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Elezioni in Andalusia
La restaurazione ed i limiti di Podemos
Manolo Monereo
Un commento a tutto campo sui risultati delle elezioni svoltesi in Andalusia il 22 marzo scorso. Le ragioni del successo della candidata del PSOE Susana Díaz [nella foto sotto], il crollo delle destre ed il mancato sfondamento di PODEMOS
Deve essere sottolineato più e più volte che la chiave è sempre, tanto più in questi momenti storici, sapere quali sono gli scopi dei dominanti. La questione fondamentale, a mio avviso, è quella di "leggere e interpretare la fase": lotta infaticabile, sistematica e incessante tra passato e futuro, continuità e cambiamento, il restauro dinastico-oligarchico o la rottura plebea-democratica. Tutto il resto, a mio avviso, deve essere letto nel contesto di questo conflitto di classe e, soprattutto, di potere, comprese le elezioni andaluse.
La politica è un'arte, e la strategia è il suo strumento principale. Susana Díaz, la Presidente della Giunta di Andalusia, sapeva quello che faceva quando decise di anticipare le elezioni andaluse: contenere l’avanzata di PODEMOS, distruggere il Partito Popolare e liberarsi della non affidabile Izquierda Unida di Antonio Maíllo. Tutti si sono trovati d'accordo che i risultati elettorali hanno dato ragione a Susana Díaz. Fin qui, tutto normale, prevedibile. Dobbiamo andare oltre.
Ma qual’era la posta in palio delle elezioni andaluse? Dovremmo concentrarci su questo. La Presidente di Andalusia è "organica al potere", ha coscienza di Stato: difende il regime e si oppone con tutte le forze alla rottura democratica.
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Encomio della scuola pubblica
di Pietro Cataldi
Le domande di un pastore
Nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, Leopardi affida alla voce di un pastore nomade le grandi domande sul senso della vita e dell’universo. Solo, sotto il cielo stellato, il pastore tenta di spiegare la condizione umana, il ripetersi dell’esistenza di generazione in generazione, il succedersi dei giorni e delle notti, il susseguirsi delle stagioni; cerca di capire il perché del dolore e di quell’inquietudine angosciosa definita dalle parole “tedio” e “fastidio”, un’inquietudine che è infine tutt’uno proprio con il bisogno di senso. La spiegazione è tentata dapprima guardando la vita dal punto di vista della luna, dall’alto, e poi guardandola invece dal punto di vista delle pecore, dal basso. Il punto di vista del pastore è per così dire impregiudicato, e spregiudicato: non ci sono un’ideologia, una religione, un sistema filosofico, una qualunque petizione di principio che impongano una direzione alla ricerca: l’importante è dare un significato alla condizione degli uomini e al rapporto che gli umani hanno con l’universo. Ebbene: Leopardi pone così, con un linguaggio semplice e diretto ma anche con la massima serietà e radicalità, le più grandi questioni filosofiche affrontate nei secoli da tutte le civiltà e tutte le culture.
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La rivoluzione teorica incompiuta
Introduzione al libro "Denaro senza Valore"
di Robert Kurz
Le teorie grandi ed influenti sfociano sempre in scuole di interpretazione e percorrono una storia che va ben al di là delle loro origini, mediando con la storia della società. La teoria di Marx è ormai sedimentata in termini storici; più di 125 anni dopo la morte del suo creatore, ha provato da molto tempo di essere una delle più poderose di tutta la storia del pensiero - seppure non sia disponibile come un "insieme artistico", come Marx avrebbe voluto richiedere alla sua esposizione, ma più come un immenso tronco, costituito da masse di testo a volte eterogenee. Per la sua forma, questa teoria non può essere integrata nelle schematizzazioni del mondo accademico; essa affronta, in termini espitemici, anche la comprensione del cosiddetto metodo scientifico. Marx ha operato una cesura paradigmatica che dev'essere definita come una "rivoluzione teorica", e a ragione. Ma è proprio questo carattere delle riflessioni di Marx che ha dato e continua a dar luogo a dubbi e a conflitti, a causa del fatto che mai nessun "assalto" paradigmatico è stato consumato in una sola volta. Allo stesso modo, la rivoluzione teorica di Marx è, necessariamente, una rivoluzione incompiuta e, in questa misura, non è solo incompleta ma anche passibile, e carente, di interpretazione.
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Siete pronti per la guerra termonucleare globale?
di Spartaco A. Puttini
Dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica ad oggi, gli Stati Uniti non hanno più trovato un argine che potesse contenere le loro mire, volte ad imporre al mondo un “nuovo ordine” unipolare, ad instaurare quello che definiscono il loro “dominio a pieno spettro”.
