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Contro l'austerity. Sovvertire il presente
di Guido Viale
Assistiamo da decenni, impotenti, a una continua espropriazione del Parlamento, peraltro consenziente, e per suo tramite del «popolo sovrano». Le principali tappe di questo processo sono state: 1. La separazione della Banca centrale dal controllo del governo (anni '80) per contrastare le rivendicazioni salariali, che ha dato a un organo non elettivo il potere (poi trasferito alla Bce) di decidere le politiche economiche e sociali; ma soprattutto ha fatto schizzare il debito pubblico mettendolo in mano della finanza. 2. Le molte riforme del sistema elettorale, dall'abrogazione del sistema proporzionale («una testa un voto», principio basilare della democrazia rappresentativa) al cosiddetto porcellum, che trasferisce dagli elettori alle segreterie dei partiti la scelta dei propri rappresentanti; 3. La cancellazione della volontà di 27 milioni di elettori al referendum contro la privatizzazione dell'acqua e dei servizi pubblici con ben quattro leggi controfirmate da Napolitano (l'ultima anche dopo che la Corte costituzionale aveva dichiarato illegittime le prime tre), come anni prima, con il referendum per l'abrogazione del finanziamento pubblico dei partiti; 4. L'imposizione di un «governo tecnico» con un programma (l'«Agenda Monti») imposto dalla Bce, e attraverso questa, dall'alta finanza sotto «l'incalzare» dello spread: una sudditanza che non avrà più fine, perché da allora la finanza che controlla il debito pubblico potrà imporre a qualsiasi governo le misure che vuole; 5. il governo Letta, conclusione logica di questo processo, che azzera la volontà di tre quarti degli elettori italiani (un quarto astenuti; un quarto cinque stelle; un quarto «centro-sinistra») tutti determinati, con il voto o il non voto, a cancellare le politiche di Monti e Berlusconi); 6. Il progetto, non nuovo, di cambiare in senso presidenziale la Costituzione.
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Problemi del materialismo storico 2.0
di Valerio Bertello
1. Una teoria della storia
Il materialismo storico si presenta come una teoria della storia e strumento di comprensione del presente, ma proprio per questo pone alcuni problemi che devono essere approfonditi. Ciò che segue si propone di richiamare l’attenzione su queste questioni sia nel merito che nel metodo, suggerendo possibili linee di approccio alla loro formulazione ed approfondimento. Quanto al metodo, si intende qui seguire quello scientifico, almeno in linea generale, cioè nella misura in cui è applicabile a contenuti storici. Quindi il presente saggio intende anche vagliare il materialismo storico sottoponendolo al filtro del metodo scientifico e constatare quanto di esso rimane valido, vale a dire se è logicamente coerente e se regge il confronto con l’oggettività, cioè con i dati empirici, oppure deve essere considerato una filosofia della storia, cosa che Marx respingeva recisamente.
Prima di entrare nel merito è necessario richiamare alcune nozioni di carattere generale del metodo scientifico. Occorre quindi ricordare che una teoria non ha bisogno di giustificazioni, ma solo di conferme, il che non significa dimostrazioni. Una teoria non si può dimostrare, perché essa stessa è posta a priori come lo strumento che nel campo considerato fornisce tutte le dimostrazioni come deduzioni dalla teoria. Se queste corrispondono ai fatti si ha una conferma della teoria e i fatti trovano in essa la loro spiegazione. Ma la teoria è costituita da una serie di ipotesi derivate da un insieme di fatti allo scopo di spiegare questi e una cerchia più ampia degli stessi. Ovviamente più sono le conferme, più la teoria è attendibile, ma non vera in senso assoluto, poiché occorre tenere ben fermo che nessuna verifica è di per sé conclusiva, in primo luogo perché può essere sempre smentita da nuove verifiche e poi perché una verifica sulle sole conseguenze non è di per sé probante rispetto all’antecedente, in quanto uno stesso fatto può essere il risultato di più cause diverse.
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Il dilemma del vitellone
Raffaele Alberto Ventura
Periodicamente un politico incauto lancia una sparata sui giovani fannulloni, così scatenando il subbuglio di mille code di paglia — «Ho sette lauree, vacci tu a raccogliere i pomodori!» – accompagnato da dotte considerazioni keynesiane sulla natura sempre involontaria della disoccupazione. Ma come si concilia, al di là di ogni giudizio morale, la teoria della disoccupazione involontaria con la realtà di un mercato che nondimeno richiede un certo tipo di manodopera e la soddisfa dislocando milioni di lavoratori da una parte del mondo all’altra? Cosa determina le nostre traiettorie formative e professionali, talvolta demenziali, se non delle scelte deliberate e delle preferenze soggettive?
La tanto vituperata teoria neoclassica della disoccupazione volontaria ha il vantaggio di porre la questione del lavoro in termini di razionalità individuale e può essere utile per capire cosa accade alla classe media occidentale, e italiana in generale. In effetti per chi dispone delle risorse sufficienti è razionale prolungare gli studi universitari, perfezionare un proprio talento o accumulare relazioni, persino andare in tivù da Andrea Diprè, piuttosto che andare a raccogliere pomodori: in questo modo aumenteranno le probabilità di ottenere il successo nel proprio campo, anche se dopo cinque o dieci anni vissuti come I vitelloni di Fellini. Un esempio di questo tipo di strategia è Richard Katz nel romanzo Libertà (2010) di Jonathan Franzen: cantante in uno sconosciuto gruppo rock fino all’alba dei quarant’anni, barcamenandosi tra vari proverbiali «lavoretti», d’un tratto diventa famoso e passa istantaneamente da sfigato a idolo delle folle.
