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La flessibilità del lavoro e la crisi dell’economia italiana
Pasquale Tridico
L’obiettivo di questo articolo[1] è dimostrare che l’attuale crisi economica mondiale, in cui anche l’Italia è precipitata nel 2008, rappresenta per il nostro Paese solo l’ultimo stadio di un lungo declino che ha avuto inizio negli anni 90, o per essere più precisi nel biennio 1992/1993. In particolare, sostengono che le ragioni che spiegano il declino italiano, e in parte anche la recessione di oggi, così come la mancata ripresa dalla crisi, si possono trovare nelle riforme del mercato del lavoro. In particolare, la flessibilità del lavoro introdotta negli ultimi 15 anni, insieme ad altre politiche introdotte in parallelo fin dal 1992/93, hanno avuto conseguenze cumulative negative sulla disuguaglianza, sui consumi, sulla domanda aggregata, sulla produttività del lavoro e sulla dinamica del PIL.
Dalla flessibilità del lavoro al declino
Negli ultimi quindici anni il mercato del lavoro italiano ha conosciuto un profondo mutamento dal punto di vista legislativo, strutturale e sociale. L’origine di questo cambiamento può essere fatto risalire a quello che si è verificato dal 1993 in poi, ovvero da quando il Paese, successivamente alla recessione economica del 1992 e alla stipula del trattato di Maastricht decide di entrare fin da subito nell’Unione Economica e Monetaria. Questo voleva dire innanzitutto rispettare i criteri di Maastricht primo fra tutti la riduzione del tasso di inflazione, cosa che in Italia era particolarmente problematica. L’accordo del luglio 1993 voluto principalmente da Carlo Azeglio Ciampi, allora Presidente del Consiglio, aveva esplicitamente come scopo la riduzione della spirale inflazionista attraverso una moderazione salariale e altri interventi come la politica dei redditi, la crescita degli investimenti innovativi, e l’aumento della produttività. Tuttavia, come molti economisti hanno dimostrato, questo accordo è stato in grande misura disatteso. Al contrario la politica di moderazione salariale e quindi la disinflazione ha avuto successo.
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Le tre missioni di Nietzsche
di Sossio Giametta
È vero che Nietzsche non si può e non si deve capire? Chi era e che cosa ha fatto? A fronte delle tre crisi: della filosofia, della civiltà cristiano-europea e della religione, ha compiuto tre missioni: distruzione della filosofia concettuale a favore del moralismo; trasfigurazione del tramonto dell’Occidente in poesia e filosofia tragica e d’altra parte legittimazione e accelerazione della crisi; fondazione della religione laica, meta della modernità
“Ho letto come sempre con piacere il Suo saggio sul Crepuscolo degli idoli di Nietzsche, che non conosco o non ricordo. La Sua scrittura chiara ed efficace mi aiuta, come sempre, a capire. Ma, una volta che ho capito, il pensiero complessivo di Nietzsche mi sfugge. Mi appassiona, mi avvince, ma alla fine mi sfugge.” Così mi scrisse, il 30 aprile 1997, Norberto Bobbio, un faro della cultura italiana, che mi onorava della sua amicizia.
La difficoltà di comprendere Nietzsche è così diffusa, che in Italia è finita in una canzone di un noto cantante pop, “Zucchero” Fornaciari. La canzone si domanda e ripete: “Nietzsche, che dice? Boh, boh!”
Lo strano è che questa difficoltà c’è con Nietzsche, che scrive in modo chiaro, e non con pensatori che scrivono in modo oscuro, come Heidegger, Hegel, Schleiermacher ecc. Si può allora dire anche di lui ciò che egli ha detto dei filosofi tedeschi, che sarebbero tutti degli “Schleiermacher”, cioè facitori di veli? oscuratori?
Certo, questa non era la sua intenzione. Anzi, la sua intenzione era esattamente il contrario. Egli voleva essere un portatore di luce.
Ma allora, dove sta la difficoltà?
La difficoltà sta sia dalla parte degli interpreti, sia dalla parte delle molteplici e intricate missioni di Nietzsche.
Per quanto riguarda gli interpreti, io parlo di solito del “bue squartato”.
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Dottrina del rigore addio*
di Maurizio Ricci
Uno studio dell’Università del Massachusetts-Amherst smentisce la celebre teoria di Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff sul rapporto fra livello del debito pubblico e crescita. La polemica è destinata a durare a lungo nei circoli accademici, ma ha già avuto l'effetto di ridimensionare la credibilità scientifica degli appelli all'austerità.
Rischia di essere lo scandalo accademico del secolo. Ma, soprattutto, è un colpo durissimo alle fondamenta della dottrina dell'austerità: ovvero meno spese, più tasse, stringere, anche brutalmente, la cinghia, per ridurre deficit e debito, come premessa indispensabile per il rilancio dello sviluppo. Al centro della polemica, due fra i più prestigiosi economisti al mondo, Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, di Harvard, e lo studio con cui, nel 2010, indicavano, sulla base di un'ampia comparazione storica, l'esistenza di uno stretto rapporto fra livello del debito pubblico e crescita. Più esattamente, quando il rapporto fra debito e Pil supera il 90 per cento (in Italia viaggiamo verso il 130 per cento) si apre la recessione: in media, storicamente, una contrazione dell'economia dello 0,1 per cento. Non è l'unico risultato a cui arrivano Reinhart e Rogoff, ma è quella semplice formula che ha fatto il giro del mondo, influenzando il dibattito politico sull'economia, negli Stati Uniti come in Europa. Solo che non è vero.
