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Quaranta miliardi tra Di Pietro e i referendum
Militant
A qualche settimana dai referendum possiamo dire con certezza che si sta avverando ciò che era fin troppo facile pronosticare. Portata a casa la vittoria, i vari sciacalli politici hanno incamerato il sostegno per le loro manovre partitiche, senza che il significato del referendum fosse anche solo in minima parte recepito. Di Pietro, forte del suo impegno elettorale, ha trasformato quei voti (non suoi) in arma di ricatto per tutta l’opposizione parlamentare, tentando di riposizionarsi come alternativa “moderata” alla sinistra di Vendola. Intesa l’aria che tirava, e cioè che il vero leader della sinistra del PD sarebbe in ogni caso Vendola, sta attivando una serie di manovre per cercare di ostacolare la naturale leadership vendoliana, tenendosi aperta anche la strada centrista. Niente di nuovo, lo squallore del personaggio è pari solamente alla sua ignoranza. E neanche ci dispiace per tutti coloro che nel corso di questi anni vedevano nell’ex magistrato il campesino rivoluzionario della nuova sinistra. Di campesino gli rimarrà solo il linguaggio. Quello, purtroppo per lui, nessuna manovra elettorale potrà migliorarlo.
Tra Ferrero, Vendola e Di Pietro, la corsa a chi raggiunge prima l’accordo col PD è iniziata da un pezzo e non se ne vede l’uscita. Anche qui, sperare che l’impulso di partecipazione politica prodotto dai referendum sia servito a qualcosa significherebbe solo alimentare un inganno che va avanti da decenni. Nessuno vuole interagire con quel segmento di società che si è attivato politicamente per una battaglia antiliberista. L’unica protesta accettata è quella contro il governo Berlusconi. Ogni tipo di spinta sociale che travalichi l’obiettivo elettorale viene depotenziata o annacquata.
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L’OCSE e la diseguaglianza: a che punto è la notte?
Stefano Perri
1. Dopo la ricerca del 2008 Growing Unequal[1], veramente utile nell’evidenziare come lo sviluppo economico nei paesi sviluppati sia stato negli ultimi decenni caratterizzato da un crescere delle diseguaglianze, l’OCSE è ritornata recentemente su questo problema con il Forum tenuto a Parigi il 2 Maggio del 2011[2].
Purtroppo i dati aggiornati sullo stato delle diseguaglianze non sono ancora disponibili nel sito dell’OCSE. Tuttavia alcune interessanti considerazioni possono essere già svolte.
L’OCSE conferma che i dati fino al 2008, cioè prima che gli effetti della crisi fossero evidenti, mostrano un trend di crescita delle diseguaglianze nella distribuzione del reddito nella maggior parte dei paesi sviluppati.
Ad esempio 19 paesi dell’OCSE hanno visto dalla metà degli anni ottanta fino al 2008 il reddito reale disponibile del decile più povero della popolazione crescere ad un tasso molto inferiore rispetto al decile più ricco (in due paesi, Israele e Giappone, il reddito del decile più povero addirittura diminuisce in termini reali). Solo in 8 paesi, tra cui la Francia, il reddito del decile più povero è cresciuto ad un tasso più alto di quello più ricco. Impressionante in questa classifica è la performance di paesi in cui la distribuzione del reddito è tradizionalmente meno sperequata: in Svezia il tasso di crescita del reddito del decile più ricco è stato in questo arco di tempo 6 volte più alto del tasso di crescita del decile più povero (2,4 % contro lo 0,4%) in Germania addirittura 16 volte più alto (1,6% contro lo 0,1%). Anche l’Italia non brilla in questo confronto: i più ricchi hanno infatti visto i loro redditi crescere ad un tasso 5,5 volte più alto di quello relativo ai redditi dei più poveri (1,1% contro lo 0,2%). In questa triste classifica l’Italia giunge quindi terza dopo la Germania e la Svezia, se si escludono i due paesi in cui il reddito reale del decile più povero diminuisce. Occorre però ricordare che, in contrasto con la Germania e la Svezia, la diseguaglianza nella distribuzione del reddito di partenza era molto più alta in Italia.
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Gramsci e le primavere arabe
di Daniel Atzori
Molti intellettuali arabi e musulmani hanno usato categorie gramsciane per guardare alle rivolte con altri occhi. Il risultato è sorprendente
L'interesse degli intellettuali arabi e musulmani per il pensiero di Antonio Gramsci non è un fenomeno nuovo. Gramsci ha fornito, infatti, alcune cruciali categorie concettuali per analizzare le drammatiche trasformazioni politiche, sociali ed economiche che hanno investito le società arabe, in particolare quella egiziana, negli ultimi decenni. Oggi, in particolare, Gramsci ci permette di guardare alle rivolte arabe degli ultimi mesi con occhi nuovi.
Nel suo classico Overstating the Arab State (1996), lo studioso egiziano Nazih Ayubi spiegava come i regimi arabi fossero fragili poiché, pur avendo sviluppato raffinate strutture per la sistematica repressione del dissenso, non erano stati in grado di creare efficaci strumenti per la produzione del consenso, quelli che Althusser chiamava gli apparati ideologici dello stato. Servendosi di categorie gramsciane, Ayubi sosteneva che le élite al potere nei regimi arabi avevano sviluppato la dimensione del dominio, senza veramente riuscire a esercitare una direzione intellettuale e morale.
