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Trump, risposta alla crisi secolare e apertura della seconda fase della globalizzazione
di Domenico Moro
1. Populismo o alternanza nella democrazia oligarchica?
La vittoria di Trump è stata vissuta come uno shock in tutto lo spettro politico. La stragrande maggioranza delle interpretazioni aderiscono alla medesima visione: Trump sarebbe l’espressione statunitense della ventata populista che sta imperversando nei Paesi avanzati e di cui sono esempio anche Brexit e l’affermazione elettorale di partiti e movimenti populisti in tutta Europa. Si va dalle posizioni che paventano l’affermazione di un nuovo fascismo a quelle che vedono nella vittoria di Trump un segno anti-establishment. Secondo questa visione, Trump ha vinto perché avrebbe raccolto il voto degli esclusi mentre la Clinton ha perso perché rappresentante del capitale globalizzato e di Wall Stret.
In primo luogo, va precisato che Trump ha vinto solo in virtù del sistema elettorale spiccatamente maggioritario, basato sul sistema dei grandi elettori e in un contesto in cui vota poco più della metà degli aventi diritto. La Clinton, secondo gli ultimi conteggi, avrebbe un vantaggio, in termini di voto popolare, di oltre 2 milioni di voti1. In secondo luogo, per essere una ipotesi che terrorizzava Wall Street e per essere Clinton la beniamina dei mercati finanziari, come titolava il Sole24ore2, la Borsa di New York ha reagito in modo ben strano alla vittoria di Trump.
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Referenzum: Costituzione e interessi di classe
di Italo Nobile
La questione del referendum del 4 Dicembre andrà affrontata sotto diversi aspetti: da un punto di vista del contenuto più strettamente giuridico, da un punto di vista più complessivamente politico e dal punto di vista del rapporto con l’analisi di classe propria dei comunisti.
Una prima operazione di carattere più generale sarà quella di liquidare una serie di luoghi comuni retorici al riguardo, ovvero che il paese aspettava una riforma da trent’anni, che la costituzione va adeguata ai tempi, che opporsi ad essa significhi essere conservatori. Ebbene a questi luoghi comuni ha risposto anche il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, ma credo che basti contro di essi un solo argomento. Quantunque sia vero che ci sia bisogno di una riforma (e anche questo andrebbe argomentato), il problema è che la riforma necessaria potrebbe non essere questa. Dunque la discussione dovrebbe riguardare proprio questo punto e perciò gli argomenti di questo tipo senza una discussione del genere non hanno senso.
Una seconda operazione di carattere preliminare riguarda la tendenza propria di noi comunisti a dire che quella italiana non sia “la costituzione più bella del mondo” e che essa ha comunque permesso la legislazione antisociale degli ultimi anni per cui non vale la pena soffermarsi sulla riforma in sé ma sul contesto politico in cui essa è inserita.
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Omaggio a Fidel
di Lia De Feo
Io non ho amato Cuba, nei tre anni trascorsi a studiare lì. Tanto è vero che mi spostavo in Messico ogni volta che potevo, e alla fine a Cuba ci avrò trascorso un anno e mezzo in totale. Non l’ho amata perché amo poco le isole, in generale, e perché i cubani mi davano sui nervi, parecchio. E la pativo: l’embargo è uno stillicidio di cose che non funzionano, che non si trovano, che sono difficilissime da fare. L’embargo crea paesi logoranti dove la sopravvivenza è legata all’organizzazione che ti dai, e dove tu, straniero, sei sempre in torto: perché hai più soldi – credono loro – e vieni dalla parte di mondo che la vorrebbe vedere cadere, Cuba, e l’isola risponde togliendoti ogni tratto umano e trasformandoti in un portafogli che cammina, caricaturizzandoti nel cliché dello straniero a Cuba che, nove volte su dieci, non è una bella persona. Io, quindi, ogni volta che potevo prendevo il mio Cubana de Aviación e in 50 minuti ero in Messico, dove la gente era normale e non si aspettava di essere pagata anche solo per rispondere a un “buongiorno”. E dove, perdonatemi, mangiavo: un’insalata che non fosse di cavolo, una minestra che non fosse sempre e solo di riso con fagioli, un frutto che non fosse l’unico che si trova a Cuba di trimestre in trimestre. Un’introvabile patata. Un gelato che non fosse stato scongelato e ricongelato quaranta volte. A Cuba, a meno che tu non voglia spendere molti soldi – e anche lì, uhm – apprendi cos’è la deprivazione sensoriale, dopo mesi passati a provare un sapore solo.
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Hasta siempre Comandante!
Intervista a Luciano Vasapollo
A poche ora dalla morte del Comandante Fidel Castro, rivolgiamo alcune domande a Luciano Vasapollo, dirigente della Rete dei Comunisti e da molti anni responsabile del lavoro di solidarietà con i popoli dell'America Latina e delle relazioni politiche e scientifiche con i governi e le forze rivoluzionarie di 'Nuestramerica'.
* * * *
Rdc – Come potremmo definire in poche parole il Comandante Fidel Castro?
LV – Fidel Castro è una figura che ha fatto la Storia, con la S maiuscola, dell'autodeterminazione dei popoli, combattendo sempre contro quelli che pensavano di poter fare del mondo un loro enorme impero economico.
Grazie alla sua fiducia profonda nella democrazia socialista, Fidel Castro è stato capace di gestire il governo popolare per tutti e 57 gli anni successivi al trionfo della Rivoluzione a Cuba.