Un gruppo di economisti dell'Università del Massachusetts-Amherst ha rifatto i conti e, sulla base della stessa serie storica di Reinhart e Rogoff, arriva ad una conclusione opposta: in media, storicamente, i Paesi con un debito superiore al 90 per cento non vanno in recessione.
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Elementi per un percorso di soggettivazione sociale, generazionale, politica
Lorenzo Zamponi
Lo scenario che le elezioni politiche del 24-25 febbraio ci hanno lasciato è quanto di più confuso e surreale si potesse immaginare. Dopo un anno e mezzo di governo Monti, in cui qualsiasi nefandezza è stata giustificata con le necessità della crisi finanziaria, ora che c'è un nuovo parlamento, in linea teorica ben più sensibile del precedente rispetto ai temi sociali ed economici, questi sono completamente spariti dalla scena, coperti dal folklore parlamentare, da assurdi dibattiti sul fatto se le indennità dei presidenti delle camere vadano tagliate del 30 o del 50% e da alchimie politiche sulla formazione del governo che non hanno niente di invidiare alla poco gloriosa epoca del pentapartito.
Anche i pochi elementi positivi di questo primo scorcio di legislatura, come l'elezione a capo dei due rami del parlamento di due persone come Laura Boldrini e Pietro Grasso, rischiano di ridursi ad aperture apprezzabili ma cosmetiche, che lasciano ancora fuori dal parlamento le vertenze reali, i mille drammi e conflitti quotidiani che attraversano questo paese, la realtà di un'emergenza economica che viene tirata fuori a orologeria per giustificare qualsiasi macelleria sociale da parte dei governi e nel frattempo continua lentamente ad erodere le condizioni di vita di milioni di cittadini.
Ciò che succederà nelle prossime ore e nei prossimi giorni aiuterà a chiarire alcuni elementi di questo panorama, dato che non tutti gli scenari, chiaramente sono uguali:
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I fronti opposti del secolo breve
Gigi Roggero
«Il sociologo comincia a leggere il Capitale dalla fine del III libro e interrompe la lettura quando si interrompe il capitolo sulle classi. Poi, da Renner a Dahrendorf, ogni tanto qualcuno si diverte a completare ciò che è rimasto incompiuto: ne viene fuori una diffamazione di Marx, che andrebbe come minimo perseguita con la violenza fisica». Non è dato sapere se a Domenico Losurdo questa citazione tratta da Operai e capitale di Mario Tronti faccia piacere, ma sono parole che rendono ragione alla scelta di iniziare il suo La lotta di classe. Una storia politica e filosofica (Laterza, pp. 387, euro 24), laddove l'autore individua nei tanti Dahrendorf esistenti il bersaglio polemico. I ricorrenti profeti della fine della lotta di classe si trovano infatti puntualmente di fronte al suo insorgere, oltre che a quelle condizioni di impoverimento e polarizzazione che Losurdo mette subito in evidenza. Rispondendo alla domanda retorica dell'introduzione del volume, si potrebbe dire che la lotta di classe non deve ritornare per il semplice fatto che non è mai andata via.
Ha poi ragione l'autore quando afferma che essa «non si presenta quasi mai allo stato puro». Il punto è però individuare la sua specificità. Losurdo la pluralizza: lo scontro tra operai e capitale è solo una delle forme che la lotta di classe assume, insieme ai movimenti di liberazione nazionale, anti-coloniali, delle donne o dei neri. Anzi, proprio «in virtù della sua ambizione di abbracciare la totalità del processo storico, la teoria della lotta di classe si configura come una teoria generale del conflitto sociale». E qui iniziano i problemi. L'autore rischia infatti di sottendere un'interpretazione economicista dei rapporti di produzione.
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Tre osservazioni al Manifesto di Fabrizio Barca
di Riccardo Achilli
Una sintesi del documento di Barca Il documento “Un partito nuovo per un buon Governo”, presentato dal Ministro della Coesione Territoriale Fabrizio Barca, rappresenta la sua dichiarazione di discesa definitiva nella politica. Il documento in questione è focalizzato principalmente sulla idea di rifondazione della politica e della pubblica amministrazione, che nel pensiero di Barca passa tramite una decisa e profonda riforma del ruolo e del funzionamento dei partiti politici. Rispetto al focus sulla riforma dei partiti, le questioni programmatiche più generali sono, per così dire, lasciate sullo sfondo, anche se sufficientemente articolate da lasciar intravedere con chiarezza un orientamento politico generale imperniato su posizioni socialiste liberaldemocratiche moderate, equidistanti sia dal pensiero liberista più radicale (da lui chiamato “minimalismo”), sia dal pensiero socialdemocratico più ortodosso. Una sorta di riproposizione, in versione più moderna, di suggestioni da “terza via”, nel rifiuto di seguire un modello laburista radicale, incolpato di sostanziale fallimento nel dare risposte ad una richiesta sempre più personalizzata di servizi pubblici, di promozione di una cultura dell’assistenzialismo nei cittadini e nelle imprese, di distorsione “da sussidi eccessivi” dei segnali e delle aspettative imprenditoriali in materia di investimento privato, di soffocamento di una crescente tendenza della società verso l’individualismo (il che, a mio avviso, è un bene e non un male, peraltro). Emergono quindi alcuni elementi centrali del pensiero di un socialismo liberale e moderato: l’attenzione all’efficace funzionamento dei mercati, assegnando al soggetto pubblico il ruolo di produrre quei beni pubblici di contesto utili per realizzare esternalità favorevoli alla competizione (P.A. efficiente, dotazione infrastrutturale migliorata, più efficienti strumenti di separazione fra proprietà e controllo, ecc.), una visione di un nuovo welfare basato più sull’apprendimento permanente e l’adattabilità che sulla mera assistenza (cioè sostanzialmente ciò che Blair chiamava “workfare”), il tentativo di trovare un nuovo punto di equilibrio fra austerità e crescita, che recupera anche suggestioni di politiche di spesa di tipo “stop and go”, ecc.
