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Il "cover-up"
di Seymour Hersh
Seymour Hersh sostiene che l’amministrazione Biden continua a nascondere la sua reale responsabilità nel sabotaggio dei gasdotti Nordstream e che gli articoli del New York Times e Die Zeit (in cui si suggerisce il coinvolgimento di un non meglio identificato gruppo filo-ucraino) è solo un goffo tentativo di depistaggio ispirato dalla CIA. En passant, Hersh aggiunge che il governo Scholz ha contribuito alla copertura dell’operazione americana, anche se per il momento non fornisce ulteriori dettagli.
Sono passate sei settimane da quando ho pubblicato un articolo, basato su fonti anonime, che definisce il presidente Joe Biden come il funzionario che ha ordinato la misteriosa distruzione lo scorso settembre del Nord Stream 2, un nuovo gasdotto da 11 miliardi di dollari che avrebbe dovuto raddoppiare il volume di gas naturale consegnato dalla Russia alla Germania. La storia ha preso piede in Germania e nell’Europa occidentale, ma è stata soggetta a un quasi blackout dei media negli Stati Uniti. Due settimane fa, dopo una visita del cancelliere tedesco Olaf Scholz a Washington, le agenzie di intelligence statunitensi e tedesche hanno tentato di aggravare il blackout fornendo al New York Times e al settimanale tedesco Die Zeit false storie di copertura per contrastare il rapporto secondo cui Biden e agenti statunitensi sarebbero responsabili della distruzione degli oleodotti.
Gli assistenti stampa della Casa Bianca e della Central Intelligence Agency hanno costantemente negato che l’America fosse responsabile dell’esplosione dei gasdotti e quelle smentite pro forma sono state più che sufficienti per il corpo della stampa della Casa Bianca. Non ci sono prove che un giornalista assegnato lì abbia ancora chiesto all’addetto stampa della Casa Bianca se Biden abbia fatto ciò che qualsiasi leader serio avrebbe fatto al suo posto: “incaricare” formalmente la comunità dell’intelligence americana di condurre un’indagine approfondita, con tutte le sue risorse, e scoprire solo chi aveva compiuto l’atto nel Mar Baltico.
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Democrazia rivoluzionaria
di Giacomo Croci
Il pensiero di Cornelius Castoriadis e il rapporto tra individuo, società e storia
Non credo e non voglio che i giochi siano fatti.” Questa frase, che ritroviamo nel volume La rivoluzione democratica, racchiude il pensiero di Cornelius Castoriadis. Per giochi si intende l’attività politica, cioè l’attività collettiva e individuale di organizzazione e riorganizzazione della realtà sociale e materiale. Per Castoriadis, essere un individuo socializzato, cioè qualcuno che può agire in un mondo sociale e materiale, presuppone che questo mondo, per quanto regolato, possa sempre essere cambiato. Cioè: non posso che credere e volere che i giochi non siano fatti, altrimenti non c’è niente da credere e da volere.
C’è un profondo ottimismo in questo pensiero, quello che forse Ernst Bloch chiamerebbe “ottimismo militante.” Ottimismo che non riposa però sugli allori dell’ingenuità, ma su quello che, secondo Castoriadis, viene praticato dagli esseri umani sotto il nome di democrazia – pratica che sarebbe essenzialmente rivoluzionaria. Castoriadis sostiene che una pratica e un pensiero che si muovono al di qua o al di là della soglia rivoluzionaria non sono democratici, e che le istituzioni democratiche si lasciano valutare solo dal punto di vista della rivoluzione. La tesi è accattivante e controversa. Andiamo per gradi.
La carriera di Castoriadis è piuttosto eterodossa: non solo filosofo, ma anche economista per l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico e psicoanalista, prima nella scuola fondata da Jacques Lacan e poi più critico rispetto all’impostazione lacaniana. I tre elementi ricorrono nei suoi scritti, come emerge chiaramente in La rivoluzione democratica.
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Crisi energetica, facciamo il punto
di Leonardo Mazzei
È bene fare il punto sui costi dell’energia, in particolare su quelli del gas e dell’elettricità. Sul tema circola infatti un’ingannevole narrazione, quella secondo cui tutto starebbe andando ormai per il meglio. Ma è davvero così? Assolutamente no.
Siamo in guerra, dunque la propaganda non deve stupirci, ma in questo campo (quello di chi la spara più grossa) l’Occidente batte la Russia dieci a uno. Moreno Pasquinelli si è già occupato del comico trionfalismo di un russofobo come Federico Rampini, che tre giorni prima dell’inizio di una grave crisi bancaria (vedi il crac di due banche americane e le enormi difficoltà di un colosso come Credit Suisse), scriveva che “l’apocalisse della crisi economica era un’allucinazione”. Un tempismo davvero fantastico! Cosa non farebbero certo scribacchini pur di dimostrare quanto sono servi!
Ma quello del bretellato Rampini è solo un caso tra tanti. Il succo del messaggio che si vorrebbe far passare è che tutto va bene, l’Occidente è forte e la guerra fa male solo all’economia russa. È all’interno di questo refrain che assume una grande importanza il discorso sull’energia. Sul tema, la propaganda dei media occidentali è martellante. I prezzi del gas stanno scendendo – essi dicono – dunque la strategia Ue-Nato sta funzionando, possiamo fare a meno della Russia e vivremo felici e contenti.
Ovviamente, la realtà è assai diversa. Vediamolo in tre punti, cercando di ristabilire altrettante verità.
- Il calo dei prezzi e il crollo dei consumi: è davvero una buona notizia?
La prima verità che va ristabilita è quella sul prezzo all’ingrosso del metano, da cui dipende in larga parte lo stesso costo dell’energia elettrica.
