Gli operatori sono in posizione coperta»: le entrate di cassa coprono le uscite. Le cose vanno bene, l'ottimismo si diffonde, debitori e creditori riducono la stima del rischio.
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La feconda eredità di un pensiero materialista proiettato sul presente
Il Meridiano delle «Opere» di Baruch Spinoza. Una raccolta e una bella traduzione di tutti gli scritti unita a una efficace nota che scandisce la vita del filosofo olandese. L'interpretazione di Spinoza è stata in perenne rinnovamento, anche se non mancano ancora studiosi che cercano di neutralizzare un pensiero la cui eredità permette di uscire dalla crisi della cultura della sinistra italiana
Toni Negri
In una recente intervista Pierre-François Moreau (oggi punto di riferimento degli studi francesi su Spinoza) ha notato che l'Italia è forse il paese nel quale si pubblica di più sull'opera di Spinoza. Paradossalmente, nel nostro paese non c'era tuttavia un'edizione di riferimento che, in buon italiano, comprendesse l'intera opera del grande autore seicentesco. Oggi, questa Opera finalmente c'è: pubblicata da Mondadori nei Meridiani, a cura e con un saggio introduttivo di Filippo Mignini (che ha anche lavorato alle traduzioni ed alle note con Omero Proietti). Quest'edizione è importantissima perché raccoglie, come s'è detto, tutta l'opera di Spinoza, perché la traduce bene, perché contiene un'utile introduzione teorica, un accurato accenno storico alla fortuna di Spinoza e soprattutto perché offre un'accurata cronologia ragionata sulla vita di Spinoza e sull'ambiente olandese nel quale la sua filosofia si è formata.
(A proposito chi ne ha il tempo può ancora visitare a Parigi, nel Musée d'Art et d'Histoire du Judaisme, una ricchissima ed appassionante esposizione sull'Amsterdam ebraica di Rembrant e Spinoza). Era ora che questo strumento essenziale fosse messo a disposizione degli studiosi italiani.
Un autore azzerato
Come ben si segnala nell'introduzione, l'interpretazione di Spinoza e la sua fortuna sono state in perenne rinnovamento. Anche a chi scrive è richiesto di prendere posizione su questo terreno e di misurare in che prospettiva mettersi nello spendere o forse, meglio, nell'investire le fortune lasciateci da Spinoza.
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La nouvelle vague della decrescita
Alcune riflessioni critiche sull'ultimo libro di Serge Latouche edito da Feltrinelli presentato come «un vero e proprio manifesto per la Società della decrescita» da realizzare attraverso un programma che punti alla diminuzione delle merci prodotte Il crollo prossimo venturo La proposta dello studioso francese di trasformare la società attraverso comportamenti virtuosi è espressione di una «pedagogia delle catastrofi» in cui la denunci
Luigi Cavallaro
Da quando il tracollo dell'esperimento sovietico è sembrato riportare le lancette della storia all'epoca del «trionfo della borghesia», per dirla col titolo del celeberrimo libro di Eric J. Hobsbawm, una nuova idea ha cominciato a farsi strada tra gli orfani irreconciliati dell'idea «crollista». L'idea, molto in sintesi, è che il capitalismo, assai più gravemente che da un antagonismo di classe nel frattempo annacquatosi, sarebbe minato da un rapporto contraddittorio addirittura con la «natura»: la sua propensione alla «crescita illimitata», infatti, prima o poi dovrebbe indurlo a sbattere il muso contro la finitezza del pianeta Terra e delle sue risorse.
È stata la legge dell'entropia a offrire il pilastro teorico su cui edificare una narrazione ancor più fosca del declino irreversibile del modo di produzione (nuovamente) dominante. La presa di coscienza del fatto che tutti i tipi di energia sono destinati prima o poi a trasformarsi in calore non più utilizzabile e che il sistema solare tutto tende verso una «morte termodinamica» ha indotto, infatti, i «neocrollisti» a formulare critiche «radicali» all'idea che il processo economico potesse essere descritto in termini circolari e a esigerne con forza una rappresentazione in termini unidirezionali, rispettosa della «freccia del tempo».
La catastrofe annunciata
La termodinamica, in tal modo, è diventata la «fisica del valore economico» e la legge dell'entropia «la radice della scarsità economica», come scrisse l'economista e statistico di origine rumena Nicholas Georgescu-Roegen.