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La 'grandiosa guerra' di Rosa Luxemburg e la nostra
di Franco Romanò
Da una lettera di Rosa Luxemburg a un breve saggio di Joseph Roth un libro piccolo e prezioso che ci parla del rapporto drammatico fra la specie umana e le altre: Rosa Luxemburg, Un po' di compassione, Adelphi
A Berlino, mi ritrovo a parlare di Rosa Luxemburg e di Antonio Gramsci con un'amica. Le dico della mia idea di dedicarmi alle Lettere dal carcere del fondatore del PCI e non, come sempre, soltanto dei Quaderni e lei mi dice che anche Luxemburg ha scritto un epistolario di tutto rispetto. Lo sapevo, ma tuttora ho delle ide confuse sulla sua estensione; mi ricordavo, invece, di una lettera in particolare, assai intensa e che mi fece una grande impressione quando la lessi, anni fa. Ricordo alla mia amica l'argomento, commettendo però un'imprecisione che Corinne mi corregge subito. Il giorno dopo fa di meglio e mi porta un libretto di Adelphi di 65 pagine, minuto, ed è così che vengo in possesso di un prezioso cammeo, una vera gemma per cui bisogna essere grati all'amica che te lo fa conoscere maanche al curatore – Marco Rispoli – che ha avuto l'idea di assemblare in così poche pagine, scritti tanto brevi quanto densi (compresa la sua nota finale), che mettono chi legge di fronte a scritture tanto essenziali quanto assolute (gli imperdonabili di cui scrive Cristina Campo nei suoi saggi migliori). Non dirò nulla sul tema, o i temi che vengono toccati, perché qualunque definizione iniziale sarebbe più che riduttiva; spero di riuscire a farli emergere strada facendo.
Il titolo prima di tutto. Rosa Luxemburg: Un po' di compassione. A cura di Marco Rispoli, Adelphi, Milano 2007. Alla lettera seguono: l'introduzione di Kark Kraus alla missiva della rivoluzionaria polacca, che lo scrittore pubblicò sulla rivista Fackel, la lettera al direttore di una lettrice della rivista, cui Kraus risponde, un racconto di Kafka, il commento di Canetti al racconto di Kafka e uno scritto di Joseph Roth. A concludere, la nota di Rispoli.
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Il topolino dei Saggi
Davide Antonioli e Paolo Pini
Il gruppo dei Saggi nominati dal Presidente della Repubblica Napolitano ha reso pubblica la ricetta per affrontare la crisi individuando la loro “Agenda possibile” per il prossimo Governo (>http://www.quirinale.it/qrnw/statico/attivita/consultazioni/c_20mar2013/dossier_gruppi.aspx ). Ci occupiamo qui di un tema su cui Inchiestaonline.it ha ospitato vari interventi: Retribuzioni, produttività e relazioni industriali.Il documento dei Saggi, nella sezione 3. Arrestare la Recessione, avviare la ripresa, al fine di 3.1 Creare e sostenere il lavoro, dedica alcune riflessioni a queste questioni. Riflessioni forse è troppo: 11 righe su Produttività e retribuzioni e 15 righe sulle Relazioni industriali, a pagina 22 del documento. Le novità sono poche, e quelle poche non sono buone.
>1. Retribuzioni e produttività Cosa suggeriscono i 5 Saggi che si sono occupati di proporre azioni per fermare il declino della produttività in Italia mediante lo strumento delle retribuzioni? Non hanno molta fantasia, e neppure sembra abbiano letto nulla, o molto poco, di quanto è stato scritto dopo l’accordo del 21 novembre 2012 tra le parti sociali, esclusa la CGIL, il noto Patto sulla produttività< su cui abbiamo scritto qui (http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Produttivita-un-accordo-con-nulla-di-buono-1550
).