Questa strutturale debolezza dei regimi arabi aveva consentito a movimenti islamisti come i Fratelli Musulmani di sviluppare progetti contro-egemonici, per esempio in paesi come l'Egitto e la Giordania, utilizzando il linguaggio e i simboli dell'Islam per articolare l'islamismo come ideologia politica.
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Globalizzazione, postmoderno e “marxismo dell’astratto”
Roberto Finelli
1. L’«americanismo» come idealtipo della globalizzazione.
Le riflessioni che seguono nascono da quella che a me sembra la caratteristica più paradossale della realtà che stiamo vivendo: tanto caratterizzante l’intera realtà, storica e sociale contemporanea, da configurarla appunto come null’altro che un unico grande paradosso. Il paradosso è quello della contraddizione tra il piano dell’Essere e quello dell’Apparire, ossia tra il piano interiore e profondo della struttura del reale e quello esteriore della forme della coscienza individuale e collettiva con cui quella struttura viene appresa e conosciuta, anzi nel nostro caso bisogna dire viene distorta e misconosciuta.
Con il crollo del comunismo cosiddetto reale il mondo conosce oggi solo l’«americanismo» come forma unica di civiltà e di organizzazione sociale. E l’americanismo, per quello che dirò subito, vale per me come la realizzazione, oggi, più completa e più avanzata del capitalismo, proprio come la maturità dell’Inghilterra valeva per Marx come la forma canonica del capitalismo dell’800. E americanismo senza America, americanismo oltre i confini d’America, può essere definita l’attuale globalizzazione, se la si considera come generalizzazione a tutti i paesi del globo, con gradi diversi ovviamente di sviluppo e di sottosviluppo, del medesimo modello di produzione, distribuzione e consumo di merci, della medesima ricerca di profitto, della medesima invasività e diffusione del mercato e della medesima attitudine a trasformare tutti i rapporti umani in rapporti quantificabili e mediati dal denaro.
Per altro non v’è dubbio che la globalizzazione debba essere vista, ancora oggi, soprattutto come maggiore velocità e ubiquità di spostamento del capitale finanziario e spesso solo speculativo, senza cedere alla facile quanto superficiale rappresentazione che la prospetta come il darsi di un unico mercato mondiale con un’unica concorrenza che genererebbe medesimi prezzi delle merci, del lavoro del denaro.1
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Fisco, populismo e lotta di classe in Italia
di Vladimiro Giacchè
Pubblichiamo un interessante saggio di Vladimiro Giacchè uscito sull'ultimo numero di Democrazia e Diritto sulla questione strategica del rapporto tra il sistema fiscale e il conflitto tra le classi
Il problema della tassazione e della fiscalità si trova al crocevia dei più importanti snodi della politica contemporanea. Lo ritroviamo al centro della sceneggiata storica dei Tea Parties statunitensi, tutta rivolta a creare un’artificiosa continuità simbolica con la settecentesca “rivolta del tè” contro le tasse imposte dalla madrepatria inglese alle proprie colonie, affermando però oggi qualcosa di ben diverso, e cioè la libertà contro le tasse, intese come simbolo dello spauracchio del “Big Government”. Lo troviamo al centro delle gigantesche falle del tessuto istituzionale e di governance dell’Unione Europea rivelate dalla crisi attuale, che hanno uno dei principali luoghi d’origine precisamente nella volontà – iscritta nei Trattati – di non assoggettare tutti gli Stati dell’Unione (o almeno dell’Eurozona) ad una medesima disciplina e regolamentazione fiscale. Infine, lo troviamo al centro del discorso ideologico populista e reazionario berlusconiano, di cui rappresenta da sempre uno dei principali punti di forza. Grazie alla capacità di trasfigurare nella forma di una “lotta contro l’oppressione fiscale” quella che è in verità – come vedremo – una delle più efficaci e efferate configurazioni assunte dalla lotta di classe in questo Paese. La cosa migliore è partire proprio dall’esame di alcune delle più caratteristiche enunciazioni del Berlusconi-pensiero sulle tasse.
1. Il fisco nel Berlusconi-pensiero
“Se lo Stato ti chiede più di un terzo di quanto guadagni, c’è una sopraffazione nei tuoi confronti, e allora ti ingegni per trovare sistemi elusivi e addirittura evasivi ma in sintonia con il tuo intimo sentimento di moralità”.
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La contraddizione assoluta del capitale
di Stefano Ulliana
"E poiché uguali parti sono del grande e del piccolo, anche così in ogni cosa ci potranno essere tutte: non è possibile che esista separatamente, ma tutte partecipano a tutto." Anassagora (DK 59 B 6).
"Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale". G.W.F. Hegel (Lineamenti di filosofia del diritto, Prefazione).
1. La forma e la sostanza dell'egemonia (ideologica e pratica) sostenuta dal Capitale (finanziario, speculativo e produttivo) attuale sono date, offerte e rese stabili dal modo e dalla struttura della contraddizione assoluta. La contraddizione assoluta è infatti la determinazione e la definizione della struttura e del modo propri del dominio e del potere esercitati dall'ideologia capitalistica presente. La ricerca e le volontà comuni all'ideologia capitalistica, tese alla massimizzazione del profitto – nelle opere d'ingegno, nelle produzioni artistiche in senso lato, nelle produzioni tecnico-pratiche – hanno infatti stabilito la necessità irremovibile ed ineliminabile di un forma sintetica a priori, che raccolga interamente, completamente e totalmente il pensiero, l'arte e la prassi dell'infinito (umanamente inteso e rappresentato). Come nel caso della prima filosofia idealistica tedesca – J.G. Fichte – il pensiero, l'arte e la prassi della reazione – il Congresso di Vienna è del 1815 - pretende di bloccare, di negare ed annientare in anticipo qualsiasi apertura di relazione che ricordi l'abissale profondità dell'infinito liberamente creativo, viva ed espressa attraverso la relazione doppiamente dialettica sussistente fra libertà ed eguaglianza. Nello sviluppo successivo del pensiero idealistico tedesco la posizione fichtiana venne in tal modo superata dalla ripresa schellinghiana dell'infinito creativo e doppiamente dialettico di origine bruniana – Giordano Bruno da Nola – prima di venire di nuovo piegata e trasferita su un piano esistenziale di tipo tradizionalmente neo-assolutistico.
