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La Nuova Sinistra: scientifica, sfacciata e non ortodossa
di Filippo Albertin
Le eterogenee trasformazioni politiche, culturali e sociali che in questo ultimo quarantennio hanno accompagnato il passaggio dalla Prima Repubblica della “rappresentanza” post-bellica alla Seconda della “rappresentazione” (dominata come ovvio dal berlusconismo e dai suoi corollari), e dalla Seconda alla Terza della (per certi versi ancora più cupa) “auto-rappresentazione” (culminante nella vittoria pentastellata del 2013), presentano un fattore comune: la costante dissoluzione di un pensiero e di un’azione politicamente efficaci e nel contempo orientati a sinistra.
Non si vorrà, in questo articolo, elencare con eccessiva enfasi o accanimento i perché della lunga crisi del Socialismo (rivoluzionario o riformista che sia) nel nostro paese. Troppe sarebbero le interpretazioni, troppe le analisi, e quel che è peggio altrettanto numerose le dispute intestine e le conflittualità ad esse relative che si andrebbe a produrre o evocare. Dispute e conflittualità che oggi, con perifrasi ormai tristemente peculiari quali “la scissione dell’atomo”, hanno reso tutto ciò che orbita nella cosiddetta “sinistra radicale” tristemente celebre per la sua natura litigiosa, autoreferenziale, randagia, settaria e in ultima istanza autolesionista.
Sarà questo mio intervento a far sorgere finalmente la tanto agognata Nuova Sinistra? Logicamente no. Mi permetto però di sottolineare, non senza una vena di profondo disappunto, che a tutt’oggi nessuno, ma veramente nessuno ha mai proposto alcunché di oggettivamente innovativo e contro-intuitivo in materia di reale costruzione di ciò che in molti appellano come Socialismo del XXI Secolo.
Il movimentismo diffuso che da qualche tempo viene un po’ supinamente salutato come la salvezza e la via per la riconquista dei diritti, in realtà, esiste in mille forme e versioni ormai da decenni, senza che un bel nulla sia cambiato.
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Gilles Lipovetsky e la società della seduzione
di Salvatore Bravo
Se il capitalismo immateriale avanza senza limiti, ciò è possibile perché mancano le narrazioni veritative. Se la Filosofia si limita ad una critica sociologica e non propone la verità come centro di un processo rivoluzionario, la sua critica è solo puro parlare senza effetti
Capitalismo immateriale
Il capitalismo si autofeconda mediante un movimento perennemente innovativo. Non solo è capace di adattarsi alle circostanze storiche, ma fagocita i movimenti di emancipazione e di liberazione riducendoli a merce, e abbattendo persino le frontiere che esso stesso ha creato. Siamo dinanzi ad una nuova fase che rende il capitalismo certamente non diverso dalla sua essenza, ma con effetti amplificati dai mezzi utilizzati. Le fasi del capitalismo rivelano, in modo sempre più esponenziale, la sua intrinseca natura: si installa nelle relazioni umane, entra nella vita degli uomini per trasformarla in plusvalore, sostituisce il concetto con la gestualità seduttiva. La fase attuale è “rivoluzionaria”, perché accelera tale automatismo. Il capitalismo immateriale utilizza il digitale e gli algoritmi non solo per produrre, ma per orientare le scelte e la vita dei soggetti sussunti al suo invisibile potere.
L’incanto
L’incanto del capitalismo immateriale è nella narrazione che esso fa di se stesso: promette la pienezza, producendo a ciclo continuo – con sogni di onnipotenza narcisistica – una nuova percezione del tempo incentrata sul bisogno-desiderio. I bisogni-desideri sono l’incanto della speranza mondana, il tempo dura quanto è necessario per desiderare e consumare, il disincanto è subito compensato da un nuovo sogno. È l’eterno ritorno nella prospettiva dell’homo consumericus. La forza dell’incanto del capitalismo immateriale è nel non lasciare tempo al consumatore; non vi devono essere archi temporali vuoti, in cui il pensiero può concettualizzare con profondità, giustapporre i sogni ed i disincanti in modo sempre più veloce consente il radicamento dell’incantatore e lo sradicamento da se stesso, dal logos e dalla comunità del soggetto.
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Il “paradosso di Lenin”, la politica-struttura e l’effetto di sdoppiamento
di Roberto Sidoli
Di seguito la relazione di Roberto Sidoli all'assemblea del Centro Culturale Concetto Marchesi, tenuta il 14 settebre 2019
Voglio focalizzare l’attenzione sul collegamento esistente tra lo schema generale dell’effetto di sdoppiamento e il “paradosso di Lenin”, avente per oggetto il rapporto generale tra la sfera politica e quella economica, oltre che sullo sdoppiamento della stessa sfera politica in politica-sovrastruttura e politica-struttura, ossia politica intesa come espressione concentrata dell’economia.
Secondo la tesi dello sdoppiamento, dopo il 9000 a.C. e con l’inizio della rivoluzione tecnologica neolitica, non solo il genere umano è entrato nell’era del surplus, costante e accumulabile, ma altresì si è creato e consolidato un campo di potenzialità alternative, di matrice produttiva e politico-sociale, determinando quindi la simultanea genesi e cristallizzazione plurimillenaria – fino ad arrivare ai nostri giorni e all’inizio del terzo millennio – sia di una “linea rossa” collettivistica, gilanica e cooperativa (a partire dalla protocittà egualitaria di Gerico, 8500 a.C.) che invece di una variegata e alternativa “linea nera” di matrice classista, militarista e patriarcale, come nel lontano caso di quei predoni Kurgan che, con le loro sanguinose invasioni, infestarono l’Eurasia dal 4000 a.C. e per molti secoli.
Giorgio Galli recentemente si è chiesto: “la teoria dello sdoppiamento è compatibile con la teoria marxista? A me pare di si”.
Il celebre studioso milanese ha ragione e coglie nel segno.
La teoria dell’effetto di sdoppiamento risulta infatti compatibile con la concezione marxista anche perché costituisce uno sviluppo creativo di quest’ultimo, sviluppo basato su una miriade di fatti concreti che purtroppo in gran parte non risultavano a disposizione del geniale Karl Marx, morto nel lontano 1883: un Karl Marx che, per fare un solo esempio, non aveva (senza colpa alcuna) neanche il minimo sentore della fase di riproduzione plurimillenaria della “rossa” e collettivistica protocittà di Gerico, a partire dall’8500 a.C. e quindi dieci millenni or sono.