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Classi medie e rivoluzione sociale
Sebastiano Isaia
L‘altro ieri il filosofo polacco Marcin Król ha voluto condividere con l’opinione pubblica mondiale una scoperta di portata davvero capitale: «La rivoluzione è possibile». Capite? La rivoluzione è ancora possibile in Occidente! Forse ho capito male, forse sto nutrendo e vendendo false speranze. Meglio continuare nella lettura: «È sbagliato credere che dei giovani arrabbiati contro il sistema, ma privi del linguaggio abituale dei partiti politici e dei movimenti politici organizzati, non siano capaci di portare a termine una rivolta organizzata. La rivoluzione non si è mai fatta in nome di una misura particolare, per esempio un maggiore controllo bancario, ma perché non è più possibile vivere in queste condizioni» (La rivoluzione è possibile, Wprost di Varsavia, 10 aprile 2013). Certo, la locuzione «giovani arrabbiati» adoperata da Król è alquanto aleatoria e ambigua, soprattutto per uno che, come chi scrive, è abituato a ragionare, e sovente a pasticciare, con le vecchie categorie marxiane. Ma di questi grami tempi bisogna accontentarsi del famoso bicchiere mezzo pieno: insomma, il realismo inizia a contagiarmi!
Non c’è dubbio: a un certo punto della crisi sociale la rivoluzione si dà, almeno per una parte degli strati sociali «che non hanno nulla da perdere», come una “scelta obbligata”, mentre un’altra parte vi vede senz’altro anche il nuovo mondo che è possibile conquistare una volta distrutto quello vecchio.
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In memoria di Maggie
di Diego Fusaro
Si è spenta in questi giorni Margaret Thatcher, la “lady di ferro”. È forte, in questo caso, la tentazione di recuperare la saggezza greca che dice che è “meglio non essere mai nati”, ma ce ne asterremo. A noi piace ricordarla soprattutto per una frase, che ha inciso profondamente sull’immaginario e che, per ciò stesso, tutti ricordano: “la società non esiste. Esistono gli individui”. Si tratta di un’asserzione a tutti gli effetti filosofica e, in quanto tale, degna di essere presa in considerazione seriamente e in modo spregiudicato, come se provenisse da Hobbes o da Kant. Non so se la “signora di ferro” ne fosse consapevole, ma con quella frase ha magnificamente condensato lo spirito del nostro tempo, che può con diritto essere identificato in quell’individualismo indecente che assume l’io individuale come prioritario sulla comunità, delegittimando quest’ultima come secondaria quando non addirittura come inesistente. In questo senso – avrebbe detto Hegel – per bocca della Thatcher ha parlato direttamente lo Spirito del tempo. In termini per alcuni versi convergenti, Heidegger diceva che noi siamo parlati dal linguaggio.
Né va dimenticato il fatto che, volens nolens, la signora di ferro, pronunciando la frase ricordata, si è riconnessa alla grande tradizione filosofica e, più precisamente, a quello che si configura a tutti gli effetti come il moderno individualismo programmatico. Coessenziali alla genesi del cosmo capitalistico, lo sradicamento comunitario, la destrutturazione di ogni società preesistente al nesso mercatistico e l’imposizione dell’individuo sovrano e astratto come solo soggetto possibile costituiscono la cifra stessa della modernità.
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Il dilemma postelettorale
Carlo Formenti
Le interpretazioni dell’esito elettorale del 24/25 febbraio scorso si sono massicciamente concentrate su due fattori: il fenomeno (nel senso comune piuttosto che nel senso scientifico del termine) Grillo, osservato con gli occhiali della performance comunicativa e/o della protesta populista e «antipolitica», ignorando sia il programma politico – dato furbescamente per inesistente – sia le radici di classe del Movimento 5 Stelle; la straordinaria perfomance di Berlusconi, al cui «genio» di comunicatore si è tributato omaggio sorvolando allegramente sui contenuti comunicati e sugli interessi che tali contenuti incarnavano. Se ciò è spiegabile, anche se non giustificabile, per le analisi e le opinioni dei giornalisti impegnati a contemplare il proprio ombelico professionale e guidati dalla bovina certezza che la politica sia riducibile a prassi comunicativa, lo è assai meno – ed è del tutto ingiustificabile – per i politici e gli intellettuali di sinistra che, tramortiti dallo choc, hanno continuato a ripetere luoghi comuni e a marciare nella direzione che li ha portati alla disfatta.
Provo a offrire un’altra chiave di lettura di quel voto (a prescindere dai successivi esiti in termini di formule e programmi governativi che, nel momento in cui scrivo, appaiono nebulosi) a partire da tre dati di fatto: 1) come evidenziato da G.B. Zorzoli su www.alfabeta2.it, centrodestra e centrosinistra hanno perso, complessivamente, rispetto alle elezioni del 2008, più di dieci milioni di voti, il che, se si considera che il centrodestra è quello che ne ha persi di più, ridicolizza i peana sull’«impresa» berlusconiana;
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Fermiamo il “pilota automatico”
di Alfonso Gianni
La politica ufficiale e i mass media si arrovellano sul misterioso identikit del prossimo Presidente della Repubblica, che dovrebbe mettere d’accordo tutti, almeno da Vendola a Berlusconi, passando per il Pd e contando sul contributo degli stessi grillini. Il tutto per arrivare alla sua elezione entro i primi tre scrutini quando ci vuole la maggioranza dei due terzi, il che potrebbe permettere poi una soluzione tutta in discesa del rebus del governo, visto che le elezioni a giugno non le vuole proprio nessuno, neppure Grillo essendo già in discesa nei consensi. Intanto il famoso “pilota automatico”, di cui ci ha parlato Mario Draghi, ovvero il governo occulto dell’economia, prosegue indisturbato il suo lavoro.