Dall'inizio della Rivoluzione, della creazione dello Stato Socialista a Cuba l'isola ha vissuto importanti conquiste rivoluzionarie: la riforma agraria, la redistribuzione delle terre; la nazionalizzazione dei settori strategici come quello della canna da zucchero e delle raffinerie; la riforma culturale a favore dell'istruzione popolare.
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La matrice che ci imprigiona
di Alberto Micalizzi
Siamo imprigionati all’interno di un quasi-mercato manipolato ed etero-diretto da conglomerate ed istituzioni finanziarie il cui obiettivo di fondo è di appropriarsi di risorse dell’economia reale, attualmente di proprietà degli Stati, delle famiglie e delle imprese (vedi mio articolo “Da modelli di sviluppo a meccanismi di appropriazione”).
Ma chi tira le fila di questo sistema? Chi sono i burattinai?
L’architrave del sistema poggia su poche grandi conglomerate definibili come “super-entità” per la forza d’urto, per la trasversalità settoriale e la transnazionalità della sfera d’azione. Tra queste, vale la pena citarne almeno quattro.
• BlackRock, posseduta principalmente da Merrill Lynch (al 49,8%), a sua volta posseduta da Barclays, State Street Corporation, Axa, Vanguard Group e altri. BlackRock gestisce direttamente oltre $5.000 miliardi di capitali, pari a quasi la metà del PIL di tutta l’Eurozona (!).
• The Vanguard Group Inc., posseduta per l’86% da hedge funds tra cui Price Associates, BlackRock e Credit Suisse, con $3.000 miliardi di capitali in gestione (il doppio del PIL italiano).
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Il rischio del "frontismo" e una svolta nella comunicazione politica
Intervista a Carlo Formenti sul voto Usa
Abbiamo intervistato Carlo Formenti, sociologo, giornalista, scrittore e militante della sinistra radicale, sulle prospettive che derivano dalle recenti elezioni presidenziali USA, soffermandoci su alcune delle particolari tematiche emerse durante il processo elettorale: dai cambiamenti nel rapporto tra comunicazione e comportamento elettorale, alla questione del populismo in salsa Trump, passando per la fase di messa in discussione dell'appeal del concetto di "stabilità" e della divaricazione tra democrazia e capitalismo sempre più affermata a livello sociale nel mondo occidentale. Buona lettura.
* * * *
Infoaut: Si è ormai tutti d'accordo nel descrivere le recenti elezioni Usa come contraddistinte da un voto di classe, espresso all'interno di una campagna elettorale dove Clinton e Trump hanno di fatto giocato il ruolo di portavoce delle classi avvantaggiate e svantaggiate dalla globalizzazione. Il giudizio sui costi e i benefici di quest'ultima ha quindi giocato un ruolo decisivo per l'esito del voto. Quanto però secondo te questo voto è stato percepito anche in relazione ad una specifica forma di globalizzazione, quella neoliberista attuale, e ai suoi effetti di lungo periodo sulla popolazione scaturiti negli ultimi quarant'anni?
Per quanto ci siano state diverse analisi sui dati, basate sui numeri relativi oppure sui numeri assoluti, con le valutazioni che possono essere molteplici a seconda dei diversi criteri usati, io credo che se guardato nella sua articolazione per Stati ci sia un dato incontestabile.
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La variante rivoluzionaria
di Gigi Roggero
Recensione a La variante populista di Carlo Formenti
Qualche mese fa Franceschini, degno rappresentante della mediocrità politica del suo partito, ha detto che oggi lo scontro oggi non è più tra destra e sinistra, ma tra sistemisti e populisti. Se perfino un dirigente del PD arriva a cogliere qualche elemento di realtà, vuol dire che esso dovrebbe essere piuttosto lampante. Così non è, se guardiamo al dibattito che ha preceduto e seguito le elezioni americane dentro le sinistre conventicole dell’opinione pubblica nostrana, infarcita di paura per il fascismo che avanza e stretto attorno al simulacro democratico che arriva addirittura ad assumere il mostruoso volto di Hillary Clinton. Un merito indiscutibile dell’ultimo libro di Carlo Formenti, La variante populista (DeriveApprodi, uscito in ottobre), è di prendere di petto il tema, senza timore delle accuse e dei latrati che si alzano dalle rancorose e marginali fila del frontismo neo-dem. La tesi del volume è infatti nitida: oggi la lotta di classe nel neoliberismo avviene innanzitutto sul terreno disegnato dal populismo. Secondo l’autore bisogna quindi accettarne la sfida, collocarsi su quel terreno, lì costruire egemonia in senso gramsciano.
Formenti arriva a sviluppare la sua tesi attraverso un confronto selezionato con autori e posizioni che, come sempre nei suoi testi, vengono sintetizzati in forma estremamente chiara e utile.
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Gli Stati Uniti tra "isolazionismo" e "internazionalismo”
di Sebastiano Isaia
1.