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Alain de Benoist e la polemica coi cattolici
di Matteo Luca Andriola
Lo storico Massimo Capra Casadio, nel suo libro Storia della Nuova Destra La rivoluzione metapolitica dalla Francia all’Italia (1974-2000) (Clueb, 2013), documentava il dibattito – e la differenza ontologica – fra “Nuova Destra” italiana e “Nouvelle Droite” francese sul tema cruciale dell’anticristianesimo. «Facemmo finta di niente», afferma Solinas nel libro; e questo per una serie di ragioni basilari: in Italia uno scontro frontale con la Chiesa Cattolica era impensabile, specie in un’area come quella della destra che, anche se al suo interno vi erano posizioni diverse sul tema, cercava di intercettare voti da quell’area. Ora Alain de Benoist, a proposito dell’idea dei suoi amici italiani che «si potevano accogliere molto bene in Italia le idee della Nouvelle Droite senza abbordare dei temi così ‘inutilmente’ scioccanti», afferma: «Io non sono convinto della sensatezza di questo modo di procedere». Denuncia una «incomprensione» degli italiani, che hanno considerato l’anticristianesimo e il paganesimo di de Benoist come qualche cosa che «dipend[esse] da un hobby, se non addirittura da una mania».
Mentre si tratta dell’architrave di tutto il pensiero di de Benoist: «fare a meno della mia critica al Cristianesimo è, ai miei occhi, intellettualmente impossibile». «Per chi considera con Nietzsche che la cristianizzazione dell’Europa […] fu uno degli avvenimenti più disastrosi di tutta la storia fino ai nostri giorni — una catastrofe nel senso proprio del termine — che può significare oggi la parola “paganesimo”?», scriveva De Benoist nel libro Comment peut-on être païen?[1] Anche se l’Autore sottolinea che «ritorno all’anteriore» è «impraticabile» e ne consegue che «un nuovo paganesimo deve essere veramente nuovo».[2] Per de Benoist ormai «non v’è bisogno di “credere” in Giove o in Wotan — […] — per essere pagani. Il paganesimo oggi non consiste nell’innalzare altari ad Apollo o nel resuscitare il culto di Odino.
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Conte bis, un simulacro della democrazia e dell’antisalvinismo
di Carmine Tomeo
Davvero si pensa di poter parlare di democrazia senza mettere al centro delle questioni i diritti sociali?
La gestazione del governo Conte bis non è stata poi così lunga, anche perché quella tra M5S e PD è un’alleanza che risulta essere non così innaturale come a volte viene descritta. L'accordo di governo PD-M5S (nel quale si è poi inserito Leu) nasce su pochi punti cardine cresciuti nel corso delle trattative tra le delegazioni dei due partiti: dai 5 del Pd ai 10 di del M5S fino alla lista di 29 punti finale. La questione è che le basi dell’intesa più che a una discontinuità fanno pensare a una nuova occasione per la borghesia di ricompattarsi intorno a un programma di liberismo tecnocratico, scalzando in questo modo il liberismo nazionalista rappresentato dalla Lega.
Ciò risulta già abbastanza palese osservando come, nel corso degli incontri tra i due partiti e a margine di essi, si aveva, da una parte il PD che escludeva una riforma del Jobs act e dall’altra il M5S che escludeva (solo in maniera più categorica del nuovo partner di governo) l'abolizione dei decreti sicurezza voluti da Salvini. Negli stessi giorni, decine di migranti restavano su navi di Ong senza possibilità di toccare terra, prima grazie al divieto di sbarco firmato, oltre che da Salvini, dai ministri (ancora in carica in quel momento) Trenta e Toninelli, poi dalla decisione del neoministro degli Interni, Lamorgese che ha subito fatto sapere che la politica dei porti chiusi non si tocca. In quelle occasioni, vecchi e nuovi ministri non hanno dovuto nemmeno curarsi della presenza a bordo di esponenti del PD come Orfini e Delrio. Che tra l'altro mai si sono curati, con tutto il loro partito, tutto il M5S e tutta la Lega, delle conseguenze criminali che anche in questo momento producono i disumani accordi firmati tra il governo Gentiloni (nel frattempo nominato commissario europeo con delega agli affari economici) e la Libia.
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Necessità, tempo e lavoro
di Moishe Postone
Si può dire che il pioniere che ha elaborato una revisione del lavoro astratto e della categoria del valore in Marx è stato senz'altro Moishe Postone, nel 1978, e che la Critica del Valore è emersa a partire dal suo pensiero. In questo testo, dal titolo «Necessità, Tempo e Lavoro», Postone dà inizio ad una problematizzazione circa quelli che sono gli equivoci del marxismo tradizionale. Dal momento che il capitalismo si struttura come libero mercato, rendendo così possibile lo sviluppo del capitalismo industriale, le sue condizioni intrinseche di accumulazione, di competizione e di crisi hanno dato origine a delle tecniche di pianificazione centralizzata, di concentrazione urbana del proletariato industriale, così come di centralizzazione e do concentrazione dei mezzi di produzione, e alla separazione fra diritto formale alla proprietà e proprietà reale ecc.. Tali tecniche, tipiche della produzione industriale, hanno creato un livello di ricchezza inimmaginabile fino ad allora, e brutalmente iniquo. A fronte di quadro simile, il marxismo che Postone definisce «tradizionale» aveva intravvisto la possibilità di un nuovo modo di distribuzione, equo e corretto, e regolato in maniera cosciente. Perciò, sebbene i marxisti sembrassero avere una teoria della produzione sociale, in realtà quello che portano avanti è una critica storica del modo di distribuzione. Di conseguenza, il marxismo, secondo Moishe Postone, per poter essere ripreso senza i suoi tradizionali equivoci, va riletto concentrandosi sull'aspetto della distribuzione. Secondo lui, questo errore non può essere attribuito a Marx, bensì a quella che è la sua errata interpretazione. nel rivisitare i Grundrisse, Postone asserisce che Marx era a conoscenza della centralità del lavoro, quando affermava che tutto il modo di produzione capitalistico si trovava ad essere fondamentalmente basato sul lavoro salariato. Secondo lui, Marx considerava già il valore come il centro della produzione borghese, e sapeva che le relazioni di valore avvengono nella produzione in sé, e non si limitano solo alla circolazione e alla distribuzione. È per questo che Roswitha Scholz considera Postone come un classico di quella che è la critica fondamentale del valore, anche se egli non ha mai fatto uso di una simile espressione.