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Sui pericoli dei pappagalli stocastici: i modelli linguistici possono essere troppo grandi?
di Bender, Gebru, McMillan-Major, Shmitchell*
L’intelligenza artificiale è intelligente? L’analisi tecnica del funzionamento dei modelli linguistici svela cosa abbiamo davanti: nulla più di pappagalli stocastici. Uno studio dall’interno della Silicon Valley
Lanciato a novembre 2022, la chatbot ChatGPT ha acceso il dibattito sulle capacità raggiunte dall’intelligenza artificiale e sulle relative implicazioni sociali e politiche. ChatGPT è di fatto un modello linguistico (LM) di grandi dimensioni, addestrato su set di dati raccolti nel web. Un aspetto ormai noto è la dinamica con cui la IA riproduce pregiudizi, stereotipi e narrazioni dominanti, meno diffusa è la consapevolezza di che cosa siano i modelli linguistici e se, e con quale significato, possano dirsi ‘intelligenti’. È una questione fondamentale per comprendere cosa abbiamo davanti.
Lo studio di cui pubblichiamo qui un estratto esce nel marzo 2021 a firma, tra le altre, di Melanie Mitchell - accademica, si occupa di sistemi complessi, intelligenza artificiale e scienze cognitive (qui con lo pseudonimo Shmargaret Shmitchell), ha guidato il team di Google sull’etica nella IA, e la pubblicazione di questo paper le è valso il licenziamento -; lo studio ricostruisce tecnicamente i meccanismi per cui un LM può produrre un testo apparentemente fluido e coerente, ma la macchina che lo genera non ha alcun grado di comprensione: “La nostra percezione del testo in linguaggio naturale, indipendentemente da come è stato generato, è mediata dalla nostra competenza linguistica, e dalla nostra predisposizione a interpretare gli atti comunicativi come veicolanti un significato e un intento coerenti, indipendentemente dal fatto che tali atti lo abbiano. Il problema è che se un lato della comunicazione non ha significato, allora la comprensione del significato implicito è una illusione derivante dalla nostra singolare umana comprensione del linguaggio. Contrariamente a quanto può sembrare quando osserviamo il suo output, un modello linguistico è un sistema per riassemblare insieme in modo casuale sequenze di forme linguistiche che ha osservato nei suoi vasti dati di addestramento, in base a informazioni probabilistiche su come si combinano, ma senza alcun riferimento al significato: un pappagallo stocastico”.
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Democrazia, parola fatata. In festa tra Presa della Bastiglia e Crollo del Muro
Polittico, con stella e convitato di pietra
di Gaspare Nevola
«Non pensate quello che io so che state pensando… Io lo so che state pensando…
Se vi ho adunato qua, c’è una ragione..
Eh… la democrazia… La democrazia…
Questa parola, questa parola fatata…
Questa parola di luce… questa parola alluminta…
Questo lampadario di parola
Che il mondo dice…
Uomini con tanto di barba che parlano di questa democrazia…
Cos’è? Eh… Cos’è questa democrazia?
Questa democrazia, dice…
No… non è vero… Sì… dice…
Eh, io capisco… voi adesso dite, adesso tu perché sei… e noi siamo… sai
Eh no, cari amici»
(Peppino de Filippo, I casi sono due. Scena: “La democrazia”. Autore: Armando Curcio. Portata in teatro da Peppino de Filippo dal 1945. Edizione televisiva del 1959)
PANNELLO I
Il 1989 e il “crollo” del Muro di Berlino sono simboli del nostro tempo. Simboli di una trasformazione del mondo e di una modernità politica incerta e disorientata. Il 1989 e il “crollo del Muro” sono eventi che, invero, si inscrivono in un lungo processo storico e nei suoi effetti, i quali hanno disegnato il mondo in cui viviamo. Sebbene la cultura politica dominante fatichi tutt’ora a coglierne significato e portata politica, con le debite proporzioni il 1989 richiama un’altra data simbolica che solitamente ci viene alla mente quando pensiamo alla politica nelle società moderne-contemporanee: una data giusto di due secoli più vecchia, il 1789 della Rivoluzione francese e della travagliata nascita della “democrazia dei moderni” –-quella rivoluzione alla luce della quale (nel bene e nel male) definiamo le democrazie contemporanee come “liberal-democrazie costituzionali rappresentative di massa”.
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MATERIALISMO STORICO E MATERIALISMO DIALETTICO
di Alessandro Pascale
Il testo che segue è la relazione tenuta dal sottoscritto Alessandro Pascale, responsabile nazionale Formazione del Partito Comunista, nell’ambito della scuola popolare di formazione politica Antonio Gramsci. La presentazione è stata fatta a Milano il 3 marzo 2023 presso i locali della cooperativa La Liberazione di Milano. È disponibile la registrazione video caricata sulla pagina youtube del Partito Comunista Milano (@pcmilano).1
La lotta di classe non si gioca su ricette prestabilite, né su sentieri tracciati una volta e per sempre. Bisogna però sapere, per dirla con le parole del filosofo Georges Politzer, che la lotta di classe comprende:
«a) una lotta economica; b) una lotta politica; c) una lotta ideologica.
Occorre quindi che il problema sia posto simultaneamente in questi tre campi. […] Sarà quindi colui che riuscirà a lottare su tutti questi terreni che fornirà la guida migliore al movimento. È così che un marxista comprende il problema della lotta di classe».
Tutti i grandi maestri del socialismo sono stati anche filosofi. Non stupisce insomma che tuttora gli Stati borghesi non la lascino insegnare solo nei licei, in ossequio al modello gentiliano per cui la filosofia debba essere studiata solo dai futuri gruppi dirigenti borghesi, mentre invece alle classi lavoratrici basta una spolverata di teologia. Alla borghesia serve un popolo di analfabeti disfunzionali, non certo un esercito di lavoratori coscienti dei propri diritti e della propria condizione di lavoratori salariati soggetti ad un ordine padronale. Nel controllo ideologico delle masse sta una delle armi più potenti dell’egemonia culturale dell’imperialismo, che passa dalla conquista degli intellettuali. Di qui la necessità di tornare a studiare la filosofia.