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L’uso in comune dei beni
di Gino Sturniolo
Intervento svolto in occasione della presentazione di Beni Comuni, volume monografico della rivista Il Ponte, a cura di Mario Pezzella, il 26 aprile, a Messina. Gino Sturniolo è il portavoce del movimento No Ponte di Messina
“Il capitalismo sta per finire. La prova: il crollo dell’Unione Sovietica”. Con queste parole Anselm Jappe inizia la sua introduzione aL’onore perduto del lavorodi Robert Kurz (pubblicato in Italia da Manifestolibri nel 1994). Secondo le tesi dell’autore tedesco e della rivistaKrisis, con la quale ha collaborato negli anni novanta, la crisi del sistema di produzione basato sullo sfruttamento industriale si evidenzia più clamorosamente laddove presenta maggiori rigidità. Laddove, evidentemente, si presenta a maggiore comando statale. Il crollo dell’Unione Sovietica non dimostrerebbe, quindi, la superiorità dell’economia di mercato, bensì il soccombere delle sue manifestazioni meno concorrenziali.
Le tesi sostenute da Kurz hanno, a mio modo di vedere, a che fare con quanto esposto da Lanfranco Caminiti inBreznev in Calabria,un articolo pubblicato nel 1991 sulla rivistaLuogo Comune,nel quale veniva proposta una lettura del Sud come luogo dove vennero sperimentate nel trentennio postbellico politiche “socialiste”. “E’ come se in Italia si sia realizzato un socialismo regionale e che, ben lungi dalla solita individuazione della zona tosco-emiliana come base rossa, questa macchia di socialismo reale sia stato il Meridione. E proprio come all’Est le macchine statali socialiste sono andate in crisi, la struttura statale nel Sud… va a pezzi e con clamoroso rovinio”.
Di quelle politiche Caminiti ricorda, senza particolari sottolineature critiche, che “l’unico posto al mondo con un livello di produttività operaia bassa come a Tblisi fosse stato l’Alfa di Pomigliano d’Arco”.
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Spettri della rivoluzione
Badiou, Rancière e Žižek sulla creazione politica
Emanuele Profumi
Nella filosofia politica contemporanea diverse prospettive critiche ipotizzano in modi diversi la presenza della creazione politica come forma di emancipazione umana. Le posizioni di Alain Badiou e Jacques Rancière sono le più significative perché da un lato cercano di sostenere la realtà della politica come creativa, mentre dall’altro non riescono a legarla ad una vera prospettiva rivoluzionaria a causa di problemi che si creano attorno a nuclei immaginari relativi al “nulla politico” e alla “verità democratica”. Come ha sottolineato a ragione Slavoj Žižek, questi due filosofi non riescono a pensare fino in fondo la rivoluzione politica. Tuttavia anche quest’ultimo filosofo non è in grado di farlo per la stessa ragione di fondo: come Badiou e Rancière anche Žižek fonda la propria verità ontologico-politica su un’illusione di fondo, un fantasma del pensiero.
Accantonare provvisoriamente l’idea che l’illusione sia lo stato in cui ognuno si trova quando fa esperienza della sospensione dell’incredulità, o della simultanea condizione di credere e non credere, come la intende giustamente Mori1, e declinare criticamente il termine, più legato al senso comune, come la scoperta di una credenza che si rivela, in un secondo tempo, semplicemente falsa, ci consente di rintracciare i limiti della riflessione filosofico-politica contemporanea di alcuni pensatori che in questi ultimi decenni hanno cercato di cogliere la novità politica come emergere dell’emancipazione.
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Violenza, cuore segreto della società
di Diego Fusaro
Domenica 28 aprile si è verificato un grave episodio di violenza davanti a Palazzo Chigi. Disoccupato, divorziato e dipendente dai videopoker: è questo il tragico profilo di Luigi Preiti, il quarantanovenne di Rosarno, che ha premuto il grilletto. “Sono disperato”, ha affermato: non è certo una giustificazione, ma è indubbiamente un tema su cui è opportuno riflettere seriamente. Onde evitare ogni equivoco – e nell’epoca dell’odierna confusione globale è sempre bene essere chiari fino all’estremo – , lo diciamo subito: il gesto di Preiti dev’essere incondizionatamente condannato e punito secondo la legge. Non è nostra intenzione deresponsabilizzare gli individui. E, tuttavia, il gesto di Preiti offre lo spunto per svolgere alcune considerazioni sullo statuto della violenza nell’odierna società.
Nell’ordine della manipolazione organizzata di cui siamo abitatori, è invalsa la moda di pensare che la violenza in quanto tale sia una forma estinta, appartenente esclusivamente a un passato degno di essere ricordato con il solo obiettivo di guadarsi dai suoi errori. Si tratta di una maniera – tutto fuorché ideologicamente neutra – di innocentizzare il presente, creando la grandiosa illusione – la falsità organizzata – secondo cui l’oggi sarebbe esente dalla violenza. Questo modo di pensare è largamente maggioritario: esso, come si dice a Torino, “fa fine e non impegna”.
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L'allegra brigata degli europeisti anti-tasse
Leonardo Mazzei
Sogni e realtà del governo Letta il nipote
(con alcune annotazioni sul DEF che oggi arriva in parlamento)
Puntuali come le piogge di primavera, le prime capocciate le hanno già battute. E sono arrivate dall'amata Europa. Per la quale si deve soffrire, sempre essendo disponibili a morire, come esplicitato nel titolo di un libro del 1997 - «L'euro sì. Morire per Maastricht», Laterza 1997 - scritto dall'attuale capo del governo.
La novità delle «larghe intese» è anche piaciuta a Berlino, ma non al punto da lasciarsi commuovere. Dalla Merkel il giovane Letta ha avuto più che altro l'incoraggiamento a proseguire la strada del rigore. E non è andata meglio a Bruxelles. E nemmeno a Parigi, dove si blatera di crescita ma non si vuol nemmeno sentir parlare di quella unità politica in cui sembrano credere ormai soltanto gli ectoplasmi dei defunti partiti italiani.
