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Analisi del DEF 2015
di Riccardo Achilli
Con l’approvazione ufficiale del Def, si è in grado di fornire una indicazione, sia pur non ancora consolidata (come è noto, il Def va inviato, insieme al Piano Nazionale delle Riforme, alla Commissione Europea, entro metà aprile, in modo tale che, entro giugno, pervengano al Governo nazionale le “raccomandazioni” comunitarie, vero e proprio antipasto di possibili, per non dire probabili, modifiche al quadro previsionale di finanza pubblica, ed alla stessa manovra di stabilità per il 2016 che il Def anticipa, a grandi linee. Vale la pena ricordare che, l’anno scorso, le previsioni di disavanzo nominale rispetto al Pil, inizialmente stabilite al 2,2% da Padoan, sono state portate al 2,6% su pressione della Commissione, evidentemente portando ad una manovra di stabilità più pesante e recessiva di quella inizialmente abbozzata).
Iniziando dal quadro previsionale di finanza pubblica, esso si basa su una ipotesi di progressivo irrobustimento, sotto forma di vera e propria ripresa, della crescita, che quest’anno dovrebbe attestarsi sullo 0,7%, per poi arrivare all’1,4% nel 2016 ed all’1,5% nel 2017. Tale ipotesi si bassa su una ripresa delle esportazioni, che dal +2,7% del 2014dovrebbero crescere del 3,8% nel 2015 e del 4% in ciascuno dei due anni 2016 e 2017, degli investimenti privati (che dopo il calo di 3,3punti nel 2014 dovrebbero crescere di 1,1 punti nel 2015, e di 2,1punti nel 2016) e dei consumi interni, che dovrebbero crescere dello0,8% nel 2015 (dopo lo 0,3% del 2014) fino all’1,4% nel 2017.Completa questa rosea previsione una riduzione di spesa per interessi sul debito pubblico pari a 0,3 punti di PIL (ovvero, per un risparmio pari a poco più di 4,9 miliardi).
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Resistenza somala e disinformazione dell'Impero
di Stefano Zecchinelli
L’attacco attributo al movimento islamico di Al Shabaab, nel campus universitario di Garissa ( 815 persone ) in Kenya, si porta dietro ben 148 vittime accertate ed una ondata di indignazione da parte del mondo occidentale. L’informazione di regime come sempre è impegnata ad alimentare l’islamofobia ad uso e consumo delle mire neocolonialistiche statunitensi ed israeliane – da sempre interessate a quei territori – ma, in questa circostanza, anche la così detta ‘informazione alternativa’ ha lasciato molto a desiderare. Quindi in questo breve articolo, riportando fonti ed analisi attendibili, cercherò di inquadrare il movimento di liberazione nazionale Al Shabaab in un’ottica più veritiera dando una lettura più contestualizzata ( e spero onesta ) dell’accaduto.
Prima di tutto è importante capire che cosa è realmente successo in Somalia negli ultimi anni.
Da dopo la caduta di Siad Barre – uomo di fiducia degli occidentali nella guerra contro l’antimperialista governo etiope di Menghistu ( poi deposto nel 1991 ) – la Somalia è stata teatro di scontri e faide fra numerosi signori della guerra. Solo la progressiva costituzione dell’Unione delle Corti Islamiche ( UCI ) impedì il dilagare di questi massacri. Ma cosa sono le Corti Islamiche ? Si tratta di una libera unione di religiosi, giuristi, intellettuali, patrioti che hanno difeso le comunità autoctone dai mercenari colonialisti organizzandosi in strutture comunitarie.
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Trattati europei e democrazia costituzionale
di Vladimiro Giacché
1. L’idea di società della Costituzione italiana e la priorità del lavoro
Il migliore punto di partenza per affrontare il tema del rapporto tra trattati europei e democrazia costituzionale è partire dall’idea di società che informa la Costituzione italiana.
In termini generali, la Costituzione italiana esprime una delle varianti di quel modello di capitalismo regolato che si afferma nell’immediato dopoguerra in molti paesi e che Hyman Minsky descrisse come il punto di approdo di un processo storico. Il processo per cui – così Minsky - “un sistema che possiamo caratterizzare come un capitalismo nel quale lo Stato ha un ruolo marginale, vincolato dal sistema aureo e non governato [small government gold standard constrained laissez-faire capitalism] fu sostituito da un capitalismo nel quale lo Stato ha un ruolo rilevante, flessibile grazie al contributo della banca centrale e governato attivamente [big government flexible central bank interventionist capitalism]”1.
La necessità di regolare l’attività economica era condivisa dalle tre principali componenti politico-culturali che concorsero alla stesura della nostra Costituzione. Così, per la Democrazia Cristiana, Amintore Fanfani nei lavori preparatori della Costituzione evidenziò “il problema… di controllare, dal punto di vista sociale, lo sviluppo dell’attività economica, senza accedere totalmente a un’economia collettiva o collettivizzata, e senza d’altra parte lasciare totalmente libere le forze individualistiche, ma cercando di sfruttarle, disciplinandole e regolandole al fine di raggiungere determinati obiettivi sociali”2.