Questa situazione è durata fino a che la Russia è tornata a far sentire la propria voce nel contesto internazionale grazie al nuovo corso instaurato dal presidente Vladimir Putin, corso che mira a favorire l’emergere di un equilibrio multipolare nelle relazioni internazionali che sia rispettoso della sovranità dei diversi paesi. La Russia, con le sue iniziative, è dunque tornata ad essere un antagonista strategico degli Stati Uniti. Questo semplice dato di fatto spiega in gran parte il motivo dell’accanimento mediatico contro il leader russo.
Gli Stati Uniti coltivano già da qualche anno l’ipotesi di minacciare una guerra termonucleare globale per piegare i loro avversari diretti: Russia e Cina. Basterebbe forse solo questo a dimostrare il pericolo rappresentato dalla politica statunitense per la pace nel mondo e per la stessa sopravvivenza della razza umana. Guidando la corsa agli armamenti (anche in campo strategico), inseguendo il sogno delle guerre stellari e della militarizzazione dello spazio e dislocando elementi ABM in Europa, gli Usa puntano a costruirsi uno scudo dietro al quale ripararsi per svuotare di significato la capacità di deterrenza atomica russa e cinese.
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L’orizzonte delle coalizioni sociali
di Alberto De Nicola
Siamo stati abituati, nel tempo, a pensare che le esperienze di conflitto abbiano origini – e producano effetti – che eccedono il territorio, sociale e geografico, nel quale si collocano. Questa idea ci ha spinto ogni volta a forzare le interpretazioni degli episodi di resistenza e di emersione dei movimenti, vedendo in essi espressioni puntuali di più ampi processi di propagazione, risonanza e traduzione. Il problema della «circolazione delle lotte» vanta, insomma, una lunga storia e tradizione. Senza andare troppo indietro nel tempo, così è stato interpretato politicamente il ciclo dei movimenti globali degli inizi degli anni Duemila, quello dei movimenti studenteschi contro il Bologna Process e il ciclo dei movimenti moltitudinari contro le politiche di austerità che, in particolare nell’Europa del Sud, ha toccato la propria massima intensità nell’anno 2011.
Occorre chiedersi quanto, oggi, il principio della «circolazione» possa essere applicato anche alle fratture istituzionali e alle esperienze di governo che si propongono di contrastare le politiche di austerità in Europa.
Sembrerebbe del resto, che proprio la minaccia di una riproduzione di queste rotture in altri paesi, sia attualmente una delle maggiori preoccupazioni per i poteri costituiti nel continente europeo.
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Cosa sta succedendo in Medio Oriente?
di Pierluigi Fagan
Per cercar di mettere ordine nella comprensione dei fatti che stanno accadendo in Medio Oriente, nel mondo arabo e nella penisola arabica, si possono usare varie lenti. Si potrebbe partire dallo Yemen o dagli attentati in Tunisia o dallo Stato islamico e dalla guerra civile siriana. Noi però scegliamo di puntare la lente sull’interesse e sulla strategia del player più importante non solo di quell’area ma del mondo intero: gli Stati Uniti d’America.
Chi scrive ritiene che la strategia generale della geopolitica obamiana sia quella dichiarata e che non vi sia una sottostante contro-strategia “segreta” o un ripensamento della stessa. La strategia omamiana dichiarata è quella che individua il principale problema in Asia, in Cina, da cui consegue una complessa strategia del Pacifico e un auspicato accerchiamento dello spazio di manovra cinese. Il secondo punto, oggi il primo intermini di impegno e di attualità, è la Russia, ovvero tentare un regime-change a Mosca e comunque, prioritariamente, separare Europa e Russia in ogni modo. Questo per il doppio obiettivo di impedire la formazione di un sistema euro-asiatico che taglierebbe fuori l’isola americana e di contro, creare un solido legame sistemico-esclusivo con l’Europa nella formazione di un sistema occidentale, unico e compatto, ancora in grado di pesare e condizionare gli eventi planetari in termini economici, finanziari, militari e quindi politici.
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Le radici latinoamericane di Podemos
di Bécquer Seguìn
“La nostra gente sta vincendo qui” dice un messaggio inviato da Pablo Iglesias a Iñigo Errejòn agli inizi di dicembre 2005. Iglesias era in Bolivia a seguire da vicino lo svolgimento delle elezioni presidenziali. Politologo spagnolo e oggi leader del partito di sinistra Podemos, Iglesias era arrivato in Bolivia con l’idea di scrivere un articolo accademico a proposito di un partito promettente chiamato Movimiento al Socialismo (MAS) che aveva finalmente la possibilità di governare.