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I quattro cavalieri della globalizzazione
Gli eredi del neoliberismo della prima ora perseguono strade diverse per salvare il libero mercato. Ma tendono però a chiudere gli occhi sul fallimento del progetto «globalista», respingendo i progetti di deglobalizzazione portati avanti dai movimenti sociali
Walden Bello
Quando lo scorso anno due studi hanno descritto come il centro di ricerca della Banca Mondiale avesse sistematicamente manipolato i dati per dimostrare che le riforme neoliberiste sul mercato stessero promuovendo la crescita e riducendo la povertà nei paesi in via di sviluppo non ci fu nessuna reazione di sorpresa da parte dei «circoli» intellettuali, economici e politici che si occupano di politiche dello sviluppo. Gli sconvolgenti risultati dell'analisi svolta dal Robin Broad dell'American University e il rapporto di Angus Deaton della Princeton University e dell'ex direttore del Fondo Monetario Internazionale Ken Rogoff erano l'ultimo atto del collasso di ciò che è stato chiamato Washington Consensus.
Imposto ai paesi in via di sviluppo attraverso la formula dei programmi di «aggiustamento strutturale» finanziati dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale, il Washington Consensus ha regnato fino ai tardi anni '90 quando fu evidente che l'obiettivi perseguito - crescita sostenuta, riduzione della povertà e dell'ineguaglianza - era lungi dall'essere raggiunto. Ed è proprio alla metà di questo decennio che il «consenso» viene meno. Il neoliberismo rimane sempre lo «standard», ma molti economisti e tecnocrati hanno ormai perso fiducia in esso.
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Il potere costituente della contingenza
di Augusto Illuminati
«Oltre il molteplice» di Alain Badiou per Ombre Corte. Sette scritti sul mancato incontro con Gilles Deleuze. Un dialogo che l'autore di «Mille Piani» ha sempre rifiutato e che ha come sfondo diverse concezioni della filosofia. E dunque diverse teorie dell'agire politico
Strana, sgradevole quanto istruttiva la storia del non-rapporto fra Gilles Deleuze e Alain Badiou, che il secondo ha costruito retroattivamente (a parte la splendida recensione di Le Pli nel 1989) nel Clamore dell'Essere e in un gruppo di articoli e precisazioni ora raccolti per Ombre Corte con il titolo Oltre l'uno e il molteplice. Pensare (con) Gilles Deleuze (pp. 118, euro 10, a cura di Tommaso Arienna e Luca Cremonesi).
Una volta sgombrato il campo dalle astiose polemiche scatenate dagli allievi di Deleuze soprattutto nel numero della rivista «Futur Antérieur» dell'aprile 1998 (i due attacchi di Arnaud Villani e José Gil e la più sobria introduzione di Eric Alliez) e dopo aver tenuto nel giusto conto le responsabilità dello stile polemico-espositivo di Badiou, resta il grande interesse dei temi posti in discussione. Certo, l'impostazione della controversia (univocità dell'Essere, presunto platonismo, mistica immanente della vita, ecc.) sono scelti arbitrariamente da Badiou, ciò nonostante si toccano nodi essenziali della filosofia afferrando il capo del filo secondo le preferenze del critico - tradizione che risale per lo meno ad Aristotele e Hegel.
Non a caso infatti il confronto fra Deleuze e Badiou è stato riproposto come replica moderna di quello fra Aristotele (Deleuze) e Platone (Badiou), anche se le critiche di Badiou a Deleuze ci sembrano piuttosto riprendere le obiezioni hegeliane di acosmismo a Spinoza.
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La passione per il mondo di un ospite ingrato
Donatello Santarone
Il poeta asseverativo ma anche a tratti pedagogico; il dialogo a distanza con Pier Paolo Pasolini; il confronto serrato con la tradizione letteraria italiana; il rapporto disincantato con l'ebraismo e con la religione all'insegna però del rifiuto di qualsiasi misticismo. La figura intellettuale di Franco Fortini in tre saggi da poco pubblicati
Sono trascorsi ormai tredici anni dalla morte del poeta e saggista Franco Fortini, ma l'eredità del suo magistero di intellettuale complessivo, esponente di punta del marxismo critico europeo del secondo dopoguerra, continua a interrogare quanti rifiutano quel sistema di rapporti fra uomini mediato da cose che definiamo capitalismo.
Testimonianza di un interesse vivo nei confronti dell'opera fortiniana sono tre volumi di recente pubblicazione a lui dedicati. Il primo è di Romano Luperini (Il futuro di Fortini. Saggi, Manni, pp. 110, euro 12) e raccoglie dieci saggi scritti negli ultimi venticinque anni a documentare la lunga «fedeltà» del critico italiano nei confronti dell'opera di Fortini.