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La bomba iraniana
di Sandro Moiso
Rovesciando la locuzione latina “Si vis pacem, para bellum”, si potrebbe affermare che se si vuole la guerra occorre parlare di pace. Apparentemente un paradosso, come il primo tra l’altro, ma contenente, alla luce del recente accordo di Losanna con l’Iran, un cospicuo nucleo di verità.
La bomba iraniana cui fa riferimento il titolo, infatti, non è quella atomica presunta, vera o anche solamente possibile legata alla realizzazione o meno del programma nucleare iraniano, quanto piuttosto quella rappresentata dal ritorno sulla scena politica, economica e militare internazionale dell’Iran e del formale riconoscimento della sua importanza da parte dei maggiori paesi occidentali.
Che questo fosse già inscritto negli avvenimenti degli ultimi anni e, in particolare, degli ultimi mesi, a seguito del riacquistato ruolo di interlocutore politico e militare dell’Iran e degli sciiti in Iraq e nello scontro con lo Stato Islamico di Abū Bakr al-Baġdādī, non poteva e non può lasciare spazio ad alcuna ombra di dubbio, ma l’accordo raggiunto nei primi giorni di aprile, e che andrà definitivamente confermato a giugno, apre la porta ad una serie di interrogativi di carattere geopolitico, economico e militare riguardanti gli sviluppi possibili dei rapporti tra mire imperialistiche, nazioni e classi nel quadro mediorientale.
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Il trilemma di Rodrik e l'applicazione Varoufakis
Welcome into the ordoliberalist game!
di Quarantotto
1. Vi ricordate il trilemma di Rodrik (formulato già nel 2007)?
http://stephanewald.tumblr.com/post/4637642778/the-eur-trilemma
In realtà esso è un ragionamento di tipo logico-deduttivo che prefigura delle alternative, cioè delle relazioni di "incompatibilità" tra formule di organizzazione generale della società ("globalizzazione", sovranità nazionale e preservazione della democrazia), in un contesto internazionalizzato.
Si tratta, quindi, della individuazione dei limiti "reali" degli spazi d'azione politica dei governi, data la compresenza, nel mondo contemporaneo, di diverse modalità istituzionalizzate di interazioni tra Stati - generalmente attraverso trattati internazionali di natura economica- che ormai plasmano e vincolano la realtà socio-economica.
Il trilemma di Rodrik svolge, perciò, la funzione di una "actio finium regundorum" che toglie attendibilità alle fantasie o "sogni" circa il fatto che, date queste stesse tendenze ormai istituzionalizzate, un futuro radioso ci attenda.
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G8 Genova: fra ignoranza e falsificazioni
Salvatore Palidda
Chiunque abbia una decente conoscenza, diretta o indiretta, di quanto successo nel 2001 al G8 di Genova non potrà che essere sconcertato dai diversi commenti dopo la condanna dell'Italia della Corte europea per le torture in occasione di quel nefasto summit. Ancor peggio è ciò che si dice sul prefetto De Gennaro, comunque difeso da Renzi, ma anche dall’on. Mucchetti e dal dott. Cantone (che farebbe bene a imparare a parlare di quello che sa, e non a difendere a spada tratta le "forze dell'ordine" dicendo anche una cosa molto grave: “sono popolari!”. Anche Mussolini e Hitler erano popolari, e poi dove ha misurato questa popolarità?). Mi limito qui a ricordare alcuni aspetti rinviando per il resto ad alcune ricerche già pubblicate (vedi la bibliografia qui in fondo).
Per il G8 di Genova fu prevista una sospensione dello stato di diritto democratico che non ha alcun fondamento giuridico. Non si può certo assimilare questo evento a una sorta di stato di guerra, cosa che, di fatto, le autorità americane hanno imposto a quelle italiane come sempre supine. L’allora segretaria di stato Condoleeza Rice, infatti, nella sua relazione al Congresso a proposito dell’attentato dell’11 settembre ebbe a dire che già al G8 di Genova temevano attacchi terroristici. Da qui tutta una campagna mediatica mostruosa che forgiò un clima di terrore. La popolazione genovese fu sollecitata, se non costretta, ad andare via, almeno i giorni previsti “caldi”. Le forze di polizia furono tartassate con le più angoscianti bufale (cfr. infra) e incitate a dare una lezione definitiva ai “pidocchi rossi”. La selezione di personale con inclinazioni e persino tenute e armi illecite non mancò (si ricordi quelli che torturando i ragazzi alla Diaz e a Bolzaneto o anche per strada gridavano slogan fascisti – si vedano i reportage anche di media stranieri fra i quali questo del Guardian). Il dispositivo delle forze di polizia, e ancora di più dei servizi segreti, non solo italiani, assunse le caratteristiche del teatro di guerra. Come racconta ancora oggi il dott. Sabella, allora capo dell'Ufficio Ispettorato del Dap e inviato a Genova:
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Crisi e centralizzazione del capitale finanziario
Emiliano Brancaccio, Orsola Costantini e Stefano Lucarelli*
1. La centralizzazione del capitale: un concetto marxiano
Tra le numerose questioni sollevate dalla “grande recessione” internazionale esplosa nel 2008 (Fondo Monetario Internazionale, 2012), sembra esser tornato in auge anche il tema della possibile esistenza di un nesso tra la crisi economica e quella che Marx e Hilferding definivano “centralizzazione del capitale”, con particolare riferimento al “capitale finanziario” (Marx, [1867] 1994; Hilferding, [1910] 2011).