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Gerald Horne e la Grande Guerra Razziale
Miguel Martinez
Gennaio 1942, due mesi dopo Pearl Harbor. E’ l’epoca in cui folle sovreccitate di bianchi americani danno fuoco alle sale dei Testimoni di Geova, sospettati per il loro rifiuto del servizio militare di essere la quinta colonna dell’Asse.
I principali dirigenti delle comunità nere statunitensi si riuniscono e votano, 36 contro 5 e con 15 astensioni, una mozione moderata nei toni, ma che in sostanza nega il sostegno alla guerra contro il Giappone.
E’ una delle vicende che porta alla luce lo storico nero americano, Gerald Horne, in Race War! White Supremacy and the Japanese Attack on the British Empire (New York University Press, 2004).
Quando si parla di “storia” o di “memoria”, si intendono in genere unicamente i sei anni della Seconda guerra mondiale, e unicamente il fronte europeo di tale guerra.
Chiedete a bruciapelo a qualunque alunno dell’Istituto Tecnico per il Settore Economico Paolo Dagomari di Prato, cosa è stata la Seconda guerra mondiale.
All’incirca, vi dirà che c’era un pazzo di nome Hitler che voleva conquistare il mondo e uccidere gli ebrei; ma sono arrivati gli americani e ci hanno salvati.
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La crisi "robusta" del capitalismo tossico
di Marco Bertorello e Danilo Corradi*
Economia globale. Cos'è cambiato in due mesi
Lo scorso marzo il presidente della Bce Jean Claude Trichet definiva la ripresa economica globale «relativamente robusta», e sull'onda di commenti come questo si diffondeva il sentore che il peggio era ormai passato. Il ciclo avrebbe ripreso il suo corso, la crescita si affacciava non solo nei paesi emergenti, ma anche negli Usa e persino in Unione Europea. Il tutto senza che ci fosse stato un cambiamento concreto delle politiche che hanno coltivato questa crisi. La regolazione finanziaria invocata da tutti i governi non è mai stata attuata, l'attacco ai salari è continuato come la socializzazione delle perdite del capitale che ha condotto all'esplosione dei debiti pubblici dei paesi Ocse. "Robusta" diventa un termine taumaturgico, piuttosto che analitico, per scongiurare i pericoli di una lunga stagnazione o peggio di un ritorno della recessione, un termine che si aggrappa ad alcuni dati positivi che qua e là emergono, spesso in conseguenza di una sorta di rimbalzo dal precipizio in cui si era caduti nel biennio 2008-2009, ma che per lo più non vengono contestualizzati. I desideri dei vari establishment sulla situazione economica si confondono con la realtà.
Sono passati soltanto due mesi dalle dichiarazioni targate Bce e le coordinate del contesto in cui ci troviamo e delle sue emergenze sembrerebbero cambiate completamente. Eppure nel lasso di tempo intercorso non è intervenuto alcun elemento tale da invertire la rotta, fatta salva la catastrofe ambientale giapponese che, per quanto grave, non può essere addotta come causa di un'inversione di tendenza generale. Evidentemente molteplici fattori concorrono ad acuire un panorama fondamentalmente instabile a causa del fallimento del sistema di accumulazione definitosi negli ultimi 30 anni.
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La «modernità» è finita
di Alberto Burgio
Dopo 25 anni di precarizzazione del lavoro e bassi salari, aumento della disoccupazione e riduzione dei diritti sociali, crack finanziari e privatizzazioni, il giocattolo si è rotto. Se ne accorgerà la sinistra?
Cos'ha in comune il no alla privatizzazione dell'acqua con la cacciata della Moratti da Palazzo Marino? E il trionfo di De Magistris con la sepoltura del nucleare e del «legittimo impedimento»? È davvero l'antiberlusconismo la cifra della possente sberla inflitta dagli italiani alla cricca governante? Forse è il momento di rompere gli schemi imposti dal discorso neoliberista e di ricominciare - direbbe qualcuno - a «parlare dei rapporti di proprietà».