Con la sua prosa asciutta e antiretorica, Luperini mette a fuoco alcuni nodi centrali dell'opera del poeta, del saggista, dell'intellettuale critico. Da una parte, c'è in Fortini, secondo il critico fiorentino, il rifiuto netto di qualsivoglia «religione della poesia», l'odio per le sette letterarie quasi sempre complici di «chi sta in alto» (per dirla con l'amato Brecht), il suo classicismo «strabico o ironico», la polemica costante fatta di ammirazione e fastidio con Pier Paolo Pasolini («l'uno è poeta di inibizione, l'altro di esibizione»). Ma anche una concezione della poesia come «valore» e «disvalore» a un tempo, «segno di una possibile alterità, di una figuralità non consumabile nell'immmediato, e sigillo di un potere tramandato da una casta di mandarini».
Il collezionista di Benjamin
Vi sono inoltre nei saggi che compongono il volume temi come la rivendicazione della maturità come «arte della mediazione e della dialettica, coscienza che respinge l'immediatezza e la visceralità» e quindi il confronto aspro con la tradizione; una concezione della critica letteraria che provochi sempre, a partire da una disamina puntuale di un testo, un corto circuito tra opera e mondo, tra testo e storia, tra letterario ed extraletterario, sottintendendo - scrive Luperini - «un'idea assai alta della critica letteraria come attività eminentemente etico-politica, chiamata a mediare fra il senso dell'opera e quello del mondo che la circonda».
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La Russia del futuro, dal KGB alla "Tributaria"
di Carlo Benedetti
MOSCA. Si annuncia al Cremlino una lotta dura contro gli evasori fiscali, contro le varie tangentopoli, contro le lobby e la corruzione. E’ questa la prima sensazione che si coglie nella capitale dopo che il nuovo premier Zubkov (classe 1941) ha scoperto le carte parlando alla Duma, mostrandosi alla tv insieme al predecessore Fradkov (classe 1950), mentre gli addetti ai servizi logistici cambiavano la targa dell’ufficio. Ma dietro le quinte di questo teatro politico russo si è visto subito il volto di quel grande regista - manovratore e suggeritore, truccatore e sceneggiatore - che è Putin (classe 1952). Tutto quello che è avvenuto e che sta avvenendo in queste ore è frutto della sua intuizione e della sua capacità di saper manovrare rappresentando concezioni ed ideali che nessuno aveva messo nel conto. E con una mossa a sorpresa ha mischiato il mazzo di carte che si trovava sul tavolo verde del suo ufficio. Ha fatto ricorso al vecchio amico che aveva operato nella dirigenza del Pcus di Leningrado e con il quale aveva condiviso l’attività del commercio con l’estero. Ma Zubkov era anche qualcosa d’altro, perchè a Putin lo accomunava lo stesso impegno nel campo dell’intelligence. Uno si era dedicato ad attività oltre i confini e l’altro era impegnato nei servizi interni della polizia tributaria. Una stessa professione attuata su campi diversi che fa però sbattere nella prima pagina di un quotidiano di Mosca questo titolo a sensazione e sicuramente provocatorio: “Ed ora anche un uomo dei servizi nella poltrona di primo ministro”...
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La potenza redentrice di un pensiero
di Alberto Burgio
«Giordano Bruno» di Michele Ciliberto per Mondadori. L'avventura esistenziale di un pensatore «maledetto» dove vita e filosofia coincidevano
La vita come filosofia, la filosofia come autobiografia e come esperienza teatrale. I pensieri come fatti vissuti, i fatti come figure concettuali da rappresentare sulla scena del mondo. Tutto questo è Giordano Bruno. Qui sorgono, nello stesso tempo, il suo programma teorico e la sua idea di sé e dell'esistenza. A cominciare dalla propria, per destino straordinaria.
Non è una novità. Chi legga Bruno sa di dover fare i conti, sempre, con una connessione indissolubile di vita, filosofia e autobiografia. Con una vita che si fa, consapevolmente, sostanza teorica e che come tale si comprende e si narra. Pensiamo, per fare solo un esempio, alla dialettica dei contrari. Dove il contrasto tra le diverse dimensioni della propria personalità diviene principio di comprensione del mondo e delle sue trasformazioni. E dove il conflitto, la contraddizione, si rovescia, da motivo di disgregazione, in ragione di forza. Da fonte di scomposizione, in fattore di unità e di coerenza dinamica.