Nella letteratura accademica, sia di stampo critico che mainstream,1 il termine “centralizzazione” viene spesso sostituito dall’espressione “concentrazione”. Gli stessi Marx e Hilferding in alcune circostanze adoperano questi termini alla stregua di sinonimi. A ben guardare, tuttavia, i due concetti hanno significati diversi. Nell’accezione originaria di Marx la “concentrazione” del capitale corrisponde alla creazione di nuovi mezzi di produzione e alla crescita conseguente della loro massa complessiva, sia in termini assoluti che in rapporto alla forza lavoro disponibile: la “concentrazione”, in altre parole, “è basata direttamente sull’accumulazione, anzi è identica ad essa” (Marx, [1867] 1994, p. 685).
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Che cosa abbiamo fatto per meritarci Diego Fusaro?
di Raffaele Alberto Ventura
In principio era un sito Internet intitolato “La filosofia e i suoi eroi”. Nei primi anni Duemila, chi cercasse in rete informazioni su Platone o Aristotele poteva facilmente imbattersi in queste pagine redatte da uno studente torinese di nome Diego Fusaro. Il sito era una galleria di santini animata da una visione schematica della storia del pensiero, ricalcata dai manuali, ma trasudava di un entusiasmo impressionante. Una decina di anni più tardi, nel 2013, il loro autore veniva annoverato da Maurizio Ferraris su La Repubblica tra i più promettenti giovani filosofi d’Europa.
Ho assistito alla folgorante ascesa mediatica di Diego Fusaro con un misto d’invidia e di stupefazione. Invidia perché, essendo suo coetaneo e avendo fatto gli stessi studi, ammetto che non mi dispiacerebbe affatto pubblicare libri con i più prestigiosi editori, dirigere una collana di testi filosofici, andare in televisione a tuonare contro il capitalismo e l’ideologia gender, partecipare a convegni col fior fiore degli intellettuali infrequentabili, condurre un programma su Radio Padania, rilasciare alla stampa russa interviste a sostegno di Vladimir Putin, fare dei selfie con Marione Adinolfi e infine essere definito “filosofo dagli occhi azzurri che conquista le donne con le citazioni”.
Stupefazione, tuttavia, perché a leggere e ascoltare certe esternazioni di Fusaro si può avere l’impressione di avere a che fare con un idiot savant che ripete meccanicamente degli slogan. Stupefazione, anche, per come Fusaro sia riuscito a non far pesare la sua progressiva radicalizzazione politica sul credito che gli prestano editori come Il Mulino, Bompiani e Feltrinelli.
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Michel Foucault, l’invenzione della conoscenza
Roberto Ciccarelli
«Lezioni sulla volontà di sapere», uscito per Feltrinelli, propone i testi del primo corso svolto al Collège de France nel 1970. Conflitto tra verità e potere e la confutazione delle teorie di Freud sono alcuni «cavalli di battaglia» dello studioso
«In un angolo remoto dell’universo scintillante e diffuso attraverso infiniti sistemi solari, c’era una volta un astro su cui animali intelligenti inventarono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e menzognero della storia universale». È uno dei passaggi folgoranti, dall’ironia crudele e maestosa, di Nietzsche che riflette Su verità e menzogna in senso extra-morale. Il filosofo tedesco, a cavallo di un’iperbole, ci porta all’altezza del Big Bang. Nella finzione così concepita scrive un romanzo sarcastico contro una delle verità tramandate della nostra cultura: l’Uomo esiste per conoscere. Tutto questo è falso.
Un’amicizia stellare
Per rendere il tono usato da Michel Foucault nelle Lezioni sulla volontà di sapere, tradotte da Carla Troilo e Massimiliano Nicoli (Feltrinelli, a cura di Pier Aldo Rovatti, pp. 352, 35 euro) bisogna andare a pagina 219 di questo libro e leggere la lezione su Nietzsche. È un testo contenuto in una delle ampie appendici riprodotte nel volume insieme ai testi ricostruiti del primo corso svolto al Collège de France nel 1970.
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L’individuazione del parricida
Daniele Balicco
Un parricidio compiuto è un libro che risponde, attraverso un’analisi puntuale dei testi marxiani della maturità, ad alcune domande generali: qual è il soggetto che muove realmente il capitalismo? A cosa serve davvero lo sviluppo tecnologico? L’emancipazione dei soggetti può essere pensata come individuazione? Questioni capitali che Roberto Finelli discute in un volume che andrebbe letto come la seconda puntata di un’opera filosofica in due atti: sul conflitto fra un padre particolarmente ingombrante (Hegel) e un figlio particolarmente impetuoso (Marx).