La formazione aveva proposto un candidato presidenziale indigeno, Evo Morales, in una nazione le cui organizzazioni politiche ed economiche erano state dominate da élite creole si da quanto Simon Bolivar aveva assunto la carica di primo presidente della Bolivia nel 1825.
Inoltre il suo candidato alla vicepresidenza, Alvaro Garcìa Linera, era stato incarcerato negli anni ’90 per aver preso parte al radicale Esercito Guerrigliero Tupac Katari. Il 18 dicembre 2005 i boliviani hanno eletto il MAS con il 53,7 per cento dei voti. (Gli avversari di centrodestra, che ironicamente si erano presentati con l’acronimo Podemos, hanno ricevuto il 28,6 per cento).
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Liberismo e liberalismo
La libertà non è un bene in sè, ma la insindacabile razionalità del mercato
di Quarantotto
1. Ritengo utile riprodurre, affichè non sia disperso e anzi abbia una sua sede espositiva "organica", l'approfondimento che Arturo e Bazaar hanno compiuto circa l'universo ideologico, potremmo dire la "visione del mondo", di Hayek, in quanto depositaria della radice (anzitutto) psicologica e della stessa struttura logica del pensiero liberista.
E oltretutto, - cosa alquanto interessante agli italici fini-, in quanto portatrice di quella ambigua distinzione tra liberismo e presunto autonomo "liberalismo" (cfr; intervento di Arturo cit. nel finale), che tanto utile si riserva per tacitare le coscienze dei vari "liberali", assolvendoli dall'onere di comprendere, a un livello minimo attendibile, come funzioni il modello economico che si trovano, per lo più inconsapevolmente, a propugnare (cioè ignorandone i veri effetti materiali e le reali conseguenze sociali).
2. Abbiamo visto come sia stato lo stesso Roepke a respingere l'idea (tutta "crociana" e confinata in Italia) del potersi distinguere tra liberismo e liberalismo. Come abbiamo più estesamente visto qui:
"Röpke non condivide l'idea che si possa distinguere tra liberalismo, che disegna l'ambito politico e culturale, e liberismo, che delinea i confini dell'economico.
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Teodicea della globalizzazione
Federico Francucci
Dopo le traduzioni francese e spagnola – già di qualche anno fa – e in contemporanea con quella inglese, l’opus magnum di Peter Sloterdijk, la trilogia Sfere (Bolle del 1998, Globi del 1999, e infine Schiume del 2003) arriva anche in Italia: sono stati pubblicati i primi due volumi (anche se Bolle era già uscito nel 2009 per Meltemi, chiusa prima di poter completare l’impresa), mentre il terzo si annuncia prossimo. Sebbene Sloterdijk scriva a chiare lettere, in apertura di Schiume, che il volume finale si può anche leggere come un’opera autonoma, a me sembra che sia troppo importante nell’economia complessiva della trilogia per non tentare di darne conto in questa breve presentazione.
Sfere, infatti, nella sua fattura discorsiva e strutturale, dunque nella maniera in cui si manifesta e si articola prima ancora che sul piano dei contenuti, è un’opera modellata su alcuni concetti che, operativi lungo tutto l’arco dell’opera, vengono però ampiamente tematizzati e offerti nel loro pieno spessore nel pannello finale: la costitutiva ricchezza, o lusso, della condizione umana; l’esonero dal peso dell’esistenza e il valore di vizio acquisito dalla vita in epoca tecnologica; l’antigravitazione e l’acrobazia, il capriccio e l’improbabile; l’impegno, il coinvolgimento visti non come basico radicamento ontologico nel mondo, ma come cimento liberamente scelto da soggetti sempre più leggeri e chiusi nelle loro serre tecnopsichiche.
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La "buona scuola": il vecchio che avanza
Gerolamo Cardini
Più che la scuola, nel disegno di legge (ddl) presentato dal governo in materia, di buono c’è solo la sòla, come dicono a Roma. E se una sòla è buona, cioè fatta bene, c’è poco da stare allegri.
Dopo che il 60% circa dei partecipanti alla consultazione on line sulla «Buona scuola» ha sostanzialmente bocciato il progetto aziendalistico-meritocratico del governo, quest’ultimo non si è dato per vinto ed è tornato a riproporlo senza grandi cambiamenti di rilievo nella concezione di fondo. È un ddl vago, nel complesso, che lascia aperti molti buchi, nei quali, probabilmente, si inseriranno le spade degli emendamenti delle varie consorterie partitiche, che saranno con ogni probabilità peggiorativi, in quanto rappresentanti di interessi particolari congiunti a uno scarso uso dell’intelligenza: Forza Italia, ad esempio, ha già annunciato che intende raddoppiare, nei licei, le ore di tirocinio in azienda: da 200 a 400. Con ogni probabilità abbiamo di fronte un testo che, tra un po’, sarà peggiore di quel che già è.