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Brevi note sulla introduzione del '57 ai Grundrisse
di Laura Ruocco
È noto come la gestazione de Il Capitale abbia impegnato un lungo tratto della travagliata esistenza di Karl Marx. Nondimeno è possibile individuare diversi punti cruciali all’interno della riflessione marxiana, non omogenea né progressiva, ma piuttosto impegnata in una inesausta riflessione relativa alle “tre fonti e tre parti integranti del marxismo”[1], una delle quali riteniamo abbia una certa rilevanza relativa agli aspetti metodologici che, sin dai Manoscritti economico-filosofici del 1844, non ha mai smesso di occupare parte cospicua dell’analisi di Marx. Ci riferiamo al patrimonio del pensiero filosofico tedesco, in particolare alla pesante eredità esercitata dalla ricerca hegeliana con cui, è possibile dire, l’autore del Manifesto si è costantemente misurato durante tutta la sua esistenza.
Si suole affermare, certamente non a torto, che il comunismo scientifico abbia operato un rovesciamento del pensiero di Hegel, tale da riportare la dialettica con i piedi per terra in modo da scoprire la reale fonte delle implicazioni e delle conseguenze della logica applicata alla analisi della formazione economico-sociale[2]. Tuttavia tale affermazione, pur suffragata dalle parole dello stesso Marx, rischia di impoverire, se non fraintendere, le modalità, da una parte di filiazione, dall’altra di superamento, intercorrenti fra la concezione di Hegel e quella di Marx, specificamente per quanto concerne la riflessione da entrambi dedicata alla dottrina della logica. Snodo fondamentale, relativo a quest’ultimo aspetto, si ritrova nella Introduzione del 1857 ai Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, sinteticamente denominati Gründrisse, opera preparatoria alla stesura de Per la critica dell’economia politica pubblicata nel 1859. La prefazione in questione non sarà mai pubblicata da Marx, sostituita da quella composta nel 1859, priva degli aspetti metodologici esposti in quella precedente.
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Gli insegnanti, la rivoluzione digitale e un recente libro di Alessandro Baricco
di Carlo Scognamiglio
Poiché vita reale e comunicazione digitale sono oggi inscindibili e nel digitale vive una parte importante del nostro sistema simbolico, gli insegnanti dovrebbero superare tanto la visione “apocalittica” quanto quella “integrata” riguardo all’uso della tecnologia nella didattica. Tra i compiti della scuola, quindi, anche quello di una vera e propria alfabetizzazione digitale per decifrare il nuovo orizzonte d’esistenza.
1. C’è una questione, nel dibattito culturale italiano, che necessita di ulteriori approfondimenti. Non certo orfana della giusta attenzione da parte degli studiosi, credo tuttavia che vada interrogata con un approccio meno tecnico. Mi riferisco al rapporto tra istruzione e tecnologie digitali. Non ho esordito evocando la necessità di un supplemento d’inchiesta in ambito esclusivamente pedagogico, perché mi vado sempre più persuadendo dell’impatto sociale della questione, che quindi pretende un più ampio ambiente di osservazione. Ci sono livelli di indagine stratificati, in questo caso. Ci sono le aspettative delle famiglie, delle aziende, degli studenti stessi. Ci sono poi le relazioni mediche e le programmazioni didattiche. Esiste il tema politico e la questione psicologica. Come dire? L’assoluta pervasività della tecnologia digitale nel nostro esistere è tale da aver terremotato l’intero impianto culturale degli stili di vita, e in generale della nostra civiltà.
Alcune precisazioni sono obbligatorie. Se parliamo di tecno-logia non ci riferiamo soltanto allo strumento e ai diversi mediatori elettronici di cui ci siamo circondati. Intendiamo infatti per “tecnologia” il sistema degli strumenti (hardware e software) che anno dopo anno semplificano le nostre azioni, ma anche il ragionamento – o discorso (λόγος) – sulla tecnica. Ciò significa che non possiamo scindere i mezzi dal loro impatto (simbolico, pratico e valoriale) sulla cultura. Le cose cambiano. Bisogna capire come, e anche perché.
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Dall'URSS alla Russia
di Fabrizio Poggi
Se almeno un solo elemento della immensa lezione leniniana ho potuto assimilare (e tentare sempre di applicare) è quello della necessaria e costante analisi dei rapporti tra le classi nell'esame di ogni fenomeno reale. Così che, invogliato dal commento al pezzo di Alexander Höbel - “Inefficienze e difetti dell’economia sovietica” - fatto da Eros Barone, che giustamente mette in rilievo la doverosa analisi dei rapporti di classe nell’analisi della storia sovietica e della sua involuzione a partire dalla degenerazione khruščëviana, propongo questo pezzo, uscito su nuova unità nel 2017 (n. 4), qua e là rivisitato per l'occasione, ma non aggiornato, sperando di dare un piccolo contributo alla discussione
Dietro le quinte di una cosiddetta “formazione dei militanti” sul tema della storia dell'URSS, si contrabbandano spesso trotskismo, khruščëvismo e gorbačëvismo. Presentando la storia sovietica come un percorso “Dal capitalismo al socialismo e viceversa”, da posizioni idealistiche si attribuisce l'evoluzione e la successiva involuzione dell'esperienza socialista in URSS a soli fattori soggettivi, secondo la vulgata di una presunta “bontà innata” di chiunque si sia opposto a quelle che vengono definite le “criminali” scelte politiche ed economiche della leadership sovietica durante il trentennio in cui Stalin fu alla testa del VKP(b).
Di contro, si è tentato di illustrare sommariamente come quelle scelte riflettessero reali rapporti tra le classi sociali, così come si evince da alcune fonti sovietiche. Delimitazione cronologica e schematizzazione tematica sono soggettive e solo indicative del tema.
* * * *
Nel 1932, sul numero 1-2 della rivista “Pod znamenem marksizma” (“Sotto la bandiera del marxismo”), compare l'articolo di M. Korneev Il secondo Piano quinquennale e l'eliminazione delle classi, che illustra la politica di trasformazione delle campagne in URSS, basata sulla collettivizzazione delle piccole aziende individuali e la definitiva eliminazione dell'ultima classe sfruttatrice rimasta, quella del kulak, i contadini ricchi.
Tra il 1973 e il 1979, intrattenendosi con lo storico Felix Čuev, l'ex membro del Politbjuro, ex presidente del Consiglio dei commissari del popolo ed ex Ministro degli esteri sovietico Vjačeslav Molotov afferma: “contrappongono Stalin a Bukharin e a Dubček. Sono i destri che lo fanno – i residui di kulak non liquidati. Tra Bukharin e Dubček c'è molto in comune”. E poi: “Khruščëv non è stato casuale. Il paese è contadino e la deviazione di destra è ancora forte.
