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Reddito sì, ma da lavoro
L’autonomia economica e politica delle persone presuppone un reddito da lavoro. Il reddito di cittadinanza corre il rischio di far aumentare il numero dei non occupati e la loro l'emarginazione, lasciando irrisolta la questione dei bisogni sociali insoddisfatti
Forse per ragioni di età, sono ancora affezionato alla idea di Adam Smith e alla Costituzione. Secondo Smith, “Il lavoro svolto in un anno è il fondo da cui ogni nazione trae in ultima analisi tutte le cose necessarie e comode della vita che in un anno consuma”. Più breve e efficace, l’Articolo 1 della Costituzione recita: “L’Italia è una Repubblica democratica [corsivo aggiunto], fondata sul lavoro”. Sul lavoro, non sul reddito. Circa il reddito di cittadinanza o altre forme di reddito garantito, d’altra parte, non ho cambiato l’idea che coltivavo qualche anno fa, e qui la riprendo.
Quando una improbabile crescita dell’economia è sì condizione necessaria per realizzare la piena occupazione, ma non anche sufficiente, il problema di fondo di una società capitalista si aggrava. Problema di fondo che si può evocare con questo disegnino:
Se si è d’accordo su ciò, e se si conviene che presupposto della democrazia è la democrazia economica;
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Chiusa la partita delle amministrative
Ora che si fa?
di Aldo Giannuli
Poco da dire sui risultati del secondo turno delle amministrative: elettori in fuga, Pdl bastonato, M5s in caduta libera e Pd premiato perché, se il totale deve fare 100, qualcuno deve pur prendere le percentuali perse dagli altri. Il Pd sorride sicuro dopo aver preso tutti i 16 comuni capoluogo, ma se guardasse ai risultati in cifra assoluta riderebbe meno. Ripeto: nessuno faccia l’errore di pensare a queste astensioni come ad una perdita di interesse per le elezioni, per cui possiamo tranquillamente fare come se quegli elettori si fossero dissolti nel nulla. Quegli elettori ci sono e prima o poi li vedremo sbucare da qualche parte.
Molto meno allegro è il Pdl. Il risultato rimette seriamente in discussione la certezza di vittoria in caso di elezioni anticipate. I sondaggi perdono di credibilità, anche se dobbiamo tenere presente una cosa: il Pdl sul territorio esiste poco e nulla e sta perdendo quel poco di ceto politico-amministrativo che aveva, però le cose cambiano quando scende in pista il Cavaliere in prima persona. Quindi attenti a non rifare per la seconda volta l’errore di pensare liquidato il Pdl perché i suoi elettori alle amministrative stanno a casa: come si è visto a febbraio, una porzione di essi poi torna a votare Pdl se a chiederglielo è personalmente il Cavaliere. Questa volta, però, potrebbe esserci un problema in più: l’elettorato di destra sta mostrando di non gradire affatto le larghe intese con i nemici di sempre e, per di più, in un governo che, sostanzialmente, sta confermando la linea della massima pressione fiscale.
E’ interessante notare il crollo nelle roccaforti venete e brianzole della destra dove massimo è il peso dei piccoli e medi imprenditori, i più imbestialiti per Imu ed Iva.
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L’incoerenza della Lettanomics
di Stefano Lucarelli
Enrico Letta ha messo il lavoro e la lotta alla disoccupazione al centro delle sua agenda di governo. Si tratta di (buoni) propositi che però mal si conciliano con la zelante accettazione dei vincoli europei (le famigerate politiche di austerity) più volte ribadita dallo stesso premier. Molte riserve suscita anche il “modello di crescita” sul quale si impernia la politica del nuovo governo: trasformare l’Italia nella “piattaforma logistica d'Europa” è davvero una buona soluzione per uscire dalla crisi?
1. Introduzione
Un governo di larghe intese difficilmente può proporre una linea coerente di politica economica. L’analisi economica delle istituzioni politiche (new political economy) – una linea di ricerca sviluppatasi a partire dalla scuola della Public Choice i cui risultati, costruiti su ipotesi comportamentali talora eroiche, sono senza dubbio da approfondire – mostra che il disavanzo fiscale è tendenzialmente più elevato nei governi di coalizione, in cui il potere politico è più disperso. In tal caso infatti tenderà a prevalere una logica di gestione delle risorse pubbliche finalizzata a ridurre gli elementi conflittuali che caratterizzano le varie anime della coalizione[1]. Da qui sorge l’incoerenza che può segnare le politiche economiche messe in campo da un governo di larghe intese.
Certamente tra i lettori ci sarà chi ricorderà l’aforisma di Giuseppe Prezzolini, secondo il quale “La coerenza è la virtù degli imbecilli”, oppure quello di Oscar Wilde, “La coerenza è l’ultimo rifugio delle persone prive di immaginazione”. Negli aforismi in effetti si può proteggere il buon senso, e forse quanto detto dagli artisti appena ricordati può valere per la coerenza intesa nel senso della logica matematica; in tal senso si dice coerente un sistema in cui non è dimostrabile nulla di contraddittorio, quando cioè non sono dimostrabili contemporaneamente un’espressione e la sua negazione.