Gli esiti, infausti per il governo, della consultazione on line sulla «Buona scuola» hanno scatenato l’ira funesta di Renzi, che ha pensato di servire l’ennesimo piatto avvelenato sotto forma di ddl, soggetto quindi a possibili modifiche da parte del parlamento. Forse per non assumersi la responsabilità piena di un progetto che rischia molto?
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Gli spettri del capitale. Introduzione
di Mario Pezzella
I testi di Johnny Costantino, Mario Pezzella e Alessandro Simoncini – alcuni dei quali compaiono in questo numero della rivista in versione leggermente ampliata – sono apparsi sul numero 11-12, 2014 della rivista “Il Ponte”, il cui direttore Marcello Rossi ringraziamo per il permesso di pubblicazione. Il fascicolo monografico, dedicato interamente al rapporto tra cinema e capitalismo, si intitola “Gli spettri del capitale. Cinema e pensiero critico”. È stato curato da Mario Pezzella, il quale ha scritto anche l’interessante introduzione che segue
Questo numero prosegue la riflessione sul rapporto tra cinema e pensiero critico, iniziata nel 2008 con Il cinema non è il cinema. I film –si diceva allora- non possono essere ridotti a esempi di sistemi filosofici (come se esistessero film heideggeriani, aristotelici e -perchè no- vattimiani o cacciariani). Il cinema è oggetto e soggetto di pensiero nella misura in cui contribuisce ad articolare lo spazio e il tempo della modernità, la partizione del sensibile, nella quale si cristallizzano le sue forme percettive. L’ordine simbolico in cui viviamo non è affatto neutro: è quello del capitale e del suo dominio. E’ un orizzonte di senso che nulla sembra trascendere; e pure è percorso da crepe e brecce che ne incrinano lo spazio.
In questo “speciale” cerchiamo di considerare come il cinema abbia rappresentato l’ordine del capitale e le soggettività ad esso corrispondenti: tenendo ben presente la storia più recente, in cui dilagano l’astrazione finanziaria e il nuovo autoritarismo politico che ne deriva.
Continuo a pensare che si debba distinguere un cinema “spettacolare”, apologetico dell’esistente, e un cinema critico-espressivo: o che –per usare la terminologia di Benjamin- esista una differenza decisiva tra immagini di sogno e immagini dialettiche.
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Il problema del “noi” e le sacre icone
di Commonware
Dovremmo, bisognerebbe, sarebbe necessario. E poi ancora: se dicessimo, se sostenessimo, se ci alleassimo. Il tutto condito da: i movimenti devono, i movimenti non capiscono, i movimenti sbagliano. Lenin aveva dato al sogno dure fondamenta materialiste, un secolo e passa dopo il sogno è tornato a svolazzare nei molli cieli dell’ideologia. Ancor prima di questo, c’è un problema che salta immediatamente agli occhi: il problema del noi.
Chi è il “noi” che enuncia la posizione corretta, che si lamenta di quella mancante, che suggerisce con piglio normativo ai movimenti ciò che dovrebbero fare? Abbiamo l’impressione che questo “noi” sia spesso quello di gruppi o singoli che parlano in vece di un assente, i movimenti, o assumendo una presunta rappresentanza simbolica di un soggetto (la classe, il precariato, la moltitudine, ecc.).
Partiamo infatti da una pacata constatazione. Al momento – al di là di specifiche situazioni – i movimenti o non ci sono, o faticano terribilmente ad assumere forma complessiva.
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Adam Smith a Gioia Tauro
“Questione meridionale” e spazio europeo
di Francesco Festa
1. A cosa ci riferiamo quando parliamo di subalternità? E quale campo semantico o geografico interroghiamo nel nominare la nozione “Sud”?
In entrambi i casi segnaliamo l’urgenza di una cultura “altra”, se non di una «rottura epistemologica», di fratturare il rapporto egemonico con la razionalità occidentale e la cultura borghese.