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Interpretare il futuro? Non basta, va trasformato
di Roberto Paura
Martin Rees: Il nostro futuro, Traduzione di Luigi Civalleri Treccani, Roma, 2019 pp. 180, € 21,00
Tra le letture preferite del piccolo Martin Rees nell’Inghilterra degli anni Cinquanta c’era Eagle, una serie a fumetti che raccontava le gesta di Dan Dare, “pilota del futuro”. “C’erano bellissime illustrazioni di città in orbita, gente che volava con i jetpack e invasori alieni”. Non c’è da meravigliarsi se la generazione di Rees “seguì con entusiasmo le imprese eroiche dei pionieri”, dal momento che “le tute degli astronauti della Nasa (e dei cosmonauti sovietici) mi erano familiari, tanto quanto le procedure di lancio e rientro”. Oggi Martin Rees è dal 1995 Astronomo reale britannico, dal 2005 membro della Camera dei Lord e fino al 2010 presidente della Royal Society. Ma è anche e soprattutto un attento studioso del futuro. Nel 2003 pubblica Il secolo finale, testo che tra i primi introduce il concetto di “rischio esistenziale” e associa l’accelerazione del progresso tecno-scientifico a possibili scenari estintivi per la civiltà umana entro questo secolo. Il nostro futuro, pubblicato quest’anno e subito portato in Italia dalla nuova collana Visioni della Treccani, condensa le visioni del futuro di Rees “in qualità di scienziato, di cittadino e di membro preoccupato della specie umana”. Dopo questo titolo, la collana ha proposto La terra, la storia e noi, denso trattato sull’evento Antropocene degli storici francesi Christopher Bonneuil e Jean-Baptiste Fressoz, e il testo-manifesto di Peter Frase, Quattro modelli di futuro, pubblicato nel 2016 dalla casa editrice Verso con il titolo Four Futures. Insieme, questi tre titoli ci offrono un itinerario privilegiato per addentrarci tra i nostri futuri possibili.
Il futurismo ben temperato
Partiamo da Rees. Il suo è un testo classico di futurologia (o futurismo: in Italia si sta affermando questa traduzione dell’anglosassone futurism per cercare di sottrarla al suo pesante retaggio ideologico del primo Novecento).
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Le innovazioni teoriche di Immanuel Wallerstein
di Bollettino Culturale
Parte I
Se osserviamo tutto il lavoro di Immanuel Wallerstein, e anche l'insieme globale di linee in cui ha sviluppato questa prospettiva dell'analisi dei sistemi-mondo, possiamo renderci conto che questo lavoro e detta prospettiva sono fondamentalmente visualizzati attorno a quattro assi tematici principali, assi che si articolano l'un l'altro in modi diversi, ci danno l'architettura completa dell'edificio concettuale e teorico da questa stessa prospettiva dell'analisi dei sistemi-mondo.
Quattro assi che, a volte sovrapposti, e altri che si intersecano trasversalmente, contengono anche le chiavi principali dell'originalità di questa analisi dei sistemi-mondo, nonché la loro eccezionale irradiazione all'interno delle più diverse sfere accademiche e intellettuali di tutto il mondo
Perché quando attraversiamo attentamente l'opera di Immanuel Wallerstein, è evidente che un primo asse è quello storico critico, che cerca di spiegare, in modo nuovo, l'intera storia del capitalismo e della modernità all'interno della quale viviamo ancora, avendo iniziato la sua esistenza storica nel "lungo sedicesimo secolo" cruciale e decisivo, postulato da Fernand Braudel, in un’onda che arriva fino ai nostri giorni.
L’asse storico-critico di una storia globale del capitalismo moderno, dal XVI secolo ad oggi, che non era solo la matrice originale dell'intera prospettiva dell'analisi dei sistemi-mondo, ma è stata anche concretizzata, parzialmente, nell'opera di Immanuel Wallerstein, che è senza dubbio la sua opera più tradotta e conosciuta in tutto il mondo: Il Moderno Sistema-Mondo.
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Le università e i giovani nel tritacarne della crisi e dei diktat europei
di Leonardo Bargigli*
Una recensione del volume “Giovani a Sud della Crisi”, basata sulla relazione presentata durante il dibattito sul libro tenutosi a Firenze l’8 maggio 2019 nell’ambito del festival Unifight organizzato dal Collettivo Politico di Scienze Politiche
Dopo l’approvazione della riforma Gelmini nel 2010, l’attenzione per le sorti del sistema universitario italiano è calata paurosamente. Il disinteresse sociale è andato di pari passo con il drastico ridimensionamento dell’istruzione universitaria. Dopo gli anni della “bolla formativa” gonfiata dalla propaganda sugli “obiettivi di Lisbona”[1] e sull’ “economia della conoscenza”, crisi e austerità hanno tolto sostanza a molti appetiti baronali e padronali, ed è rimasta nuda e cruda sul terreno una realtà fatta di precarietà, sfruttamento e salari da fame. Una realtà che, per chi l’ha voluta vedere, è sempre stata il pane quotidiano delle generazioni che hanno frequentato le aule universitarie negli ultimi decenni.
Il corpo docente ha continuato, tranne rare eccezioni, a tacere, mentre l’Università italiana si asserviva agli imperativi dell’accumulazione capitalistica su scala europea. E senza dubbio è venuto calando, sotto i colpi della repressione, anche il livello di conflittualità studentesca[2]. Se questo è lo stato dell’arte, il lavoro di Noi Restiamo è meritorio, prima di ogni altra considerazione, perché nasce in un contesto culturale difficile, che si è reso sempre più sordo se non ostile ad ogni forma di riflessione collettiva. I suoi meriti però non si limitano affatto a questo. Il libro è prezioso perché affronta in modo organico il nesso tra tre processi che sono di fondamentale importanza:
- la ristrutturazione del sistema formativo universitario
- l’accumulazione del capitale su scala europea
- le ricadute di tale accumulazione sui territori e sulle sovrastrutture politiche e giuridiche
Nel seguito cercherò di chiarire l’articolazione e i legami reciproci di questi processi partendo proprio dall’angolo di osservazione offerto dalla realtà universitaria – quella che conosco meglio[3].
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di Francesco Cappello
Immaginate di salire in cima ai 400 metri delle torri gemelle e da lassù lasciar cadere un blocco di cemento; cadendo sarà frenato in modo trascurabile dalla resistenza dell’aria; immaginate di conteggiare il tempo necessario a che esso raggiunga il suolo. Scoprirete, cronometro alla mano, che la caduta, quasi libera, ha impiegato circa 10 secondi (nell’ipotesi di resistenza zero da parte dell’aria, la meccanica newtoniana ne prevede 9). Ci si rimane male quando si scopre che l’ultimo piano delle torri ha raggiunto il suolo in un tempo di pochissimo superiore a quei 10 secondi. In pratica l’ultimo piano, in seguito al collasso, ha raggiunto il suolo come se ad ostacolarne e rallentarne la caduta non ci fossero stati frapposti oltre 100 piani. In altre parole, la dinamica con cui l’ultimo piano ha raggiunto il suolo è stata praticamente analoga a quella di una caduta nel vuoto!