LA NECESSITÀ DI TORNARE A STUDIARE LA FILOSOFIA
«Come la filosofia trova nel proletariato le sue armi materiali, così il proletariato trova nella filosofia le sue armi intellettuali […]. L’emancipazione pratica […] non è possibile se non nell’ambito di quella teoria che proclama l’uomo la più alta essenza dell’uomo.
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Sul fallimento delle banche: altro che fine della storia!
di Noi non abbiamo patria
La moneta non figlia valore
Rosa Luxemburg
Sono tempi complicati per chi si sforza di sostenere l’eternità del modo di produzione capitalistico, descritto come il migliore dei mondi possibili. Soprattutto per l’Occidente che, ci piaccia o no, è stato il fulcro del movimento storico e unitario dell’accumulazione mondiale combinato, seppure diseguale.
Dalla California alla Svizzera importanti e solidi istituti bancari falliscono, oppure con i conti in rosso si tenta disperatamente di salvare.
Si dice che i due eventi tra loro non hanno nulla in comune, che le vicende della Silicon Valley Bank, Silvergate Bank e di fondi di investimento californiani a questi collegati e la crisi della Credit Suisse (che non è solo il secondo istituto bancario Svizzero, ma anche uno dei più importanti centri di deposito finanziari per gli investimenti di capitale in Europa) abbiano in comune solo la coincidenza dei tempi.
Intanto, scrive il Sole 24 Ore che “la serenità non si compra. Tantomeno la fiducia. Così non bastano i 300 miliardi di dollari iniettati dalla Federal Reserve nelle banche statunitensi, sommati ai 200 miliardi di liquidità arrivati sull’economia a stelle e strisce dal Conto di disponibilità del Tesoro Usa, sommati ai 50 miliardi di franchi iniettati dalla Banca centrale svizzera al Credit Suisse per ripristinare la fiducia sui mercati. Non bastano. E neppure le parole rassicuranti del presidente Biden…“. [https://www.ilsole24ore.com/art/i-tre-motivi-cui-300-miliardi-fed-non-bastano-calmare-borse-AEk0cE6C]
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Per fermare le speculazioni, le banche in crisi vanno nazionalizzate
di Enrico Grazzini
Le continue crisi bancarie e finanziarie occidentali sono causate della privatizzazione del sistema bancario e della sua tendenza alla speculazione e al profitto. Le banche dovrebbero essere nazionalizzate in caso di crisi
Perché il crollo delle banche? Le banche fanno finanza e speculano con i soldi dei risparmiatori. Per superare la crisi occorre nazionalizzare le banche in crisi e separare nettamente il credito dalla finanza.
Di fronte alla semplice ma fondamentale domanda sul perché in Occidente scoppiano continue gravi crisi bancarie e finanziarie che mettono in pericolo tutto il sistema economico capitalista, la risposta è una sola: perché il sistema bancario è ormai del tutto privatizzato e punta solo al profitto e alla speculazione. Nei cosiddetti trenta Gloriosi, dal 1945 al 1975, il sistema bancario europeo e italiano era sostanzialmente pubblico e a direzione pubblica, e le crisi bancarie si contavano sulle dita di una mano ed erano limitate e circoscritte. Non scoppiavano continue e sempre più gravi crisi sistemiche. Le banche facevano credito alle industrie nazionali. Il risparmio nazionale serviva allo sviluppo del Paese e la fuga dei capitali speculativi era proibita. Anche nei paesi anglosassoni con sistema bancario completamente privato le banche erano regolamentate come servizio pubblico: era loro impedito di entrare nel mercato finanziario. In Europa il credito – in gran parte pubblico – ha reso possibile la ricostruzione post-bellica e il miracolo economico italiano e tedesco. Lo sviluppo economico europea di allora cresceva con tassi di aumento pari a quelli cinesi. In Italia le principali banche nazionali – Comit, Credito Italiano e Banca di Roma – erano pubbliche e facevano capo all’IRI. Il credito nei Trenta Gloriosi del dopoguerra, con tutti i suoi difetti e gli scandali, era orientato allo sviluppo della produzione nazionale nell’interesse nazionale. E con la produzione cresceva l’occupazione e il benessere.
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Nuova guerra fredda e futuro delle relazioni internazionali
Intervista all'analista Andrew Korbyko
Andrew Korybko è un analista geopolitico tra i più prolifici e seguiti per chi cerca di approfondire il nuovo mondo multipolare e le sue complesse diramazioni. Le sue analisi, spesso tradotte su l'AntiDiplomatico, sono un punto di partenza essenziale per comprendere i movimenti tellurici in atto a livello di relazioni internazionali.
Korybko collabora con diverse testate internazionali e riviste scientifiche. E' autore di due importanti saggi sulle guerre ibride: "Hybrid Wars: The Indirect Adaptive Approach to Regime Change" e "The Law of Hybrid War: Eastern Hemisphere".
* * * *
L’operazione speciale russa in Ucraina, come annunciato nelle prime fasi dal ministro degli esteri russo Lavrov, sancisce l’inizio di una nuova era nelle relazioni internazionali. Se dovesse scegliere una definizione, Lei quale sceglierebbe per descrivere questa nuova fase?
La transizione sistemica globale verso quello che definisco il multipolarismo complesso ("multiplexity") precede di gran lunga l'inizio dell'operazione speciale della Russia lo scorso anno, ma questo evento ha dato un’accelerata senza precedenti. Nei 13 mesi trascorsi dal suo inizio, è ormai chiaro che le relazioni internazionali sono sull'orlo di una tripartizione: l'Occidente guidato dagli Stati Uniti, l'Intesa sino-russa e il Sud del mondo de facto guidato dall'India. Il primo vuole mantenere l'unipolarità, il secondo la multipolarità, mentre il terzo mira ad avere un ruolo di equilibrio.