Nel primo atto di questo dittico – Un parricidio mancato (Bollati Boringhieri 2004) – Finelli aveva seguito la ribellione teorica del giovane Marx, pensatore ancora impronto, politicamente esuberante, che poco sopporta l’astrazione hegeliana, anche perché sedotto dal materialismo «ingannevole» di Ludwig Feuerbach. Con il secondo atto, la scena si sposta a Londra. Marx è ora alla British Library dove studia economia politica, storia tecnologica e storia sociale. Ha progressivamente abbandonato i suoi interessi filosofico-politici, per provare a costruire una scienza nuova: lo studio del capitale come astrazione reale.
Se è questa la posta in gioco, il confronto con Hegel – vale a dire con il più originale pensatore dell’astratto in età moderna – non può più essere eluso. Finelli mostra molto bene come, a partire da una breve sezione dei Grundrisse, Marx inizi a pensare il modo di produzione capitalistico come una sorta di Geist hegeliano. Vale a dire come un soggetto che «tende a pervadere e a ridurre a sé l’intera realtà e la cui attività consiste nel togliere tutto ciò che di esterno possa condizionarlo e limitarlo».
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Tempi pericolosi ci attendono
Alain Badiou e Stathis Kouvelakis
Il giornalista francese Aude Lancelin e il filosofo politico Alain Badiou si sono incontrati col membro del comitato centrale di Syriza e collaboratore di Jacobin, Stathis Kouvelakis. La loro discussione si concentra sui difficili negoziati tra la Banca centrale europea (BCE) e la Grecia, ma anche sulle radici storiche di Syriza e sulle scelte che il partito ora deve affrontare.
E’ un lungo scambio che val la pena di leggere per intero, specialmente alla luce delle notizie di ieri che la Grecia sta elaborando dei piani di nazionalizzazione del sistema bancario del paese e intende introdurre una moneta parallela.
Aude Lancelin: Son passate poco più di otto settimane da quando in Grecia è arrivata la speranza, con l’elezione di Syriza, una formazione della sinistra radicale decisa a rompere con le politiche di austerità dell’Europa.
Oggi, sembra che sia in atto una prova di forza quanto mai impari, con la troika che riafferma la sua autorità (anche se con un nuovo eufemistico nome) e il governo greco che deve destreggiarsi tra una terribile crisi di liquidità (che Stathis sta per raccontarci ), e con delle prospettive future che ora sembrano davvero molto difficili.
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Frédéric Lordon e i predatori delle passioni
Benedetto Vecchi
Frédéric Lordon è un sociologo e economista cresciuto intellettualmente quando il Sessantotto aveva smesso da tempo i echeggiare nelle stanze del Cnrs, il centro di ricerce francese dove lavora dopo aver frequentato l’«Institut supérieur des affaires» e un dottorato presso l’«École des hautes études en sciences sociales». Autore di numerosi saggi, Lordon ha fondato, assieme ad altri, «Les Économistes atterrés», un gruppo di economisti che prova a ribattere punto su punto le tesi neoliberiste. Capitalismo, desiderio, servitù è il libro da poco mandato in libreria dalla casa editrice DeriveApprodi (pp. 213, euro 16) si propone di sviluppare un’antropologia delle passioni nel lavoro contemporaneo ed è stato salutato come un innovativo tentativo di utilizzare la filosofia di Baruch Spinoza per definire il rapporto salariale nel neoliberismo. A questo testo ne è seguito un altro (con la speranza di una sua rapida traduzione), La société des affects : pour un structuralisme des passions (Éditions du Seuil) dove riprende e sviluppa molti dei temi presenti nel libro da poco pubblicato.
Lordon ha un volto solare che sprizza ironia da ogni poro.
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Un diritto alla città oltre i diritti?
di Felice Mometti
Affrontare il tema dei diritti non è, non è mai stata, una questione semplice. Ancor più se riferita alla città, alla metropoli, al territorio. I rapporti che si determinano tra i contenuti dei diritti, la natura dei soggetti che li rivendicano e le forme assunte dal conflitto per ottenerli, condizionano spesso il senso, la validità e l’efficacia dei diritti stessi. Henri Lefebvre prima e David Harvey poi hanno costituito dei punti di riferimento per molti di coloro che hanno frequentato il campo dei diritti applicati allo spazio urbano o per dirla con Lefebvre alla «società urbana». In entrambi gli autori c’è il tentativo di mettere al centro dell’analisi della produzione capitalistica le contraddizioni spaziali ‒ la loro natura e la loro articolazione interna ‒ che si danno a livello urbano.
La logica combinatoria di Lefebvre
Il diritto alla città insieme a La rivoluzione urbana e a La ville et l’urbain, testi pubblicati tra fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, costituiscono il corpus teorico della riflessione di Lefebvre di quel periodo. Un periodo contrassegnato da forti sommovimenti sociali in cui «l’assalto al cielo» sembrava o si immaginava a portata di mano in una serie di paesi tra i quali la Francia.