Ho trovato molto interessante l’articolo di Dario Fabbri pubblicato da Limes che analizza il voto americano ponendolo in rapporto con l’orientamento geopolitico strategico degli Stati Uniti. Il solo punto debole dell’articolo mi è parso di coglierlo nella definizione che l’autore dà della globalizzazione come «pax americana sotto pseudonimo», cosa che mi sembra quantomeno riduttiva. Infatti, anche Paesi come la Germania, la Cina e il Giappone, per non allungare troppo l’elenco e fermarmi al vertice della piramide capitalistica mondiale, hanno partecipato e partecipano a pieno titolo alla «globalizzazione», concetto che d’altra parte sintetizza, almeno nella mia “declinazione”, la naturale tendenza del Capitale ad annettersi non solo l’intero pianeta (realizzando la Società-Mondo), come aveva capito l’anticapitalista di Treviri in anticipo sui tempi, ma anche l’intera esistenza degli individui, come hanno dimostrato la psicoanalisi e la medicina orientata in senso psicosomatico. La definizione di cui sopra sembra fatta apposta per eccitare l’anima “antiamericana” di buona parte dei cosiddetti “antimperialisti”.
Ho sempre considerato un grave errore di prospettiva, fondato soprattutto sul pregiudizio antiamericano che da molto tempo (diciamo pure da un secolo) alberga in una larga parte dell’intellighentia europea (tanto di “destra” quanto di “sinistra”), spiegare la dinamica della competizione interimperialistica del Secondo dopoguerra ricorrendo esclusivamente, e comunque essenzialmente, al confronto politico-ideologico-militare Stati Uniti-Unione Sovietica.
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Crisi della democrazia moderna, conflitto politico-sociale e ricomposizione di un blocco di resistenza nazionale-popolare nell’epoca delle rivolte “populiste”
Intervista a Stefano G. Azzarà*
Domande a cura di Aldo Scorrano, Fabio Di Lenola e Christian Dalenz
Lei ha affermato che «la storia della democrazia è la storia della capacità delle classi subalterne di fare conflitto, di lottare, di riequilibrare i rapporti di forza presenti nella società». Queste classi lo avrebbero fatto unendosi tra loro sulla base di idee, di interessi comuni e di piattaforme politiche avanzate. Questa unione oggi manca ed è ciò che si dovrebbe ricreare, soprattutto nel mondo del lavoro. In buona sostanza bisognerebbe «unire ciò che è stato diviso». Ma come mettere in moto questo processo e con quali modalità?
La risposta a questa domanda non esiste. E se qualcuno pretende di averla in tasca per via di qualche formula alla moda – “populismo” e “politiche del comune” sono oggi quelle più reiterate nelle diverse e contrapposte anime della sinistra, ma in passato i nomi erano diversi - ha capito ben poco dei processi storici, per i quali non esistono leggi simili a quelle che ipotizziamo nel mondo naturale e dunque nemmeno manuali delle istruzioni.
Per come siamo messi, credo comunque che la presa di coscienza reale e non meramente verbale della frantumazione in atto e delle sue ragioni, oltre che della necessità di una ricomposizione di un campo politico di resistenza su basi che siano ad un tempo politiche e sociali (e cioè fondate su una analisi che tenga conto di cosa sono diventate oggi le classi sociali rispetto al periodo della Guerra Fredda), sia già un passo in avanti considerevole rispetto alla totale inconsapevolezza o rimozione che caratterizza ciò che rimane da noi della sinistra storica novecentesca.
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Riflessioni sulle recenti elezioni americane
di Alain Badiou
Proponiamo la traduzione dell’intervento tenuto dal filosofo francese Alain Badiou a Los Angeles, presso la University of California, sulle elezioni del 9 novembre. A giorni dall’elezione di Donald Trump, riteniamo che nell’intervento ci siano degli spunti di analisi utili alla comprensione del fenomeno al di là delle prime impressioni e delle facile categorie dicotomiche tra città-campagna, bianchi-non bianchi, working class-middle class. Per quanto siano affrettati alcuni parallelismi tra le forme politiche del fascismo novecentesco ed i nuovi populismi, l’analisi di Badiou coglie perfettamente il carattere globale ed interconnesso dei populismi, la loro genealogia dalla crisi delle vecchie oligarchie e della rappresentanza moderna, la non-contraddizione che ha nei confronti del capitalismo per quanto sia in aperta opposizione del neoliberalismo finanziario. L’assenza di una opzione forte che nasce dal basso – e non tanto da una figura di un candidato specifico, nonostante possa essere utile - e che prefigura un’alternativa, ideale e pratica, alla distruzione del legame sociale è a nostro avviso causa del nascere dei populismi, che riempiono inesorabilmente un vuoto. Qui l'originale.
* * * *
La posizione dello stato oggi è la stessa ovunque. È accettata per legge dal governo francese, dal Partito Comunista cinese, dal potere di Putin in Russia, dallo Stato Islamico in Siria, e naturalmente è anche una legge del Presidente degli Stati Uniti.
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Italexit? L’imminente crisi bancaria
di Federico Dezzani
L’eurocrisi ha raggiunto l’ultimo stadio: da crisi delle bilance dei pagamenti si è trasformata prima, attraverso le politiche di austerità e di svalutazione interna, in crisi economica, e poi, in crisi bancaria, a causa del lievitare delle sofferenze e dell’inarrestabile fuga dei capitali dall’europeriferia. Indicatori come il Target 2 e le condizioni drammatiche in cui versano MPS e, soprattutto, Unicredit, evidenziano che il carico di rottura è ormai vicino: dopo che Deutsche Bank ha sventato l’assalto speculativo di George Soros e Donald Trump ha vinto le presidiziali statunitensi, nessuno può più evitare l’applicazione del “bail in”, costringendo così l’Italia ad abbondonare l’eurozona.