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La piega interna della democrazia
Il caso Assange*
di Antonio Martone
Introduzione
È del tutto ovvio ribadire che, in democrazia, uno dei diritti principali dei cittadini sia la libertà di espressione. Tale diritto, peraltro, è sancito dalle costituzioni e dunque sembrerebbe inutile discuterne. È altrettanto ovvio che, nella libertà di espressione, rientri a pieno titolo il diritto di pubblicare notizie di interesse comune. Quando accade che, come nel caso delle inchieste e dei processi che si sono accaniti contro il giornalista australiano Julian Assange, tutto ciò è patentemente violato, non c’è dubbio che vada denunciato senza indugio.
La contraddizione espressa dai sistemi politici euro-americani quanto al caso Assange, tuttavia, non si può liquidare facilmente come una violazione, pur clamorosa, delle regole libertarie di cui questi stessi sistemi si fanno sostenitori. In realtà, occorre analizzare a fondo le disavventure capitate ad Assange e ai giornalisti di WikiLeaks, di cui peraltro non abbiamo ancora visto l’epilogo, analizzandole dal punto di vista filosofico-politico. In altre parole, credo sia estremamente importante, ed anche urgente, interrogare questa triste vicenda, chiedendoci anzitutto come mai sia potuto accadere un “caso Assange” nel cuore delle liberal-democrazie contemporanee. Insomma, quali sono i motivi per i quali sistemi di potere che si autodefiniscono “democratici”, e che garantiscono la libertà di espressione a partire già dalle carte costituzionali, si ostinano nel perseguitare un giornalista che ha pubblicato notizie capaci di far luce – con documenti inoppugnabili, verificati e mai smentiti - non sull’attività di privati ma sull’azione di uno Stato o quelle di persone che incarnano le Istituzioni.
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Burioni ha ragione. Purtroppo per lui
di Ugo Bardi
Il tweet di Roberto Burioni riportato qui accanto è andato virale su molti social, dove è stato commentato con insulti e accidenti all'autore (C'è un altro tweet molto simile attribuito a Burioni che gira sul Web. Sembra che entrambi siano autentici, anche se non ne possiamo essere sicuri al 100%. In ogni caso, sono in linea con il pensiero e il modo di fare del personaggio e non sono stati smentiti). La reazione del pubblico è comprensibile di fronte a un'affermazione che contrasta così platealmente con la linea che Burioni e altri avevano sostenuto fino ad ora, ovvero "fidatevi della scienza, sappiamo noi cosa fare." Invece, questo tweet è una discreta zappata sui piedi (o lesione ad altre parti delicate del corpo) per tutti i televirologi che hanno imperversato negli ultimi 3 anni.
Burioni si trova in evidente difficoltà, costretto in difesa, cercando di giustificare i suoi molteplici errori e contraddizioni. Normalmente, lui usa la tecnica del "blastaggio," consapevole di generare una forte reazione negativa. La mette in conto: è un modo di far passare un certo messaggio generando polemiche. Ma è una tattica che si può usare soltanto in attacco, non in difesa.
Il tweet si limita a dire esplicitamente una cosa che è ben nota a tutti quelli che lavorano nel campo della ricerca, anche se risulta sorprendente per il pubblico in generale. Non c'è quasi nessun controllo sulla validità dei dati e dei risultati pubblicati su una rivista scientifica, anche fra quelle di "alto livello." Vi passo, più sotto, una discussione sull'argomento da parte di "Birbo Luddynski." Scusate il linguaggio scatologico, ma la sua descrizione di come funziona la scienza è valida, perlomeno nel complesso.
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La Lunga Marcia della Cina in America Latina
di Fabrizio Verde
Se vi è un posto nel mondo dove il declino dell’egemonia statunitense è più evidente, questo è senza dubbio l’America Latina. Una regione funestata in passato dall’interventismo di Washington.
Basti pensare a come è cambiato lo scenario rispetto agli anni ’70 del secolo scorso: nel 2023 ricorre mezzo secolo dal colpo di Stato in Uruguay (27 giugno 1973) e dal golpe fascista di Augusto Pinochet e dall'assassinio di Salvador Allende in Cile (11 settembre dello stesso anno). Un periodo in cui il ‘Cono Sur’ si riempì di governi militari, sotto il ferreo controllo degli Stati Uniti.
Ma questo 8 dicembre ricorre anche il 40° anniversario del ritorno della democrazia in Argentina nel 1983, che segna il momento in cui la regione ha iniziato a scrollarsi di dosso questo pesante fardello e a lasciarsi alle spalle il passato oscuro e sanguinoso imposto da Washington.
Da allora, in tutti i Paesi latinoamericani si sono succeduti governi democratici di segno diverso: quelli del ritorno alla democrazia negli anni '80, quelli dell'era neoliberale negli anni '90, i governi progressisti dell'inizio di questo secolo, seguiti, per un periodo più breve, da governi neoliberali, che vengono sostituiti, ancora una volta e a velocità diverse, in una dinamica che segna un progressivo allontanamento dai dettami statunitensi. Mentre attualmente la nuova ondata socialista e progressista cerca una nuova integrazione regionale su basi cooperative e solidaristiche, capace di allontanare le mire di controllo statunitensi.
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Cosa accade alle banche. E cosa potrebbe accadere
di Marco Bertorello, Danilo Corradi
L'intreccio tra finanza ed economia reale, la crisi del digitale, il ruolo delle banche centrali e l'incidenza dell'inflazione: analogie e differenze tra Svb e Lehman Brothers
Agatha Christie in una celebre battuta sosteneva che «Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova». Attualmente nel giallo dello stato di salute del sistema bancario globale e, di conseguenza, di quello economico-finanziario, siamo arrivati in pochi giorni già alla coincidenza. Il fallimento della Silicon Valley Bank (Svb) e il successivo crollo in borsa di Credit Suisse richiamano immediatamente il crack di Lehmann Brothers, cioè il fallimento bancario che accese la crisi finanziaria globale del 2008. A distanza di quindici anni, come di riflesso, il ricordo e le paure tornano a quella vicenda, quando le autorità statunitensi non intervennero, lasciando fallire l’istituto. L’automatismo è in parte giustificato, se si considerano le fragilità dell’attuale sistema finanziario e l’importanza del fattore fiducia, ma ad alcune analogie corrispondono anche differenze importanti che restituiscono un quadro complesso ed estremamente dinamico.