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Acqua pubblica
Wu Ming
Il 12 e 13 giugno di due anni fa, circa 26 milioni di italiani hanno speso qualche minuto del proprio tempo per votare due sì al cosiddetto “referendum per l’acqua pubblica”. Oggi ognuno di loro farebbe bene a spendere altrettanti minuti per provare a capire cos’è successo nel frattempo e cosa si potrà fare in futuro.
Da più parti si sente ripetere che, come al solito, il referendum non è servito a niente. I privati continuano a gestire il servizio idrico locale e nelle bollette c’è ancora la famigerata percentuale per la remunerazione del capitale investito, ovvero: per fare profitti sicuri con un bene comune. Eppure, la narrazione del “voto inutile” va disinnescata, perché non solo è falsa, ma serve pure a delegittimare l’unico referendum vincente da diciassette anni a questa parte.
Certo non si può negare che la strada del cambiamento è stata fin dall’inizio piena di ostacoli. Giusto il tempo di abrogare le norme oggetto del voto, e subito il governo Berlusconi ha tentato di farle rientrare dalla finestra con l’articolo 4 del cosiddetto “decreto di Ferragosto”. Classica data balneare, utile per far passare nefandezze, ma la corte costituzionale ha bloccato il provvedimento proprio in virtù della volontà popolare uscita dalle urne. Poi ci hanno provato con il patto di stabilità, la manovra “salva Italia” del governo Monti e l’autorità per l’energia.
Tanto accanimento non dimostra solo che l’acqua è un buon affare, ma fa capire anche come gli sconfitti non possano accettare di esserlo.
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Le riforme costituzionali tra pretesto e realtà
nique la police
"Il capo del governo inglese non dice mai una cosa vera senza l'intenzione che sia presa per una menzogna; non dice mai una cosa falsa,
se non con lo scopo che sia presa per la verità" (Jonathan Swift)
1. L'estinzione del lavoro in Italia malgrado lui.
Unico tra diciassette, tra poco tempo diciotto, paesi dell'eurozona l'Italia ha una Confindustria che evoca scenari di rivolta di piazza. Per bocca del suo principale rappresentante. Non solo, i giovani di Confindustria, recentemente riunitisi in Liguria, hanno sia paventato scenari di rivolta sociale che parlato di forme di reddito di cittadinanza nell'intervallo tra lavoro e lavoro. E se il primo giorno delle loro assise i giovani confindustriali hanno parlato di rivolta quello successivo è stato il turno della parola "rivoluzione". La loro organizzazione è al tramonto, forse irreversibile, ma si permette un uso dei concetti impensabile a sinistra. Dove, al massimo, è concesso impiccarsi onorevolmente ai concetti legati alle rifome e ai diritti e alla ormai, immancabile, notte in cui tutti i gatti sono neri detta classificazione dei beni comuni. Squinzi e Morelli, presidente di Confindustria giovani, usano così un linguaggio più radicale della Camusso e di Landini. I quali non solo non evocano scenari di rivolta sociale, una volta non esaudite le loro (blande) richieste, ma hanno dismesso qualsiasi ipotesi di calendario di lotte realmente incisivo da oggi all'autunno (quasi metà anno, cosa vuoi che sia in una crisi epocale). Per non parlare di realistiche rivendicazioni di una qualsiasi forma di reddito di cittadinanza. E qui viene spontaneo chiedersi: Camusso e Landini quando prevedono la piena occupazione?
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Dittatura costituzionale
di Elisabetta Teghil
nel rispetto della Costituzione..”
Barack Obama
Gli USA e i Paesi dell’Europa occidentale hanno indicato la via. La lotta contro il comunismo è cosa superata. Non si può impegnare tutta una società tecnologicamente avanzata nella lotta al comunismo con il rischio che la figura del comunista, nobile e disinteressato, magari alla Che Guevara, sia seducente.
La religione dello Stato ha coniato una nuova figura su cui far leva per eccitare e scatenare gli istinti di difesa e di aggressività.
Quella del terrorista.
Questo è il nemico pubblico contro cui agire, legiferare e serrare i ranghi.
Il terrorista è il male per eccellenza, contagioso, contro il quale ogni essere normale deve sentire l’esigenza di lottare per la difesa, non solo materiale, ma ideale, della comunità.
E’ la lotta del bene contro il male. E il bene non può essere ovviamente che l’esistente ordinato, il migliore dei mondi possibili nella stagione della fine della storia, con il fascino di un teorema immutabile.
Quanto di meglio c’è nella società coincide con la sottomissione consensuale alle scelte e agli interessi dell’ordine costituito.