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Medio oriente in fiamme
L'ordine nel caos
di Leonardo Mazzei
Breve premessa. Mentre scrivevamo questo articolo - dedicato ai tanti sviluppi di quella che chiamiamo Grande Guerra Mediorientale - è arrivata la notizia dell'accordo di Losanna sul nucleare iraniano. Un fatto che potrebbe avere conseguenze geopolitiche di primaria importanza ed un impatto non secondario sui diversi fronti di questa stessa guerra. Su questo torneremo a breve con un articolo specifico
1. Il Medio Oriente in fiamme
Yarmouk (Damasco), Idlib, Tikrit, Aden: cosa unisce queste città? Certo, in tutte si parla l'arabo e si venera Allah. Ma ora, basta leggere i giornali di ieri, hanno un'altra cosa in comune: in tutte queste città si combatte aspramente, con il cambio della bandiera - magari solo provvisorio - di che le controlla. Quattro battaglie solo nelle ultime 48 ore: un'istantanea da cogliere al volo per cercare di capire qualcosa di più della Grande Guerra Mediorientale che ormai si dispiega apertamente in 4 paesi (Siria, Iraq, Yemen, Libia) ma che ne coinvolge almeno un'altra dozzina.
Per avere un'idea della portata del conflitto in corso, basta pensare alle distanze. Tra Idlib, nel nord ovest della Siria, ed Aden, all'estremità meridionale dello Yemen, ci sono 2.750 chilometri. Grosso modo la distanza che separa Roma da Mosca.
Che questa sia una guerra senza precedenti in Medio Oriente è fuori dubbio. Lo è per il numero dei paesi coinvolti, per gli eserciti (regolari e irregolari) sul terreno, per la vastità dei territori contesi, per la durata del conflitto in alcuni contesti (Siria e Libia in particolare), per gli interessi strategici in gioco (petrolio, ma non solo), per le potenze regionali in campo (Arabia Saudita, Turchia, Iran, Egitto), per il ruolo dell'imperialismo americano e di Israele, per il numero delle vittime e per i milioni di profughi.
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L’amaro greco
Sergio Cesaratto
Questo giovedì scade la tranche di 460 milioni di euro che la Grecia deve al Fondo Monetario Internazionale. Dopo aver affermato che tale pagamento era alternativo alla erogazione di salari pubblici e pensioni, il governo greco ha successivamente confermato il rispetto della scadenza e, del resto, mai nessun paese ha mancato un pagamento al Fondo. Altri pagamenti incombono inesorabili da maggio in poi, mentre l’Europa non concede l’ultima tranche di 7,2 miliardi dei prestiti concessi nel 2012, non fidandosi della lista di riforme proposta da Tsipras. E comprensibilmente in questa situazione, il governo greco non riesce sempre a offrire un messaggio coerente.
Fra qualche anno gli storici economici registreranno freddamente la crisi greca come l’ennesimo caso di un paese in ritardo economico vittima dell’indebitamento estero, facilitato da quella forma estrema di gold standard che è un’unione monetaria. Come ben messo in luce da un recente paper di due prestigiosi storici economici, Bordo e James, corollari di queste vicende sono il foraggiamento alla corruzione che proviene dalla fase di afflusso dei capitali stranieri, e l’emergere dopo la crisi debitoria di una opposizione “populista” che rivendica la sovranità nazionale a fronte delle misure vessatorie dei creditori.
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Tutto fuorché un evento: il primo maggio e l’Expo
∫connessioni precarie
Il primo maggio è alle porte e quello stesso giorno apriranno anche le porte di Expo. In nessun caso si tratterà di un evento. Nemmeno se qualcuno volesse prorogare i festeggiamenti al due o al tre maggio.
Expo, che si vende come un’occasione, che deve diventare un’opportunità per rilanciare l’economia, che deve essere un trampolino di lancio per il mondo del lavoro, omette di rivelare un piccolo, evidente dettaglio: per le migliaia di lavoratrici e lavoratori coinvolti questo lancio sarà in realtà un lancio nel vuoto! Infatti, tanto determinata a «nutrire il pianeta», Expo nutrirà al contrario solo se stessa. Linfa vitale per la sua sopravvivenza sarà un concentrato di lavoro precario sfruttato ad hoc e cucinato secondo le meticolose e specifiche ricette ispirate al Jobs Act.
All’atto pratico, l’unica grande opera che produrrà sarà la messa all’opera del lavoro precario, sarà la messa all’opera di chi in mobilità verrà chiamato a dare il proprio contributo, sarà la messa all’opera di un esercito di volontari, di tirocinanti e stagisti e sarà la messa all’opera di quei disoccupati provenienti da tutta Italia ‒ e non solo ‒ che sono il prodotto della precarizzazione e che probabilmente hanno visto in Expo un’occasione d’occupazione. L’occupabilità è la vera parola d’ordine di Expo e l’opportunità la sua copertura. Altro che grande opera insomma: qui il punto è al contrario che un sacco di gente sarà messa all’opera. E alla grande!
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Il fallimento europeo
Sei lezioni dallo scontro tra Atene e Bruxelles
di Enrico Grazzini
Le trattative tra il governo greco guidato da Alexis Tsipras e l'Eurogruppo, che riunisce i 19 paesi dell'euro con alla testa il governo di Berlino, sono ancora in corso, e l'esito è aperto: tuttavia si possono già trarre alcune lezioni.