Sarà una nuova Lehman?
Molti analisti hanno messo in luce le differenze, rassicurando ed escludendo che il fallimento di Svp sia l’inizio di una nuova crisi sistemica. Questa visione indubbiamente poggia su alcuni elementi di verità.
Dopo la crisi del 2008 i meccanismi precauzionali sono aumentati. I vari accordi quadro raggiunti a Basilea svolgono una funzione di deterrenza richiedendo alle banche maggiore capitalizzazione e liquidità. L’Europa, nel tempo, si è dotata di sistemi di controllo più rigidi.
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Storia e coscienza di classe di György Lukács
di Paolo Cassetta
Destini e significati di un grande classico marxista del XX secolo a cento anni dalla pubblicazione
Storia e coscienza di classe è un libro difficile [1]. La circostanza era abbastanza evidente già al tempo della sua pubblicazione; e non è detto che questa difficoltà, questo linguaggio talora un po’ astruso destinato ad agire sul lettore quasi come una barriera, non abbia contribuito alla sua disgrazia politica negli ambienti del Comintern, abituati a modi spicci e all’empirismo altalenante di Zinoviev, che, come sappiamo, pronunciò la famosa condanna nell’estate del 1924, al V congresso dell’Internazionale.
Ma Storia e coscienza di classe è un libro che, come scrive Lukács stesso nell’Introduzione licenziata a Vienna, nel natale del 1922, è nato “in mezzo al lavoro di partito”. Lukács parla esplicitamente di un “tentativo”. Il tentativo, leggo dall’Introduzione, di “chiarire a se stesso ed ai suoi lettori questioni teoriche del movimento rivoluzionario” [2].
Dunque sono “questioni teoriche”. Ma sono questioni teoriche del movimento rivoluzionario. Dobbiamo avere chiaro che Lukács si riferisce all’ondata internazionale messa in moto dagli effetti della Grande Guerra e della Rivoluzione russa. Quando Lukács scrive queste parole, egli e tutto il movimento comunista hanno già alle spalle l’insurrezione tedesca repressa nel gennaio del 1919, la rivoluzione bavarese dei consigli e quella ungherese fallite nella primavera-estate dello stesso anno, gli scontri armati provocati dal putsch di Kapp in Germania nel marzo del 1920, la sconfitta sovietica nella guerra con la Polonia in agosto, il movimento di occupazione delle fabbriche italiane nel settembre dello stesso anno, il tentativo insurrezionale comunista conosciuto come l’“azione di marzo” in Germania del 1921. In Russia la guerra civile è finita con la vittoria del governo bolscevico. Ma il passo del cambiamento attenua la sua velocità.
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“Dai diversi ordini economici la frattura globale”
Intervista a Michael Hudson
Intervista all’economista statunitense Michael Hudson
D. Prof. Hudson, è uscito il suo nuovo libro “Il destino della civiltà”. Questo ciclo di conferenze sul capitalismo finanziario e la nuova guerra fredda presenta una panoramica della sua particolare prospettiva geopolitica. Lei parla di un conflitto ideologico e materiale in corso tra Paesi finanziarizzati e deindustrializzati come gli Stati Uniti contro le economie miste di Cina e Russia. In che cosa consiste questo conflitto e perché il mondo si trova in questo momento in un “punto di frattura” particolare, come afferma il suo libro?
R. L’attuale frattura globale sta dividendo il mondo tra due diverse filosofie economiche: Nell’Occidente USA/NATO, il capitalismo finanziario sta deindustrializzando le economie e ha spostato l’industria manifatturiera verso la leadership eurasiatica, soprattutto Cina, India e altri Paesi asiatici, insieme alla Russia che fornisce materie prime di base e armi. Questi Paesi sono un’estensione di base del capitalismo industriale che si sta evolvendo verso il socialismo, cioè verso un’economia mista con forti investimenti governativi nelle infrastrutture per fornire istruzione, assistenza sanitaria, trasporti e altre necessità di base, trattandole come servizi di pubblica utilità con servizi sovvenzionati o gratuiti per queste necessità. Nell’Occidente neoliberale degli Stati Uniti e della NATO, invece, questa infrastruttura di base viene privatizzata come un monopolio naturale che estrae rendite. Il risultato è che l’Occidente USA/NATO è rimasto un’economia ad alto costo, con le spese per la casa, l’istruzione e la sanità sempre più finanziate dal debito, lasciando sempre meno reddito personale e aziendale da investire in nuovi mezzi di produzione (formazione del capitale).
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Diario della Crisi | Do you remember Lehman Brothers?
Il fallimento della banca dell’innovazione e l’enigma delle grandi dimissioni
di Christian Marazzi
Il recente fallimento della Silicon Valley Bank, la «banca dell’economia globale dell’innovazione», squaderna questioni e domande decisive. In questa nuova puntata del «Diario della crisi», Christian Marazzi spiega in modo illuminante che cosa sta accadendo e la posta in palio, analizzando il ruolo della banca centrale, l’effetto dell’aumento dei tassi di interesse sui Titoli di Stato, il possibile precipitare degli investimenti delle start-up di tecnologia climatica legati alla Svb. In un contesto in cui, negli ultimi anni, i salari sono cresciuti più lentamente dell’inflazione e i salari reali aggregati sono di fatto diminuiti, l’autore spiega come il problema di fondo della politica della Fed sia il suo essere monetarista, tutta incentrata cioè sull’offerta di moneta, e non, come dovrebbe essere, sull’andamento della domanda di moneta. Sotto le politiche della Fed, dunque, sembra riaffacciarsi l’enigmatico spettro dei comportamenti del lavoro vivo e delle «grandi dimissioni».