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Che cosa è il Bilderberg
Complottismo o analisi della classe dominante?
di Domenico Moro
1. Una diffusa ma non molto strana passione per i complotti
Tra il 6 e il 9 giugno si tiene in Inghilterra il 61esimo degli incontri che annualmente, a partire dal 1954, vengono organizzati dal Gruppo Bilderberg. Su questa riunione si è manifestata da parte dell’opinione pubblica una attenzione maggiore del solito. Del resto, degli ultimi due presidenti del Consiglio dei ministri, Monti ne è stato a lungo un dirigente, mentre Enrico Letta vi è stato invitato nel 2012. Entrambi, poi, hanno fatto parte della organizzazione sorella più giovane, la Trilaterale, come anche Marta Dassù, un tempo lontano intellettuale di area Pci e più di recente sottosegretario con Monti e viceministro con Letta agli esteri, a capo del quale c’è la Bonino, inviata al Bilderberg nel passato. Quest’anno la presenza italiana non sarà numerosa ma di livello: Monti, Bernabé di Telecom, Nagel di Mediobanca, dal dopoguerra sempre al centro del sistema di potere del capitalismo italiano, Cucchiani di Intesa, prima banca italiana, Rocca di Techint e la giornalista Gruber.
A suscitare la curiosità del pubblico sul Bilderberg contribuiscono l’alone di mistero che lo circonda, dovuto alla segretezza sui contenuti dei dibattiti, e la presenza del gotha economico e politico di Usa ed Europa Occidentale. La ragione principale, però, è riconducibile alla sempre più diffusa percezione di impotenza da parte del “cittadino comune” nei confronti di una economia e di una politica che sfuggono persino alla sua comprensione.
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La crisi del capitalismo e della socialdemocrazia
di John Bellamy Foster e Bill Blackwater
John Bellamy Foster è meglio noto come autore di ‘Marx’s Ecology’ [Ecologia marxiana] (2000, in cui corregge il malinteso popolare su fatto che Marx non avrebbe ‘compreso’ i limiti ambientali) e come redattore della Monthly Review (monthlyreview.org), la rivista fondata dall’economista marxista Paul Sweezy nei tardi anni ’40. Nel suo libro più recente ‘The Endless Crisis’ [La crisi infinita] (2012, scritto con Robert McChesney) Foster analizza quella che definisce la ‘trappola della stagnazione-finanziarizzazione’. Si tratta dell’emergenza economica in cui si trovano oggi paesi come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna: dipendenti per la crescita da un sistema di bolle finanziarie che ora sono scoppiate, appaiono impantanati per il futuro prevedibile in una condizione di stagnazione cronica.
Proprio come si era soliti dire di alcuni che gli era ‘andata di lusso’ [had a good war] in guerra, così a Foster e alla Monthly Review è andata di lusso con la crisi finanziaria. La Monthly Review aveva previsto da molto tempo il crollo e la successiva stagnazione. In Gran Bretagna l’analisi della Monthly Review ha ottenuto commenti favorevoli da Larry Elliot del The Guardian e la sua influenza è in ascesa.
In questa intervista John Bellamy Foster parla non soltanto della crisi in cui si trova oggi il capitalismo maturo, ma anche della crisi che essa ha provocato nella socialdemocrazia. Per molti versi questo è per lui il capolinea della socialdemocrazia: non può più sperare di promuovere la crescita e di ridistribuirne il bottino. La stagnazione, non la crescita, è all’ordine del giorno. In queste condizioni, sostiene, è imperativo che i partiti socialdemocratici si reinventino, ricostruiscano collegamenti con le loro tradizionali fonti di sostegno ed è cruciale che rinvigoriscano la coscienza sociale della maggioranza della popolazione che viene attivamente svantaggiata delle élite finanziarie.
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L’eccezione esemplare: il caso italiano
nella crisi globale ed europea*
Riccardo Bellofiore**
Introduzione
In un intervento del 1973 dedicato a rintracciare le origini de il manifesto – il gruppo di comunisti eretici che per qualche anno seppe dar luogo ad una delle ‘rotture’ da sinistra più interessanti rispetto alla tradizione dei partiti comunisti di discendenza stalinista e leninista, che furono nella loro prima fase critici della stessa esperienza togliattiana – Lucio Magri risaliva sino ad Antonio Gramsci. Per il comunista sardo il capitalismo italiano era sì un capitalismo ‘straccione’, per molti versi arretrato produttivamente, ma questi limiti non derivavano affatto da una mancata rivoluzione borghese. Al contrario, l’Italia era il paese che aveva dato vita alla rivoluzione borghese, dove erano nate le banche e i primi centri del potere finanziario europeo. Ha patito però l’assenza del formarsi tempestivo di uno stato nazionale, un ritardo sul terreno dello sviluppo scientifico e tecnologico, la limitatezza del mercato interno, il procrastinato accumulo dei capitali, e il lento costituirsi di un autentico mercato della forzalavoro. Tutti fattori che hanno determinato il prevalere di aree di parassitismo e rendita.
Sono questi, osserva Magri, elementi che tornano nel capitalismo italiano successivo, quando esso finalmente decolla. Una eccezione, dunque, che si rivela però esemplare. Abbiamo infatti a che fare con caratteri che finiscono con il permeare di sé lo stesso capitalismo avanzato del Novecento.