Corpo a corpo col Cristo
Non è una novità, è un fatto acquisito. Ma è un fatto che si può subire o, invece, assumere e far proprio, magari traendone linfa per nuove e più penetranti forme dell'impresa ermeneutica. La poderosa ricostruzione della vita di Bruno che ora Michele Ciliberto ci consegna (Giordano Bruno. Il teatro della vita, Mondadori, pp. 555, euro 30) lo dimostra in maniera esemplare. È una biografia a modo suo unica precisamente per come raccoglie la sfida di ripercorrere e narrare una vita in se stessa filosofica: trasfigurata - resa pensiero, concetto e testo - nel momento stesso in cui fu vissuta e, appunto, rappresentata. Messa in scena.
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A Giavazzi e a Ichino dico: i vostri dati non convincono
di Emiliano Brancaccio
Il dibattito su flessibilità e occupazione tra liberisti e sinistra
In questi giorni i lettori di Liberazione hanno avuto più di un motivo per rallegrarsi. Il giornale è stato infatti teatro di un confronto inedito sui reali effetti delle politiche di precarizzazione del lavoro. Pietro Ichino e Francesco Giavazzi hanno cavallerescamente accettato la sfida da noi lanciata il 1° settembre scorso, e sono quindi intervenuti su queste colonne in difesa della cosiddetta "flessibilità". Ma la vera notizia è che, con l'avanzare del dibattito, è emerso lampante il dato di fondo: i "liberisti del lavoro" non dispongono di evidenze attendibili in grado di supportare le loro tesi. In quel che segue, rispondendo a Giavazzi, forniremo gli ultimi elementi a sostegno di questa sorprendente conclusione.
Dopo l'intervento di Pietro Ichino pubblicato martedì scorso, giovedì è poi toccato a Francesco Giavazzi calcare le scene del giornale comunista. L'economista della Bocconi si è innanzitutto premurato di sostenere che in realtà non vi sarebbe alcun dissenso tra lui e Ichino in merito agli effetti della precarietà sulla disoccupazione. Giavazzi ritiene cioè che il giuslavorista condivida la sua idea secondo cui una minore protezione dei lavoratori garantirebbe una riduzione del tasso di disoccupazione. Personalmente non frequento le sinapsi di Ichino e quindi non me la sento di giudicare questa ardita esegesi. Mi limito solo a constatare che nel suo intervento Ichino ha insistito sul fatto che, a differenza di Giavazzi, egli non è si è mai sognato di scrivere che la precarietà riduce la disoccupazione, e addirittura ha esplicitamente "sfidato" chiunque a dimostrare il contrario.
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Uff... Populismo e V-Day
di Uriel
E' incredibile il numero di analfabeti funzionali che girano per Internet, ovvero il numero di persone che commentano un articolo senza leggerlo, o che lo leggono ma ignorano quel che c'e' scritto, ritenendo nella propria mente solo due o tre parole. E poi scrivono per email, invece di commentare. Tra un po' tolgo il link "email" btw.
Comunque, adesso vado pesante.
Vedere Grillo e pensare "populista" e' come vedere la luna e pensare "notte". E' un'ovvieta', non e' sintomo o simbolo di alcuna intelligenza analitica, e specialmente NON SIGNIFICA UN CAZZO DI NIENTE.
Il populismo e' semplicemente il successo elettorale di chi non ci piace: non esiste altra definizione del termine che non cada in contraddizione logica.
Ma c'e' di peggio: se vedi Grillo e pensi solo "populismo", allora hai un QI sotto il 15. Perche' il populismo e' il tratto piu' evidente di Grillo, come e' il tratto piu' evidente del 100% dei partiti politici. QUalsiasi idiota puo' guardare Grillo e pensare "populista".
Ma Grillo ha fatto un qualcosa che (e se tutti la smettessero di spararsi delle pose usando il termine "populista" solo perche' l'hanno sentito dire lo noterebbero) non si era mai visto prima.