Alcune premesse indispensabili per definire i campi che ci accingiamo a scavare. Anzitutto: chiamare in causa la cultura vuol dire segnalare dei «processi eternamente in atto», dei processi conoscitivi e pedagogici che sono anche e soprattutto pratica politica in un rapporto di lotte e di resistenze fra la parte subalterna e la parte egemonica della società. E poi: la cultura come sostantivo rinvia immediatamente alla sua forma aggettivale, culturale, allo spazio discorsivo da cui prende origine e dall’attenzione posta sulle concezioni e sull’azione di coloro che sono emarginati o dominati; mentre il sostantivo cultura privilegia il dato acquisito, l’idea di condivisione, accordo e compiutezza, che contrasta con quelli che sono i rapporti sociali e la microfisica dei poteri fra le classi. E infine: l’identità culturale, come insieme di «rappresentazioni e simboli» nella loro «vita quotidiana», non è qualcosa di già costituito, di già esistente, ma è «il risultato di storie – scrive Stuart Hall – soggette a una costante trasformazione. Lungi dall’essere eternamente fissata in un qualche passato essenzializzato, è sottoposta al “gioco” continuo della storia, della cultura e del potere»2.
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"L'uso dei corpi" di Agamben
di Carlo Salzani
Può un’opera (artistica, poetica, filosofica) essere veramente conclusa? E un progetto filosofico che abbraccia due decenni (o più)? Da qualche tempo Agamben va citando, in seminari, conversazioni e interviste, un’affermazione di Giacometti, secondo il quale un’opera non può mai essere conclusa, ma solo abbandonata: la sua ‘potenza’ non si esaurisce con l’ultima pennellata o con l’ultima parola; la ‘potenza’ dell’opera non può mai esaurirsi. È quindi naturale che un pensatore che, come Agamben, ha messo il concetto di ‘potenza’ al centro del suo pensiero, apra l’ultimo volume del suo progetto «Homo sacer» avvertendo il lettore con le parole di Giacometti (citate «senza virgolette»): questo libro non è una conclusione o un nuovo inizio, ma il punto in cui il filosofo, tirando le somme di una ricerca che lo ha occupato per due decenni (e più, visto che la concettualità centrale del progetto comincia a essere elaborata ben prima della pubblicazione di Homo sacer nel 1995) decide di abbandonarla – perché, eventualmente, altri la continuino.
In realtà, al completamento del progetto manca ancora l’ultimo libro del volume II (II, 4), sulla stasi o guerra civile, che uscirà tra qualche mese per Bollati Boringhieri. Ma L’uso dei corpi è l’‘ultimo’ volume in quanto conclude la parte propriamente propositiva del progetto (iniziata con Altissima povertà, 2011), che, dopo la presentazione delle problematiche fondamentali (volume I), l’analisi della struttura del potere (volume II), e l’analisi della vita nella stretta del potere sovrano (volume III), deve presentare la proposta ontologica alternativa.
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I predatori del sistema
Benedetto Vecchi intervista Saskia Sassen
Parla l’economista e sociologa autrice di molti saggi sulla globalizzazione, in Italia per partecipare domani a un incontro del meeting torinese «Biennale Democrazia»
La conversazione è iniziata laddove era stata interrotta alcuni anni fa. Anche allora la crisi dominava la scena. Ma Occupy Wall Street era molto più che una debole speranza, mentre gli indignados sembravano inarrestabili. Per Saskia Sassen erano segnali di una possibile inversione di tendenza rispetto alle politiche economiche e sociali di matrice neoliberista. E Barack Obama negli Stati Uniti, dove vive e insegna, sembrava ancora capace di sfuggire alle grinfie della destra populista. Ad anni di distanza, Saskia Sassen non ha perduto l’ottimismo della ragione che ha caratterizzato molti suoi libri, ma è però consapevole che alcune tendenze individuate sono divenute realtà corrente.
Nota per il libro sulle Città globali (Utet), ma anche per le sue analisi sulla globalizzazione, culminate nel volume Territorio, autorità e diritti (Bruno Mondadori), dove Saskia Sassen non si limita a fotografare la globalizzazione, ma ne analizza la genesi, le trasformazioni indotte nel sistema politico nazionale e la formazione di centri decisionali politici sovranazionali, messi al riparo dalla possibilità di controllo dei «governati», da poco ha pubblicato un nuovo volume (Expulsions, Belknap Press; in Italia sarà pubblicato dall’editore il Mulino). La conversazione precede la sua partecipazione alla Biennale Democrazia di Torino, dove parteciperà domani a una tavola rotonda con Donatella Della Porta e Colin Crouch.