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Il miglioramento immaginario dell'area euro
di Jacques Sapir
Jacques Sapir fa la radiografia ai pretesi miglioramenti delle economie del sud dell'eurozona, e l'esito è chiaro: un grave deterioramento della situazione
Una serie di affermazioni sembra accreditare l'idea di una lenta, ma reale, uscita dalla crisi nei paesi del "Sud" dell'area dell'euro. Esse si basano principalmente sulla forte riduzione del deficit commerciale di questi paesi, vista la loro capacità di registrare un surplus commerciale. Ma questa visione delle cose è evidentemente a breve termine, accompagnata da una formidabile miopia per quanto riguarda gli effetti reali della crisi.
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Comunità
Egoismo o stupidità?
di Giuseppe Laino
Davvero pensate che chi pulisce gli interni della propria casa fino allo splendore asettico dell’ospedale per poi, incurante, buttare dalla finestra tutti gli scarti che produce finendone sommerso o chi, fregandosene altamente di ciò che gli succede attorno – la devastazione del territorio, l’immiserimento delle condizioni di vita, la cosalizzazione dei rapporti umani – possa definirsi egoista o individualista?
A mio parere è solo e semplicemente un cretino. E il fatto innegabile che sia in numerosa compagnia, non può modificare né ammorbidire in alcun modo il giudizio testé espresso.
Certo, il cretino ha molte attenuanti a cui aggrapparsi.
Innanzitutto la possibilità di autodefinirsi egoista o individualista e non cretino gli è offerta da eminenti ideologi e non è cosa da poco conto.
Sembra assodato, infatti, che le prime due caratterizzazioni siano naturalmente insite nell’animo umano, mentre la seconda, al pari dei suoi sinonimi stupido ed imbecille, è ritenuta appannaggio di pochi o di molti ma sempre e comunque dell’altro.
Ad esempio «negli orientamenti della psicologia dinamica moderna si riconoscono due sistemi motivazionali fondamentali.
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Recuperare la sovranità nazionale
Per salvare l’Italia dall’eurodisastro
di Spartaco Alfredo Puttini
A metà degli anni Settanta l’imperialismo attraversava una crisi profonda, dovendo fronteggiare al tempo stesso la pressione delle classi popolari nel cuore stesso della Triade dei paesi capitalistici avanzati e la lotta per l’emancipazione delle nazioni del Sud del mondo, di cui rimane emblematica la vittoria del Vietnam sugli Stati Uniti.
Nel breve volgere di qualche anno, a partire dal cuore dall’Anglo-America, cuore del sistema imperialistico, vengono adottate una serie di politiche, definite neoliberiste, che mirano a lanciare una controrivoluzione globale. La libera circolazione dei capitali, che attraversando le frontiere possono cercare di soddisfare la loro insaziabile sete di miglior remunerazione possibile, e la deregolazione dell’economia, con la fine dell’intervento pubblico e il taglio del welfare, mirano a recuperare il terreno concesso al proletariato e alle classi popolari nel corso del decennio passato e mettono nel mirino le stesse conquiste democratiche. Sull’altro fronte della lotta di classe internazionale si mira a legare i paesi del Sud del mondo al cappio dell’indebitamento strutturale per svuotarne la sovranità a colpi di ricette “consigliate” dai propri tentacoli: FMI e Banca mondiale.
Dagli anni ’80 in poi l’adozione di quell’insieme di politiche delinea quello che viene comunemente chiamato “Washington Consensus”.
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Piazza Taksim: Crossing the bridge
di Raffaele Sciortino
La mobilitazione di piazza Taksim solleva gioco forza alcune domande importanti. Siamo di fronte a un nuovo passaggio dell’onda lunga primavera araba/occupy? C’entra la crisi globale o si tratta più di una rivolta da “aspettative crescenti” proprie di un ciclo economico espansivo? E cosa ci dice rispetto al futuro prossimo in Europa? Interrogativi che al momento non possono forse essere risolti completamente ma servono a muovere qualche passo oltre il giusto entusiasmo per queste giornate.
Diamo per scontato in prima battuta che la Turchia ha visto negli ultimi dieci anni di governo Akp (il partito islamista sunnita) tassi di crescita economica notevoli, quasi da Brics, seppure in diminuzione e un impatto fin qui minimo della crisi globale. A maggior ragione deve essere giunta inaspettata la reazione spontanea e generale, ben oltre Istanbul, all’ennesima “grande opera” di gentrificazione del territorio urbano varata con l’ormai consueta arroganza dall’élite politico-affaristica. Ma soprattutto sono le caratteristiche, la composizione, le modalità di azione e cooperazione della rivolta a dirci che siamo di fronte a qualcosa di più profondo, legato alle esplosioni di soggettività dalla Tunisia in poi. Vediamo.
Primo, un effetto scintilla: una singola vicenda locale, certo segno di una questione più generale ma comunque limitata nelle richieste, fa saltare gli equilibri con modi e tempi imprevisti e accelerati, amplificati ma non creati dai nuovi media.