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Quando la sinistra si innamora della destra
di Fabrizio Casari
Le diverse generazioni che dagli anni sessanta ad oggi si sono susseguite nel calpestare le non sempre rette vie del nostro Paese, hanno ritenuto, con maggiore o con minore convinzione, che la criminalità italiana avesse due sostanziali caratteristiche: una di essere “sistema”, l’altra di produrre ingovernabilità sociale e politica proporzionale alle ricchezze che generava. C’era semmai un dubbio, relativo alla commistione tra associazioni criminali e alcuni partiti politici; il dubbio era se fossero le prime ad aver infiltrato i secondi o viceversa. Alla fine, il dubbio si dimostrava ozioso, risultando chiaro che in quel tipo di società alcuni partiti e le cosche divenivano azionisti di maggioranza o di minoranza in corrispondenza di fasi diverse, ma sostanzialmente erano (sono?) elementi distinti di un progetto comune. Adesso però, finalmente, ci rendiamo conto di quanto quelle ipotesi delle diverse generazioni fossero sbagliate, perché sbagliati erano i presupposti (ideologici, certamente) che le determinavano. Sappiamo oggi, infatti, grazie ad un’opera di chiarificazione storica e sociale di alto profilo, che l’illegalità italiana non è fatta di Mafia, Camorra, ‘Ndrangheta, Sacra Corona, Mafia del Brenta o bande di tante magliane; di logge massoniche, colletti bianchi e di narcomafie, di racket delle estorsioni o di trafficanti di droghe e armi. Oggi ci è tutto più chiaro: la criminalità italiana è fatta di lavavetri, writers e disperati clandestini.
Pare che l’elemento della pericolosità sociale sia stato dunque sostituito dal disturbo sociale, che i tentacoli della piovra abbiano lasciato il posto ai bastoni tergivetro e che le menti della criminalità siano da ricercare ai semafori invece che nell’Aspromonte o in Barbagia. Illuminate, sottili menti, folgorate sulla via della reazione, ci spiegano che i sottoufficiali della disperazione, ancorati ai semafori della dannazione, siano carne da macello per il racket.
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Venti ottobre
Rossana Rossanda
La manifestazione e il corteo che assieme a Liberazione questo giornale ha lanciato per il 20 ottobre sono stati bersaglio di una certa campagna stampa, avallata anche da alcuni politici che rischia di farci apparire il paese più instupidito d'Europa. Un corteo pacifico e, ci auguriamo, di massa che esprime bisogni e sensibilità molto reali sarebbe il cavallo di Troia per far cadere il governo Prodi? Sostenere questo governo, farlo inciampare o cadere è potere esclusivo delle forze politiche in Parlamento, del patto che le ha messe assieme e, o almeno così dovrebbe essere, del rispetto che farebbero bene a nutrire l'una per l'altra. Non è nella nostra possibilità né nei nostri intenti farlo, non siamo né vogliamo diventare un'istituzione né un gruppo di istituzioni.
Ma il governo dovrebbe ringraziarci per offrirgli l'occasione di saggiare consensi e inquietudini di una parte consistente della società civile che lo ha votato. E che è altra cosa dei gruppi parlamentari e dei partiti, tutti peraltro fattisi tanto leggeri da pardere ogni radicamento sociale diffuso, che fungeva da sensorio e raccoglitore di idee e competenze non meno che da cinghia di trasmissione «di un'ideologia». L'asfissia dei partiti e il bipolarismo nel quale si vorrebbe costringere una società sempre più complessa stanno facendo dell'Italia l'ultima e mesta spiaggia di una democrazia rappresentativa riacquistata con il sangue, e aprono il varco per assai dubbie avventure populiste.
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Il paradosso mercantilista: lo Stato finanzia Wall Street
di Tito Pulsinelli
Negli Stati Uniti, dall’inizio dell’anno il settore finanziario ha licenziato 88.000 funzionari ed impiegati, mentre nel 2006 persero il lavoro 50.237 persone. I licenziamenti dall’inizio di agosto sfiorano i 21.000 (1).
C’è stata una forte impennata nell’esecuzione dei pignoramenti ed espropriazioni di appartamenti ed edifici: 179.600 nel solo mese di luglio. Il senatore C. Dodd retiene che “da uno a tre milioni di persone potrebbero perdere la loro casa”.
Queste poche cifre indicano con chiarezza la gravità della crisi del settore inmobiliario degli Stati Uniti, che covava sotto la cenere mediatica da molto tempo, ma veniva sistematicamente ignorata o minimizzata. Ora che l’esplosione è avvenuta, emergono le caratteristiche distruttrici di un collasso che sta facendo tremare il cosiddetto sistema finanziario internazionale.
I “furbetti della bolla immobiliare”, vale a dire gli usurai globali che avevano gonfiato all’infinito il valore dei titoli dell’industria del mattone, oggi alzano bandiera bianca. La “bolla” gli è scoppiata in faccia perché non c’è più una relazione credibile tra il valore di un edificio reale e quello dei “titoli” che li rappresentano.
Una cosa è un edificio, altro sono i titoli immobiliari o gli hedge funds che li “assicurano”; una cosa è l’economia reale altro è l’economia cartacea del capitalismo globalista. Tra le due c’è un abisso, su cui regna sovranamente la plutocrazia finanziaria.