Anche perché trova una spalla efficace nel governo Monti tuttora in carica per l’ordinaria amministrazione, che però tale non è affatto. Non c’è dubbio che i 5Stelle abbiano ragione a chiedere l’insediamento delle Commissioni permanenti e che faccia loro bene, come a chiunque, tenere sedute serali di lettura collettiva della Costituzione. Ma farebbero ancora meglio, visto che ne hanno i numeri, a presentare, ai sensi dell’art. 94 della suddetta Costituzione, una mozione di sfiducia al governo che il Parlamento dovrebbe discutere.
Invece continuiamo ad essere in una situazione mostruosa sotto il profilo istituzionale.
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Contro la povertà
Donatella di Cesare
L’esplosione della povertà nel ricco Occidente costringe a ripensare un fenomeno che sembrava relegato in gran parte ai confini del passato e alle periferie del mondo. A parte rare eccezioni, hanno dominato finora sconcerto, sdegno, rassegnazione. Ed è risuonato il messaggio: «la povertà rende liberi»[1]. Quasi che al filosofo, o al teologo, non restasse, di fronte alla povertà altrui, che condividerla indicandola a stile di vita. C’è da chiedersi se stia nascendo, o sia già nato, un neopauperismo.
Certo si comprende l’esigenza che la vita pubblica non umili ulteriormente chi è nel bisogno. La ricchezza sfacciata ha di questi tempi un aspetto lugubre. E si comprende anche l’urgenza, avvertita da molti, di sottrarsi all’iperconsumo imposto dalla crescita infinita[2]. Ma la stessa regola di Francesco d’Assisi era il progetto di abdicare alla proprietà per una forma di vita comune fondata sull’uso[3].
Appare perciò dubbio il tentativo di anestetizzare con un concetto elevato di povertà il dolore dell’indigenza. Chi è povero subisce una privazione che non può essere in alcun modo giustificata – né come volere divino, né come calamità naturale, né tanto meno come inevitabile esito della storia. Proprio perché non può essere giustificata, reclama giustizia.
La povertà ha a che fare con la schiavitù, non con la libertà. Ed è dunque tra i mali peggiori. Perché il povero è oppresso dalla mancanza, prigioniero del debito. È lo schiavo. Non occorre risalire all’antichità. Le nuove forme di schiavitù – a cominciare dall’indebitamento incoraggiato dal sistema economico – sono sotto gli occhi di tutti.
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Il Movimento 5 Stelle
Una rivolta nella postdemocrazia e le ossessioni della (ex) sinistra italiana
di Michele Nobile
Demonizzazione e captatio benevolentiae verso il M5S
È da tempo che la crisi di legittimità della casta partitico-statale italiana si esprime nella crescita dell’astensionismo: che è il fenomeno politico maggiormente in crescita di cui poco si parla o se ne parla per liquidarlo come primitivismo antiparlamentare o «qualunquismo». Come forma di protesta politica l’astensionismo cresce perché ha profonde e diffuse motivazioni sociali, alle quali né il centrosinistra né il centrodestra sono in grado di rispondere in modo credibile e accettabile.
Con le recenti elezioni la crisi di legittimità si è trasferita anche all’interno dell’istituzione parlamentare, in conseguenza del successo elettorale del Movimento cinque stelle (M5S): piaccia o no, di fronte ai partiti che da vent’anni governano il paese è il M5S che costituisce il terzo polo, quello della protesta.
È questo che spiega l’ambivalenza dell’atteggiamento di politici e commentatori nei confronti del M5S, che oscilla tra la demonizzazione e la captatio benevolentiae: in questo secondo caso ci si aspetta che Grillo «il demagogo» e i parlamentari della cosiddetta «antipolitica» sappiano anche mostrarsi ragionevoli e costruttivi, consentendo in tal modo la formazione di un governo, possibilmente di centrosinistra.
Tuttavia il M5S rifiuta, certamente non senza tensioni, di giungere ad accordi con il Pd: accordi che in altre circostanze si sarebbero spregiativamente bollati come consociativi e che costituirebbero il definitivo colpo di grazia alla ventennale retorica circa l’alternanza bipartitica (colpo, in effetti, già sferrato dal consenso bipartitico al governo Monti).
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Un piano B per il dopo-euro?
di Riccardo Achilli
Bagnai e Rampini all’alba
Per puro caso, alle 3 di mattina ho potuto vedere, su Sky, una interessante discussione fra Alberto Bagnai e Federico Rampini, sul tema dell’euro, che naturalmente viene trasmessa a quell’ora affinché nessun italiano abbia contezza del dibattito su un tema così strategico. Come al solito, ammiro, nel professor Bagnai, la chiarezza espositiva, la civiltà con cui espone le sue tesi, ed anche una dose di modestia personale. La sua tesi fondamentale è che il prelievo forzoso imposto a Cipro, con il connesso obbligo di restrizione ai movimenti di capitale, abbia di fatto collocato tale Paese al di fuori dell’area-euro, creando un euro di serie B, non liberamente circolante al di fuori del Paese, quindi di minor valore rispetto agli euro che circolano negli altri Paesi dell’area. Inoltre, sostiene che, con la dichiarazione del capo dell’Eurogruppo, l’olandese (specializzato in allevamento di suini) Jeroen Dijsselbloem, secondo cui il prelievo forzoso avrebbe potuto essere esteso anche ad altri Paesi, in caso di crisi bancaria, vengono meno due pilastri fondanti dell’area-euro, ovvero il paradigma della libera mobilità dei capitali e quello della fiducia nell’inviolabilità del risparmio bancario.