E crisi bancaria fu
Tutto si può dire dell’eurocrisi, tranne che sia imprevedibile: anzi, è una storia trita e ritrita, il cui finale scontato non è anticipato da politici e media solo perché è interesse di tutti fingere che lo status quo durerà ancora a lungo.
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Note su solitudine e politica in Spinoza
Paolo Godani
1. Gli studi spinoziani non hanno mancato di rilevare la funzione che la paura della solitudine svolge, dall’Etica al Trattato politico, nella formazione dello stato. Sostituendo il metus solitudinis al metus mortis hobbesiano, Spinoza non si limita soltanto a prendere le distanze dall’idea, formulata in De cive I, 2, secondo cui «hominem ad societatem aptum natum non esse», ripristinando invece l’immagine aristotelico-scolastica dell’uomo come animale sociale (cfr. E IV, 35 sch.; e TP II, 15), ma si libera soprattutto della finzione di un’età precedente alla società, nella quale gli individui avrebbero vissuto nell’isolamento. «Barbari o civilizzati – si spiega in TP I, 7 – dappertutto gli uomini intrecciano relazioni reciproche e danno forma ad una qualche forma civile», dato che essi «per natura desiderano la condizione civile» (TP VI, 1). Per Spinoza, la civitas non si configura come il frutto di un patto tra individui che vivano dapprima isolati in uno stato di natura, bensì come la condizione originaria dell’umanità. Lo stato civile non sopravviene allo stato di natura negandolo, dato che segue invece le medesime leggi di quello; così che la civitas non può essere intesa come uno stato nel quale, con l’istituirsi del potere sovrano, sia abolito l’isolamento degli individui, dato che quell’isolamento, come la potenza e il diritto che gli individui soli portano con sé, non è altro che una finzione: il diritto naturale (jus humanum naturale), quando sia «definito dalla potenza di un singolo» e «proprio di un solo individuo», è infatti «inesistente e frutto di sola e irreale opinione (nullum esse, sed magis opinione quam re constare», così che, «in conclusione, il diritto di natura, proprio del genere umano, si può difficilmente concepire senza leggi comuni che rendano uniti gli uomini (jus naturae, quod humani generis proprium est, vix posse concipi, nisi ubi homines jura habent communia)» (TP II, 15).
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Dopo il social-liberismo
M. Palazzotto intervista Marco Veronese Passarella
Negli ultimi decenni abbiamo assistito all’affermazione di quell'indirizzo politico ed economico, tipico del capitalismo contemporaneo, chiamato “neoliberismo”. Secondo il sentire comune questa fase ha influenzato in senso liberista le politiche economiche dei maggiori produttori al mondo. In realtà si può rilevare, soprattutto in ambito accademico, che la scuola di pensiero che ha influito di più sulle decisioni politiche non è proprio quella liberale: anzi se di pensiero dominante si può parlare, soprattutto nelle scienze economiche, quella che emerge di più è la cosiddetta scuola neo-keynesiana (di cui fanno parte, ad esempio, Blanchard, Krugman, Stiglitz, Mankiew, ecc.). In alcuni tuoi recenti lavori ti sei occupato del “New Consensus” ed in particolare dei modelli DSGE (Dynamic Stochastic General Equilibrium). Ci potresti descrivere per sommi capi di cosa si tratta?
È una domanda che tocca molti aspetti critici. Provo ad elencarli e commentarli brevemente. Anzitutto, non darei per scontato che ciò che abbiamo osservato negli ultimi decenni sia interamente ascrivibile al “neoliberismo”. Al fronte neoliberista si è per anni contrapposto un fronte social-liberista, in certe fasi maggioritario, che accarezzava l’illusione di poter gestire la globalizzazione capitalistica ed i connessi processi di finanziarizzazione attraverso la lotta ai monopoli, l’estensione dei diritti civili ed alcune timide politiche redistributive, dato il doppio vincolo posto dal bilancio pubblico e dai conti esteri.
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Avevano ragione i no global
Da Karl Marx e Antonio Gramsci a Donald Trump, passando per Matteo Salvini
di Umberto Mazzantini
Sta girando su Facebook un video di un intervento di Diego Fusaro a Matrix [vedi più sotto] sul perché l’immigrazione è funzionale al neo-capitalismo e che è una fulminante analisi marxiana dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, della necessità di manodopera a basso prezzo che ha bisogno, ora come ieri, dello sradicamento culturale e sociale, della creazione di lavoratori a basso costo da contrapporre ad altri lavoratori. Fino alla guerra. Non a caso Fusaro dice che i migranti e i profughi non sono i nostri nemici, sono i nostri alleati, da difendere, e con i quali gli sfruttati occidentali, la classe operaia e media impoverita, i precari a vita, devono e possono costruire l’alternativa politica e sociale a un capitalismo famelico.
La cosa che stona nel filmato è il segretario della Lega Nord, Matteo Salvini, che annuisce ripetutamente, dichiarandosi perfettamente d’accordo con un filosofo che, sulla suo sito internet, si presenta così: «allievo indipendente di Hegel e di Marx, di Gentile e di Gramsci. Intellettuale dissidente e non allineato, sono al di là di destra e sinistra. Se, infatti, la sinistra smette di interessarsi a Marx e a Gramsci, occorre smettere di interessarsi alla sinistra: e continuare nella lotta politica e culturale che fu di Marx e di Gramsci, in nome dell’emancipazione umana e dei diritti sociali». Insomma, niente di più distante, culturalmente e antropologicamente, dalla xenofobia leghista.
