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Mario Draghi for president, e che Grecia sia…
di Dante Barontini
Quando ai piani alti dicono “bisogna fare di più per i giovani” è bene fare gli scongiuri. Dovremmo avere imparato, dopo 30 anni di discorsi con questa frase in testa, che si sta preparando un attacco pesante alle condizioni di vita di tutta la popolazione. Di qualsiasi età, in qualsiasi posizione lavorativa, ma soprattutto con redditi medio-bassi o addirittura senza reddito.
Del discorso fatto ieri da Mario Draghi in apertura del Meeting di Comunione e Liberazione tutti – ma proprio tutti – i media principali hanno estratto la frase-killer per farne un titolo. Sicuri che il discorso completo non sarebbe stato letto da molti.
Così, ve lo proponiamo al termine di questo articolo, ma con qualche premessa che aiuti a districare la melassa retorica e individuare i nodi centrali. Che sono poi quelle “riforme” che l’Unione Europea continua a pretendere da tutti i suoi membri e che in Grecia sono state pienamente realizzate.
Lasciando un Paese distrutto, impoverito, con la popolazione alla fame e “i giovani” che fuggono a frotte cercando una soluzione di vita in altri Paesi.
Del resto, nessun programma di questo genere può essere proposto nudo e crudo, così com’è. Nessun leader può indicare la Grecia post-Memorandum come esempio di “successo”. Ma tutti i partecipanti alla vita politica – in posizioni chiave o dall’opposizione più ferma, come noi – sanno benissimo che la “cura greca” è stata voluta proprio come esempio macabro da tener presente in ogni momento.
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Nihil sub sole novi. L’intervista di Veltroni ad Occhetto: anticomunismo e revisionismo storico
di Salvatore Distefano*
Caro Direttore de “L’AntiDiplomatico”, alcuni giorni fa avete pubblicato l’intervista di Veltroni ad Occhetto apparsa su “Il Corriere della Sera”. Poiché, per i temi trattati, non si tratta certo di un’intervista di routine, mi permetto – sempre nell’ottica della per noi preziosa collaborazione con il giornale che dirigi - di inviarti un articolo che il professor Salvatore Distefano ha scritto per “Cumpanis” proprio in relazione ai temi che in quell’intervista sono stati sollevati, sia da Veltroni che da Occhetto. Sperando di aver fatto cosa gradita, ti invio i miei più cari saluti. Fosco Giannini, direttore di “Cumpanis”
Nihil sub sole novi: così si potrebbe titolare l’intervista che Achille Occhetto ha rilasciato a Walter Veltroni e che è stata pubblicata dal Corriere della Sera domenica 19 luglio 2020. Anzi, a pensarci bene, qualcosa di nuovo c’è: l’aspirazione degli ex dirigenti del PCI, PDS, DS e infine PD di riscrivere la storia dell’Italia e del mondo, nonché quella del Partito comunista italiano, avendo come criterio ordinatore il “revisionismo storico” e un robusto anticomunismo (sic!). Infatti, Occhetto, continuamente imbeccato da Veltroni, racconta le sue eroiche gesta, senza farci mancare i tipici aspetti del suo repertorio come le lacrime e la voce incrinata, sposando pienamente la visione ideologica dell’occidente capitalistico, che fortunatamente ha vinto, a suo avviso, lo scontro con il comunismo sovietico, affermando i valori di libertà, democrazia, giustizia e compagnia cantando.
Cominciamo dal titolo. “La svolta del PCI fu dolore e speranza. Ma era mio dovere correre quel rischio”. Ma perché dovere? Il termine dovere richiama l’ambito morale e quello della necessità derivante da principi morali categorici. Ancora: il dovere può scaturire da un ente esterno che viene ipostatizzato e impone, proprio per la sua esistenza e la sua natura, determinate azioni. Nel primo caso, la nostra azione risulterà libera perché ciò che faremo dipenderà da noi; nel secondo caso, potremmo anche compiere un’azione corretta moralmente, ma perderemmo la nostra libertà dato che ciò che mettiamo in atto ci viene “imposto” dall’esterno.