Eppure tutti abbiamo ancora negli occhi e nel cuore gli incendi, seguiti agli impatti violenti dei Boeing della American Airlines con le torri, la fiammata esplosiva iniziale e il denso fumo nero che dopo poco (circa un’ora) indicava l’esaurimento degli incendi a riprova del fatto che i piani al di sopra e al di sotto di quelli coinvolti da urto e fiamme dovevano necessariamente essere integri. In particolare, è del tutto lecito pensare, che la struttura portante in travi di acciaio temperato (47 piloni), al di sopra e al di sotto dei piani direttamente coinvolti, non interessata dalle fiamme, doveva essere rimasta indenne. Per di più l’acciaio fonde intorno ai 1500 gradi e l’incendio divampato in conseguenza dell’impatto che fece esplodere il kerosene (la benzina degli aerei) a detta dei tecnici può aver raggiunto, se si fosse svolto in condizioni ottimali, una temperatura massima di 800 gradi (1). A riprova, le testimonianze di coloro i quali, trovandosi agli ultimi piani dell’edificio, sono riusciti a salvarsi attraversando i piani direttamente coinvolti dalla collisione.
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Blanchard e Summers: rivoluzione o conservazione?
di Roberto Ciccone e Antonella Stirati*
Abstract. E’ a nostro avviso positivo che autori come Blanchard e Summers giudichino necessario un cambiamento nell’analisi del funzionamento dei sistemi economici, e mentre rispetto all’alternativa tra “evoluzione” e “rivoluzione” da essi prospettata opteremmo certamente per la seconda, riteniamo che il rinnovamento richiesto sia di grado ancora superiore a quanto gli autori contemplino. Forti ragioni teoriche, oltre che empiriche, spingono ad abbandonare definitivamente l’idea, propria dell’analisi tradizionale, secondo cui in un’economia di mercato esisterebbero forze in grado di mantenere i livelli di attività vicini al “prodotto potenziale”, con le conseguenti implicazioni per la politica economica, e in particolare fiscale
1. Introduzione: un’alternativa all’analisi economica dominante
Chi scrive non può che dare il benvenuto al fatto che un autore come Blanchard si presti a un confronto aperto con approcci teorici alternativi, come è avvenuto nel dibattito di Milano con Brancaccio (Blanchard e Brancaccio, 2019). Così come vediamo con favore che Blanchard e Summers (d’ora in avanti B&S), nel saggio da noi assunto a premessa e traccia per questa discussione (B&S, 2017),1 ritengano necessario un cambiamento nell’analisi del funzionamento dei sistemi economici, e cioè in quella cui i due autori ripetutamente si riferiscono come ‘macroeconomia’ – sebbene, incidentalmente, sarebbe forse più appropriato dire che il cambiamento invocato debba riguardare la teoria economica tout court, essendo questa, in ogni suo aspetto, ad avere per oggetto il modo di operare di un’economia capitalistica. E di fronte al tipo di alternativa che B&S prospettano per quel cambiamento, “evoluzione” o “rivoluzione”, opteremmo certamente per la seconda. Ma a nostro avviso il cambiamento richiesto è di grado ancora superiore rispetto a quanto B&S contemplino in entrambe le ipotesi.
Riteniamo che vi siano forti ragioni teoriche, oltre che empiriche, che spingono ad abbandonare l’idea, attualmente prevalente, secondo cui in un’economia di mercato, o capitalistica, esistono forze in grado di mantenere i livelli di attività vicini a quello che viene spesso definito il suo “prodotto potenziale” – vale a dire il prodotto corrispondente alla piena occupazione delle risorse disponibili, o, con riferimento al lavoro, alla variante apparentemente più concreta del tasso “naturale” o “non inflazionistico” di disoccupazione.
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Come l’helicopter money potrebbe rilanciare l'economia italiana
di Enrico Grazzini
BlackRock e il Financial Times suggeriscono l'helicopter money: anche il ministro dell'economia Gualtieri dovrebbe “mettere soldi direttamente nelle tasche degli italiani”
La Banca Centrale Europea di Mario Draghi, dopo il parziale fallimento del primo Quantitative Easing, ritenta un secondo QE, seppure tra molti contrasti – Germania, Francia e Olanda non vorrebbero questo QE - e parecchie perplessità degli investitori sulla riuscita dell'operazione. Il problema è che con il QE la BCE ha stampato una montagna di moneta solo a favore delle banche (2,6 triliardi) e ha congelato il debito degli stati ma non è riuscito ad aumentare l'inflazione, e soprattutto non ha rilanciato l'economia reale. Le banche dell'eurozona scoppiano di liquidità ma non offrono abbastanza credito a una economia già troppo indebitata. Un mezzo fallimento. Draghi invoca allora un forte aumento degli investimenti pubblici per rilanciare l'eurozona sulla soglia della recessione. Ma è molto difficile che la Germania e i Paesi del nord Europa decidano una forte espansione della spesa pubblica. Così la liquidità monetaria continua a mancare nell'economia reale. La soluzione, come suggeriscono fonti autorevolissime, come BlackRock e il Financial Times, è l'Helicopter Money: con l'HM la BCE dovrebbe offrire soldi direttamente ai cittadini, alle imprese e agli enti pubblici e non più solo alle banche. Il presidente della BCE ha affermato però che “l'ipotesi di Helicopter Money non è stata mai discussa alla Bce” e che l'HM non è necessario. Tuttavia in questo articolo suggerisco che il ministro dell'economia del governo Conte-2 Roberto Gualtieri potrebbe (e dovrebbe) attuare urgentemente l'HM per risollevare l'economia italiana emettendo titoli/moneta per metterli direttamente nelle tasche degli italiani. Tutto questo senza aumentare il deficit pubblico e nel pieno rispetto delle regole dell'eurozona.
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La quiete dopo la tempesta?
di Michele Castaldo
«Passata è la tempesta odo augelli far festa» leggiamo in Leopardi e osservando gli umori dei personaggi del nuovo governo si ha l’impressione che la tempesta – cioè l’uscita di scena di Salvini – sia passata e dunque «Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride». È proprio così?