Partiamo da qualche dato che aggiorna la fotografia del Paese. In tutto il mondo la crisi esplosa tre anni fa morde nella carne viva dei più poveri, costretti a pagare il «risanamento» dei bilanci pubblici dissanguati a beneficio dei privati in bancarotta. La Grecia e il Portogallo rischiano di morire strangolati per mano degli esattori del debito (Commissione europea e Bce) garanti delle banche tedesche, francesi e inglesi. Ma in questo panorama l'Italia è un caso a parte. Grazie alle innovazioni della Seconda Repubblica, siamo tra le società più ineguali e ingiuste, un paradiso per ricchi ed evasori fiscali. Negli ultimi quindici anni la distanza tra il reddito medio e quello della metà più povera della popolazione è aumentata dalle nostre parti più che in tutti gli altri Paesi Ocse. I profitti netti delle maggiori imprese sono cresciuti, tra il 1995 e il 2008, del 75,4%. I salari sono precipitati al ventitreesimo posto (su trenta). La Banca d'Italia stima che il 10% più ricco possiede oltre il 45% della ricchezza immobiliare e finanziaria, mentre il 50% più povero deve arrangiarsi con il 9,8%. Intanto l'evasione fiscale (grazie alla rendita immobiliare e al lavoro autonomo) ha superato il 17% del pil (oltre 220 miliardi di euro l'anno). Quanto all'«uomo che ha fottuto un'intera nazione», nel 2010, nel pieno della crisi, ha guadagnato 2 miliardi e mezzo di euro.
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I ricchi e il debito pubblico
di Vincenç Navarro
Questo articolo evidenzia come la diminuzione della tassazione dei redditi alti (risultato delle politiche fiscali di sensibilità neoliberista) abbia impoverito gli stati portandoli ad indebitarsi, chiedendo denaro in prestito alle banche (dove quelli che percepiscono i redditi elevati depositano il loro denaro) che richiedono interessi elevati. Questa situazione comporta una concentrazione dei redditi con un conseguente impatto negativo sulla crescita economica e sulla creazione di occupazione
I ricchi sono molto pochi in qualsiasi paese, ma posseggono un enorme potere. Un indicatore di questo potere è ciò che sta accadendo con il debito pubblico sia negli Stati Uniti che nell'Unione Europea, come anche in Spagna. La loro influenza sullo Stato di questi paesi ha determinato una notevole diminuzione delle tasse negli ultimi trent’anni (in Spagna negli ultimi quindici), cosa che gli ha permesso di diventare ancora più ricchi.
Questa forte riduzione delle entrate ha fatto sì che gli stati si indebitassero, chiedendo prestiti alle banche in cui le persone facoltose depositano e investono i loro soldi. In questo modo questi, invece di pagare lo Stato (con le tasse), prestano i soldi che hanno risparmiato non pagando le imposte al paese, il quale deve pagare loro gli interessi. Per loro il sistema è perfetto (e per le banche in cui depositano i loro soldi), trasferendo così una grande quantità di fondi dal settore pubblico, ai ricchi e alle loro banche.
Vediamo i dati, iniziando dagli Stati Uniti. Secondo Robert Reich, Ministro del lavoro e degli Affari Sociali del governo Clinton, l’aliquota massima per le persone affluenti (l'1% della popolazione con maggior reddito) negli Stati Uniti era, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale fino al 1980, quasi del 70%. Vale a dire, per ogni dollaro che guadagnava la gente più ricca, doveva pagarne 70 centesimi in imposte allo Stato. In quegli anni anche presidenti del partito Repubblicano come Dwight Eisenhower credevano non fosse salutare per la società che esistessero disuguaglianze estreme.
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La Fds, Sel, l'unità della sinistra e la questione del governo
di Dino Greco
La doppia vittoria nelle elezioni amministrative e nei referendum ha riaperto a sinistra la discussione intorno alla possibilità non soltanto di liberare il Paese da Berlusconi ma, addirittura, di pervenire in tempi brevi ad un'alternativa di governo capace di cambiare in profondità la realtà dell'Italia. Porsi questo interrogativo è non solo legittimo, ma necessario. L'ipotesi di un cambiamento radicale degli equilibri politici va indagata razionalmente, scansando pregiudizi ostativi ed anche frettolose (ed illusorie) precipitazioni.
Sel, ad esempio, è convinta che le condizioni siano maturate a tal punto che i suoi più autorevoli esponenti pongono all'ordine del giorno niente meno che la costruzione di un soggetto unico della sinistra. Allora converrà afferrare il toro per le corna e non eludere il tema posto che chiama in causa anche la Federazione della Sinistra e la sua strategia.
Personalmente, ritengo che sia salutare evitare due opposte tendenze: quella di chi respinge a priori l'ipotesi di un coinvolgimento della Fds in un'alleanza di governo in quanto ciò comporterebbe un inevitabile, recidivante cedimento compromissorio, da escludersi per principio sino a quando non maturino nel Paese le condizioni di un governo di sinistra-sinistra, portatore di una radicale trasformazione cripto-socialista; e l'altra tesi, diametralmente opposta, di chi ritiene che tale evento sia ormai alle porte, disinvoltamente eludendo - sotto la spinta dei sentimenti e di una certa euforia da successo - l'effettiva possibilità di condividere con uno schieramento di centrosinistra un programma di reale rivolgimento sociale e democratico dell'Italia.
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Moody's Italia echissenefrega: il ritorno degli avvoltoi!
Andrea Mazzalai
Nel fine settimana sentivo nell'aria che qualcosa si stava preparando nei confronti dell'Italia, avevo un strana sensazione non solo per quanto stava accadendo alla Grecia.
Troppi interessi in gioco nel mondo finanziario tra gli avvoltoi che da sempre sorvolano il mondo della finanza, troppe scommesse giocate sulla pelle delle Nazioni, sulla nostra pelle!
“There are two superpowers in the world today in my opinion. There’s the United States and there’s Moody’s Bond Rating Service. The United States can destroy you by dropping bombs, and Moody’s can destroy you by downgrading your bonds. And believe me, it's not clear sometimes who's more powerful.” (M. Friedman, 2001)...