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L’educazione privatizzata. Anatomia della “Buona scuola”
di Marco Magni
Dall'attacco agli insegnanti e ai loro diritti, trasformati in esecutori di ordini stabiliti altrove, all'aziendalizzazione della scuola, orientata alla concorrenza di mercato e non più all’attuazione del welfare. Un'analisi del “nuovo discorso” neoliberista sull'educazione, che dagli anni ’80 di Reagan passa per Tony Blair, fino all’impostazione data da Renzi alla sua riforma
Le premesse storiche
Negli anni ’60 e ‘70, i governi occidentali vedevano nelle riforme scolastiche una delle leve della costruzione del welfare state e della relativa base di consenso; dagli anni ’80, considerano le riforme scolastiche un modo per infondere un’“anima” all’“economia sociale di mercato” (o, se vogliamo dirlo in termini più semplici, al “neoliberismo”). Possiamo, quindi, inserire la “Buona scuola” in una genealogia, che inizia proprio dagli anni ’80.
Il documento che segna la svolta nelle politiche scolastiche, nel quadro dell’affermarsi dell’egemonia liberista, è “A Nation at Risk”, rapporto presentato dal segretario statunitense all’istruzione di Reagan, Bell, nel 1983. Dalla sua lettura emergono diversi elementi di un’impostazione pedagogica conservatrice (l’invocazione di maggiore disciplina e maggior tempo dedicato allo studio) ma vengono toccati anche dei nervi scoperti del sistema scolastico americano, soprattutto l’eccessiva frammentazione del curricolo, che ha fatto delle high schools un vero e proprio “supermarket educativo” in cui si può studiare di tutto, dalla criminologia all’economia domestica, ma senza alcuna definizione chiara del cosiddetto “curricolo di base”.
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Landini: una nuova sinistra sindacale?
di Aldo Giannuli
Con la nascita della “cosa” landiniana, sembra tornata di attualità la “sinistra sindacale”, come leva per una sinistra diversa, basata sul primato del sociale sul politico. Forse non sarà inutile ricordare la prima esperienza in questo senso, la sinistra sindacale degli anni sessanta-settanta, per ricavare qualche utile indicazione su esperienze già fatte.
Nella prima metà degli anni sessanta, la situazione politica in Italia e Francia sembrò schiodarsi dall’immobilismo del quindicennio precedente. In Italia il Centro sinistra, in Francia la prima candidatura di Françoise Mitterrand sostenuto da comunisti e socialisti insieme, profilarono una alternativa all’egemonia di centro destra vigente sino a quel momento.
Tuttavia, in Francia Mitterrand non vinse (anche se il 45% del secondo turno fu un notevole successo) ed in Italia il Centro-sinistra andò rapidamente perdendo la sua primitiva carica riformista. D’altra parte, i condizionamenti internazionali del mondo diviso in due blocchi non si erano certo affievoliti, per cui l’ipotesi di una vittoria elettorale della sinistra appariva decisamente improbabile, per lo meno nel tempo politicamente prevedibile e, con essa, anche un programma di trasformazione sociale.
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Il paradosso democratico
Benedetto Vecchi intervista Colin Crouch
Un’intervista con lo studioso inglese, ospite della «Biennale Democrazia» di Torino. La necessità di una puntuale critica al potere dei giganti e di una complementare capacità innovativa della sinistra europea
Colin Crouch appartiene alla esigua, ma autorevole schiera di economisti, filosofi, sociologi «riformisti» che, rimanendo fedeli alle loro convinzioni, sono ormai indicati, dai media mainstream, come teorici radicali. Ne fanno parte studiosi come Richard Sennett, Zygmunt Bauman, Alessandro Pizzorno e Luciano Gallino. Negli anni tutti loro si sono applicati ad indagare le trasformazioni del mondo del lavoro o il venir meno di quelle identità collettive che hanno caratterizzato il Novecento. Si sono applicati al loro specifico campo disciplinare, registrando le continuità e le discontinuità nello sviluppo capitalistico. Non hanno mai nascosto la convinzione che l’economia di mercato potesse continuare a prosperare solo in presenza di robusti, seppur flessibili diritti sociali di cittadinanza che garantissero una «ragionevole» redistribuzione della ricchezza.
Crouch è inoltre lo studioso che ha, come gli altri, individuato nel welfare state il punto più avanzato raggiunto durante «il secolo socialdemocratico», per usare un’espressione coniata da Ralph Darendhorf, altra figura chiave di questa cultura politica democratica europea.
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Un sasso nello stagno
di Raffaele Sciortino
Marco Bertorello, "Non c'è euro che tenga" (Ed. Allegre, 2014). Nota critica su un prezioso libretto sull'euro
Titolo e sottotitolo del libro di Marco Bertorello formano quasi un contrappunto: Non c'è euro che tenga. Per non piegarsi alla moneta unica non serve uscirne. Non si tratta di ambiguità ma del tentativo dichiarato di non farsi imporre, analiticamente e politicamente, il terreno dall'opposta ma speculare alternativa euro sì/euro no. Non che Bertorello non sappia, come molti di noi, che il terreno più avanzato per la ripresa del conflitto in "basso a sinistra" è in Europa quello che con estrema difficoltà, e in sostanziale isolamento, stanno in questi giorni tentando popolazione e governo greci.