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I Discorsi di Marte
Aspetti ideologici della guerra imperialista permanente
di Mario Lupoli
Dalla rivista D-M-D' n °10
Il capitalismo contemporaneo propone e ripropone delle categorie che apparentemente esprimono una contraddizione: pacifismo e interventismo, democrazia e dittatura, barbarie e civiltà. Categorie che sembrano aprire a un’alternativa e quindi a una possibilità di partire da esse per rovesciare in un senso o nell’altro la società. Dietro questa parvenza tuttavia si staglia l’unitarietà del pensiero dominante, e la convergenza delle sue sfaccettature nella conservazione dell’ordine sociale vigente, che la guerra necessariamente produce e che ha proprio la guerra quale modalità di esistenza. La produzione di un complesso ideologico imperialista fortemente caratterizzato dal fondamento costitutivo della guerra permanente è pertanto una specificità dell'epoca attuale, che potrà essere sovvertita unicamente su una base non capitalistica: a partire cioè dalla rivoluzione comunista.
Propaganda, mito e immaginario operano storicamente quanto le mitragliatrici
(T. di Carpegna Falconieri)
Capitalismo e verità
Il processo storico della vita degli uomini, nelle loro reciproche relazioni e interazioni, produce l'”intera ideologia”, un complesso variegato e mutevole di “impressioni, illusioni, particolari modi di pensare e particolari concezioni della vita”[1].
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Il lavoro è fatica
Una prima riflessione sul nesso fra scuola, lavoro, Carta Costituzionale
di Renata Puleo
L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro (Costituzione della Repubblica Italiana, art. 1 comma 1).
E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese (art. 3 comma 2).
La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro promuovere le condizioni che rendano effettivo questo diritto (art.4 comma 1).
[…] I non intellettuali non esistono. Ma lo stesso rapporto tra sforzo cerebrale e muscolare-nervoso non sempre è uguale, quindi si hanno diversi gradi di attività specifica intellettuale. […] non si può separare l’homo faber dall’homo sapiens.
A. Gramsci, Quaderni 4 (XIII);12(XXIX).
[…] Con fatica ne trarrai nutrimento tutti giorni della tua vita […] con il sudore del tuo volto mangerai il pane […].
Genesi, 3-17/19.
Questo è un contributo sul nesso fra la Carta Costituzionale e i problemi attuali del sistema scolastico italiano, un commento sul concetto di lavoro che emerge dal testo di riforma della scuola, con l’applicazione del comma 33/passim della legge 13/07/15 n 107 cd. La Buona Scuola, e il relativo costituirsi dell’istituto Alternanza-Scuola-Lavoro (ASL).
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Come capire la crisi (e come uscirne)
Massimiliano Mazzanti
Una recensione del libro di Sergio Cesaratto, “Sei lezioni di economia”, appena uscito per le edizioni Imprimatur. Utile compendio per capire la crisi più lunga e qualche idea per provare a uscirne
Le ‘sei lezioni di economia’ di Sergio Cesaratto sono un’occasione importante di studio e riflessione per studenti, ricercatori e ‘policy makers’, in tutti tre i casi intesi in un ampio significato. Lezioni di economia e politica, ponendo il tema della distribuzione e formazione del reddito al centro del discorso teorico. Gli studenti possono cogliere l’occasione di studiare e approfondire temi che non fanno generalmente più parte dei corsi di studio di Economia, a parte alcune eccezioni sparse. I Ricercatori, almeno quelli che vogliono intendersi come scienziati sociali ed economisti aperti e costruttori di ponti con altre discipline, possono cogliere l’occasione di riflettere su vari aspetti teorici della macroeconomia e sulle implicazioni di politica che ne seguono.
Il libro riprende il filo di un discorso minato dal prevalere di conformismo culturale, ignoranza teorica e interessi di parte. Si connette in modo complementare, citando alcuni testi del recente passato da consigliare come ulteriori letture al lettore, alle analisi sviluppate da Paolo Sylos Labini (2004, Torniamo ai classici, Laterza)1, Laura Pennacchi (2004, L’eguaglianza e le tasse, Donzelli), Aglietta-Lunghini (2001, Sul Capitalismo Contemporaneo, Boringhieri)2. Narrazioni economiche che sarebbe riduttivo definire ‘di sinistra’. Semplicemente raccontano la teoria economica nella sua maggiore ricchezza, finalizzandola alla creazione di reddito, uguaglianza, occupazione, sostenibilità socio-economica.
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Disintegrazione dell’Europa o processo costituente?
Crisi, governo dell’emergenza e prospettive di nuova invenzione democratica
di Beppe Caccia e Sandro Mezzadra
Il testo che qui proponiamo in versione italiana nasce da una comune ricerca, intrapresa nel corso della prima metà del 2016 intorno alle “crisi multiple” del processo d’integrazione europea. È in corso di pubblicazione in tedesco nel volume curato da Mario Candeias e Alex Demirović, Europe – What’s Left? Die Europäische Union zwischen Zerfall, Autoritarismus, und demokratische Erneuerung, Münster, Westfälisches Dampfboot, 2017. Integrato con alcune considerazioni successive all’esito del referendum sulla Brexit, l’articolo è stato scritto ovviamente prima dei risultati delle elezioni presidenziali americane. Ancora non è dato sapere quale impatto possa avere Trump alla Casa Bianca sulle relazioni tra le due sponde dell’Atlantico, all’interno del più generale sommovimento che su scala planetaria la sua vittoria andrà a produrre. Nondimeno riteniamo che già alcune delle tesi contenute in questo contributo – dal ruolo dell’Europa nel contesto capitalistico globale alla reale natura dei “sovranismi” di cui lo stesso Trump è certamente espressione, fino alla necessità di articolare molteplici e convergenti livelli d’iniziativa, sociale e politica, alternativa – possano contribuire al dibattito in corso. E a un suo ulteriore avanzamento, a partire dai nodi politici che il testo, e prima ancora la realtà contemporanea, lasciano irrisolti e aperti alla discussione collettiva.