...Ovvero... ci sono due superpotenze oggi al mondo secondo la mia opinione. Ci sono gli Stati Uniti e c'è l'agenzia di rating Moody's. Gli Stati Uniti possono distruggerti facendo cadere bombe e Moody's è in grado di distruggerti facendo declassare le tue obbligazioni. Mi creda, non è affatto chiaro a volte chi delle due sia la più potente...
Moody's ha avviato ieri una ricognizione a tutto campo sulla capacità dell'Italia di mantenere il rating "Aa2": il «review for possible downgrade» dovrebbe risolversi entro 90 giorni, come di regola. Nella peggiore delle ipotesi, la retrocessione dovrebbe essere di un solo gradino.
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Meglio la finestra - Liberarci dall'Euro, per un'altra Europa
di Marino Badiale, Fabrizio Tringali
1. Introduzione
Il tema dell'Europa diventerà uno dei punti cruciali della discussione politica in Italia nei prossimi mesi, perché le nuove regole europee in tema di finanza pubblica hanno conseguenze durissime per l'Italia. La discussione sul “che fare” di fronte a tali norme diventerà estremamente accesa quando il governo italiano comincerà ad agire secondo il loro dettato. Chi voglia combattere il degrado che attanaglia il nostro paese, e opporsi alla rovina cui ci porta l'attuale organizzazione economica e sociale, deve aver ben chiaro lo scenario che ci troveremo di fronte nel breve e medio periodo.
L'analisi che qui proponiamo inizia illustrando la recente riforma che il Consiglio europeo ha varato lo scorso 24-25 marzo. Gli accordi introducono nuove regole di governo delle finanze pubbliche dei paesi dell'Eurozona, con lo scopo di garantire la stabilità dell'Euro e di far ripartire la crescita del PIL nell'area Euro.
L'articolo è diviso in tre parti: nelle prima descriveremo i fatti, cioè spiegheremo le principali caratteristiche di questa riforma epocale, e le motivazioni che hanno spinto l'Europa a prendere tali decisioni.
Nella seconda ci soffermeremo sulle gravissime conseguenze sociali e politiche che i nuovi accordi comporteranno per il nostro Paese.
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Titanic Europa. Ormai è a rischio anche la moneta unica*
di Vladimiro Giacché
BCE: un rialzo dei tassi pericoloso
Cominciamo con l’istituzione più importante di tutte: la Banca Centrale Europea. Come è noto, la filosofia economica (meglio: l’ideologia) su cui si fonda l’Unione Europea prevede che la formula magica per la crescita sia rappresentata da mercato + politica monetaria. In altri termini: per ottenere benessere e progresso economico è sufficiente che al libero dispiegarsi delle “forze di mercato” (ossia dei capitali in competizione) si unisca l’apporto delle politiche monetarie, che hanno il compito esclusivo di combattere il rischio di inflazione.
Le scelte compiute in questi mesi dalla Banca Centrale Europea sono coerenti con questi presupposti. E in effetti la BCE il 7 aprile scorso ha portato i tassi d’interesse nell’eurozona dall’1% all’1,25%, e nel mese di giugno ha confermato l’intenzione di inasprire ulteriormente la politica monetaria con un ulteriore rialzo. Non si può dire che questa politica rappresenti una sorpresa. Jean-Claude Trichet, il presidente della BCE, l’aveva annunciata già a marzo, motivandola con i rischi d’inflazione legati all’aumento del prezzo del petrolio. E, tanto per non lasciare dubbi su quale fosse la sua principale preoccupazione, aveva sottolineato che “quando c’è uno shock petrolifero” la responsabilità della BCE è quella di evitare “un effetto-travaso” sui salari, ossia un aumento di questi ultimi.
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Tra ideologie e finzioni
Franca D'Agostini
<La logica di ciò che non esiste . Incontro con il filosofo Graham Priest, che ha inaugurato il «dialeteismo», ossia la prospettiva logica in base alla quale esistono contraddizioni che non comportano il collasso della razionalità. In questa pagina considera le ricadute politiche della sua teoria nella prospettiva di Marx e Engels: solo il pensare in termini di contraddizioni, porta a progettare azioni politiche efficaci
Da parecchio tempo la politica è orfana della grande teoria. Secondo alcuni è una buona cosa. Fine delle ideologie, inizio di qualcosa di nuovo: forse inizio dell'impolitico, o della politica pura, pragmatizzata, di puro provvedimento. O anche: inizio di movimenti spontanei, senza avanguardie intellettuali e senza leadership, come le rivolte nordafricane o gli indignados spagnoli. Secondo altri invece «con le ideologie abbiamo perso anche le idee», ovvero: «abbiamo perso la capacità di ragionare in grande», come ha detto di recente Gustavo Zagrebelsky. In realtà non è lontano il tempo in cui proprio il grande pensiero era sotto accusa, in quanto grand récit (per il postmodernismo militante) o in quanto generatore di società chiuse (per Karl Popper). Però è abbastanza facile vedere che la perdita del disegno complessivo ha portato la prassi, orfana della teoria, a smarrirsi nelle secche della politica personalizzata e consumistica: una trappola in cui, come sappiamo, è caduta anche la sinistra.