Fatto sta che la temuta parola che gli illusionisti avevano appena rimosso - «manovra» - ha conquistato le prime pagine dei giornali a neanche una settimana dal giuramento del nuovo esecutivo. Che vita breve hanno certe illusioni!
Eppure si erano dati un gran daffare: via l'IMU sulla prima casa, no all'aumento dell'IVA, slittamento della TARES, riduzione delle «tasse sul lavoro», cioè sgravi alle imprese e contentino sull'IRPEF ai lavoratori dipendenti.
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Boston: una prova generale?
di Giulietto Chiesa
Le controverse e bizzarre versioni ufficiali e ufficiose dell'attentato di Boston, l'ombra dell'FBI sulle biografie degli attentatori, le esercitazioni di sicurezza (come sempre nei grandi attentati), le impressionanti lacune dei principali organi di informazione, una metropoli sotto assedio. Il massimo indiziato è ora muto, ma i media non stanno meglio.
Il mainstream peggiora a vista d’occhio. E, tanto più peggiora, tanto meglio si vede in filigrana quando mente (anche se non è facile, di primo acchito, vedere quanto mente). Peggiora ma non pare destinato, per il momento, a passare a miglior vita. Infatti viene sostenuto da possenti iniezioni di morfina, che lo rendono , se non più sano, quanto meno abbastanza arzillo. Io, da modesto cronista, l’ho seguito con grande attenzione nelle sue circonvoluzioni: dalla narrazione che imbastì a proposito della fine dell’Unione Sovietica, all’esaltazione della figura di Boris Eltsin, dipinto a tinte pastello come il primo presidente democratico della nuova Russia, mentre era soltanto un Quisling ubriacone che la Russia la svendette, privatizzandola, tutta intera, con la modica spesa di 10 miliardi di dollari (sottolineo, dieci miliardi di dollari).
L’ho seguito, il mainstream durante gli eventi dell’11 settembre 2001, a volte perfino ammirato della sua spettacolare potenza. Non si poteva non restare affascinati dalla capacità planetaria con cui riuscì prima a raccontare che il colpevole era stato Osama bin Laden, insieme a 19 terroristi semi-analfabeti, naturalmente islamici, poi a chiudere bruscamente e per sempre (forse) la pagina, dimenticandola insieme ai prigionieri di Guantanamo.
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Bruciare Debord? A partire da un libro di Anselm Jappe
di Alessandro Simoncini
Persistenze dello spettacolo nel nuovo ordine penitenziale. Una premessa
«Bisogna bruciare Debord?«. Si apre con questa domanda il Guy Debord di Anselm Jappe (Roma, Manifestolibri 2013 → QUI), assai opportunamente ristampato per i tipi della Manifestolibri e pubblicato in prima edizione italiana nel 1992 dalle Edizioni Tracce. Iniziava allora la litania della fine della storia: ogni alternativa alla società del capitale, della merce, del valore e del lavoro comandato doveva cessare di essere concepibile e, nelle intenzioni dei teorici del nuovo ordine, perfino desiderabile. Oltre venti anni dopo, la fine della storia non riesce ancora a finire. Anzi, nella temperie di una crisi acutissima ed ormai permanente – una crisi economica globale che si svolge nel contesto di una transizione geo-politica segnata dalla fine del “secolo americano” -, nuove sfibrate versioni della vecchia litania danno forma ad un discorso-zombie sulla “giustizia dei mercati” che si affatica a fornire una sempre più instabile parvenza di verità alla variante finanziarizzata e neoliberale dell’accumulazione capitalista. Fin dalla sua nascita e per tutti gli anni ’80, ’90 e ‘00, l’espansione finanziaria è stata supportata e riprodotta dalle forme di quell’ordine “spettacolare integrato”che Debord aveva posto al centro della sua radicale indagine nei Commentari sulla società dello spettacolo (1988).
Oggi nella crisi, con l’allestimento scenico di uno stato di emergenza permanente, le forme dello spettacolo sembrano mutare.
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Augusto Graziani: la scienza moderna delle classi sociali
di Emiliano Brancaccio
L’economista Augusto Graziani compie ottant’anni. Un’occasione per riscoprire la modernità di un metodo di ricerca basato sull’analisi degli antagonismi tra e dentro le classi sociali. Un metodo che ha permesso a Graziani di anticipare gli snodi della attuale crisi europea
Augusto Graziani celebra oggi il suo ottantesimo compleanno. Nato a Napoli nel 1933, esponente di punta delle scuole italiane di pensiero economico critico, già senatore e accademico dei Lincei, nell’arco di quasi mezzo secolo di pubblicazioni Graziani si è cimentato con successo nella infaticabile opera di tessitura di una sottile trama logica, in grado di tenere coerentemente assieme ricerca teorica pura, didattica e divulgazione. Per questa sua missione gramsciana, riuscita a pochi altri ed oggi considerata impossibile dalla stragrande maggioranza degli economisti, Graziani ha saputo farsi apprezzare non solo da studenti e colleghi ma anche da un più ampio pubblico di estimatori, tra cui i lettori dei suoi editoriali pubblicati sul manifesto e su varie altre testate nazionali.
Come molti economisti della sua generazione, Graziani ha in più occasioni partecipato al dibattito sulla critica della teoria neoclassica dominante. La sua posizione sull’argomento è apparsa fin dall’inizio peculiare. A suo avviso, la sfida per la costruzione di un paradigma economico alternativo dovrebbe riguardare in primo luogo il metodo. La teoria neoclassica poggia sull’individualismo metodologico, un criterio di analisi della società che può essere rozzamente sintetizzato nella massima thatcheriana secondo cui la società non esiste, ed esistono solo uomini, donne e famiglie. Questa chiave di lettura della realtà asseconda il senso comune, ma proprio per questo pregiudica ogni possibilità di comprensione dei reali meccanismi di funzionamento del capitalismo, all’interno del quale i singoli individui contano solo in quanto componenti di gruppi, coalizioni, e classi sociali.