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V-day, perché ci sono più spine che rose
di Gennaro Carotenuto
Andavo esattamente a 130 km all’ora e quelle auto blu volavano a 180 se non a 200 o più, in condizioni di evidente pericolosità. Credo che il codice della strada in questi casi preveda il sequestro dell’auto, il ritiro della patente e finanche l’arresto in caso d’incidente. In quelle auto dovevano esserci Fini, Prodi, Berlusconi, Parisi... la crema della crema della casta politica.
Contemporaneamente le piazze italiane erano piene per la manifestazione convocata da Beppe Grillo. Lo spettacolo indecoroso delle auto blu in autostrada avrebbe dovuto farmi precipitare ad aderire alla piazza grilliana che invece continua ad indurmi riflessioni tiepide.
Le piazze di Grillo, configurano per l’ennesima volta il tetto oltre il quale la democrazia non può andare, il limite fisico di rappresentatività della democrazia liberale oltre il quale la stessa democrazia liberale non permette ai cittadini di andare. E’ un concetto che nessuno espresse meglio del segretario di Stato statunitense, Henry Kissinger quando affermò che non avrebbe permesso (e non lo permise) che il Cile diventasse socialista solo per la volontà dei propri cittadini.
Mille Kissinger si riempiono quotidianamente la bocca di “volontà degli elettori”, a patto di indurla e limitarla a non toccare quegli interessi che sono al di sopra della democrazia stessa e quindi vulnerano la democrazia stessa limitandola. Per esempio, lo stesso Grillo ne fa una rivendicazione fondamentale, se in Italia (o in qualunque altro paese), si facesse un referendum sulla precarietà che sta distruggendo la vita oramai a più di una generazione, come credete che finirebbe? Se in democrazia, i cittadini decidessero di abolire ogni tipo di contratto precario con un referendum, per vedere l’effetto che fa, e se hanno davvero ragione o torto gli economisti neoliberali, sarebbe loro permesso?
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Il patto di Shangavia
di Carlo Bertani
La notizia che i russi hanno ripreso i voli dei grandi bombardieri strategici è stata commentata da Washington con sufficienza : «Se hanno voglia di spendere quattrini per far volare qualche ferrovecchio» è stato il commento statunitense «padroni di farlo». Il commento americano, sotto il profilo militare, è ineccepibile.
Chiariamo che per gli aspetti militari la mossa russa non ha nessuna rilevanza: qualche decrepito TU-95 Bear (ad elica!), oppure le poche decine di TU-160 Blackjack che sono rimasti alla Russia dopo il crollo dell’URSS, non hanno nessun rilievo strategico. I più moderni bombardieri strategici russi sono forse paragonabili ai B1-B americani: certamente una "generazione” addietro rispetto ai B2-Spirit, che sono aerei stealth.
Rimangono poche centinaia di TU-22/26 Backfire, che sono però grandi bombardieri destinati soprattutto all’attacco contro le navi, ma non portano armi strategiche in senso stretto e, soprattutto, non hanno l’autonomia per reggere i lunghissimi pattugliamenti oceanici. Gli americani, dunque, hanno perfettamente ragione nel definire un bluff la mossa russa.
Se i russi bluffano, anche Washington non scherza: la colossale “puparata” messa in piedi sul sistema di difesa anti-missile, vale quanto far decollare qualche aereo ad elica sul Mar Artico.
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Precariato globale
di Luciano Gallino
Ci risiamo con la Legge 30 di riforma del mercato del lavoro: abrogarla, modificarla oppure lasciarla com´è? Il dibattito che si è riaperto intorno a queste alternative potrebbe forse dare migliori frutti, sotto il profilo della comprensibilità per i tanti che vi sono interessati, non meno che dei suoi possibili esiti politici e legislativi, se in esso fossero tenuti maggiormente presenti gli elementi generali del quadro in cui la legge si colloca.
Un primo elemento è il numero di coloro che hanno un´occupazione precaria, vuoi perché il contratto è di breve durata, oppure perché non sanno se e quando ne avranno un altro. Secondo una stima da considerare prudente, esso si colloca tra i 4 milioni e mezzo e i 5 milioni e mezzo di persone. A questo totale si arriva sommando gli occupati dipendenti con un lavoro a termine (2,1 milioni nel primo trimestre 2007, dati Istat), gli occupati permanenti a tempo parziale (1,8 milioni), i co.co.co. rimasti nel pubblico impiego ma trasformati dal citato decreto in lavoratori a progetto nel settore privato (tra mezzo milione e un milione); più una molteplicità di figure minori, dai contratti di apprendistato e inserimento al poco usato lavoro intermittente (forse 200.000 persone in tutto). Lasciando da parte altre figure come gli stagisti o gli associati in partecipazione, in ordine ai quali è arduo stabilire chi abbia per contratto un´occupazione stabile oppure instabile.