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"Io, eterna madre della sinistra uccisa dai figli"
S. Fiori intervista Rossana Rossanda
BRISSAGO - "No, non ci capiamo più. Li ho ascoltati per tanti anni, un lungo miagolio sulle mie spalle. Venivano dalla madre a raccontare le delusioni esistenziali. Gli amori, le speranze, le difficoltà. Ma ora davvero non ci capiamo più". Lo sguardo è severo e insieme sorridente, l'incarnato candido come le camelie che fioriscono nel giardino qui intorno. Da qualche mese Rossana Rossanda vive a Brissago, un angolo del Canton Ticino dove si fermerà fino alla fine di agosto. "Sì, è un bel posto. Dall'ospedale di Parigi vedevo solo la periferia, qui c'è il lago per fortuna increspato dal vento. Per chi non la conosce, la Svizzera può essere incantevole. Ma pare che chi ci vive la trovi insopportabile".
Azzurro ovunque, le vele bianche, anche i monti innevati, una bellezza quasi sfacciata e intollerabile allo sguardo ferito di chi abita nella grande casa di vetro affacciata sul lago Maggiore. "La prego", si rivolge con famigliarità all'infermiere, "può dare un po' d'aria alle rose?". La stanza è luminosa, sul comodino la bottiglia di colonia e la biografia di Furet, un po' più in là l'ultimo libro di Asor Rosa, I racconti dell'errore. "È un bellissimo libro sulla vecchiaia e sulla morte. Ma noi vogliamo parlare d'altro, vero? I necrologi lasciamoli da parte".
Per i più vecchi, nella famiglia del Manifesto, è stata l'eterna sorella maggiore, la quercia sotto cui ripararsi nella tregenda. Per i "giovani" - così li chiama, anche se giovani non sono più da tempo - è la madre temuta e ingombrante. "Sì, una madre castratrice. Mi hanno sempre visto così, anche se io non mi sono mai sentita tale. Ho sempre cercato di capire, di dar loro spazio, ma forse è una legge generazionale.
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Governo Letta: larga l’intesa, stretta la via
di Alfonso Gianni
Mentre il nuovo segretario del Pd Guglielmo Epifani incassa l’assenso della Direzione del suo partito con soli sei astenuti, sulla base della dichiarazione che la discussione sulle riforme costituzionali va fatta in Parlamento e che bisogna tenere fuori sia il governo che la Presidenza della Repubblica, accade esattamente il contrario. Un caso di mala informazione? Non credo è che ormai le parole hanno perso di significato. In effetti il Pd aveva già votato, assieme al Pdl e approvato una mozione che impegnava il governo a presentare una modifica dell’articolo 138 per affrettare il dibattito parlamentare sulle riforme. Dal canto suo Napolitano aveva già dettato i tempi e i ritmi della discussione parlamentare, mentre Enrico Letta procedeva alla nomina di 35 esperti, con qualche presenza di sinistra per dividere il fronte, al fine di “confortare” il governo durante l’iter della riforma della seconda parte della Costituzione e della legge elettorale.
Se sul terreno delle riforme costituzionali il governo Letta mostra un’insolita determinazione, su quello delle politiche economiche la continuità è indubbiamente il tratto caratteristico che lo unisce al governo Monti. Se ne vedevano i segnali ante litteram: infatti non era difficile, per come si stavano predisponendo le cose, scommettere su una ultrattività del programma montiano al di là delle vicende e delle sorti politico-elettorali non travolgenti del suo alfiere.
La ragione di fondo sta nel fatto che tanto Monti quanto Letta si sono mossi e si muovono dichiaratamente entro il perimetro programmatico stabilito dalla nuova governance europea fin dalla famosa lettera della Bce al morente governo Berlusconi dei primi di agosto del 2011.
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Elvio Fachinelli. Su Freud
Mario Porro
Elvio Fachinelli (1928-1989) riconosceva a Freud il merito indiscusso di avere aperto il campo di una ricerca sui rapporti interindividuali, una “nexologia” umana (da nexus, legame, intreccio). Adelphi - che di Fachinelli aveva edito gran parte degli scritti – ne ha ora raccolto in Su Freud alcuni saggi dispersi: si va da una nitida presentazione del fondatore della psicanalisi per “I Protagonisti della Storia universale” nel ’66, a riletture di temi freudiani (la caducità e Rilke, il senso della gratitudine e la fobia del dono) apparse su “il manifesto” nell’anno della morte. Sono scritti che confermano la radicale libertà di giudizio con cui Fachinelli si confrontò con il “maestro”, di cui tradusse e curò molti scritti, ma di cui mise in evidenza anche chiusure e cecità. Già nel ’69 egli prendeva le distanze da una psicanalisi “della risposta”: prima ancora della domanda viene l’ascolto ed è dal concreto della pratica clinica, dal colloquio sempre singolare fra due persone, che emerge la verità. La psicanalisi, rileva lo scritto del ’66, è in tal senso l’esito di un percorso di liberazione dai valori culturali e dai criteri scientifici che Freud aveva recepito nel suo noviziato di fisiologo ed anatomista. Ma nel “chiaroscuro freudiano” non sarà del tutto scalfita la corazza materialista ed antivitalista tardo-ottocentesca, che impone la ricerca di forze fisiche come uniche cause dei fenomeni, nella speranza della conquista della verità come oggettività impersonale.