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Sul libro di M. Badiale e F. Tringali
Le trappole dell’antieuropeismo nazionalistico e del richiamo alla Costituzione
di Michele Nobile
Il libro di Marino Badiale e Fabrizio Tringali La trappola dell’euro (Asterios 2012) è da consigliarsi sia per il contributo analitico all’interpretazione della crisi dell’euro sia per la critica delle misure antipopolari di politica economica messe in atto nei paesi dell’eurozona e, in particolare, in quelli colpiti dalla cd. crisi del debito sovrano. L’interesse maggiore del volume risiede però, a parer mio, nella connessione tra impianto analitico e proposta politica. Quest’ultima si può riassumere nell’obiettivo di riconquistare la sovranità monetaria dello Stato italiano, uscendo dall’Unione europea e dall’Eurosistema, al fine di attuare una politica economica «per difendere i ceti medi e popolari, ed iniziare almeno i primi passi di un percorso che ci porti verso una reale alternativa alla distruttività del capitalismo contemporaneo» (p. 135).
La prospettiva formulata da Badiale e Tringali è ampiamente diffusa nell’area della sinistra più o meno antagonistica (ma anche nella destra radicale, per dirla tutta), per quanto non necessariamente con la stessa consapevolezza della posta in gioco e con la stessa coerenza logica dimostrata dagli autori. Leggere con attenzione critica questo libro può dunque essere utile per prendere coscienza dei presupposti e delle implicazioni di una linea che riconduca la lotta contro le misure antipopolari agli obiettivi complessivi della fuoriuscita dall’area dell’euro e dall’Unione europea e alla formulazione di una politica economica alternativa.
I punti d’accordo relativi all’analisi economica
Definire i punti d’accordo con Badiale e Tringali non è difficile.
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Il capitale finanziario mondiale stronca il sanfedismo economico italiano
di Pasquale Cicalese
Consueto bollettino di guerra, questa volta il report Congiuntura Flash di aprile di Confindustria. Due grafici balzano agli occhi. Il primo, livello di liquidità delle imprese italiane rispetto all’operatività corrente: esso è passato da punti 20 del 2011 a punti 4 del primo trimestre del 2013. Come a dire, con questi livelli non garantisci gli stipendi né, figurarsi, i costi di magazzino. E’ il crollo del capitale circolante. Secondo grafico, credito concesso. Le imprese che comunicano il rifiuto di credito bancario sono passate dal 5% del 2011 al 15% del 2013. Contemporaneamente in questo periodo la diminuzione di credito alle imprese industriali è crollata di 47 miliardi di euro. Devi prendere le analisi degli industriali con le pinze, i padroni italiani non la dicono tutta. Facciamo un passo indietro, fine 2002. In quel periodo la Banca dei Regolamenti Internazionali, BRI, la banca delle banche centrali, con sede a Basilea, assieme alle principali banche centrali del mondo adotta un nuovo sistema di classificazione dei rating creditizi da applicare alle aziende e obbliga le banche ad un maggior “immagazzinamento di capitale” rapportato ai prestiti concessi. E’ il meccanismo di Basilea 2.
I rating sono classificati universalmente a tutte le aziende. Essi implicano per le aziende che chiedono credito una buona patrimonializzazione aziendale, buon flusso di liquidità ed una solidità aziendale data dall’ammontare di ordini, fatturati e profitti.
Quell’accordo, in vigore dalla fine del 2006, è stato la tomba del sanfedismo italiano.
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La città deterritorializzata
di Giairo Daghini
Oggi, della città o della metropoli non possiamo più dare una visione di insieme, o un’immagine che ce la restituirebbe nella sua globalità, nella sua forma urbis. Come del resto avviene anche per il soggetto umano, riterritorializzato nel processo continuo delle sue soggettivazioni, che lo portano fuori dalle ipostasi dell’io.
Bisognerà utilizzare diverse “scatole di attrezzi” per cogliere i divenire che attraversano la città, come delle linee d’infinito, e ci vorrà più di uno sguardo sia esso fisico, economico, filosofico, giuridico o meglio, come la pensava Félix Guattari nel suo Cartographies, ci vorrà un sistema a quattro teste comprendente i territori, i flussi, le macchine e gli universi.
Quindi, nello stesso tempo in cui noi parliamo tanto di fine della città, la città sembra essere dappertutto. In realtà noi non viviamo più, non lavoriamo più, non pensiamo più in spazi città, noi oggi viviamo in spazi che si conviene definire urbani. Spazio urbano di cui si possono determinare con difficoltà i limiti sia fisici sia di governabilità, spazi che nello stesso tempo sono illimitati e pieni di confini. Noi viviamo oggi in paesaggi ibridi, in cui agiscono un’infinità di dispositivi. Paesaggi composti di parti connesse tra di loro da reti tecniche e di mobilità sempre più complesse. Un universo di territori e di flussi. In questi spazi, l’urbano si delocalizza di continuo, in un mix di spazio fisico de territorializzato, e di spazio immateriale in continua espansione di rete. In questi movimenti vengono ridefiniti di continuo lo spazio fisico e mentale in funzione di nuovi rapporti di potere, di nuove meccaniche sociali e di nuovi modi di produzione e di soggettivazione.
Una delle dinamiche con cui si è giocata la metamorfosi della città alla grande città, a metropoli è stata il movimento centro-periferia in tutte le sue implicazioni e riterritorializzazioni.
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La trappola dell’euro
di Enrico Grazzini
È necessario ricominciare a discutere in profondità dell'euro e delle sue conseguenze, partendo innanzitutto da un fatto: criticare l'euro non significa affatto essere anti-europei. Anzi è vero il contrario. L'euro sta spaccando l'Europa, mettendo i paesi del Nord contro i paesi del Sud e viceversa. Ma è possibile uscire dalla moneta unica una volta che ci siamo entrati?