Cinque milioni di persone con un lavoro precario rappresentano più del 20 per cento degli occupati. Ma questi sono soltanto i precari per legge – certo non soltanto a causa della Legge 30, bensì di un´evoluzione della nostra legislazione sul lavoro iniziata, come minimo, sin dal protocollo del luglio 1993.
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Il grande casino mondiale della finanza
di Giulietto Chiesa
Allora facciamo un po' di conti: la Banca Centrale Europea ha sganciato più di centoventi miliardi di euro per sostenere le banche europee che hanno speculato sulla bolla edilizia e dei facili prestiti americani. La Federal Reserve ha tirato fuori assai meno per sostenere i truffatori d'oltre Oceano, cioè 12 miliardi di dollari, più 25, totale 37. Li chiameremo truffatori perché stimiamo abbastanza il premio Nobel Joseph Stiglitz, il quale ha scritto, senza troppi complimenti, che Alan Greenspan non poteva non sapere, negli anni scorsi, a partire dal 2002, che la politica della Federal Riserve, da lui guidata, avrebbe condotto al baratro.
Come definire un signore dall'immenso potere, come Greenspan, che trascina il mondo intero verso un disastro, sapendo perfettamente quello che fa? Un truffatore, certamente. Ma anche un irresponsabile. E, quindi, seconda domanda: come possiamo stare tranquilli venendo a sapere che alla testa di cruciali istituzioni di influenza planetaria ci sono persone irresponsabili?Anche perché non è che Alan Greenspan agisse da solo. Con lui c'era il presidente degli Stati Uniti, per esempio. E via scendendo per li rami di questa foresta imperscrutabile che è oggi la finanza mondiale.
L'allarme rosso è venuto quando si è scoperto che una delle maggiori banche europee, BNP Paribas (che è ora anche molto presente sul mercato italiano) ha dovuto chiudere, per palese insolvenza, ben tre “fondi” che avevano speculato, anche loro, insieme alle banche americane, sui mutui ultra-agevolati che sono stati concessi ai risparmiatori americani.
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Quella maledetta casa di Slawson Avenue
La crisi dei mutui subprime e i mercati finanziari globali
di Sbancor
Una crisi sistemica potrebbe iniziare così. Oggi, giovedì 9 agosto alle ore 14.15 mi telefona un amico da un’agenzia di stampa tedesca. Mi dice che circolano rumors in Germania sulla crisi di una banca. Soggiunge, preoccupato, che “i rumors” si sono spinti fino a sostenere che per qualche ora è stato chiuso il mercato interbancario. Gli prometto di informarmi. Recupero lentamente un po’ di lucidità dal torpore postprandiale. Apro Bloomberg scorrendo le market news. La prima notizia che attrae la mia attenzione è che la British Bankers Association ha comunicato che il tasso overnight interbancario, il cosiddetto London Interbank Offered Rate (LIBOR) è salito dal 5,35% al 5,86%. Il livello più alto dal 2001. Sembra che a determinare l’incremento siano le preoccupazioni sui mutui immobiliari “subprime” americani. Ora i “subprime” sono la grande paura che da febbraio agita i mercati. Si tratta di mutui ipotecari concessi a clienti che hanno redditi bassi e lavoro spesso precari, in quartieri che certo non assomigliano a Beverly Hills.
Non so se qualcuno di voi è pratico di Los Angeles, ma la strada che viene in mente a me, quando si parla di “subprime” è Slawson Avenue. La prima parte è abitata da afroamericani. La seconda da ispanici. La seconda suscita qualche apprensione a percorrerla di giorno. Non voglio pensare cosa accade lì la notte. Finii a Slawson per un errore di guida, tanti anni fa, e sono ancora grato al Signore per aver riportato indietro la mia pelle intatta.