Sulla prima affermazione, che peraltro riprende quanto sostenuto anche dalla Morgan Stanley, occorre semplicemente tener presente che Cipro continua a stare dentro all’eurosistema, la sua politica monetaria continua ad essere dettata dalla Bce, e che quindi non sta più fuori dall’euro di quanto non ci stesse fino ad oggi: fino ad oggi, infatti, il sistema bancario cipriota, pur se formalmente “compliant” con tutte le regole di vigilanza europee, era di fatto un buco nero che si autogestiva con regole non proprio prudenziali (che hanno condotto le due principali banche del Paese al fallimento).
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Nel nome della Governabilità
di Walter G. Pozzi
E così, dopo la nuova tornata elettorale, riecco sulle bocche di media e politica la parola ‘Ingovernabilità’. questa sarebbe secondo loro la disgrazia del Paese.
La Governabilità, che la politica auspica sin dalla notte dei tempi, è un oggetto misterioso.
Che cosa intenda chi, al potere, la pronuncia, non è mai spiegato con sincerità. Possiamo dire che, espressa in una feroce sintesi di governo, cosa questa comporti all’atto pratico gli italiani lo hanno sperimentato con Mario Monti: un’amministrazione fortemente connotata a destra che, in perfetto accordo con i dettami neoliberisti, preveda, attraverso lo smantellamento del welfare state, una macelleria sociale, nonché la messa al bando di qualunque protezione legislativa per i lavoratori. Nello specifico: risanare le banche con soldi pubblici, tassare i ceti medio-bassi e votare la legge Fornero con l’allegro avallo di Berlusconi e Bersani, il quale, quest’ultimo, è in seguito tornato in campagna elettorale con la vecchia maschera, proponendosi come forza di sinistra, chiamando come fideiussore di fronte al proprio elettorato il mite Vendola. Anche questa è Governabilità e comporta dei premi per i propri attori. Lo stesso Vendola, oggi, accettando di allearsi con il Pd che ha fatto da stampella al governo Monti, in realtà viene a raccogliere un premio per il lavoro sporco fatto ai tempi della candidatura di Veltroni, nel momento in cui questi, nel 2008, aveva deciso di correre da solo – ovvero senza Rifondazione comunista – rimanendo trombato – il che era scritto sulla tabula rasa del suo vuoto politico – ma raggiungendo l’obiettivo di rendersi presentabile agli occhi di Confindustria.
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Capitalismo europeo, nuova governance e movimenti sindacali
di Alfonso Gianni
Quasi in conclusione di un libro dedicato all’analisi del sistema industriale tedesco - divenuto poi un classico della sociologia industriale e che quasi trenta anni fa aprì un dibattito tanto ampio quanto inusitato per la complessità e lo specialismo della materia (1) - Horst Kern e Michael Schumann, entrambi docenti all’Università di Gottinga, osservavano come:
Le analisi di Kern e Schumann
Gli stessi autori avevano già condotto, verso la fine degli anni ’60, uno studio poi raccolto in volume (2), nel quale avevano preso decisamente le distanze da chi dava per sicura una positiva correlazione fra progresso tecnico e umanizzazione del lavoro, come sosteneva ad esempio Robert Blauner, secondo cui il processo di automazione avrebbe addirittura eliminato il fenomeno dell’alienazione nel processo produttivo (3).
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La “regola di piombo” sui salari di Mario Draghi
di Paolo Pini*
Ritorniamo a commentare la tesi presentata da Mario Draghi, governatore della Bce, all’ultimo Consiglio europeo del 14-15 marzo 2013, su cui ci siamo intrattenuti pochi giorni fa in merito al falso trade-off tra produttività del lavoro e flessibilità del lavoro (contrattazione sul salario e regolamentazioni del mercato del lavoro) [1].
Lo dobbiamo fare in quanto, fatte salve rare eccezioni (Andrew Watt sul Social Europe Journal[2] e Andrea Baranes su Sbilanciamoci.info [3]), pochi hanno commentato e valutato le implicazioni distributive del reddito che quelle tesi sottintendono. Come Andrew Watt ha fatto osservare nel suo secondo intervento sul Social Europe Journal (link), la “svista” del Governatore rende esplicito il pensiero della Banca centrale europea. Comparare l’andamento delle retribuzioni nominali con quello della produttività reale del lavoro, distinguendo tra Paesi “virtuosi” e Paesi “viziosi” è più che un esercizio contabile errato. Esso esplicita un indirizzo di politica economica ben definito, quando si afferma che le retribuzioni nominali del lavoro hanno ecceduto la crescita della produttività nei Paesi viziosi, e da lì vengono i loro mali, mentre i Paesi virtuosi si son ben guardati dal fare tale errore e hanno governato la dinamica delle retribuzioni nominali, mantenendola al di sotto della produttività del lavoro.