A volte ci sono gesti e parole che spiegano molto più di un libro: il gesto di Giuseppe Conte che poggia la mano sulla spalla sinistra di Salvini, mentre pronuncia il discorso di commiato alla camera, è tutto un programma; come dire: povero fesso, povera ingenua creatura, sei caduto nella trappola, l’hai fatta grossa: hai preteso di avere rapporti equivoci con la Russia, di intavolare trattative sotto banco; di convocare le parti sociali, cosa che non competeva al tuo dicastero; di proseguire in una continua campagna elettorale incentrata sulla tua persona; di osare di mettere in discussione la permanenza nell’Unione Europea e di cambiare l’alleanza strategica dell’Italia. Dulcis in fundo: hai avuto la pretesa di chiedere i pieni poteri agli elettori. Ma chi credi di essere? Ti sei guardato allo specchio? Non hai capito con chi hai a che fare! Mo’ ti sistemo io.
Il discorso di Conte era apparso da subito come una porta girevole, di uscita per lasciarsi alle spalle l’alleato scomodo e di entrata per la nuova investitura con appunti di programma con un nuovo alleato, non più sovranista ma europeista, non più occhieggiante verso la Russia di Putin, ma saldamente ancorato nella Nato.
Et voilà! Il gioco è fatto: esce Conte Giuseppe ed entra Giuseppe Conte! Esce la Lega salviniana ed entrano il Partito Democratico e Liberi e Uguali. Così il popolo democratico tira finalmente un sospiro di sollievo. Il mostro è stato messo all’angolo e in condizioni di non nuocere. È così?
Cosa esce sconfitto realmente con l’uscita della Lega salviniana dal governo e quali insidie si nascondono nei prossimi anni per gli immigrati, per i lavoratori e i disoccupati in Italia e in modo particolare nel sud? È questa la domanda alla quale siamo più interessati.
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Rivoluzione e controrivoluzione
di Intervention Communiste
[Révolution et contre-révolution, Parigi 1974]
La coerenza della società capitalista ha come base il vigore e l'estensione della legge del valore. Se è attorno a quest'ultima, in quanto trasforma qualsiasi manifestazione umana in merce e l'uomo stesso in merce forza-lavoro, che si costituisce la comunità materiale del capitale, questa comunità non acquisisce la propria stabilità che attraverso la trasformazione dell'uomo in merce, in questo senso la comunità non è fondata sul valore, ma più precisamente sul valore in processo, sul valore che si valorizza.
Fondato sul valore non nella sua accezione statica, ma sul ciclo delle sue metamorfosi, il capitale erode la propria base: il valore. Il capitale lavora senza sosta alla distruzione del valore, il movimento proprio della sua accumulazione funge da base al momento in cui si presenta esso stesso come creatore di valore; il plusvalore diviene profitto, il valore diviene prezzo di produzione. Tutto sarebbe perfetto se il capitale potesse liberarsi dal valore, esso stravolge il proprio funzionamento: separazione della forma prezzo e della forma equivalente generale; produzione di un movimento di capitalizzazione nel quale una data parte dell'accumulazione di capitale non corrisponde ad alcun valore (cfr. le azioni); estensione del sistema di credito nel quale il capitale anticipa sé stesso. Il capitale frantuma la legge del valore. Ma più tende a liberarsi dal valore, più rafforza la violenza tutelare di quest'ultimo. Quando, sviluppandosi, il capitale si presenta come la sola fonte del profitto, non fa in realtà che diminuire quello stesso plusvalore in cui, ciclicamente, è costretto ad ammettere riassumersi il profitto.
Quindi il movimento stesso della messa a valore del capitale, della valorizzazione, è il processo di distruzione del valore, della devalorizzazione. L'abolizione del valore costituisce la necessità storica del capitale, ma costituisce altresì la possibilità della sua negazione.
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Le privatizzazioni in Italia. Il buio oltre la siepe
di Militant
Quotidiano “la Repubblica”, inserto Affari&Finanza, 5 agosto 2019, un lunedì. L’approfondimento firmato da Luca Pagni spiega come tra le prima quaranta aziende quotate presso la Borsa di Milano (listino Ftse Mib, quello più rilevante) un buon 40%, a livello di valore della capitalizzazione, appartenga a società a controllo pubblico, cioè con il socio di maggioranza rappresentato dal Ministero del Tesoro o da qualche ente locale. Molte di queste, peraltro, sono attive in un settore oggettivamente strategico: quello dell’energia. “Bene!”, dovrebbe essere portato a pensare un sincero riformista, valutando la notizia come una sorta di boccata di ossigeno rispetto all’economia neoliberista, sempre più agonizzante: in fin dei conti si parla di società pubbliche, “quasi-pubbliche”, “un po’ – pubbliche” (senza esagerare, però: l’Enel, che ovviamente è tra le maggiori, ha visto scendere la quota in mano al pubblico addirittura sotto la soglia del trenta per cento). Si parla anche, però, di economia finanziarizzata, sostanzialmente scollegata dai reali processi economici, così da esorcizzare non solo lo spettro dello Stato monopolista (neanche – anzi: meno che mai! – in settori fondamentali per la vita collettiva), ma anche il ben meno “spettrale” ricordo delle vecchie Partecipazioni statali, su cui la Prima Repubblica aveva edificato la sua fortuna, per poi vergognarsene imbarazzata.
E invece no! Perché il tono di tutto l’articolo (a cui “la Repubblica” attribuisce una certa importanza, dedicandogli le prime tre pagine dell’inserto) va nella direzione opposta: l’ineffabile Luca Pagni, infatti, inizia scrivendo che “A guardare i nomi e i numeri della Borsa italiana si potrebbe dire che nulla è cambiato da vent’anni a questa parte. E che le liberalizzazioni in Italia non ci siano mai state”.
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“Altri confini”. Riflessioni sul volume di Luca Cangemi
di Salvatore Tinè
Il libro di Luca Cangemi, Altri confini. Il PCI contro l’Europeismo (1941-1957), è un libro importante. Importante in una duplice prospettiva, ovvero sia per la ricostruzione e riflessione storiche sulla genesi e la prima fase del processo di integrazione europea che ci propone e che costituisce lo sfondo del tema specificatamente trattato nel libro, ossia l’evoluzione della posizione dei comunisti italiani sui progetti e i processi di unificazione dell’Europa occidentale negli anni tra il 1941 e il 1957; sia per la profonda riconsiderazione critica di un periodo della storia del comunismo italiano.