Enrico Letta ha appena ottenuto la fiducia bipartisan da parte della destra e del centrosinistra in nome della necessità di uscire dalla crisi seguendo la strada fallimentare tracciata dall'euro a guida tedesca. La sinistra ha invece (per fortuna) rifiutato questa politica economica negando il voto di fiducia al governo. Letta è un appassionato seguace della moneta unica. Già nel 1997 scrisse per Laterza un saggio intitolato (purtroppo profeticamente) “Euro sì. Morire per Maastricht”. Oggi il suo governo promette di farci uscire dalla crisi ma “morire per l'euro”, come recita il saggio di Letta, potrebbe essere il vero risultato. Letta sosteneva già nel 1997 che gli italiani devono essere pronti a sacrificarsi in nome di Maastricht, la cittadina che ha dato i natali all'euro tedesco. Il dilemma insolubile che si porrà di fronte al governo Letta è abbastanza semplice: è impossibile rilanciare l'economia e l'occupazione e contemporaneamente ridurre drasticamente il debito pubblico, come obbligano i vincoli dettati dalla moneta unica euro-tedesca. Da Keynes in poi sappiamo che in tempi di crisi è puro populismo promettere di tagliare la spesa pubblica e rilanciare l'economia.
Letta ha ricevuto dal presidente Giorgio Napolitano il mandato esplicito di fare rimanere a tutti i costi l'Italia nell'eurozona, ma sa perfettamente che l'euro, la moneta unica di marca tedesca, è la causa principale della attuale crisi italiana ed europea. Nutre la speranza, o meglio l'illusione (come del resto prima Pier Luigi Bersani), di avere sufficienti margini di manovra all'interno di questa eurozona guidata dal governo di centrodestra di Angela Merkel. Negozierà lievi modifiche al patto di stabilità: ma la Merkel e la Bundesbank spingono l'acceleratore verso l'austerità, non verso il rilancio dell'economia.
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Voto di classe e sopravvalutazione del voto utile nelle ultime elezioni
Domenico Moro
1. Crisi della forma bipolare del sistema politico
Qui di seguito cercheremo di evidenziare le principali risultanze delle ultime elezioni per il rinnovo del Parlamento, che testimoniano di importanti novità politiche, a loro volta frutto di modificazioni nella struttura socio-economica del nostro Paese. Soprattutto, cercheremo di evidenziare come il <<voto utile>> abbia avuto un peso marginale e come si affermi la tendenza dei salariati ad indirizzarsi al di fuori della sinistra e verso l’M5S e l’astensione.
Il primo dato è costituito dalla crisi del bipolarismo, ovvero della modalità di governo che le élites capitalistiche sono riuscite ad imporre all’Italia dagli inizi degli anni ’90, sul modello anglosassone. In realtà in Italia, come in molti altri Paesi, l’affermazione del bipolarismo è stato frutto più di sistemi elettorali creati ad hoc (maggioritario, quote di sbarramento, elezione diretta di sindaci e presidenti di regioni, eccetera), che di uno spontaneo raggruppamento dell’elettorato in due poli. Ne è la prova l’alto tasso di astensionismo che caratterizza da sempre i sistemi maggiormente bipolari, come gli Usa, e l’emergere in tutta Europa, dinanzi alla crisi, di terze e quarte forze di varia coloritura politica.
Come possiamo vedere nel Graf.1, le elezioni del 2013, rispetto a quelle del 2008, hanno registrato un vero tracollo delle due principali coalizioni, di centrodestra e centrosinistra. Il centrosinistra ha perso circa 3,64 milioni di voti, pari al -26,6%. Il centrodestra ha perso addirittura oltre 7 milioni di voti, pari al -41,9%. Al sistema a due poli si è sostituito, almeno per il momento, un sistema a tre poli o a tre poli e mezzo.
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Roma, così si è scelto di uccidere la città
Lettera aperta ai candidati sindaco Medici, Marino e Marchini
Christian Raimo*
La capitale è fatta di ghetti e di enclave di lusso. Colpa dei politici ma anche degli intellettuali
Vivo a Roma da quando sono nato, non ho mai vissuto in un’altra città che non fosse Roma, anzi, a dirla tutta, non ho mai stazionato più di due o tre settimane di seguito in un altro posto che non fosse Roma, per cui – come dire – le elezioni del sindaco mi riguardano. In tutti questi anni ho votato una volta sola con un senso di sfrontata convinzione: il mio primo voto, a diciott’anni da poco compiuti, per Renato Nicolini. Il resto delle volte: Rutelli (ballottaggio), Rutelli, Veltroni, Veltroni, Rutelli mi sono sempre turato un po’ il naso (per tapparmelo quasi del tutto e farmi mancare l’ossigeno per Rutelli 2008): questa cautela era dovuta all’impressione che la proposta dei sindaci di sinistra e centrosinistra andasse in una direzione di troppo timida trasformazione della città.
Roma dal 1993 è diventata una città indubbiamente più vivibile, ma sarebbe potuta diventare una città molto più vivibile, più giusta dal punto di vista sociale, meno ingovernabile; dall’altra parte avrebbe potuto essere – con i suoi quasi tre milioni di abitanti e i suoi 1300 km quadrati di estensione – ripensata completamente e trasformata in una metropoli. Non è accaduto, per motivazioni molteplici e complesse. Prima proverei a riassumerne alcune e poi ne vorrei sottolinearne una cruciale che voglio porre all’attenzione dei candidati sindaci – quelli presentabili.
Parto dalla mia ultima esperienza di campagna elettorale: per le elezioni a presidente della Regione, mi sono speso insieme a molte altre persone per Nicola Zingaretti.