La prima lezione è che la Germania è determinata come sempre, e più di sempre, a imporre la sua rigida austerità, e non deflette di un centimetro dalla sua politica. Rivuole tutti i suoi crediti, irresponsabilmente concessi ai paesi in crisi, anche a costo di ammazzare il debitore. Per la Germania la questione greca è però soprattutto politica: se concedesse credito alla Grecia di Tsipras dovrebbe smettere di imporre a tutti i paesi europei la sua folle politica d'austerità: riduzione accelerata del debito pubblico, taglio al welfare e al costo del lavoro, privatizzazioni. L'Europa degli ideali e della cooperazione, della pace tra i popoli è ormai sepolta: esiste solo una Unione Europea che si schiera con le banche creditrici del nord contro i popoli e le nazioni debitrici del sud. L'Europa è ormai solo una questione di crediti e di debiti. Una questione di soldi. Anche la pietà è morta.
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Questo cambia tutto
di Marino Badiale
La realtà sociale e culturale del nostro tempo presenta una strana contraddizione: da una parte l'organizzazione capitalistica della società mostra sempre più chiaramente i suoi limiti, la sua incapacità di assicurare la riproduzione sociale in termini sostenibili nel tempo. Appare via via più chiaro il fatto che il modo di produzione capitalistico, giunto alla fase attuale del suo sviluppo, non sa più assicurare i livelli di benessere e i diritti che erano stati garantiti ai ceti subalterni dei paesi occidentali per tutta una fase storica, e che esso, per continuare a sopravvivere, ha avviato pericolosi processi di dissoluzione dei legami sociali e di sconvolgimento di delicati equilibri ecologici. Allo stesso tempo però, e questo è l'altro lato della contraddizione, questi evidenti indizi di inceppamento dei meccanismi autoriproduttivi dell'attuale organizzazione sociale non suscitano un movimento politico che abbia chiara l'esigenza di superamento del capitalismo e sappia articolare tale esigenza inserendosi nelle linee di scontro che le crescenti complicazioni sociali fanno sorgere. Per usare un linguaggio d'altri tempi, crescono le difficoltà oggettive nella riproduzione del meccanismo sociale capitalistico, ma latitano le forze soggettive che dovrebbero iniziare la lunga e difficile lotta per una diversa organizzazione sociale.
Un piccolo esempio di questi problemi è fornito, a mio avviso, dalla pubblicazione in Italia dell'ultimo libro della celebre giornalista canadese Naomi Klein [1] e da alcune delle reazioni che esso ha suscitato. Il libro è interamente dedicato alla tematica del cambiamento climatico. La tesi fondamentale dell'autrice è che l'attuale organizzazione sociale non è ecologicamente sostenibile, e che, se vogliamo utilizzare davvero il poco tempo che ci resta per minimizzare gli sconvolgimenti causati dal cambiamento climatico ormai avviato, sono necessari mutamenti drastici nella società e nell'economia, e in particolare è necessario l'abbandono del modello socioeconomico neoliberista che è stato dominante negli ultimi decenni.
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La "svalutazione interna" necessaria per restare nell'euro
di Jacques Sapir
Prendendo in considerazione gli scarti di inflazione e di produttività dei paesi periferici rispetto alla Germania, il prof. Sapir misura quanta “svalutazione interna” risulterebbe necessaria per riequilibrare la competitività tra i paesi dell’eurozona. Il risultato è particolarmente pesante per l’Italia, oltre che per la Grecia e la Spagna, e ci dà la misura di quanto sia antisociale questa unione monetaria
Sappiamo che in un sistema di moneta unica (un’unione monetaria) come l’eurozona, i paesi membri non possono svalutare l’uno nei confronti dell’altro. Una svalutazione (o una rivalutazione) della moneta puo’ verificarsi solo tra l’insieme dell’eurozona e il “resto del mondo”.
In questa unione monetaria uno dei problemi principali è l’evoluzione della competitività dei paesi membri. I paesi, ormai, non possono più correggere le differenze di competitività con la svalutazione della moneta. Questa competitività puo’ essere calcolata rispetto all’economia dominante dell’unione monetaria, nel caso dell’euro, la Germania. Se vogliamo misurare l’effetto dell’ unione monetaria sull’economia dei paesi considerati, dobbiamo guardare come questa competitività ha potuto evolvere a partire dalla data dell’entrata in vigore dell’unione monetaria.
La questione della competitività
Nel caso dell’eurozona, il problema della relativa competitività dei paesi è oggi un problema di primaria importanza. La competitività relativa evolve, dalla data dell’entrata in vigore dell’UEM (1999), in funzione :
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L’Essere in guerra con l’ente
Heidegger, la questione dei “Quaderni neri” e la cosiddetta “Italian Theory”
Roberta De Monticelli
Perché la maggior parte della intelligentsia italiana di sinistra continua a considerare Heidegger come il principale crocevia per comprendere la modernità? La compromissione di Heidegger con il nazismo non affonda le radici nel suo pensiero filosofico? Perché il profondo antiliberalismo del pensiero heideggeriano continua ad affascinare i maggiori rappresentanti di ciò che è stato chiamato “Italian Theory”? La pubblicazione dei “Quaderni neri” e le più recenti ricerche a riguardo aiutano a rispondere a questi quesiti
La pubblicazione, ancora in corso, dei Quaderni neri continua ad alimentare in tutta Europa un dibattito forse non solo mediatico sulla questione del nesso fra il pensiero di Heidegger e la sua adesione, mai revocata né da lui commentata, al nazismo. Una questione che sopravvive ai fiumi di inchiostro versati, per una ragione molto semplice: non è soltanto Heidegger in questione, né soltanto la sua eredità, con cinquant’anni di dominio quasi incontrastato nell’accademia e perfino nell’insegnamento scolastico della filosofia nell’Europa continentale, soprattutto neolatina.