Ma il punto è a quali condizioni e con quale prospettiva calcare il terreno europeo. Investigare più a fondo queste condizioni è il merito di questo prezioso libretto che prova a lanciare un sasso nello stagno dello stantio, e diciamocelo: piuttosto miserevole, stato del dibattito a sinistra sul tema.
Partiamo dall'analisi. Tre le tesi principali che si possono ricavare.
La prima ci dice che Euro makes sense, il varo della moneta unica europea non è frutto di un errore (p.es. di architettura istituzionale) o dell'irrazionalità delle classi dirigenti europee.
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Bifo, Negri e l'algoritmo del finanzismo
di Sebastiano Isaia
Scrive Franco Berardi Bifo: «Non so come andranno a finire le elezioni francesi. Quel che so è che il Front National è la sola forza politica capace di interpretare i sentimenti prevalenti nel popolo francese: odio nazionalista riemergente contro l’arroganza tedesca, e ribellione sociale contro la violenza finanziaria. Un mix inquietante ma potente, che cancella la distinzione tra destra e sinistra». Esatto. Ma come dobbiamo spiegare questa cancellazione?
Se si vuole dire che difficilmente il disagio sociale e la rabbia delle classi subalterne si trasformano spontaneamente (meccanicamente) in un’autentica lotta di classe potenzialmente rivoluzionaria; e che anzi la crisi sociale non raramente (anzi!) avvantaggia le soluzioni borghesi più reazionarie, perché il vuoto della rivoluzione è presto coperto dalla controrivoluzione (il più delle volte preventiva), se si vuole dire questo non posso che dichiararmi d’accordo. È la storia del “secolo breve” che ci ammonisce in tal senso: dal fascismo al nazismo, dallo stalinismo ai Fronti Popolari, dal populismo di “destra” a quello di “sinistra” la lezione è infatti univoca. Come il proletariato possa farsi classe per sé e dunque trasformarsi nel partito rivoluzionario immaginato a suo tempo da Marx, ebbene questo problema, ineludibile per chi intende affermare una posizione radicalmente anticapitalista, aspetta ancora, non dico una corretta soluzione ma un’adeguata impostazione. Perché esso va naturalmente riformulato alla luce del secolo e mezzo di acqua passata sotto i ponti del Capitalismo mondiale dai tempi in cui il rivoluzionario di Treviri scriveva il Manifesto del Partito Comunista insieme al noto amico di merende. Questo almeno all’avviso di chi scrive.
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Anticapitalismo e antifascismo in Europa
Due critiche alla strategia di Syriza
di Giulio Palermo
Syriza è in gravi difficoltà. Non per lo scontro con le istituzioni europee ma per le rivendicazioni del popolo greco. Ormai sono i fatti a dimostrarlo: il suo programma politico è internamente contraddittorio. Allentare la crisi sociale e umanitaria non è possibile all’interno delle regole dell’unione economica e monetaria. Questo è il dato. Le promesse di Syriza non possono essere mantenute.
Tsipras ora deve scegliere: tradire il capitale, che vorrebbe che il governo greco faccia il dovuto in casa per rispettare gli impegni in Europa; o tradire il popolo greco, che ha votato per una forza che gli prometteva di allentare la stretta del capitale in crisi sulla gente che lavora e che perde il posto. Si tratta di una scelta che non può essere rimandata. Restare nell’ambiguità serve solo a indebolire la classe lavoratrice greca e, con essa, quella di tutt’Europa.
In questo articolo, mi soffermo su due conseguenze di questa strategia ambigua.
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Il Medio Oriente in fiamme: guerra settaria o per l’egemonia?
di Lorenzo Carrieri
L’interdipendenza globale oggi non è solo economica e finanziaria, ma è anche interdipendenza e reciprocità dell’elemento “guerra”. Al contrario delle due guerre mondiali, questa Guerra si divide, moltiplica i fronti e gli scenari, e viene combattuta a colpi di diplomazia, di kalashnikov e lancia-granate ma anche di fondi sovrani e guerre valutarie. Sotto i colpi di questa guerra il mondo sembra cadere a pezzi, e il Medio Oriente si trova nuovamente al centro.