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L’ultimo bunker della destra
di Marco Bascetta
Non basta il presente a spiegare il presente. Soprattutto in Italia, dove la “non contemporaneità del contemporaneo” è sempre alacremente all’opera. E di certo vi è solo che non c’è alcuna rivoluzione in corso né in prospettiva, tanto meno quando abbondano i tribuni che la evocano. Il percorso tortuoso conduce a una fine nota: quelle larghe intese che nel nome della “responsabilità” ignorano, quando non reprimono irresponsabilmente tutto ciò che di vivo e di non definitivamente rassegnato esiste ancora in questo paese. Non è la prima volta, ma è la prima volta che una classe dirigente screditata come non mai e nel suo insieme perdente quanto ai numeri e alla capacità di leggere il contesto in cui agisce, si blinda senza offrire alcun compromesso a una società stremata. È qui che i paragoni storiografici di Giorgio Napolitano con gli anni ’70 mostrano come la memoria possa volgere in sclerosi e come il pio desiderio di interpretare una nuova situazione con un vecchio paradigma partorisca più mostri del sonno della ragione, fino a confondere le “convergenze parallele” di un tempo con le marcescenze parallele di oggi. Lo schema è pressappoco quello, collaudatissimo, della vecchia destra comunista da cui il presidente della repubblica proviene. Consiste, certo semplificando all’estremo, nello stabilire, in accordo con i poteri forti del momento e con i “mercati”, una serie di “compatibilità”, garantire che le forze sociali rappresentate dalla sinistra le rispettino senza fiatare, nel condannare, reprimere e accusare di fascismo (rosso o a 5 stelle poco importa) ogni forma spontanea di mobilitazione e di dissenso, nell’impedire ogni pretesa di esercizio della democrazia che anche garbatamente si discosti dai canali istituzionali e dagli equilibri politici tra i partiti maggiori.
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Come ci hanno deindustrializzato
Claudio Messora intervista Nino Galloni
MESSORA: Nino Galloni, economista, ex direttore del Ministero del Lavoro; uno che di cose in questo paese ne ha viste tante. Nino, buongiorno.
GALLONI: Buongiorno!
MESSORA: Benvenuto su byoblu.com, a queste interviste volute dalla rete. Io ero rimasto molto colpito dalla tua affermazione in un convegno che ripresi e misi su Youtube, intitolando il video “Il funzionario oscuro che fece paura a Kohl”. Nel tuo racconto del processo con il quale siamo entrati nell’euro, tratteggiavi questa decisione assunta dalla politica italiana di un vero e proprio progetto di deindustrializzazione del nostro paese. E mi sono sempre chiesto: ma perché mai, alla fine, la politica avrebbe dovuto decidere questo strangolamento, questo inaridimento, la morte del nostro tessuto produttivo? Ho cercato, via via, delle risposte nel tempo, ma oggi che sei qua forse queste risposte ce le puoi dare tu. È un processo, quello di deindustrializzazione, che parte da molto lontano. Riesci a farci una carrellata di eventi e poi arriviamo al focus?
GALLONI: Credo che la data dalla quale dobbiamo necessariamente partire sia il 1947, quando al Trattato di Parigi De Gasperi cede una parte della nostra sovranità, ma in cambio ottiene il riassetto di certi equilibri. La componente socialcomunista esce dal governo, ma manterrà una grande influenza nel campo creditizio e questo, vedremo, sarà un fattore decisivo una trentina di anni dopo.
MESSORA: gli Stati Uniti hanno avuto un bel ruolo in questa decisione.
GALLONI: Gli Stati Uniti hanno avuto un bel ruolo perché chiaramente gli aiuti del Piano Marshall erano condizionati all’uscita dei comunisti dal governo.
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Lotta di classe, lotte di classe
B. Settis e S. Taccola intervistano Domenico Losurdo
Abbiamo incontrato Domenico Losurdo nell’occasione della presentazione a Pisa del suo libro La lotta di classe. Una storia politica e filosofica, Laterza 2013. Docente a Urbino di storia della filosofia e del pensiero politico, vicino all’area del Partito dei Comunisti Italiani ed alla tradizione marxista-leninista, Losurdo si è fatto conoscere nel mondo con le opere che hanno presentato documentatissime “controstorie” dell’ideologia dominante. Qui infatti Losurdo prende di mira le agiografie salottiere di Habermas e Dahrendorf e cerca le radici della lotta di classe nel pensiero di Hegel e Marx – e, quel che abbiamo voluto discutere, il suo futuro nel grande scontro geopolitico globale che oppone il gigante cinese all’impero americano.
Ormai da più parti c’è stato un “ritorno a Marx” da tutti più o meno conclamato. Anche lei nel suo libro sottolinea questo fenomeno e scrive: “ai nostri giorni i magnati del capitale e della finanza si sentono costretti talvolta a rileggersi Marx, di prima o di seconda mano” (p. 362). In effetti il numero di intellettuali, filosofi, sociologi sedicenti marxisti , alcuni dei quali discretamente popolari (come Zizek), sta progressivamente aumentando. Recentemente, addirittura sul Time si è potuto leggere un articolo che parla della vendetta di Marx e del ritorno della lotta di classe. Scavando un po’ più a fondo, però, questo ritorno a Marx appare un po’ confuso: non tutti pongono la stessa attenzione sugli stessi concetti; alcuni, ad es., arrivano a definirsi marxisti semplicemente perché attribuiscono nel nostro mondo un ruolo determinante, oltre che dominante, all’economia. Come bisogna considerare allora questa ripresa di Marx? Come un orizzonte fruttuoso che permette l’apertura di interessanti prospettive filosofiche e politiche, oppure come una prosecuzione di quella sterilizzazione del marxismo che Lukàcs denunciava nella sua Ontologia dell’essere sociale?