Si tratta del periodo compreso tra il ’47 e la crisi del ’56, ovvero tra la fine dell’unità antifascista e l’inizio della cosiddetta “destalinizzazione”, solitamente considerato dalla storiografia, anche di orientamento “comunista” in una prospettiva sostanzialmente negativa, quando non puramente liquidatoria e che invece nella rigorosa e documentata ricostruzione di Cangemi ci appare come un periodo di importanza addirittura decisiva nella definizione di alcuni dei tratti essenziali più originali dell’identità culturale e politica del PCI di Togliatti. Lungi infatti dal configurarsi come una mera parentesi negativa nell’evoluzione del PCI verso la piena definizione di quella che all’VIII Congresso della fine del ’56 si chiamerà la “via italiana al socialismo”, i cosiddetti “anni del Cominform” appaiono segnati in questa ricostruzione da ulteriori e importanti sviluppi della strategia della “democrazia progressiva” elaborata nel periodo dell’unità antifascista, su un terreno cruciale dell’azione politica di massa del partito come quello della lotta per la pace. L’antieuropeismo del PCI togliattiano si definisce infatti in termini concretamente politici e strategici e non solo astrattamente ideologici coniugando sempre strettamente il tema della lotta per la pace a quello dell’autonomia e dell’indipendenza nazionali.
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Verso la guerra delle monete
di Italo Nobile
“Teoria e critica delle politiche economiche e monetarie dello sviluppo” (Roma, 2019, Efesto Edizioni) è il secondo volume del Trattato di Critica delle Politiche per il Governo dell’Economia dove Luciano Vasapollo e Joaquin Arriola (con la collaborazione di Rita Martufi, Pasqualina Curcio e Ramiro Chimuris) adattano ad un quadro in tumultuosa evoluzione le categorie marxiste rielaborate da Luciano Vasapollo nel “Trattato di Critica Dell’Economia Convenzionale”. Nel Prologo Atilio Boron fornisce la cornice in cui questa analisi viene svolta.
Nell’introduzione invece Vasapollo e Arriola dichiarano di voler fornire un punto di vista critico ai principali approcci alla Politica Economica Internazionale (PEI) soprattutto verso gli analisti come Nye e Haas che fanno dipendere questa visione dalla teoria delle Relazioni Internazionali (RI).
Nel primo capitolo “La trasformazione dal capitalismo internazionale” Vasapollo e Arriola esaminano la dinamica di questi duecento anni di capitalismo individuando uno dei fattori di stabilità nel dominio delle relazioni internazionali da parte del mondo anglosassone (prima GB e poi gli Usa) che ha respinto le pretese sia della Francia, sia della Germania. Nel XXI secolo la Cina punta alla costruzione di una nuova leadership globale, sostituendo gli Usa come primo partner commerciale in molti paesi. Il deficit commerciale Usa sia pure leggermente diminuito è in buona parte concentrato rispetto a pochi paesi (Cina, Messico, Germania, Giappone) provocando una fragilità strutturale degli Stati Uniti relativamente alla posizione di dominio globale che essi vogliono mantenere.
Negli anni Novanta il loro predominio militare ha salvaguardato una dominazione economica basata sempre più sulla moneta e sulle finanze. Si tratta di un segno di stagnazione di un ciclo storico di egemonia.
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I “pacchi” del governo Conte
di Marta Fana
I 29 punti del programma del nuovo esecutivo sono vaghi e contraddittori. La reale direzione politica tutta da verificare nella congiuntura economica europea. Ma c'è terreno per un'opposizione che riporti al centro gli interessi sociali
«Io con la crisi di governo, scarico pacchi. Io senza la crisi di governo, scarico pacchi. Io col governo tecnico M5S-Gap-Pd-Craxi, scarico pacchi. Io con nuove elezioni, scarico pacchi!». Ecco uno dei tanti meme nella solita ondata bulimica di notizie, tentati scoop, dichiarazioni, gallerie fotografiche, commenti, analisi preventive succedutisi durante l’appena conclusa crisi di governo. Può sembrare sprezzante o, al contrario, denigrante nei confronti dei lavoratori, dipinti come indolenti nei confronti della democrazia parlamentare e dei meccanismi istituzionali.
Niente di tutto questo. Mentre scorrevano le immagini dell’insediamento del nuovo governo, l’ufficio nazionale di statistica tedesco annunciava un calo congiunturale del 2,7% degli ordinativi alle aziende. Il giorno dopo, la brusca frenata della produzione industriale che registra un -4,2% sull’anno precedente. Non è un dettaglio: il nuovo esecutivo si muoverà sul filo del rasoio non soltanto per i numeri risicati al Senato, ma soprattutto per la capacità di incidere – dentro gli esigui margini di manovra – nella politica che conta, dove l’Italia ha da anni perso terreno, in un periodo di forte instabilità politica ed economica. A determinarne l’indirizzo politico saranno il pendolo degli interessi sociali e la capacità di imporre nelle trattative con Bruxelles un’agenda in radicale discontinuità coi decenni precedenti. In un contesto economico e geopolitico segnato da un’ormai strutturale instabilità, dall’avanzata della crisi economica in Germania e da una crisi globale che si intravede all’orizzonte dentro e oltre il perimetro della guerra dei dazi tra Stati uniti e Cina.
È guardando a questi fondamentali dell’economia che si può andare oltre le etichette «il governo che piace ai mercati» vs «il governo più a sinistra degli ultimi decenni». E da questi fondamentali dipenderanno in larga misura i margini di negoziazione con la Commissione Europea.
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Il Bisconte
di Pino Cabras
Pubblichiamo questa interessante analisi di un importante esponente del M5S, Pino Cabras
Partiamo da quel voto. La votazione su Rousseau ha suggellato la nascita del nuovo governo Conte, la cui maggioranza parte dal perimetro di M5S e PD. Non mi sorprende la portata del risultato, visti i nomi che gli attivisti del MoVimento 5 Stelle scelsero già nel 2013 e nel 2015 come candidati da proporre alla Presidenza della Repubblica: erano nomi in gran parte provenienti dal meglio dell’esperienza storica della sinistra del Novecento. Rodotà e Imposimato furono due occasioni eccezionali offerte dal M5S ai partiti che avevano ereditato l’insediamento elettorale della sinistra, soprattutto al PD, ma quei partiti le rifiutarono in modo arroccato, conservatore e oligarchico.
Insomma non da oggi il bacino degli iscritti del M5S è portato a far leva sul mondo della sinistra, un mondo che – prima di consegnarsi docilmente al neoliberismo e alle cattive pratiche amministrative – aveva una capacità di presentare personalità e leggi connesse a un’idea progressiva del bene comune. Nonostante ondate di critiche corrosive da loro stessi riversate per anni contro le politiche del PD, decine di migliaia attivisti M5S hanno di fatto conservato una residua ma granitica aspettativa circa la riformabilità della sinistra. Il pendolo ritorna tanto più su quel lato dopo la fine traumatica del rapporto sfilacciato con la Lega di Salvini. E di nuovo, via Rousseau, al PD offrono un’ennesima occasione, che si colloca in un momento particolare in cui i principali dirigenti europei vogliono che si stabilizzi almeno il fronte sud dell’Europa, almeno finché sarà aperto il fronte troppo caotico della Brexit.