* * * *
Non solo start-up
A un primo livello d’analisi, il fallimento della Silicon Valley Bank (la «banca dell’economia globale dell’innovazione») appare come una tipica crisi da bank run, da corsa agli sportelli causata dal panico dei depositanti, per lo più «startupper» nel settore digitale, per recuperare quanta più possibile liquidità da una banca, la loro, sull’orlo del crac. «Per capire – scrive Paolo Mastrolilli su «la Repubblica» di domenica 12 marzo, riassumendo la narrazione generale – bisogna partire dall’origine della crisi. Prima del Covid, alla fine del 2019, i depositi presso la Svb erano triplicati, da 62 a 189 miliardi di dollari, grazie all’esplosione delle start-up tecnologiche.
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La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi
di Vittorio Stano
“Riassumiamo in quattro parole il patto sociale tra i due Stati. Voi avete bisogno di me, perché io sono ricco e voi siete poveri; facciamo dunque un accordo tra noi: io vi permetterò che voi abbiate l’onore di servirmi, a condizione che voi mi diate il poco che vi resta per la pena che io mi prenderò di comandarvi.”
Jean Jaques Rousseau, Discorso sull’economia politica (1755)
Negli ultimi 50anni si è compiuta una gigantesca rivoluzione dei ricchi contro i poveri, dei governanti contro i governati. Dai birrifici del Colorado, ai miliardari del Midwest, alle facoltà di Harvard, ai premi Nobel di Stoccolma, Marco d’Eramo (1) con il suo libro “Dominio” ci guida nei luoghi dove questa sedizione è stata pensata, pianificata, finanziata.
Di una vera e propria guerra si è trattato, anche se è stata combattuta senza che noi ce ne accorgessimo. La rivolta dall’alto contro il basso ha investito tutti i terreni, non solo l’economia e il lavoro, ma anche la giustizia, l’istruzione: ha stravolto l’idea che ci facciamo della società, della famiglia, di noi stessi.
Ha sfruttato ogni crisi, tsunami, attentato, recessione, pandemia. Ha usato qualunque arma, dalla rivoluzione informatica, alla tecnologia del debito. Insorgere contro questo dominio sembra una bizzarria patetica e tale resterà se non impariamo da chi continua a sconfiggerci. Il lavoro da fare è immenso, titanico, da mettere spavento. Ma ricordiamoci: nel 1947 i fautori del neoliberismo dovevano quasi riunirsi in clandestinità, sembravano predicare nel deserto. Proprio come noi ora.
Questa guerra bisogna raccontarla partendo dagli Stati Uniti perché sono l’impero della nostra epoca e gli altri paesi occidentali sono loro sudditi. Uno degli effetti della vittoria che i ricchi hanno conseguito è stato di renderci ignari della nostra sudditanza e di annebbiare la percezione delle relazioni di potere: meno male che è arrivato Trump a ricordarci la sopraffazione, la protervia, la crudezza in ogni dominio imperiale.
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La fusione nucleare riaccende gli entusiasmi (almeno quelli)
di Massimo Zucchetti
Non si tratta di un articolo breve, perché non è – o non è soltanto – di “divulgazione” scientifica. L’Autore – docente di impianti nucleari al Politenico di Torino, per oltre venti anni al Mit di Boston, specialista in fusione nucleare tanto da entrare (nel 2016) nella cinquina finale dei candidati al premio Nobel per la Fisica – ha ritenuto giustamente che alla “divulgazione pubblicitaria” proposta dai media mainstream fosse necessario rispondere anche in punta di ricerca scientifica seria.
Di qui la lunghezza del testo, che però può solo tornare a vantaggio della serietà del lavoro e della discussione “sul nucleare”.
Buona lettura.
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Il recente accordo fra ENI e MIT, per lo sviluppo di un reattore a fusione nucleare “credibile”, ha riacceso molte speranze ed entusiasmi: in mancanza dell’accensione di plasmi termonucleari, che finora sono rimasti sulla carta.
Gli ultimi recenti sviluppi confermano quanto diciamo da molto tempo: non importa quanto lontano possa essere nel futuro, ma ITER è un percorso sbagliato per arrivare alla fusione nucleare commerciale, che così non diverrà mai una realtà. Tuttavia, con un diverso percorso, un “diverso iter”, la fusione “ha una possibilità di svilupparsi nel vicino futuro”.
Escludiamo dal nostro discorso i progetti militari di fusione inerziale, dei quali ci siamo già occupati e che, onestamente, ci ripugnano.
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Rudi Dutschke
di Franco Milanesi
Un ritratto di Franco Milanesi di Rudi Dutschke, leader e intellettuale di riferimento della SDS (Sozialistische Deutscher Studentenbund), la lega degli studenti socialisti, e importante figura dell’antagonismo anticapitalistico tedesco.
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A partire dal 1966 sui giornali di Axel Springer, in particolare sul popolarissimo Bild, vennero pubblicati diversi articoli in cui il movimento studentesco, che si stava sviluppando in Germania a partire dalla Freie Universität di Berlino, veniva descritto come la testa di ponte del comunismo sovietico nell’Occidente liberale. Il giornale invitava il governo federale a prendere provvedimenti repressivi verso gli studenti e i leader di quella che veniva descritta come una sorta di rivolta antioccidentale. Nel clima infiammato da questa campagna di stampa, il 2 giugno 1967, mentre migliaia di giovani manifestavano a Berlino Ovest contro la visita di stato dello Scià dell'Iran, un giovane studente di letteratura tedesca, Benno Ohnesorg, veniva colpito a morte da una pallottola sparata dalla polizia. Dopo questo assassinio la radicalizzazione del movimento studentesco crebbe progressivamente e la contrapposizione tra i giornali di Springer e la SDS (Sozialistische Deutscher Studentenbund), la lega tedesca degli studenti socialisti, si fece sempre più aspra. A capo della SDS era Rudi Dutschke, leader e intellettuale di riferimento della sinistra studentesca. Nato nel 1940 nella DDR era stato costretto, a causa del suo rifiuto a prestare servizio militare, a spostarsi nella Germania Ovest pochi giorni prima della costruzione del muro di Berlino nell’estate del 1961[1].