L’interesse per Marx si comprende molto bene.
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Le rivoluzioni arabe due anni dopo
di Samir Amin
Sebbene il saggio di Samir Amin sia, come sempre, documentato da una analisi rigorosa e abbia come filo conduttore la massima coerenza antimperialista, perciò totalmente condivisibile, qualcuno si chiederà come mai siano stati omessi richiami diretti alle analisi prodotte sulle primavere arabe dai partiti comunisti in Egitto, Siria, Algeria, Libano. Alcuni di questi partiti hanno una lunga storia di persecuzioni feroci, altri, come in Siria, hanno avuto accesso alle istituzioni. Benchè si tratti di piccoli partiti, con un peso politico marginale, i giudizi e le critiche elaborate dai loro gruppi dirigenti meritano di essere conosciute. Sui nostri siti abbiamo letto i loro documenti e osservato come il loro impegno contro il neoliberismo, la guerra, l'integralismo islamico e la sudditanza alla triade imperialista sia l'essenza del loro intervento nei movimenti di lotta che hanno sconvolto il mondo arabo. Nessuno ha dato segni di settarismo o si è sottratto alle lotte e alle iniziative di massa dei movimenti di liberazione dalla tirannide dei vecchi regimi.
La lettura del saggio mostra che gli intendimenti di Samir erano altri : lungi dal sottovalutare la presenza dei comunisti nel mondo arabo, quella che può sembrare un reticenza è in realtà una rigorosa messa a punto dei contenuti politici della fase che dovrebbe segnare il massimo impegno unitario di tutta la sinistra araba che oggi include forze che si ispirano a Bandung, al movimento dei “non allineati” e al terzo mondismo di Mandela, piuttosto che alla classica nozione di comunismo. Nessuna archiviazione dunque, da parte di Samir, della prospettiva storica aperta dai comunisti nel secolo scorso. Ma bensì, un forte richiamo alle priorità tattiche richieste dal mondo d'oggi e alle conseguenti alleanze necessarie per vincere la sfida della transizione “democratica” che nel presente, e con gli attuali rapporti di forza tra i due campi antagonisti, non può avere che dei contenuti antimperialisti.
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Benjamin e il capitalismo
Giorgio Agamben
1. Vi sono segni dei tempi (Mt.16, 2-4) che, pur evidenti, gli uomini, che scrutano i segni nei cieli, non riescono a percepire. Essi si cristallizzano in eventi che annunciano e definiscono l’epoca che viene, eventi che possono passare inosservati e non alterare in nulla o quasi la realtà a cui si aggiungono e che, tuttavia, proprio per questo valgono come segni, come indici storici, semeia ton kairon. Uno di questi eventi ebbe luogo il 15 agosto del 1971, quando il governo americano, sotto la presidenza di Richard Nixon, dichiarò che la convertibilità del dollaro in oro era sospesa. Benché questa dichiarazione segnasse di fatto la fine di un sistema che aveva vincolato a lungo il valore della moneta a una base aurea, la notizia, giunta nel pieno delle vacanze estive, suscitò meno discussioni di quanto fosse legittimo aspettarsi. Eppure, a partire da quel momento, l’iscrizione che tuttora si legge su molte banconote (per esempio sulla sterlina e sulla rupia, ma non sull’euro): “Prometto di pagare al portatore la somma di …” controfirmata dal governatore della banca centrale, aveva definitivamente perduto il suo senso. Questa frase significava ora che, in cambio di quel biglietto, la banca centrale avrebbe fornito a chi ne avesse fatto richiesta (ammesso che qualcuno fosse stato così sciocco da richiederlo) non una certa quantità di oro (per il dollaro, un trentacinquesimo di un’oncia), ma un biglietto esattamente uguale. Il denaro si era svuotato di ogni valore che non fosse puramente autoreferenziale. Tanto più stupefacente la facilità con cui il gesto del sovrano americano, che equivaleva ad annullare il patrimonio aureo dei possessori di denaro, fu accettato. E, se, come è stato suggerito, l’esercizio della sovranità monetaria da parte di uno Stato consiste nella sua capacità di indurre gli attori del mercato a impiegare i suoi debiti come moneta, ora anche quel debito aveva perduto ogni consistenza reale, era divenuto puramente cartaceo.
Il processo di smaterializzazione della moneta era cominciato molti secoli prima, quando le esigenze del mercato indussero ad affiancare alla moneta metallica, necessariamente scarsa e ingombrante, lettere di cambio, banconote, juros, goldschmith’s notes, eccetera.
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Il grillismo spiegato ai deficienti 1
di Emanuele Maggio
Innanzitutto chiedo scusa alla persona che sta iniziando a leggere questo post. L’ho appena chiamata “deficiente”. Ciò è legato a ragioni di volgare promozione del post stesso: si istiga il lettore a leggere. Questa “rubrica” si dividerà in 3 parti. In ognuna delle 3 parti verranno smontate due bugie dei media dominanti sul M5S e una bugia di Grillo/Casaleggio sul M5S (questa disparità quantitativa è dovuta semplicemente al fatto che i media dominanti, essendo tali, hanno prodotto una quantità di menzogne maggiore). Naturalmente mi propongo soltanto di offrire piccole coordinate “pratiche” per cercare di capire meglio quest’incredibile accozzaglia di analfabeti e Premi Nobel che è il M5S, indubbiamente uno dei fenomeni politici più importanti dei nostri tempi, nel bene come nel male.
In questa prima parte smontiamo i miti del fascismo, del leaderismo e del cambiamento del M5S.
FASCISMO?