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Bandar Ibn Sultan: il piccolo principe di Carnwell
di Sbancor
"Combattete coloro che non credono in Allah e nell'Ultimo Giorno, che non vietano quello che Allah e il Suo Messaggero hanno vietato, e quelli, tra la gente della Scrittura, che non scelgono la religione della verità, finché non versino umilmente il tributo, e siano soggiogati." Sura IX, 29 [Quando Allah è piccolo piccolo]
In Italia bisogna leggere i romanzi per conoscere ciò che dovrebbero scrivere normalmente i giornali. In Inghilterra a volte i giornali sono molto meglio dei romanzi. Il “caso BAE (British Aerospace System)” è uno di questi. John Le Carré non sarebbe riuscito a descriverlo meglio. E’ quindi come un’opera d’arte che ci impegniamo a recensirlo.
Si potrebbe iniziare con un ragazzo di 16 anni. Un ragazzo arabo, nato in Arabia Saudita. Un ragazzo fortunato. Troppo. E’ un principe della casa reale. Si chiama Bandar bin Sultan. Era il figlio del Ministro della Difesa del Regno Saudita. A 16 anni Bandar viene mandato a studiare in Inghilterra. Non andò a Eton o a Oxford. Andò in un collegio militare: il College Cranwell. Royal Air Force. (R.A.F.). L’Isola del Tesoro sa come coltivare i suoi clienti fin da giovani.Possiamo immaginarcelo il ragazzo arabo in mezzo ai Sergenti Maggiori della R.A.F, ai figli dei piloti, in quelle camerate gelide. Cosa sarà passato per la sua testa di sedicenne, in mezzo alle brume e alle brughiere anglofone, lui, abituato al sole del deserto d’Arabia? Come avrà reagito alla disciplina esasperante dei college militari inglesi? Dove si masturbava e pensando a chi?
Adolescenza perduta in cambio di una promessa. La solita venale promessa dell’Isola del Tesoro: un giorno grazie a noi guadagnerai un sacco di soldi.
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Le colpe di Greenspan
L'America immersa nei debiti
di Joseph E. Stiglitz
I pessimisti che da tempo prevedevano che l'economia americana stesse andando incontro a guai seri, sembrano infine riscuotere i loro giusti meriti. Francamente, però, non c'è di che stare allegri vedendo i prezzi delle azioni crollare in conseguenza di sempre più frequenti insolvenze da parte dei mutuatari. La situazione, tuttavia, era assolutamente prevedibile, come prevedibili sono le conseguenze che si ripercuoteranno sia su milioni di americani che dovranno far fronte a gravi difficoltà finanziarie, sia sull'economia globale. Tutto risale alla recessione del 2001.
Con l'avallo di Alan Greenspan, presidente della Federal Reserve, il presidente George W. Bush aveva fatto approvare uno sgravio fiscale finalizzato ad avvantaggiare gli americani più ricchi, ma non a risollevare l'economia dalla recessione che aveva fatto seguito allo scoppio della bolla di Internet. Una volta commesso quell'errore, alla Fed restava ben poca scelta: se voleva rispettare il proprio mandato, consistente nel mantenere la crescita e l'occupazione, doveva necessariamente abbassare i tassi di interesse.
E così ha fatto, ma con modalità che non hanno precedenti: ha infatti portato i tassi di interesse fino all'uno per cento.
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Software Libero per la tua libertà
Perché non ci si può fidare di software che non si può controllare
Richard Stallman
Il controllo del nostro software dalla parte di un'azienda di software proprietario, che sia essa Microsoft, Apple, Adobe o Skype, vuol dire il controllo su quello che possiamo dire e a chi. Questo minaccia le nostre libertà in tutti i campi della vita... Gli Stati uniti non sono l'unico paese che non rispetta i diritti umani, per cui mantenete i vostri dati sul vostro computer personale e i vostri backup sotto la vostra custodia. E utilizzate il software Libero sul vostro computer.
Lo sappiamo in tanti che i governi possono minacciare i diritti umani attraverso la censura e la sorveglianza di Internet. Non molti si rendono conto che il software che utilizzano, a casa o al lavoro, potrebbe costituire una minaccia anche peggiore. Pensando che il software sia "solo uno strumento", suppongono che obbedisce loro, invece, in effetti, obbedisce ad altri. Il software che gira nella gran parte dei computer è software non-libero, proprietario, e cioè controllato dalle aziende produttrici di software e non dai suoi utenti. Gli utenti non possono controllare quello che questi programmi stanno facendo, né possono impedire che facciano qualcosa di indesiderato. Molte persone accettano tutto ciò perché non conoscono altre possibilità. Ma è semplicemente sbagliato lasciare agli sviluppatori [di software] il potere sui computer degli utenti.
Questo potere ingiusto, come sempre, induce chi lo possiede a compiere ulteriori misfatti. Se un computer comunica su una rete e voi non controllate il software, esso può facilmente spiarvi.
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