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Oltre la geopolitica
Storia, economia e soggettività politica
di Carlo Formenti
Per la maggioranza degli esperti di geopolitica, in particolare per coloro che tendono a ragionare in termini di real politik (penso a un filosofo come Carl Schmitt o, si parva licet, all'editorialista del Corsera Sergio Romano), le guerre e i conflitti fra nazioni e blocchi regionali si spiegano prevalentemente, se non esclusivamente, in base a un combinato disposto di storia e tradizioni culturali, caratteristiche morfologiche dei territori coinvolti, carattere nazionale (mentalità) delle popolazioni interessate e ambizioni di potenza. Da queste ultime non sono ovviamente espunti i motivi di competizione economica, ma raramente vengono considerati la causa prevalente.
Nel caso in cui gli esperti in questione adottino un punto di vista marxista, queste gerarchie tendono a rovesciarsi: le ragioni del conflitto fra opposti interessi economici (riferiti non solo alle diverse economie nazionali o regionali ma anche alle formazioni sociali, cioè ai conflitti di classe interni a tali sistemi e intersistemici) vengono in primo piano, mentre tutti gli altri motivi, pur senza sparire, passano in subordine. In questo articolo intendo abbozzare la tesi secondo cui in entrambi i casi, anche le analisi più raffinate risultano monche, nella misura in cui sottovalutano, nel primo caso le cause strutturali, nel secondo il peso delle ideologie e delle strategie politiche di stati, governi, partiti, movimenti e classi sociali coinvolti nei conflitti che si intende prendere in esame.
Per sostenere quanto appena affermato, discuterò due libri (Come l'Occidente ha provocato la guerra in Ucraina, di Benjamin Abelow, Fazi Editore e Stati Uniti e Cina allo scontro globale, di Raffaele Sciortino, Asterios Editore) che possono essere assunti (benché non senza forzatura) come esempi dei due approcci appena indicati. In particolare, dedicherò il primo paragrafo al libro di Abelow e il secondo al lavoro di Sciortino.
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E intanto corre, corre, corre la locomotiva…della guerra di classe
di Sandro Moiso
In assenza di più vaste mobilitazioni contro la guerra, che non siano soltanto per implorare la “pace”, fa bene notare e ricordare che uno dei settori del mondo del lavoro più impegnati contro la guerra e i suoi catastrofici effetti sociali ed economici è quello del trasporto ferroviario e marittimo.
Non soltanto qui in Italia dove una significativa manifestazione in tal senso si è svolta a Genova, indetta dai portuali, ma anche in Giappone e in Corea, dove sono stati i ferrovieri a promuovere una risoluzione contro il riarmo giapponese su larga scala. Risoluzione che sottolinea come la guerra iniziata in Ucraina stia trascinando il mondo intero nel vortice della guerra. In cui l’amministrazione statunitense di Biden, mano nella mano con l’amministrazione giapponese di Kishida, intende scatenare una guerra contro la Cina e la Corea del Nord.
Lo scorso dicembre l’amministrazione Kishida ha deciso di stanziare oltre 43 mila miliardi di yen (300 miliardi di euro) in cinque anni in un gigantesco programma di riarmo destinato da un lato a calpestare la vita e le condizioni di lavoro dei salariati e dall’altro una guerra contro la Cina anche a costo di centinaia di migliaia di morti e feriti. Mentre nel bel mezzo di questa situazione, il presidente coreano Yoon Suk-yeol ha attuato una straordinaria repressione nei confronti della KCTU (Confederazione coreana dei sindacati) attraverso la legge sulla sicurezza dello Stato.
Il governo giapponese sembra in questo modo voler cancellare senza vergogna il fatto che l’imperialismo giapponese ha una storia di annessione della Corea e ha posto la Corea sotto una dura dominazione coloniale e anche che l’invasione imperialista giapponese si estese alla Cina e ad altri Paesi asiatici, privando della vita 20 milioni di persone.
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Dopo l’Ucraina. Un nuovo ordine energetico mondiale?
di Vincenzo Comito
Tra i tanti effetti del conflitto ucraino non bisogna sottovalutare la formazione progressiva di un nuovo ordine energetico mondiale incentrato su una inedita alleanza tra Cina e Paesi del Golfo e un ridimensionamento del ruolo globale del dollaro
Amory Lovens è uno scienziato americano che già nel 1976 aveva consegnato al presidente Jimmy Carter un piano per uscire dal carbone e dal petrolio in quaranta anni attraverso in particolare le “economie di energia”, prevedendo tra l’altro che si poteva triplicare il rendimento energetico del paese (Vidal, 2022). Egli difende ancora oggi una strategia basata, oltre che sullo sviluppo delle energie rinnovabili, soprattutto sulle economie di energia, quest’ultimo costituendo il mezzo più ambizioso, meno caro, più sicuro, più pulito e più rapido per intervenire, sottolinea da sempre Lovens. Ma nonostante che oggi siano disponibili tutte le tecnologie necessarie per effettuare in pochi anni una rivoluzione energetica che ci libererebbe sostanzialmente dalle energie fossili, il processo si rivela come molto lento, sebbene la guerra in Ucraina gli ha dato un impulso rilevante. Occorre sottolineare a tal proposito lo scoppio della guerra ha comportato mutamenti molto importanti nel mercato energetico.