L’ultimo saggio raccolto in Su Freud, “Imprevisto e sorpresa in analisi”, è un invito ad “accogliere” le novità che emergono dalle parole dell’altro nella conversazione, soprattutto quando faticano a rinchiudersi nelle maglie dell’ortodossia.
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Parola chiave, Crisi
di Mario Tronti
Nel 1980, per il numero di aprile-maggio, La Rivista, un periodico molto interessante diretto da Walter Pedullà, manda in stampa un numero monografico con il titolo “La crisi del concetto di crisi”. Marco d’Eramo invia un breve testo che istruisce il tema. Le risposte sono di personaggi più che significativi: tra gli altri, Jacques Attali, Julien Freund, Emmanuel Le Roy Ladurie, Edgar Morin, René Thom. Molto gustoso un passaggio della proposta di d’Eramo: “Mentre si apre il penultimo decennio di questo millennio, la ‘Crisi’ è uno strumento che basta a evocare l’Emergenza, l’Unità- Nazionale, l’Austerità, lo Sforzo-Collettivo. È il miraggio di una Nuova- Era, di una Società-Più-Umana. È il preludio della Catastrofe, la consorte del Riflusso. Una volta la lingua era più ricca. Spengler parlava di Declino o Tramonto (dell’Occidente), Horkheimer di Eclissi (della Ragione)”. Si parla di noi, della nostra attuale crisi, come ne parlano gli interpreti, che sono poi, come si sa, i responsabili stessi della crisi. La prima preoccupazione dovrebbe essere quella di non parlarne in questi termini. Che la crisi sia di natura economico-finanziaria, non c’è dubbio. Che se ne possa dire nella sola lingua dell’economia e della finanza, questo è molto dubbio.
Riportiamo allora il concetto di crisi alla sua storia di lunga durata. Utilizziamo alcuni spunti del fascicolo sopra citato. Tucidide riprende la crisi sia da Ippocrate, nel senso medico, come improvviso cambiamento in un corpo, sia da Sofocle, nel senso teatrale, come rappresentazione del trauma.
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Derive del lavoro
Ovvero il capitalismo della scommessa
A partire dagli anni Novanta dello scorso secolo, le forme del lavoro si sono profondamente trasformate, non solo in virtù del crollo dell’economia pianificata del blocco sovietico – evento che ha portato il mercato ad una fase di definitiva mondializzazione e di potenziale saturazione –, ma anche e soprattutto in ragione dell’impetuoso sviluppo dell’informatica che lo stesso mercato aveva favorito (si pensi al fenomeno della Sylicon Valley in California): per usare i termini di Marx, i vecchi rapporti di produzione sono stati polverizzati da un accelerato processo di innovazione tecnologica, che, insieme al ricorso alla robotizzazione, ha enormemente ridotto la necessità di manodopera. Un intero modello di organizzazione sociale, che aveva il suo centro propulsore nella fabbrica fordista, è entrato in crisi irreversibile, mentre il mercato ha cominciato a presentare una nuova divaricazione, quella che intercorre tra le grandi fabbriche ormai de-localizzate (dunque ormai incapaci di creare legami sociali sul territorio: si pensi al declino delle città minerarie degli Usa o al fenomeno dell’‘archeologia industriale’) da un lato e, dall’altro, alla disgregazione atomistica e alla semi-privatizzazione del lavoro cognitivo-progettuale, che nell’ultimo decennio del secolo appariva ancora piuttosto concentrato in Europa, negli USA e in Giappone. È in quegli anni che iniziano ad imporsi e a proliferare nuove forme di lavoro sempre più “precarizzate” e semi-private, innescate dai suaccennati processi economici e tecnologici ma, fin dagli anni ottanta, “facilitate” dall’adozione di nuove “politiche del lavoro” liberiste.
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Salvati-Pianta, chi è l'estremista?
di Paolo Favilli
Il blocco egemone neoriformista ha costruito uno spazio politico «normale» oltre il quale c'è solo l'estremismo
Mario Pianta in un recente articolo su questo giornale sembra stupirsi per il fatto che Michele Salvati abbia etichettato come libro di un' «estrema sinistra», seppur «pensante», un importante contributo proveniente dagli studiosi di economia raccolti intorno a «sbilanciamoci». Si tratta, in verità, di un indicatore assai interessante del ruolo di un linguaggio, fatto passare per asettica descrizione di uno stato di fatto, nella battaglia politico-culturale in corso. Tanto più indicativo in quanto l'espressione viene usata da uno studioso di indubbie qualità personali ed intellettuali. Insomma una «testa pensante» che non ha con il lessico rapporti casuali. La collocazione su un asse degli estremi destra/sinistra non è la conseguenza di una tecnica neutrale che valuta pesi e contrappesi, ma degli esiti di aspre lotte culturali e politiche. Per questo tali collocazioni, e in particolare quella «estrema», si ridefiniscono continuamente e vanno valutate come sintomi di processi in corso, del tutto esterni rispetto a qualsiasi criterio di oggettività.
La democrazia si è storicamente basata sull'idea di emancipazione universale. Una concezione di tal genere è del tutto includente.