In questione è la natura stessa della filosofia, se possiamo assumerne a paradigma Socrate e contemporaneamente chiamare “filosofia” la più esplicita negazione dello spirito socratico, fino all’ultima conseguenza, che è l’indifferenza alle distinzioni (fra il vero e il falso, il nobile e l’ignobile, la vittima e il carnefice). Un’indifferenza in cui molti, specie fra i più giovani, vedono invece una “filosofica” impassibilità. Abituati come sono dai loro maestri a chiamare “moralismo” le distinzioni morali, e “violenza” quelle logiche.
Questa riflessione prende le mosse dal recente libro – esso stesso al centro di molte polemiche – di Donatella Di Cesare1, e può considerarsi un commento carico di interrogativi alla frase che ne condensa la tesi centrale e il senso ultimo:
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Gli esiti mutevoli della deflazione
di Maurizio Sgroi
La spinta alla crescita
Per quanto tendiamo a non farci caso, siamo figli della nostra storia. Ed è stupefacente notare come eventi da noi lontanissimi, ormai dimenticati, si riverberino sui comportamenti presenti e, peggio ancora, sulle nostre convinzioni, conducendo sovente a scelte errate che alimentano ulteriormente i nostri pregiudizi.
Siamo figli della storia, pure se ci piace rappresentare il nostro pensiero razionale come un tutt’uno avulso dalle sue declinazioni pratiche. E anche in questo scorgo l’eco di un abito mentale remotissimo che ognuno di noi cova nell’intimo pure senza conoscere il mito della caverna di Platone.
In questo pantheon affollato di usi e luoghi comuni, che qui si limita al discorso economico, trova un posto d’onore il concetto di deflazione che le cronache hanno fatto risorgere all’attualità dopo averlo confinato per decenni sui libri di storia, e segnatamente negli anni ’30, quando la deflazione apparve nel suo volto più mostruoso, che ancora oggi giustifica il suo inserimento di diritto nella categorie delle cose cattive che possono accadere a un’economia.
Ma, come sempre accade, il diavolo non è mai così’ brutto come lo si dipinge. E la storia, pittore esclusivo delle nostre convizioni, la si può raccontare in tanti modi, come ci ricorda un recente articolo (“The costs of deflations: a historical perspective“) pubblicato nell’ultima quaterly review della Bis.
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Alle origini del declino economico italiano
di Guglielmo Forges Davanzati
Le tesi più accreditate nel dibattito sulle cause della recessione italiana – eccessivo debito pubblico, settore pubblico ipertrofico e poco produttivo, adozione dell’euro – non tengono conto che la crisi attuale è il prodotto di un lungo sentiero di declino economico che parte dagli anni novanta, la cui principale causa risiede nella rinuncia all’attuazione di politiche industriali
Nel dibattito sulle cause del c.d. declino economico italiano, le due tesi più accreditate sono le seguenti. Da un lato, vi è chi sostiene che esso dipende dall’eccessivo debito pubblico e dall’esistenza di un settore pubblico ipertrofico e poco produttivo; dall’altro vi è chi ritiene che esso sia imputabile, in ultima analisi, all’ingresso nell’Unione Monetaria Europea e alla conseguente adozione dell’euro, che, impedendo la svalutazione, avrebbe ridotto la domanda interna a causa della contrazione delle esportazioni. Ciò che accomuna queste posizioni è il ritenere che la recessione italiana trovi le sue cause in vicende che si sono determinate in un passato relativamente breve e il ritenere che il declino italiano abbia una radice monocasuale.
In quanto segue, si proverà a mostrare, per contro, che il declino economico italiano è semmai da imputare a una dinamica di lungo periodo e che si è manifestato con la massima intensità in questi ultimi anni a seguito di un shock esogeno (l’esplosione della bolla dei mutui subprime negli USA come esito dell’accelerazione dei processi di finanziarizzazione) innestatosi su una struttura produttiva la cui fragilità era palese già da almeno un ventennio.
Si parta dal presupposto che le caratteristiche strutturali dell’economia italiana sono fondamentalmente queste.
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Lacan politico
Politica o non politica
Vincenzo Cuomo
Che cosa può insegnare la psicoanalisi alla politica? In che cosa il pensiero di Lacan può contribuire alla definizione di una pratica di democrazia radicale? Sono queste le domande alle quali il nuovo libro di Bruno Moroncini (Lacan politico, Cronopio, Napoli 2014) dedicato a Lacan tenta di dare risposta. E lo fa sottraendo il filosofo francese alla vulgata che lo ha considerato un liberale moderato in politica, in fondo, per quanto illuminato, un conservatore.