Questa tendenza degli iscritti pentastellati è molto chiara, e si è rafforzata per contraccolpo ora che si è conclusa la breve stagione del governo con la Lega, demolita dalla tracotante dismisura del capo leghista.
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Inefficienze e difetti dell’economia sovietica
di Alexander Höbel
La crisi e il crollo dell’URSS sono stati in buona misura la crisi e il crollo dell’economia sovietica. I successi di quest’ultima erano stati notevoli: anche dopo il “grande balzo” dell’industrializzazione staliniana (che portò l’URSS a diventare già nel 1937 la seconda potenza del mondo per produzione industriale)1, i progressi sono stati costanti, almeno fino agli anni ’602. L’economia sovietica era caratterizzata dal predominio dell’industria sull’agricoltura, e dal predominio dell’industria pesante, produttrice di macchine, su quella leggera, produttrice di beni di consumo. Questa “sproporzione” finì per costituire uno dei suoi maggiori problemi3.
L’attenzione degli studiosi peraltro si è focalizzata sul funzionamento interno del sistema pianificato, nel quale – a partire dagli anni ’60 – emergono sempre di più frammentazione e forze centrifughe, interessi settoriali e aziendali: insomma il “dipartimentalismo” e i “localismi”. Di fatto, esistevano “conflittualità tra organi e incompatibilità tra obiettivi e strumenti di piano”: i “ministeri della produzione”, intermediari tra i settori produttivi e l’organo di pianificazione (Gosplan), agivano come “gruppi di interesse”, inducendo il Gosplan ad “apportare correzioni, cioè tagli alle forniture richieste”; queste infatti erano sempre in eccesso rispetto alle esigenze di imprese e settori produttivi, che le gonfiavano in modo da premunirsi da “irregolarità delle consegne, strozzature e tagli delle forniture”. Dunque le informazioni dal basso verso l’alto, essenziali per una corretta pianificazione, erano falsate, oltre che “imprecise, saltuarie e insufficienti”; gli organismi pianificatori, che conoscevano queste tendenze, a loro volta imponevano piani di produzione eccessivi rispetto a risorse e capacità produttive denunciate; e questo induceva i ministeri a sviluppare una rete di forniture parallela, al di fuori del piano e spesso della legge, basata su scambi, favori, corruzione, ecc.4.
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Enrique Dussel, Metafore teologiche di Marx
di Orlando Franceschelli
Enrique Dussel: Metafore teologiche di Marx, traduzione dallo spagnolo e cura di Antonino Infranca, Inschibboleth Edizioni, Roma 2018
1. Metafore che “hanno una logica”.
Arricchito da una puntuale Introduzione di Antonino Infranca, curatore di questa edizione italiana e tra i maggiori esperti del pensiero di Dussel, Metafore teologiche di Marx offre al lettore le acquisizioni più interessanti a cui l’Autore è pervenuto grazie al suo pluriennale confronto con Marx. Al pari di tutta la produzione di Dussel, anche queste acquisizioni hanno avuto ampia risonanza. E di esse questo libro rivendica non a torto l’attualità (pp. 53-4, 96), offrendo così anche una significativa conferma di quanto Infranca precisa nell’Introduzione: veramente non è un caso se Dussel “mentre scriveva i suoi quattro libri su Marx, lentamente abbandonava le sue posizioni vicine a quelle della Chiesa latinoamericana, passava vicino alla Teologia della Liberazione, per arrivare oggi su posizioni decisamente marxiste” (p. 31).
Per risparmiare al lettore l’equivoco forse più insidioso, giova richiamare subito un punto che lo stesso Autore tiene a precisare fin dalle Parole preliminari (pp. 33-50) e dal Prologo all’edizione italiana (pp. 51-63), che illustrano egregiamente la genesi, gli scopi e il “senso” di questo libro: il suo intento non è dimostrare “che Marx ed Engels fossero credenti” (p. 59). E neppure che Marx abbia avuto una qualche “intenzione di produrre una teologia formalmente esplicita” (p. 46). Al contrario: Dussel si propone di affrontare il problema che sorge proprio dopo aver riconosciuto, da un lato, che Marx “non fu nel senso stretto del termine un teologo” e, dall’altro, che proprio per questa ragione egli “aprì l’orizzonte per una nuova teologia” (ibidem).
Com’è noto, nella Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico Marx ha scritto che la “critica della teologia [si trasforma] nella critica della politica”.
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Seduzioni e delusioni del neoliberismo
di Carlo Galli
Sotto l’apparenza di essere uno sviluppo del razionalismo moderno – dell’utilitarismo, dello strumentalismo, dell’individualismo –, il neoliberismo attinge la propria energia e la propria legittimità da fonti irrazionali, dalla mobilitazione del sentimento e del desiderio, da una volontà di potenza latente nelle soggettività moderne, emotivamente eccitata e governata dalle agenzie di senso (alte e basse, mediatiche e teoretiche) che nel radicarsi del neoliberismo hanno avuto un’importanza decisiva.
Il neoliberismo è la dottrina, di derivazione marginalistica (Mises e Hayek), che si pone l’obiettivo di distruggere la teoria classico-marxiana del valore-lavoro, e di spostare il baricentro del pensiero economico dalla produzione, e dalle sue contraddizioni, al rapporto domanda-offerta, e ai suoi equilibri (il kosmos, l’ordine spontaneo). Svincolata da ogni patetico umanesimo, da ogni fondazionismo personalistico, l’economia è un insieme di diagrammi che descrivono e misurano le scelte compiute dal consumatore individuale razionale perfettamente informato, all’interno di un mercato perfettamente concorrenziale. La libertà dei moderni è libertà individuale di scelta e libertà di intrapresa, del consumatore e dell’offerente. I problemi che possono insorgere e che discostano la pratica dalla teoria non sono contraddizioni strutturali ma solo ostacoli che devono essere rimossi, con la politica: le “riforme”, che fluidificano il mercato eliminando rigidità e rendite di posizione. Solo a realizzare riforme serve la politica: la dimensione pubblica è legittimata dal fatto che serve a rendere possibile lo sviluppo della dimensione privata: nessuna taxis artificiale deve frapporsi alla formazione automatica del kosmos. E la società, peraltro, non esiste (secondo la geniale signora Thatcher), sostituita – con le sue masse, i suoi ceti, le sue classi, i suoi gruppi di interesse, le sue dinamiche collettive – dalla pulviscolare moltitudine degli individui utilitaristici.
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