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Uscire dall'euro non basta
A proposito dei manifesti europeo e spagnolo del maggio 2013
di L.Vasapollo, J.Arriola, R.Martufi
Rompere l’europolo, costruire l’alba euro-afro-mediterranea del movimento internazionale dei lavoratori: uscire dall’euro e’ una condizione necessaria, ma non sufficiente
1. La crisi del capitalismo, lungi dall'essere esaurita, diventa sempre più acuta, a causa dell'incapacità del capitale di sviluppare un nuovo modello di accumulazione fattibile, evidenziandone, così, in maniera sempre più decisa il suo carattere sistemico.
Va sottolineato che parliamo da tempo di crisi sistemica poiché già nella sua strutturalità e globalità, questa crisi rende evidente la tendenza alla caduta del saggio di profitto nei paesi più sviluppati, o meglio da noi sempre definiti paesi a capitalismo maturo.
E’ chiara l’evidenza in questo caso dell’enorme distruzione di “forze produttive in esubero”, siano esse forza lavoro o capitale come esplicitazione di forma di lavoro anticipato, e quindi non vi sono più le condizioni per ripristinare un nuovo modello di valorizzazione del capitale che sappia dare la “giusta” redditività agli investimenti; diventa così pressocchè impossibile, e non conveniente in termini di profittabilità, creare possibilità per un nuovo processo di accumulazione capitalista, anche attraverso il cambiamento del modello di produzione e accumulazione.
Ciò significa che la costante sovrapproduzione di merci e capitali nei paesi a capitalismo maturo non trova più soluzione né nelle varie forme di presentarsi e di fuoriuscire dalle crisi congiunturali né di quelle di natura più strutturale, ma si va configurando sempre più un carattere di crisi globale accompagnata da crisi sistemica.
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Le decisioni del pubblico
In margine al referendum di Bologna
Quelli di noi che hanno potuto farlo hanno scelto A al recente referendum consultivo di Bologna. Gli altri – migranti, studenti fuori sede, lavoratori precari senza la residenza – non hanno potuto dire la loro sul finanziamento pubblico alle scuole materne private. Eppure vivono a Bologna, magari da molto tempo, e hanno una loro idea di cosa potrebbe o dovrebbe essere pubblico. Per quanto ottenuto con un pubblico ridotto, l’esito del referendum può anche soddisfare. Pensiamo però che sia utile proporre una riflessione sul pubblico e le sue contraddizioni che non ne faccia un feticcio fuori dal tempo.
La questione posta domenica 26 maggio, infatti, non riguarda solo Bologna e nemmeno le sole scuole materne. Non perché quel referendum possa stabilire un qualche precedente o indicare una qualche strada da percorrere, ma perché ha posto delle questioni che non ha risolto e che forse non poteva nemmeno risolvere. Apparentemente si trattava di dire, ma non di decidere, se il comune deve finanziare le scuole materne gestite in maniera preponderante da imprese religiose. Qualsiasi fosse stato l’esito, gli elettori – che dovrebbero stabilire la direzione politica del potere pubblico – non avrebbero potuto decidere come deve essere l’intervento pubblico a Bologna. In questa apparente confusione, una decisione era stata già presa: una decisione del potere pubblico sui limiti del pubblico. Il primo aveva già deciso che gli elettori potevano solamente applaudire o fischiare, ma non decidere su cosa viene effettivamente rappresentato. Gli elettori diventano così gli spettatori che formano il pubblico – anche se in un altro senso – che assiste allo spettacolo e alle decisioni del potere. Il referendum consente così di riflettere sui significati politici che oggi ha il pubblico.
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L'Unione parla tedesco
Marco Bascetta
«Oggi il Bundestag tedesco decide sul destino della Grecia», annuncia un notiziario della radio nel febbraio del 2012. È da questo annuncio, inquietante nella sua ostentata naturalezza, che Ulrich Beck prende le mosse per affrontare in un piccolo volume edito da Laterza (Europa tedesca, pp. 96, Euro 12) il tema, spinosissimo, dell'egemonia germanica nell'Europa della crisi. Che il parlamento di uno stato membro possa dettare legge a quello di un altro, non legittimato naturalmente da alcun ordinamento, ma in base a un potere di ricatto che le circostanze gli conferiscono, è un paradosso al quale ci siamo ormai quasi assuefatti. E il fatto che questo potere di decisione passi attraverso i trattati e le istituzioni dell'Unione europea, la valutazione e il giudizio di commissioni e commissari comunitari e transnazionali, perfino attraverso il simulacro di un negoziato, cambia poco alla sostanza e, soprattutto, alla percezione di una profondissima asimmetria, di una dipendenza a senso unico. L'annuncio ci rivela essenzialmente una cosa: la politica europea, in conseguenza dell'architettura comunitaria e delle sue lacune, è ostaggio delle politiche interne dei diversi stati e in particolare di quello economicamente più potente. Dalla Germania europea, quella che abbiamo conosciuto dal 1945 al 1989, saremmo passati, in un breve volgere di anni, - come sostiene Beck - all'Europa tedesca.