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L’origine sociale della crisi *
Antonio Lettieri **
Abstract
Vi sono due spiegazioni convenzionali sulla peggiore crisi finanziaria dopo la Grande Depressione dagli anni '30 del secolo scorso. Da un lato, il tracollo dei mutui subprime dall'altro, la mancanza di un’ adeguata regolamentazione finanziaria, ma entrambe queste spiegazioni sono poco convincenti. È necessario esplorare le radici sociali della crisi, a partire dalla imponente crescita dell'indebitamento delle famiglie. A causa della grande diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza e del reddito, l’enorme indebitamento è diventato negli ultimi decenni una condizione sociale ordinaria e, al tempo stesso, la condizione necessaria per la crescita dell'economia americana.
Tra le origini della grande diseguaglianza bisogna annoverare il verticale declino del potere dei sindacati e l’inadeguatezza delle politiche sociali. In questo quadro il sistema finanziario ha dato luogo a un mondo parallelo, virtuale, sempre più distante dall'economia reale. Il richiamo alle origini sociali della crisi permette di identificare due radici fortemente intrecciate: da un lato, l'impatto della crescente diseguaglianza all'interno della società americana e, dall'altra, l’inconsistenza ideologica dell' “efficienza del mercato”. Una diagnosi non convenzionale è necessaria per contrastare le illusorie politiche del dopo- crisi.
Il tema dell'origine sociale della crisi è in contrasto con la spiegazione convenzionale che la rappresenta come una crisi fondamentalmente finanziaria. Mettere l'accento sulle sue radici sociali non significa offuscare le sue componenti finanziarie. Non per caso il suo culmine è fatto coincidere col collasso nell'autunno del 2008 della Lehman Brothers, una delle maggiori e più antiche banche d'investimento americane, quando apparve chiaro che altre grandi banche e compagnie di assicurazione sarebbero andate incontro al fallimento senza un massiccio intervento del governo.
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Le sberle dell'economia
Guido Viale
Il vento che ci ha portato all'esito delle elezioni amministrative e dei referendum continuerà a soffiare; bisogna cominciare a fare i conti con i problemi che ci troveremo di fronte a breve. A cominciare dai problemi economici. C'è ancora qualcuno che crede che la Grecia possa ripagare il suo debito (in gran parte nelle mani di banche francesi, tedesche e inglesi e ora anche della Bce) o anche solo rinegoziarlo a tassi accettabili mentre le politiche che le impone l'Unione Europea annientano qualsiasi possibilità di ripresa?
O c'è ancora qualcuno che crede che alla lunga possano sottrarsi a una sorte analoga gli altri paesi europei che si trovano più o meno nella stessa posizione della Grecia, a meno di una revisione radicale del "patto di stabilità"? E c'è ancora qualcuno che pensa che in un contesto simile l'economia italiana possa tornare a crescere, realizzando un avanzo primario sufficiente a riportare il suo debito al 60 per cento del Pil? E poi, di che crescita stiamo parlando? Di una crescita del Pil, cioè contabile, per soddisfare le società di rating, interamente controllate dai big della finanza internazionale.
Quella stessa finanza che - dopo aver mandato in rovina milioni di clienti irretiti da mutui fasulli, di risparmiatori ingannati da titoli di carta straccia, di imprese rimaste senza credito perché le banche continuano a investire sui derivati - sta ora scommettendo sul fallimento di quegli Stati che si sono svenati per salvarla, svenando a loro volta i propri cittadini.
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Romano Alquati: una cooperazione libera ed aperta
di Ferruccio Gambino
Fino ai primi anni dello scorso decennio Romano Alquati ha continuato a scrivere e a insegnare, anche se i testi dell’ultimo periodo della sua vita sono conosciuti soltanto da cerchie ristrette. Uscito in forma di dispensa, il suo “Corso del 2000” di sociologia industriale è uno di tali scritti e, come altri di Alquati, ha l’apparenza di un testo magmatico, irto di rimandi, sospensioni, dissolvenze. In realtà, ad una lettura appena attenta, il “Corso 2000” costituisce un notevole saggio inteso a rilanciare lo studio della società industriale contro una sociologia generale che oggi “rimuove l’industrialità dell’agire”. Si tratta di un’industrialità, come egli scrive, nella quale è immerso circa ”un quinto” dell’umanità, mentre gli altri quattro quinti ne sono ai margini. A prima vista, l’analisi risulta impassibile rispetto ai problemi politici; in realtà, non appena ci si addentra nella prosa parlata di queste lezioni, la passione politica di Alquati traspare nella forma interrogativa in cui egli pone agli interlocutori/interlocutrici le aporie della nostra condizione.
Come sempre, non sorprende la proverbiale franchezza di Alquati nei confronti di posizioni che egli giudica ormai superate. Neppure il Marx dei “Lineamenti fondamentali” viene risparmiato. Contrariamente a quel Marx, che definiva la società come “la somma delle relazioni, dei rapporti in cui…[gli] individui stanno l’uno rispetto all’altro”, Alquati presenta la sua definizione di società spingendola in avanti verso il suo contesto industriale: “una trama d’attività\lavori cui sono stati addetti attori\lavoratori…regolata da un mix di mercato e gerarchia (quindi – fra l’altro – non è una trama di relazioni fra persone…”.
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Abbiamo preso appunti in Spagna
Intervista a Francesco Salvini Pantxo (Barcellona)
Per capire quello che è successo in Spagna in queste ultime settimane bisogna andare all’origine degli eventi che hanno portato all’esplosione di domenica 15 maggio.
Il 15 maggio viene convocata una manifestazione. È un appuntamento preparato in maniera completamente autonoma dai partiti e dai sindacati, ma questo non significa che non sia attraversato da forme organizzative. Per questo, non so se possiamo dire che la diffusione di questa è convocatoria sia “anonima”: in realtà si sparge attraverso alcune reti che sono trasversali allo spazio sociale. E fa leva su alcuni elementi cruciali.