Pur essendo diversi i fronti caldi all’interno dello scenario globale – dal Venezuela all’Ucraina, passando per le metropoli occidentali -, da 60 anni a questa parte la zona più pervasa dall’elemento conflittuale è quella che si estende dal Marocco al suo estremo Ovest fino al Pakistan nel suo oriente più lontano. Il Medio Oriente, denominata così dall’ammiraglio Alfred Thayer Mahan nel 1902, che ne comprese per primo l’importanza strategica come via di transito centrale per garantirsi il potere marittimo, è di nuovo la zona calda per eccellenza del globo. È in quest’area che, per usare le parole di Papa Francesco, si gioca una parte importante della Terza Guerra mondiale, quella che non ha un focus preciso in una parte del globo, ma che si manifesta “dappertutto, a pezzi”.
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Una minestra riscaldata?
Landini e la proposta di "coalizione sociale"
Rete dei Comunisti
A corrente alternata il leader della FIOM prende posizione prima in un verso e poi in un altro. Un atteggiamento che riscontriamo non solo in questi giorni ma che costituisce, da tempo, una particolarità del metodo di comportamento politico di Landini.
Nelle settimane scorse ha iniziato una (cauta) polemica con la Camusso. In altre occasioni esprime un accordo con la segretaria della CGIL. Anche verso Renzi, il buon Muarizio Landini ha avuto alterne posizioni: dagli incontri più o meno cordiali al principio della sua presidenza del consiglio fino allo scontro diretto. In tale quadro, per meglio inquadrare la situazione, va anche ricordato che Renzi, da uomo politico furbo e navigato, non ha un atteggiamento netto di rottura con Landini come lo ha, ad esempio, con Bersani o D’Alema ai quali fa una guerra senza prigionieri.
Adesso siamo alla vigilia della manifestazione sul Jobs Act del 28 marzo ed all’esordio di una proposta di “coalizione sociale” della quale si tengono oscuri i fini reali, forse perché non ce ne sono o perché si aspetta il momento giusto per fare una qualche scelta di carattere più preciso e puntuale.
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Un’altra storia
di Lanfranco Binni
Delle origini in Iraq e in Siria dello «Stato islamico», finanziato e armato dagli Stati Uniti, e sottotraccia da Israele, per disgregare lo Stato siriano con l’obiettivo strategico di attaccare l’Iran ed eliminare due importanti retrovie di sostegno al popolo palestinese, ormai sappiamo tutto. È lo stesso Obama, nella recente intervista del 19 marzo, a riconoscere il ruolo statunitense nella nascita dell’Isis, sia pure attribuendola alle conseguenze della guerra irachena di Bush e sottraendosi alle responsabilità della sua presidenza. Sappiamo anche che l’Isis, strumento del capitalismo senile occidentale e delle sue strategie geopolitiche, svolge oggi un ruolo di attrazione di soggettività radicali nei paesi arabi e nei paesi occidentali, innestando sul disegno eterodiretto dinamiche diverse e più complesse le cui radici affondano nei processi di esclusione sociale nei paesi arabi e di islamofobia e razzismo nei paesi occidentali: contro il neocolonialismo l’odio per l’Occidente, contro lo «Stato ebraico» lo «Stato islamico», contro i simboli del «moderno» integralismo occidentale i simboli di un integralismo islamico delle origini, contro le tute arancione dei prigionieri di Guantanamo le tute arancione dei prigionieri dell’Isis, contro le tecniche e i mezzi della comunicazione occidentale il loro impiego con contenuti opposti e speculari.
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La sophia del pop e la libertà post-metafisica
di Corrado Ocone
Il movimento più evidente del pensiero degli ultimi secoli è quello che ha sempre più portato a eliminare la dicotomia fra il mondo ideale, fatto di strutture più o meno stabili per quanto diversamente concepite dai diversi filosofi, e il mondo reale, soggetto al mutamento e alla finitezza. Come Nietzsche scrive nel Crepuscolo degli idoli (1888), tratteggiando quella che considera la “storia di un errore”, “a certo punto il ‘mondo vero’ finì per diventare favola”. Era stato Platone a identificare nelle “idee” quella “realtà vera” che gli uomini, chiusi in una caverna, vedono solo attraverso ombre. Era allora iniziata una storia, quella della Metafisica, che è, nel bene e nel male, la storia stessa dell’Occidente.
Ma la Metafisica, per lo più, oggi ci sembra poco plausibile. E questa poca plausibilità fa si che, con essa, poco plausibile sembra essere la stessa filosofia. In effetti, la Metafisica è stata sempre identificata come la filosofia prima, la filosofia senz’altro. È possibile continuare allora a filosofare e in che modo, con quale senso, nell’epoca della “fine della filosofia”? È una delle domande, forse la domanda, che ha percorso il Novecento filosofico. Le risposte sono state diversissime: hanno coperto un’ampia e differenziata gamma di “soluzioni”.
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