La macchina del consenso
Nel clima della guerra fredda e con alle spalle la catastrofe nazionalsocialista, la Repubblica federale non avrebbe potuto respirare altra aria che quella di un europeismo deciso, rispettoso e rigorosamente atlantico.
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Aspetti politici del pieno impiego
Michał Kalecki
I
[La dottrina economica del pieno impiego]
I.1
Una solida maggioranza degli economisti è oggi dell’opinione che, anche in un sistema capitalista, il pieno impiego possa essere assicurato da un programma di spesa del Governo, purché siano disponibili impianti adeguati ad impiegare tutta la forza lavoro esistente, e purché sia possibile ottenere in cambio delle esportazioni forniture adeguate delle necessarie materie prime che devono essere importate dall’estero.
Se il Governo garantisce investimenti pubblici (ad esempio costruisce scuole, ospedali e autostrade) o sostiene con sussidi il consumo di massa (con gli assegni familiari, la riduzione delle imposte indirette, o con sussidi diretti a mantenere bassi i prezzi dei beni di prima necessità) e se, in più, queste spese sono finanziate con un maggiore indebitamento e non con la tassazione (che potrebbe avere un effetto negativo sugli investimenti e sui consumi privati) allora la domanda effettiva per beni e servizi può essere incrementata fino al punto che corrisponde al raggiungimento del pieno impiego.
Si noti che questa spesa del Governo incrementa l’occupazione non solo direttamente ma anche indirettamente, dal momento che i redditi più elevati che essa genera provocano a loro volta incrementi secondari della domanda di beni di consumo e di investimento.
I.2
Ci si potrebbe chiedere dove il pubblico prenderà il denaro da prestare al Governo se non riduce i suoi investimenti e i suoi consumi.
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Il doppio volto dell’alienazione
La nuova teoria critica di Rahel Jaeggi
di Giorgio Fazio
Negli ultimi anni si è assistito nel dibattito filosofico tedesco a una riattivazione dell’interesse per il concetto di “alienazione”. A procurarlo è stato in particolare il libro di Rahel Jaeggi, Entfremdung, Zur Aktualität eines sozial-philosophischen Problems, uscito nel 2005. In questo articolo, con cui inaugura la rubrica “Kippbilder”, di cui sarà curatore, Giorgio Fazio spiega in che modo Jaeggi ha provato a riattualizzare questo concetto
Al pari di altri termini fondamentali della letteratura filosofica del Novecento, anche il concetto di “alienazione” ha subito negli ultimi decenni un processo di progressivo eclissamento dal dibattito teorico e politico, che solo negli ultimi anni sembra, in parte, essersi arrestato. Questo processo di marginalizzazione risulta tanto più evidente quanto più si richiama alla memoria la centralità rivestita da questo concetto nel dibattito filosofico, politico e culturale del XX secolo. La critica dell’alienazione non è stata infatti soltanto uno dei capisaldi teorici del “marxismo occidentale” e della prima teoria critica francofortese, nonché, su un altro versante della filosofia novecentesca, dell’esistenzialismo tedesco e francese. Nella seconda metà del Novecento, questa modalità di critica filosofica delle forme di vita moderne è assurta a vessillo di un’intera stagione politica e culturale. Essa ha costituito la fonte d’ispirazione di opere letterarie, artistiche, cinematografiche ed è divenuta una lente di analisi politica, sociologica e psicologica che è entrata a far parte del linguaggio comune.
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Il festival dell’astrologia
Augusto Illuminati
Cicerone si meravigliava che due aruspici, incontrandosi, non scoppiassero a ridere (De natura deorum III, 26). Adesso a Trento, Festival dell’economia dal 30 maggio al 2 giugno 2013, s’incontreranno a centinaia aruspici, àuguri, maghi e spacciatori di derivati. Sai che risate.
Alle spalle degli italiani, cui hanno raccontato prima le mirabili sorti del neoliberismo, dei fondi di investimento e dei fondi pensioni, poi li hanno incitati a contrarre mutui, dopo ancora hanno negato che la crisi ci fosse, infine hanno somministrato l’amaro placebo della cura Monti, salvo a verificare che aveva aggravato la malattia. Mai, dico mai che uno di questi economisti si sia suicidato per il rimorso e la vergogna, mentre a decine si impiccavano o si davano fuoco imprenditori, commercianti, pensionati poveri, cassintegrati, esodati, ecc. Ora si ripropongono con nuovi rimedi di guarire le malattie che in precedenza avevano vantato quali cure.
Forse Trento sarà l’occasione di (tardivi) ripensamenti – promettono pensosamente sulle pagine de Repubblica gli organizzatori, Tito Boeri in testa –, meglio di niente, tuttavia come non ricordare gli effetti di ricette dispensate con ineguagliabile sprezzo del ridicolo e del principio di contraddizione per tanti anni? Inutile salmodiare la litania dei dati Istat sulla crescita inesorabile della disoccupazione generale, sul crollo della produzione industriale, dei consumi, e del risparmio, sul calo del Pil e dunque dell’ascesa del rapporto debito/Pil.
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