Il primo è il collegamento con una campagna che va avanti da circa tre anni sui diritti digitali, che si è mossa sul tema del copyright, copyleft, creative commons, contro l’abuso di potere della Siae spagnola e contro la nuova legge per la regolamentazione di Internet a cui hanno lavorato, negli ultimi due anni, due ministri della cultura spagnoli, Antonio Molina e poi Gonzalez Sinde. Molina alla fine si è dimesso grazie a una campagna organizzata sul web che denunciava il tentativo del governo di controllare Internet, e gli è succeduto Sinde che ha resistito e ha scritto una legge assurda che cerca di mettere vincoli alla rete (vieta il download, a protezione del diritto d’autore). Contro di essa si sono mobilitati centinaia di migliaia di persone attraverso i forum e i luoghi di discussione nel web.
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Libia: e se fosse tutto falso?
di Marinella Correggia
In questo Dossier un po' di buoni argomenti per riflettere sulla guerra, sulla missione Nato e sugli obiettivi dell'intervento militare
La madre di tutte le bugie
La guerra della Nato in Libia (operazione “Protettore unificato”), alla quale l’Italia sta partecipando, è presentata all’opinione pubblica internazionale come un intervento umanitario “a tutela del popolo libico massacrato da Gheddafi”. In realtà la Nato e il Qatar sono schierati, per ragioni geostrategiche, a sostegno di una delle due parti armate nel conflitto, i ribelli di Bengasi (dall’altra parte sta il Governo). E questa guerra, come ha ricordato Lucio Caracciolo sulla rivista di geopolitica Limes, sarà ricordata come un “collasso dell’informazione”, intrisa com’è di bugie e omissioni.
E queste vengono studiate dalla Fact Finding Commission (Commissione per l’accertamento dei fatti) fondata a Tripoli da una imprenditrice italiana, Tiziana Gamannossi, e da un attivista camerunese, con la partecipazione di attivisti da vari Paesi.
La madre di tutte le bugie: “10 mila morti e 55 mila feriti”. Il pretesto per un intervento dalle vere ragioni geostrategiche è stato fabbricato a febbraio. Lo scorso 23 febbraio, pochi giorni dopo l’inizio della rivolta, la TV satellitare Al Arabyia denuncia via Twitter un massacro: “10mila morti e 50mila feriti in Libia”, con bombardamenti aerei su Tripoli e Bengasi e fosse comuni. La fonte è Sayed Al Shanuka, che parla da Parigi come membro libico della Corte Penale Internazionale.
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Weimar e noi (attraverso Bloch)
Pierluigi Vuillermin
1. Premessa (anti-borghese)
Secondo l’Economist (notizia di qualche tempo fa) per la prima volta nella storia dell’umanità circa metà della popolazione mondiale è entrata a far parte della middle class. Ebbene, ne ha fatta di strada la vecchia piccola borghesia negli ultimi due secoli. Nelle aree emergenti dell’Impero la sua avanzata è incessante. In nome del progresso, essa sostiene la crescita economica e predica le virtù democratiche del benessere materiale. In Occidente, invece, si constata il declino dei ceti medi. Con la competizione globale, l’incubo del declassamento, in casa propria, è una minaccia costante. Ora, questa “nuova borghesia globale” è ancora una classe rivoluzionaria, nel significato tradizionale del concetto? Tanto per essere chiari, citando Hermann Broch, spaventevole progresso, quello alla cui testa marcia il piccolo borghese. La domanda che guida la presente rilettura del libro di Ernst Bloch Eredità del nostro tempo, è molto semplice. In un’epoca di crisi dove vanno politicamente i ceti medi impoveriti? La vicenda della Repubblica di Weimar è risaputa. Mentre l’operaio disoccupato guardava a Mosca, l’impiegato disoccupato si affidò a Hitler. Sappiamo tutti come andò a finire. La questione è tuttora di grande e urgente attualità. Soprattutto oggi, in tempi di recessione economica e conflitto sociale. Di recente il quotidiano La Stampa, recensendo un saggio del sociologo Arnaldo Bagnasco sul ceto medio, così titolava: la classe media lascia il salotto e va alla guerra. In buona sostanza l’autore dell’articolo sosteneva che, in un periodo storico come quello che stiamo vivendo, di incertezza e insicurezza, la classe media abbandona i suoi comodi rifugi e scende rabbiosamente in piazza a lottare in difesa dei diritti o dei privilegi, a seconda del punto di vista. Un po’ in tutta Europa, infatti, stiamo assistendo a manifestazioni e proteste, a volte anche molto violente, da parte di ampi strati di quella popolazione che si considera classe media. Certo, più che con la rivoluzione abbiamo a che fare con rivolte. Così almeno sembra. Differenza non da poco. Tuttavia questo generale malcontento dei ceti medi rischia di prendere una deriva reazionaria e protofascista.
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Cesare Battisti: la funzione di un simbolo
di Walter G. Pozzi
Nel suo romanzo Il colonnello Chabert, Balzac racconta di un ufficiale dell’esercito napoleonico che, dato per morto durante una battaglia, ritorna anni dopo a Parigi, sfigurato e irriconoscibile. La Francia, nel frattempo è in piena fase di Restaurazione. Napoleone entra nei discorsi con l’appellativo di ‘mostro’, in un periodo in cui la collettività si è data un gran da fare per dimenticare. Chabert è un fantasma che cammina per le strade perché il suo ritorno rischia di destabilizzare i nuovi equilibri, con il carico di significati che porta sulle spalle. Peccato che, a rigor di burocrazia, egli è morto e deve dimostrare prima di tutto di essere vivo, in un contesto storico che lo identifica come simbolo di un disvalore e non ha alcun interesse a riaccoglierlo.