Verso un’alleanza tra Cina e paesi del Golfo
Come ci ricorda un recente articolo apparso sul Financial Times (Foroohar, 2023), nel 1945 si era stretta una grande alleanza tra gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita. Gli Usa assicuravano la sicurezza del Medio Oriente in cambio della vendita del petrolio arabo in dollari e un approvvigionamento sicuro nei confronti degli Usa.
Oggi la guerra in Ucraina sta riorientando i flussi energetici a livello mondiale, con il petrolio ed il gas russi che si concentrano verso l’Est, in particolare l’Asia, mentre quelli dei paesi del Golfo che si dividono tra l’Est e l’Ovest.
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La fine delle talassocrazie
di Enrico Tomaselli
Non è solo l’unipolarismo ad essere tramontato. E lo è, dato che dal momento che viene così significativamente messo in discussione, ciò già implica di per sé che sia finito. Ad essere giunta al crepuscolo è anche una concezione (ed una pratica) strategica, su cui si è fondato il millenario dominio dell’occidente. A scomparire dietro l’orizzonte, in un ultimo, fiammeggiante bagliore, è la supremazia delle potenze navali
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La nascita dell’imperialismo navale
Storicamente, il commercio marittimo è sempre stato importante, in quanto le vie del mare erano le più veloci, e consentivano di trasportare grandi quantità di uomini e merci. Anche la storia antica racconta di innumerevoli battaglie navali, da quella di Ecnomo – nel 256 a.C. – a quella di Lepanto – 1571. Ma è fondamentalmente a partire dall’epoca delle conquiste coloniali europee in Africa, in Asia e nelle Americhe, che si afferma il moderno imperialismo navale.
Il possesso di territori lontani, con i quali era necessario mantenere un contatto costante, sia per ragioni economiche che difensive, portò allo sviluppo di grandi flotte da parte dei principali stati europei; la competizione tra le varie case regnanti (peraltro tutte più o meno imparentate tra di loro) determinò conseguentemente che tali flotte assumessero quindi un ruolo determinante, sia nella conquista e difesa delle colonie, sia nelle guerre tra stati. E da questo marasma, emergerà poi come massima potenza navale l’Inghilterra.
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Sul fallimento della Silicon Valley Bank, annessi e connessi…
di Michael Roberts
Pubblichiamo qui di seguito un articolo di Michael Roberts sul fallimento della Silicon Valley Bank [ne abbiamo ricevuto la traduzione da Antonio Pagliarone, che ringraziamo – n. (*)], che evidenzia alcuni dei problemi di fondo legati a questa ennesima crisi bancaria. Commentando le dichiarazioni ufficiali di vari esponenti dell’establishment finanziario e istituzionale a vario titolo implicati nell’affaire (dichiarazioni quasi tutte tese a minimizzare l’accaduto e illustrarne il preteso carattere circoscritto), Roberts si chiede: il crollo di SVB è davvero un caso singolo?
I fatti hanno già fornito una prima risposta. Il crollo di SVB, infatti, ha trascinato con sé, in contemporanea, Silvergate, e si è poi esteso alla newyorchese Signature Bank e all’ex filiale inglese di SVB, “comprata” dal gigante britannico HSBC al prezzo di saldo di una sterlina, una volta constatato il suo fallimento virtuale.
Ad accompagnare questi fallimenti, una scia di pesanti tonfi in Borsa e di difficoltà finanziarie ha colpito First Republic Bank, Western Alliance, Charles Schwab e altri istituti, sia americani che europei.
A leggere i commenti più o meno ufficiali della stampa specializzata e degli “addetti ai lavori”, con alcune sporadiche eccezioni, sembra di ritornare indietro nel tempo. È tutto un susseguirsi di “rassicurazioni” sulla “ben maggiore solidità” delle banche attuali rispetto a quelle del big crash del 2008, sulla dimensione “di nicchia” del business di SVB, per questo incapace di innescare problemi di carattere sistemico e così via.
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Francesco, l’ultimo papa
Un bilancio dei primi dieci anni di pontificato di Bergoglio, tra riforme e timori di scisma, innovazioni e limiti
di Roberto Paura
Un “pontificato breve”: così papa Francesco se lo immaginava e lo annunciava all’apertura dell’anno giubilare straordinario del 2015, poco meno di due anni dopo l’elezione. E la scelta di proclamare un giubileo straordinario dedicato al tema della “misericordia” tradiva la convinzione di non poter aspettare il 2025, anno giubilare ordinario. Breve era stato del resto il pontificato di Giovanni XXIII, che pure in meno di cinque anni aveva segnato una discontinuità radicale con il passato e inaugurato quel Concilio che avrebbe cambiato per sempre la Chiesa cattolica. Invece, contro molte aspettative, Francesco varca ora i dieci anni di pontificato: un tagliando importante, di bilanci – se ne leggono molti in giro – che cade in un anno particolare, il primo dopo la morte di Benedetto XVI, che mette fine all’ambigua e polarizzante questione dei “due papi”.
La sua elezione fu una sorpresa per tutti. Dopo essere stato per un paio di giorni il riluttante frontman degli anti-ratzingeriani al conclave del 2005, Bergoglio se ne era tornato in Argentina senza mettere in alcun conto una seconda possibilità. Ma le dimissioni sconcertanti di Benedetto XVI avevano rimesso tutto in discussione. Innanzitutto, si erano verificate talmente “a ciel sereno” – come dichiarerà a bruciapelo un istante dopo allo stesso papa il decano Angelo Sodano – che nessuno era preparato a immaginarne la successione. Lo stesso Ratzinger, che sperava di vedergli succedere Angelo Scola, era troppo esausto in quei giorni per provare a imporlo al collegio cardinalizio. Ma in secondo luogo, e soprattutto, le dimissioni di Benedetto XVI sancirono platealmente la sconfitta della sua linea.
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