* * * *
Europa/mondo: il capitalismo globale e i suoi spazi
Il capitalismo globale è ben lungi dall’aver trovato una stabilizzazione dal punto di vista dell’organizzazione dei suoi spazi e della definizione del suo rapporto con gli spazi politici e giuridici.
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Aristotele, Platone: la democrazia e la riforma costituzionale
Luca Grecchi
Aristotele
Gli storici della filosofia antica sono generalmente poco propensi ad utilizzare il pensiero classico per analizzare tematiche contemporanee. Questo in quanto gli antichi si sono occupati di questioni differenti, simili solo per analogia (ossia appunto con qualche differenza) rispetto alle nostre. Tuttavia, molti studiosi sono a mio avviso frenati, in questo genere di comparazione, dallo storicismo, ossia dalla falsa convinzione secondo cui il valore di ogni pensiero è sempre e solo limitato al relativo contesto storico. Poiché lo storicismo è, come evidente, l’anticamera del relativismo, dunque della negazione autocontraddittoria della verità (la quale, quando sussiste, vale invece sempre), ritengo che questa norma possa, almeno in alcuni casi, essere trascesa.
Nella fattispecie, mi sembra possibile dire qualcosa sul rapporto fra il pensiero di Aristotele sulla democrazia e la recente riforma costituzionale sulla quale il 4 dicembre 2016, come cittadini italiani, saremo chiamati ad esprimerci. Da studioso di filosofia, dunque non propriamente esperto del tema, quanto sono riuscito a comprendere – leggendo analisi di studiosi autorevoli – è che la attuale riforma condurrà, a fronte di piccoli risparmi di spesa, ad una discreta riduzione della democrazia. Questo è sicuramente grave, ma forse non gravissimo, per il semplice motivo che di democrazia ne abbiamo oramai talmente poca, che quanto si potrebbe perdere, in proporzione, non sarà comunque molto.
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Uscire dal capitalismo: come e con chi
di Alessandro Somma
Come rovesciare le sorti del conflitto tra i “luoghi in cui vivono i corpi di coloro che chiedono cibo, casa, lavoro e affettività” e i “flussi di segni di valore, merci, servizi, informazioni e membri delle élite che li governano”? Due volumi di recente pubblicazione – “La variante populista” di Carlo Formenti e “Postcapitalismo” di Paul Mason – si interrogano, da prospettive diverse, sulle modalità di superamento del capitalismo.
La letteratura di sinistra sui guasti del capitalismo e sul modo di porvi rimedio è oramai sterminata, e comprende inviti sempre più incalzanti a ripristinare il controllo della politica sull’economia attraverso il recupero della dimensione nazionale: la sola dimensione capace di contrastare efficacemente “il potere del denaro”, e per questo vera e propria “condizione dell’esercizio effettivo della sovranità popolare”[1]. Sarebbe in questo modo possibile una sorta di ritorno cosiddetti fantastici trent’anni del capitalismo, l’epoca tra gli anni Cinquanta e Settanta del secolo scorso in cui l’ordine economico venne forzato a convivere con un ordine politico votato a realizzare un’accettabile redistribuzione delle risorse.
Peraltro la fine di quell’epoca ha coinciso con il ritorno a quanto si è definita in termini di normalità capitalistica[2], caratterizzata dall’indisponibilità dell’ordine politico a correggere gli esiti derivanti dal funzionamento dell’ordine economico.
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Referendum, quali conseguenze?
Alfio Mastropaolo
È fuori di dubbio che il testo che sarà sottoposto a referendum il 4 dicembre rappresenti il superamento della “Repubblica fondata sul lavoro” e che corrisponda a una nuova configurazione dei rapporti di potere
Cos’è una costituzione? La risposta non è affatto ovvia. Secondo un giurista autorevole come Mario Dogliani, che l’ha scritto sull’ultimo numero di Democrazia e Diritto è “un potere che sappia unire, metter pace, suscitare fiducia, rendere tangibile la speranza di un futuro e di un benessere comune”. È un’idea di sapore habermasiano, cui è sotteso nientemeno che il “patriottismo della costituzione”.
Ognuno fa il suo mestiere. A ragionare in termini di potere, una costituzione è piuttosto, per citare ancora Dogliani, “un potere forte che sappia imporsi”. Che s’impone materialmente, che s’impone simbolicamente, con la precisazione che il potere simbolico, la reputazione è, di tutte le forme di potere, la più irresistibile. Ma sempre di potere si tratta. Le costituzioni sono perciò documenti scritti dai vincitori. Che naturalmente proclamano di porsi dalla parte dell’universale, perché l’universale gode di straordinaria reputazione, ma che in realtà rappresentano il loro punto di vista particolare.