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“La storia non perdona niente”
di Elisabetta Teghil
La Corte europea per i diritti umani, in data 2 aprile 2013, ha emesso una sentenza con cui sancisce che il numero chiuso che regola l’accesso in Italia a determinate facoltà universitarie non viola il diritto allo studio.
Otto studenti italiani erano ricorsi alla Corte di Strasburgo perché non avevano superato i test di accesso.
I test di accesso sono legati al numero chiuso delle iscrizioni e, checché ne dica l’Unione Europea, vanificano il principio del diritto allo studio per tutte/i, perché è evidente che non tengono conto del vantaggio che alcuni studenti/e hanno per via dell’estrazione sociale che poi significa anche diversa base culturale.
Di fatto viene meno da una parte il ruolo dell’Università come occasione di socializzazione dei saperi, dall’altro quello di promozione sociale.
Anni di lotte e di conquiste vengono annullati, si ritorna allo spirito degli anni ’60 quando, in quinta elementare, si doveva fare l’esame di Stato, passaggio obbligato per accedere alle Medie, dove si verificava un’ulteriore selezione di classe. Il ragazzo/a, sicuramente non per interessi personali, era costretto/a a scegliere fra le Medie vere e proprie e il così detto “Avviamento” che preludeva al lavoro…
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Le politiche di austerità: un'analisi critica
di Guglielmo Forges Davanzati*
1 – Alle origini della crisi
Nei principali media nazionali e internazionali, la crisi scoppiata nel 2007 è stata raccontata così. La crisi è crisi finanziaria, deriva da una deregolamentazione eccessiva dei mercati finanziari ed è, in ultima analisi, imputabile all’eccessiva avidità degli speculatori e degli operatori finanziari. Ciò che nella terminologia corrente viene definito il greed. La si risolve, o la si attenua, conseguentemente, ponendo un freno all’espansione non controllata della sfera finanziaria e riducendo gli stipendi dei manager delle grandi imprese. La gran parte degli economisti liberisti fa propria questa interpretazione e i principali provvedimenti di politica economica attuati a seguito dei numerosi vertici internazionali dell’ultimo biennio si sono coerentemente mossi lungo questa strada.
La radicale debolezza di questa tesi sta nel fatto che essa presuppone una sfera finanziaria totalmente autonoma rispetto all’economia reale, ovvero che l’economia reale possa risentire dell’instabilità finanziaria ma non generarla. A ben vedere, tuttavia, i nessi di causa-effetto si verificano semmai esattamente in senso contrario.
La crisi è stata causata da un’enorme e crescente disuguaglianza distributiva, sia all’interno dell’economia statunitense, sia su scala globale.
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Non è vero che tertium non datur
di Maurizio Franzini
Maurizio Franzini risponde ad un intervento di Sergio Cesaratto sul quaderno che Micromega ha dedicato al tema della disuguaglianza. In calce una replica di Cesaratto
Ringrazio Sergio Cesaratto per i suoi commenti al mio articolo su MicroMega che mi danno l’opportunità di precisare il mio punto di vista e anche di esprimermi sul suo. Le questioni sono diverse e, credo, interessanti al di là della diversità di opinioni tra Cesaratto e me. Per questo, non sarò breve e me ne scuso.
Cesaratto apre il suo commento scrivendo che io accuserei “gli economisti eterodossi di sottovalutare il tema della disuguaglianza al pari degli economisti ortodossi”. No, non penso e non scrivo questo. Ad esempio, nella frase di apertura del mio saggio affermo, in sintesi, che se un economista si preoccupa delle disuguaglianze economiche quasi certamente è un eterodosso (il “quasi” serviva soprattutto a non escludere la possibilità che vi sia almeno un ortodosso eccentrico). E frasi di analogo tenore ricorrono almeno un paio di altre volte nel testo (a p. 240 e 241).
Soprattutto, direi che il mio pensiero al riguardo emerge dalla risposta che dò alla domanda centrale del mio articolo, che Cesaratto non richiama, e cioè quali siano (e quanto solide siano) le idee che gli economisti hanno utilizzato per sostenere che la disuguaglianza non è un problema.
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Profitto versus rendita
Alcune considerazioni intorno ai concetti di profitto,
rendita e lavoro produttivo nel Capitalismo 2.0
Sebastiano Isaia
Sebbene muovendo da un punto di vista schiettamente apologetico, Giulio Sapelli mostra di aver capito l’essenza dell’economia basata sul profitto più di quanto si è soliti apprezzare, ad esempio, nei teorici del cosiddetto Capitalismo cognitivo. Pochi passi sono sufficienti a dimostrarlo:
«I paesi industrializzati europei hanno un misuratore infallibile della bassa crescita: il progressivo trasferimento di quote ingenti di capitali dal profitto alla rendita, a quella immobiliare e a quella improduttiva pubblica e privata. Quindi la persistenza di alte quote di risparmio è indice di bassa crescita … Ecco un altro dato fondamentale. Laddove si investe, non si investe più nei tradizionali confini. Si pensi alla Germania. Ebbene la Germania ha potentemente delocalizzato la sua industria e ha promosso investimenti in aree strategiche del nuovo mondo industrializzato … Solo il profitto capitalistico rivoluziona la società, costringe gli operatori all’innovazione e alla benefica e darwiniana lotta per l’esistenza, che rinvigorisce le menti con la progettazione strategica … La dialettica rendita-profitto deve tornare a essere un elemento di misurazione della salute dell’economia e della società. Se la rendita prevale sul profitto la società si ammala, le forze vive dello sviluppo declinano a vantaggio dell’interesse parassitario … I classici da rileggere per meditare come sia difficile vivere in un mondo senza industria manifatturiera, sono quelli che vedevano nell’industria, nel profitto e nella nascita il sale della crescita e della civilizzazione» [1].