Pensando a Chabert, vengono in mente gli ultimi quindici giorni del 2010, attraversati da tre accadimenti: le proteste studentesche contro la riforma universitaria, il conflitto tra Fiom e Fiat aperto da Marchionne nei mesi precedenti, e la sparata di Gasparri che, a gran voce, auspica un nuovo processo 7 aprile. E proprio quando, nel periodo natalizio, le acque sembrano calmarsi, piomba su tutto lo sberleffo della decisione del presidente Lula di non estradare Cesare Battisti.
Così, nel giro di pochi giorni, questi quattro eventi finiscono per aggomitolare, in un unico groviglio logico, il filo dell’attualità politica e sociale di oggi e quella degli anni Settanta.
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L'eurozona si avvia al crollo*
di Nouriel Roubini**
L' approccio confusionario alla crisi dell'eurozona non è riuscito a risolvere i problemi fondamentali sulla divergenza economica e di competitività nell'Unione. Andando avanti così l'euro si muoverà attraverso disordinati tentaivi di soluzione, e alla fine arriverà a una spaccatura dell'unione monetaria stessa, con alcuni dei membri più deboli buttati fuori.
L'Unione Economica e Monetaria non ha mai pienamente soddisfatto le condizioni di un'area valutaria ottimale. I suoi dirigenti speravano che la loro mancanza di politica monetaria, fiscale e di di cambio, avrebbe provocato un'accelerazione delle riforme strutturali che, si sperava, avrebbero visto convergere la produttività e i tassi di crescita.
La realtà si è rivelata ben diversa. Paradossalmente, l'effetto alone della precoce convergenza dei tassi di interesse ha permesso una maggiore divergenza delle politiche di bilancio. Una spericolata mancanza di disciplina in paesi come la Grecia e il Portogallo è stata solo dalla formazione di bolle speculative in altri, come Spagna e Irlanda. Le riforme strutturali sono state ritardate, mentre la crescita delle retribuzioni divergeva rispetto alla crescita della produttività. Il risultato è stato una perdita di competitività nella periferia.
Tutte le unioni monetarie di successo sono state infine associate ad una unione politica e fiscale.
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Note sul debito pubblico italiano
di Dario Di Nepi
In questi mesi il dibattito sui debiti sovrani è stato orientato prevalentemente alle discussioni in merito al rischio di default della Grecia, ai problemi relativi agli aiuti da dare al Portogallo e alla situazione irlandese. In Europa si parla dei Pigs e del loro ruolo destabilizzatore, dei rischi per l’economia europea e per il futuro dell’Euro.
L’Italia, pur non essendo inserita all’interno dei Pigs, e pur non avendo subito l’attacco speculativo a cui è stata sottoposta la Grecia, non può essere considerata esente da problemi riguardanti sia il debito pubblico, sia il deficit di bilancio. Come sappiamo questi due elementi sono strettamente legati e connessi tra di loro, anche se non bisognerebbe fare l’errore tipico degli analisti liberisti di vedere una relazione diretta causa-effetto tra spesa sociale – deficit di bilancio – debito pubblico.
Sin dagli albori dello Stato moderno il debito pubblico infatti era legato principalmente al finanziamento di attività militari o coloniali, determinanti per l’espansione commerciale, necessaria alla nascente economia mercantilista. Da questo punto di vista gli esempi possono essere molteplici, basti pensare che sino alla Rivoluzione Industriale la Banca d’Inghilterra compie la maggior parte delle operazioni di credito con il governo reale.[1] Gli Stati (e dunque, in forma indiretta, l’intera collettività tramite imposte o tagli alla spesa sociale) sono stati quindi tra i principali finanziatori dello sviluppo di tutto il mercato finanziario internazionale, attraverso i loro debiti infatti hanno garantito delle rendite pressoché costanti ai propri debitori (inizialmente le banche nazionali, in seguito le banche private, le compagnie di assicurazioni, i fondi di investimento, etc).
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2011 : la primavera araba? L'esempio egiziano
di Samir Amin
L’anno 2011 si è aperto con una serie di fragorose esplosioni di collera dei popoli arabi. Questa primavera araba avvierà una seconda fase del “risveglio del mondo arabo”? O forse queste rivolte segneranno il passo, e alla fine abortiranno – come è già avvenuto nel caso della prima fase di questo risveglio, come rievocato nel mio libro “L’éveil du Sud”?
Nella prima ipotesi, i progressi del mondo arabo vanno ad iscriversi necessariamente nel movimento di superamento del capitalismo / imperialismo su scala mondiale.
L’insuccesso manterrebbe il mondo arabo nella sua condizione attuale di periferia dominata, impedendogli di ergersi al rango di attore attivo nel plasmare il mondo.
È sempre pericoloso fare delle generalizzazioni quando si parla di “mondo arabo”, ignorando così la diversità delle condizioni oggettive che caratterizzano ogni paese di questo mondo. Per questo, concentrerò le mie riflessioni sull’Egitto, di cui non è difficile riconoscere il ruolo chiave che questa nazione ha sempre rivestito nell’evoluzione generale della regione.
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