Viste le costituzioni nella prospettiva del potere, i vincitori le scrivono per due ragioni. La prima per risparmiare potere. Sono marchingegni utili a renderlo invisibile, ad automatizzarlo, a farne routine. Più elevata è la reputazione di cui godono le costituzioni, più e meglio funzionano. Per questo sono consacrate da liturgie solenni. Naturalmente, lo schieramento dei vincitori è transeunte, si ridefinisce senza posa, ma le democrazie beneducate hanno l’accortezza di evitare gli sconquassi.
Coloro che scrivono una costituzione dichiareranno che è per sempre.
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Decisioni complicate attendono Donald Trump
di Federico Pieraccini
La vittoria di Donald Trump è stata colta con sorpresa, infondendo insperato entusiasmo agli osservatori internazionali. Coloro che si occupano di politica estera hanno immediatamente preso nota delle grandi promesse fatte durante la campagna elettorale. Durante i 18 mesi di rincorsa alla presidenza, Trump ha evocato numerose politiche internazionali di distensione e cooperazione. Rimangono di primaria importanza regioni come Europa, Medio Oriente ed Asia, storicamente rilevanti per Washington. Quale potrebbe essere, realisticamente, una dottrina credibile in politica estera per Donald Trump?
Donald Trump è stato eletto contro il volere di tutto l’apparato statale, mediatico, militare, spionistico, ma la vera battaglia inizia adesso. Il primo passo per il presidente eletto coinvolge la nomina del suo staff.
E’ un compito difficile e complicato che potrebbe modellare il futuro atteggiamento dell’amministrazione Trump. Il giusto mix imporrebbe al neo presidente un’assegnazione nei ruoli chiave dell'amministrazione di persone ritenute adatte, ma anche in linea con le aspettative dell’establishment. Trump si ritiene una persona di successo soprattutto grazie alla sua capacità di negoziazione, lo ha ribadito ripetutamente durante tutta la campagna elettorale.
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La “variante populista” che fa discutere
di Carlo Formenti
Carlo Formenti – autore del recente libro "La variante populista" – replica alla critica di Cristina Morini apparsa su Alfabeta2
La “requisitoria” di Cristina Morini nei confronti di “La variante populista” apparsa su Alfabeta2 impone una replica. Sarò sintetico, limitandomi a esaminare le critiche che giudico palesemente infondate e a ribadire i motivi di dissenso nei confronti del paradigma teorico cui Cristina si ispira. In particolare, affronterò i seguenti temi: evoluzione della stratificazione del lavoro in relazione alle mutazioni del modo di produzione; composizione politica; Gramsci e il populismo; rifiuto delle posizioni “neofrontiste” assunte da parte delle sinistre radicali e antagoniste nei confronti del populismo di destra.
Cristina mi riconosce di essere stato (quando ero ancora “buono”?) fra i primi ad analizzare l’evoluzione delle forme del dominio capitalistico, e della resistenza a tali forme, associate alla rivoluzione digitale. Dopodiché mi rimprovera di essere regredito a una visione “lavorista”, dimenticando tutto quanto avevo teorizzato da La fine del valore d’uso a Cybersoviet. Incasso il riconoscimento anche se associato, come altri che lo hanno preceduto, a un fraintendimento: fin dai tempi di Incantati dalla Rete avevo infatti espresso il mio dissenso nei confronti della tesi sul presunto ruolo rivoluzionario “immanente” al general intellect. In merito a tale tema (e in particolare alle tesi di Negri e Gorz sulla presunta autonomizzazione del lavoro vivo dal capitale) rinvio a quanto scritto nel mio libro e alle opere di Dardot e Laval che, a mio parere, hanno avanzato argomenti definitivi sull’argomento.
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Usa, il programma economico di Trump
Vincenzo Comito
Dall’ostilità verso i trattati commerciali alla volontà di tagliare le tasse alle imprese. Una analisi del programma economico del neopresidente Usa
Individuare con una certa accuratezza il programma economico che Donald Trump intende portare avanti appare un esercizio complicato. Questo per diverse ragioni.
Intanto perché c’è la sostanziale vaghezza di almeno alcuni punti delle sue enunciazioni programmatiche, ciò che appare, peraltro, abbastanza usuale nel caso di molti progetti politici, ma che in questo caso è aggravata dai grandi mutamenti che il neo-eletto preannuncia; di solito poi le azioni effettive dei governanti si scostano quasi sempre, almeno per una parte, dai programmi annunciati all’inizio, sia per ragioni opportunistiche, che per la realtà degli equilibri in gioco e degli interessi con cui ci si deve confrontare ex-post; infine, in particolare in alcuni campi, il presidente Usa ha poteri limitati e molte delle decisioni devono passare per il Congresso, che pur essendo a maggioranza repubblicana, su alcune questioni importanti ha delle idee differenti da quelle di Trump. Questo peraltro non appare certo un elemento consolatorio, visto che gli stessi repubblicani su molti temi hanno idee persino peggiori di quelle pessime del magnate.
Purtuttavia, alcune cose sembrano abbastanza assodate ed appare difficile che il presidente e il congresso tornino sui loro passi su di esse, mentre altre si presentano come più incerte. In queste note cerchiamo così di intravedere almeno alcune delle decisioni che si vanno preparando.