Il libro è in effetti una raccolta di quattro saggi di cui solo il primo inedito, i quali, in maniera a volte circolare e con apparenti digressioni, ritornano sulle stesse domande, cercando di mostrare come la psicoanalisi lacaniana possa dare un contributo, proprio in quanto pratica analitica, ad una politica radicale capace di essere emancipativa senza essere illusoriamente “progressista”. Due sono a mio avviso i punti di snodo della proposta interpretativa di Moroncini: l'atto analitico e il sintomo. Attraverso questi problemi l'autore discute le posizioni di Badiou e di Žižek innanzitutto, ma risponde, anche se un po' tra le righe (e tra le note), anche ad alcune tesi sostenute negli ultimi anni in Italia da Massimo Recalcati.
Il primo saggio del libro è un'ampia discussione dell'interpretazione e delle critiche che Badiou ha rivolto a Lacan, in particolare ne Le Séminaire del 1994-95, dedicato all'anti-filosofia di quest'ultimo. Secondo Badiou, Lacan non è stato in grado di pensare il ruolo dell'evento, inteso come quell'elemento soprannumerario che irrompe nella situazione e che in fin dei conti produce il soggetto rivoluzionario.
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Amazon e il futuro dei free lance: «felicità garantita» al 100%
di Eleonora Cappuccilli
Dopo il Turco Meccanico, Amazon stupisce ancora con effetti speciali, appropriandosi di una delle più fantasmagoriche innovazioni provenienti dai cervelli californiani: l’economia on-demand di servizi acquistati attraverso le app degli smart-phone. Da poco ha infatti aperto un nuovo settore, per ora solo nelle maggiori città USA: gli home-services, i servizi a domicilio. Da colosso logistico e connettore di domanda/offerta di lavoretti informatici iper-parcellizzati, Amazon si allarga ancor più a diventare mostro dai mille bracci meccanici che consegna davvero tutto: libri, vestiti e professionisti per qualunque evenienza – si spera non proprio «qualunque», benché il sito reciti: «Non trovi quello di cui hai bisogno? Crea una richiesta personalizzata». Stufa di limitarsi a lucrare sul lavoro a bassissimo costo o persino gratuito con il Turco Meccanico, che permette ai manovali dell’industria dei servizi informatici di lavorare comodamente seduti a casa loro per un padrone che non ha volto e forse non li pagherà mai, ora Amazon vuole di più: i manovali di ogni specialità possono comodamente essere affittati – assunti non sembra la parola adatta, e d’altra parte assumere lavoratori è un’operazione oramai sfacciatamente demodé – e spediti dritti a casa tua. L’operaio folla sfonda lo schermo e approda nel mondo reale.
Così, se prima il lavoratore-folla non doveva guardare in faccia né lavoratori né colleghi, ora tanto chi chiede quanto chi presta un servizio ha un volto e i due s’incontrano nel mondo reale, non in uno spazio virtuale. Tuttavia, la materialità del corpo di chi viene a fare un lavoro a casa tua è semplicemente un dettaglio: vendendo servizi di ogni sorta – dalla riparazione dei pc alle lezioni di yoga – ad anonimi compratori, il lavoro è completamente spersonalizzato.
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Marx e Spinoza: paradossi della servitù volontaria
Frédéric Lordon
Per gentile concessione della casa editrice DeriveApprodi pubblichiamo un’anticipazione del libro di Frédéric Lordon che lo ha reso noto alle cronache intellettuali francesi, vale a dire “Capitalismo, desiderio e servitù. Antropologia delle passioni nel lavoro contemporaneo“, in libreria dall’8 aprile
Il capitalismo continua a lasciarci perplessi. Non fosse per lo spettacolo a volte così ripugnante, potremmo quasi osservare con ammirazione la sua audace performance che consiste nell’incalzare la massima centrale del corpus teorico che gli serve da ostentato riferimento ideologico. Si tratta del liberalismo, nella fattispecie di quello kantiano, che comanda a ciascuno di agire «in modo da trattare l’umanità, tanto nella tua persona quanto nella persona di ogni altro, sempre nello stesso tempo come un fine, e mai unicamente come un mezzo»1. Attraverso uno di quei rivolgimenti dialettici dei quali solo i grandi progetti di strumentalizzazione detengono il segreto, si è dichiarato conforme all’essenza stessa della libertà che gli uni fossero liberi di utilizzare gli altri, e gli altri liberi di lasciarsi utilizzare dagli uni in quanto mezzi. Questo magnifico incontro tra due libertà porta il nome di lavoro salariato.
Etienne de La Boétie ci ricorda quanto l’abitudine alla servitù faccia perdere di vista la condizione stessa della servitù. Non perché gli uomini «dimentichino» di essere infelici, ma perché perseverano in questa infelicità come un fatum, rispetto al quale non avrebbero altra scelta se non sopportarlo, oppure come un semplice modo di vivere al quale finiscono per abituarsi.
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