Qui si esprime senza infingimenti la lotta furibonda fra i diversi capitali (industriali, commerciali, finanziari) per la spartizione del bottino.
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Ricominciare dopo il collasso
di Guido Viale
E’ da tempo che diversi economisti non asserviti al sistema sostengono che le politiche di austerità adottate prima dal governo Berlusconi e poi da Monti avrebbero sortito gli stessi effetti di quelle imposte dalla cosiddetta Trojka alla Grecia. Ed è da più di un anno che Monti si vanta invece di aver evitato al nostro paese lo stesso destino grazie alle misure del suo governo, che però sono in gran parte le stesse imposte alla Grecia. Chi ha ragione?
La disoccupazione, la cassa integrazione e il precariato in continua crescita, i redditi da lavoro e i consumi in continua contrazione, le aziende che chiudono una dopo l’altra, il loro know-how che si disperde o emigra all’estero, i loro mercati che si dileguano, i principali gruppi industriali in disarmo, il welfare che si contrae sia a livello statale che municipale, la miseria che avanza, la scuola che avvizzisce, la ricerca che emigra, l’ambiente che si degrada, la burocrazia che si avvita su se stessa, l’ingorgo legislativo, la politica in stallo rendono evidente che l’Italia ha ormai toccato un punto di non ritorno.
Forse che, se domani venissero varate misure economiche di sostegno, come quelle invocate dagli economisti non di regime una spesa pubblica più espansiva, un credito più abbondante, un ribasso dei tassi, un nuovo programma di lavori pubblici, un sostegno alla ricerca (tutte cose peraltro incompatibili con gli accordi imposti da Ue e Bce e sottoscritti dal governo Monti e da tutti i partiti che l’hanno sostenuto), allora la macchina produttiva riprenderebbe a funzionare come prima?
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Bassa domanda e declino italiano
Stefano Perri
Il dibattito sul declino prima e la crisi poi dell’economia italiana si è focalizzato principalmente sugli elementi “strutturali” dal lato dell’offerta[1]. Generalmente, al contrario, l’andamento negativo della domanda aggregata è considerato come un fattore congiunturale o di breve periodo. Tuttavia, basta guardare i dati senza pregiudizi per capire che la debolezza della crescita della domanda aggregata è stata una costante che per almeno un ventennio ha caratterizzato l’economia italiana. E’ quindi difficile negare che questo sia un vero e proprio elemento strutturale che ha concorso agli effetti così drammatici della crisi attuale. Dal punto di vista teorico ci si può riferire alla legge di Kaldor-Verdoorn. La legge mette in relazione la crescita della produttività del lavoro, la cui debolezza come si sa è uno degli elementi che hanno caratterizzato la nostra economia, con la crescita dell’output, individuando nella crescita dell’output la variabile indipendente. Interpretata dal lato della domanda, la legge afferma che la crescita della produttività è indotta dalla crescita della domanda aggregata[2].
I dati dimostrano chiaramente che dal 1991 ad oggi la crescita della domanda finale aggregata, come mostrato dal grafico 1.a)[3], è molto più debole in Italia rispetto alla media europea e alla Francia e alla Germania per tutto il periodo, anche se il fenomeno si rende ancora più evidente nell’ultimo decennio.
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Se il capitalismo diventa di sinistra
Diego Fusaro
Sul fatto che alle elezioni la sinistra, a ogni latitudine e a ogni gradazione, sia andata incontro all’ennesima sonante sconfitta, non v’è dubbio e, di più, sarebbe una perdita di tempo ricordarlo, magari con documentatissimi grafici di riferimento. Più interessante, per uno sguardo filosoficamente educato, è invece ragionare sui motivi di questa catastrofe annunciata. E i motivi non sono congiunturali né occasionali, ma rispondono a una precisa e profonda logica di sviluppo del capitalismo quale si è venuto strutturalmente ridefinendo negli ultimi quarant’anni. Ne individuerei la scena originaria nel Sessantotto e nell’arcipelago di eventi ad esso legati. In sintesi, il Sessantotto è stato un grandioso evento di contestazione rivolto contro la borghesia e non contro il capitalismo e, per ciò stesso, ha spianato la strada all’odierno capitalismo, che di borghese non ha più nulla: non ha più la grande cultura borghese, né quella sfera valoriale che in forza di tale cultura non era completamente mercificabile.
Non vi è qui lo spazio per approfondire, come sarebbe necessario, questo tema, per il quale mi permetto, tuttavia, di rimandare al mio Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo (Bompiani, 2012). Comunque, per capire a fondo questa dinamica di imposizione antiborghese del capitalismo, e dunque per risolvere l’enigma dell’odierna sinistra, basta prestare attenzione alla sostituzione, avviatasi con il Sessantotto, del rivoluzionario con il dissidente: il primo lotta per superare il capitalismo, il secondo per essere più libero individualmente all’interno del capitalismo.
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