Il cittadino X legge su un sito di sinistra qualcosa del tipo: “Entrambi nascono da una crisi economica e politica; capacità di radunare folle e di eccitarle; fenomeno generazionale “giovani contro vecchi”; ibrido di destra e sinistra; votazioni plebiscitarie periodiche per simulare la democrazia…” Oh mio Dio! Il fascismo è alle porte! Sotto al letto, presto! Nel tragitto verso il letto, il cittadino X si imbatte nella sua tv. Non riesce a resistere e l’accende. Siamo su RaiNews24. Titolone: Grillo prepara la Marcia su Roma. Ecco, sta succedendo…poi altro titolone: Forza Nuova aderisce alla Marcia su Roma. No! E’ finita! Viva la Repubblica! Viva la Resistenza! Poi le telecamere della Rai si trovano costrette ad inquadrare la “Marcia su Roma”, una piazza con molte bandiere rosse in cui si passeggia cantando Bella Ciao sotto il sole…mmm, c’è qualcosa che non quadra. Come è possibile?
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Germania 4 Europa 0
di Sebastiano Isaia
Ubaldo Villani-Lubelli scopre le non poche magagne sociali che affliggono la Germania e se ne esce con una considerazione che la dice lunga sulla comprensione della società capitalistica da parte dell’intelligenza borghese: «Da un sistema sociale ed economico considerato un modello, ci si sarebbe aspettato una distribuzione più equa della nuova ricchezza» (La Germania non è un paese per poveri, Limes, 10 aprile 2013). Ora, proprio perché la società tedesca ha i problemi denunciati da Villani-Lubelli essa può in effetti venir considerata come un buon modello di sistema capitalistico, visto che quei problemi rappresentano un lato della stessa medaglia. L’astratta richiesta di una «distribuzione più equa della ricchezza» non tiene conto della natura sociale, appunto capitalistica, del modello tedesco, come di ogni altro modello esistente su questo pianeta, e accompagna da sempre i piagnistei dei riformatori sociali, quelli che, per dirla col solito ubriacone di Treviri, accettano il Capitalismo salvo piagnucolare sulle sue necessarie contraddizioni. Chi accetta la causa e ne ricusa “solo” gli effetti indesiderati e imprevisti, merita il disprezzo di coloro che quegli effetti sperimentano sulla propria pelle. «Lo scopo che si proponeva in primo luogo il genio sociale che parla per bocca di Proudhon, era di eliminare quanto c’è di cattivo in ogni categoria economica, per avere solo il buono» (K. Marx, Miseria della filosofia). Separare il «lato buono» della prassi capitalistica (espressa nelle categorie dell’economia politica) da quello «cattivo»: è l’eterna chimera riformista.
La Germania è dunque «un modello imperfetto»: questa l’epocale scoperta che dovrebbe afflosciare gli entusiasmi di non pochi economisti, sindacalisti e politici nostrani: da Romano prodi a Fabrizio Barca, da Tremonti alla Camusso, che fino a qualche mese fa individuavano nell’«economia sociale di mercato» di quel Paese «l’unica alternativa credibile ai modelli di crescita americano e cinese».
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I beni comuni tra vecchi cliché e nuove sfide
di Riccardo Cavallo
1. I beni comuni: tragedia o farsa?
Da ‘acquabenecomune’ campagna portata avanti con successo dal Forum dei movimenti per l’Acqua contro la privatizzazione delle risorse idriche e conclusasi con la vittoria referendaria nel 2011 è stato un crescente proliferare di proclami ‘ariabenecomune’, ‘naturabenecomune’, ‘marebenecomune’, etc. fino a costituire uno dei punti cardine del ‘soggetto politico nuovo’ ALBA (acronimo per Alleanza, Lavoro, Beni comuni, Ambiente) o culminare nel motto di una coalizione politica (“Italia. Bene comune”). Il ‘benecomunismo’ come è stato ben presto etichettato sembra dunque essere diventata una sorta di virus che ha permeato tutti gli aspetti della nostra società, diventando il vessillo di nuovi movimenti più o meno politicizzati. Come sempre accade in questi casi, però, quando un termine viene utilizzato nei contesti più disparati può rimanere facilmente preda di malintesi, fino alla desemanticizzazione del termine stesso ‘beni comuni’: se ogni cosa che ci circonda è bene comune nulla lo è. Per evitare di cadere in pericolose semplificazioni è forse necessario fare un po’ di chiarezza, cercando innanzitutto di comprendere se il fenomeno dei beni comuni sia figlio dell’attuale società globalizzata o se, al contrario, sia qualcosa che affonda le sue radici in un passato ben più lontano.
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Il semplice coraggio della scelta
Un tributo da sinistra alla Thatcher
di Slavoj Žižek
Nelle ultime pagine della sua monumentale “Seconda guerra mondiale”, Winston Churchill riflette sull’enigma di una decisione militare: dopo che gli specialisti (economisti e esperti militari, psicologi, metereologi) propongono le loro analisi, qualcuno deve assumersi la responsabilità più semplice e proprio per questa ragione più difficile, quella di convertire questa complessa moltitudine in un semplice si o no. Dovremmo attaccare, dobbiamo continuare ad aspettare, eccetera. Questo atto, che non può mai essere in tutto e per tutto razionale, è quello di un Comandante. Compito degli esperti è quello di presentare la situazione nella sua complessità, compito del Comandante è quello di semplificarla in una secca decisione. Il Comandante è necessario soprattutto in situazioni di profonda crisi. La sua funzione è quella di sancire un’autentica spaccatura: una spaccatura fra coloro che vogliono tirare avanti con la vecchia visione del mondo e coloro che sono consapevoli del necessario cambiamento. L’unica strada per una vera unità è l’identificazione di una tale spaccatura, e non quella fatta di compromessi opportunistici. Prendiamo un esempio che sicuramente non è problematico: la Francia nel 1940. Persino Jacques Duclos, seconda personalità del Partito Comunista Francese, ammise in una conversazione privata che se in quel momento si fossero tenute libere elezioni in Francia, il Maresciallo Petain avrebbe vinto col 90% dei voti.
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