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Il nostro cielo, la loro terra
Micro-ontologia di un conflitto locale
di Tommaso Guariento
"Crediamo che la distinzione più importante della sinistra di oggi si trovi tra coloro che si attengono ad una politica del senso comune [folk politics] basata su localismo, azione diretta ed inesauribile orizzontalismo e coloro che delineano ciò che deve dovrebbe chiamarsi una politica accelerazionista, a proprio agio con una modernità fatta di astrazione, complessità, globalità e tecnologia. I primi si ritengono soddisfatti con la creazione di piccoli spazi temporanei di relazioni sociali non capitalistiche, evitando i problemi reali connessi a nemici che sono intrinsecamente non locali, astratti, e profondamente radicati nelle infrastrutture di tutti i giorni. Il fallimento di tale politica è si trova fin dal principio costruito al suo interno. Al contrario, una politica accelerazionista cerca di preservare le conquiste del tardo capitalismo, e allo stesso tempo di andare oltre ciò che il suo sistema di valore, le sue strutture di governance e le sue patologie di massa permettano” [Alex Williams, Nick Srnicek, Manifesto per una politica accelerazionista (2013)].
“No HIV-TBC dagli IMMIGRATIS!!! Vitto e alloggio gratis ai TERREMOTATI” [Striscione del sit-in del gruppo “Abano dice no!” 14 Settembre 2016].
1. Cortocircuiti
Certi eventi ci costringono a prendere posizione di fronte alla realtà complessa dei fenomeni politici. Nel territorio dove vivo, la provincia di Padova, è accaduto recentemente un fatto insopportabile, ultimo anello di una catena di piccoli movimenti che si sono accumulati producendo una manifestazione cittadina.
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Domenico Moro: La prospettiva di default del debito USA e l'imperialismo valutario
Sergio Fontegher Bologna: L’assedio alle scuole, ai nostri cervelli
Giorgio Lonardi: Il Mainstream e l’omeopatia dell’orrore
Il Pungolo Rosso: Una notevole dichiarazione delle Brigate Al-Qassam
comidad: Sono gli israeliani a spiegarci come manipolano Trump
Alessandro Volpi: Cosa non torna nella narrazione sulla forza dell’economia statunitense
Leo Essen: Provaci ancora, Stalin!
Alessio Mannino: Contro la “comunità gentile” di Serra: not war, but social war
L'eterno "Drang nach Osten" europeo
Sonia Savioli: Cos’è rimasto di umano?
Gianni Giovannelli: La NATO in guerra
BankTrack - PAX - Profundo: Obbligazioni di guerra a sostegno di Israele
Alessandro Volpi: Come i dazi di Trump mettono a rischio l’Unione europea
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Fulvio Grimaldi: Siria, gli avvoltoi si scannano sui bocconi
Enrico Tomaselli: Sulla situazione in Medio Oriente
Mario Colonna: Il popolo ucraino batte un colpo. Migliaia in piazza contro Zelensky
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Medea Benjamin: Fermiamo il distopico piano “migliorato” di Israele per i campi di concentramento
Gioacchino Toni: Dell’intelligenza artificiale generativa e del mondo in cui si vuole vivere
Fulvio Grimaldi: Ebrei, sionismo, Israele, antisemitismo… Caro Travaglio
Elena Basile: Maschere e simulacri: la politica al suo grado zero
Emiliano Brancaccio: Il neo imperialismo dell’Unione creditrice
Gli articoli più letti dell'ultimo anno
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Andrea Del Monaco: Landini contro le due destre descritte da Revelli
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Carlo Di Mascio: Il soggetto moderno tra Kant e Sacher-Masoch
Jeffrey D. Sachs: Come Stati Uniti e Israele hanno distrutto la Siria (e lo hanno chiamato "pace")
Jeffrey D. Sachs: La geopolitica della pace. Discorso al Parlamento europeo il 19 febbraio 2025
Salvatore Bravo: "Sul compagno Stalin"
Andrea Zhok: "Amiamo la Guerra"
Alessio Mannino: Il Manifesto di Ventotene è una ca***a pazzesca
Eric Gobetti: La storia calpestata, dalle Foibe in poi
S.C.: Adulti nella stanza. Il vero volto dell’Europa
Yanis Varofakis: Il piano economico generale di Donald Trump
Andrea Zhok: "Io non so come fate a dormire..."
Fabrizio Marchi: Gaza. L’oscena ipocrisia del PD
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Alessandro Mariani: Quorum referendario: e se….?
Michelangelo Severgnini: Le nozze tra Meloni ed Erdogan che non piacciono a (quasi) nessuno
Michelangelo Severgnini: La Libia e le narrazioni fiabesche della stampa italiana
E.Bertinato - F. Mazzoli: Aquiloni nella tempesta
Autori Vari: Sul compagno Stalin
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A cura di Aldo Zanchetta: Speranza
Tutti i colori del rosso
Michele Castaldo: Occhi di ghiaccio
Qui la premessa e l'indice del volume
A cura di Daniela Danna: Il nuovo volto del patriarcato
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Luca Busca: La scienza negata
Alessandro Barile: Una disciplinata guerra di posizione
Salvatore Bravo: La contraddizione come problema e la filosofia in Mao Tse-tung
Daniela Danna: Covidismo
Alessandra Ciattini: Sul filo rosso del tempo
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Franco Romanò, Paolo Di Marco: La dissoluzione dell'economia politica
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Giorgio Monestarolo:Ucraina, Europa, mond
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Qui una recensione di Giovanni Di Benedetto