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Moneta creata dal Nulla, Stati indebitati e Mercati con la Mannaia
di Guido Salerno Aletta
Dalla Lotta di Classe al Conflitto tra generazioni
Questo è il paradigma del nuovo conflitto sociale:
a) le Banche centrali creano la moneta dal nulla;
b) di fronte alle crisi ricorrenti, gli Stati si indebitano enormemente per salvare l'intero sistema;
c) i Giovani "pagheranno" il conto del nuovo debito, mentre i loro Padri che sono dei parassiti, beneficiano dell'assistenzialismo pubblico;
d) i Mercati useranno la mannaia per punire gli Stati che si indebitano per fare assistenzialismo, trascurando i Giovani: non sottoscriveranno più i loro titoli di Stato, usando la moneta creata dal nulla.
Le parole di Mario Draghi, che sono state pronunciate all'apertura del Meeting dell'Amicizia, suonano come una vera e propria messa in guardia, se non come una velata minaccia da parte di chi conosce bene chi ha il Potere vero in mano, i Mercati. Sono i Giudici, i Saggi: le Democrazie sono sotto la loro tutela.
Il monito è sostanzialmente questo: dopo la crisi, il livello dei debiti pubblici rimarrà assai elevato. E saranno sottoscritti solo i titoli degli Stati che ne avranno fatto un buon uso di questa spesa finanziata in deficit, con investimenti in infrastrutture, nel capitale umano, e non per fare assistenzialismo.
Ad essere messo sull'avviso, non è solo il Governo guidato da Giuseppe Conte, ma l'intera strategia di politica economica che serve per superare la crisi causata dalla epidemia di Covid-19. Perché con questo virus, ha proseguito Draghi, ci si deve convivere per chissà quanto tempo.
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Test, tamponi e vaccino. Risposte alle 8 domande più ricorrenti
Valentina Bennati interroga Marco Mamone Capria
Visto che i nostri governanti, nazionali e regionali, stanno preannunciando obblighi per la prossima stagione, è bene poter usufruire di maggiori informazioni documentate che permettano di farsi un’idea più chiara su alcuni importanti questioni.
Ho selezionato otto domande, con le relative risposte, dall’ampia e interessante analisi dell’attuale epidemia da parte del Prof. Marco Mamone Capria, Matematico ed Epistemologo presso l’Università di Perugia.
L’analisi è stata pubblicata ieri, 4 luglio, da AURET (Associazione Autismo Ricerca e Terapie). Ho reso il pdf linkabile a fine post così, chi è interessato ad approfondire ulteriormente, può leggerla per intero completa dei necessari riferimenti.
1. È vero che se si è positivi al test per il cov-2, allora si è stati infettati da questo virus?
Risultare positivi a un test per una certa infezione non è lo stesso che essere infetti. Tutto dipende da quanto discriminante sia il test. Un test ha certi parametri che ne definiscono la qualità conoscitiva:
– la proporzione dei positivi tra gli infetti (si dice sensibilità),
– la proporzione di negativi tra i sani (si dice specificità),
– e i valori predittivi, quello positivo, che dice quanto probabile è che se sei positivo tu sia infetto, e quello negativo, che dice quanto probabile è che se sei negativo allora tu sia sano.
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Domenico Losurdo e la comune umanità
Tra categorie del pensiero e conflitto sociale
di Salvatore Favenza
S. G. Azzarà, La comune umanità. Memoria di Hegel, critica del liberalismo e ricostruzione del materialismo storico in Domenico Losurdo, La Scuola di Pitagora, Napoli 2019
La comune umanità. Memoria di Hegel, critica del liberalismo e ricostruzione del materialismo storico in Domenico Losurdo, di Stefano G. Azzarà, precedentemente edito dalle Editions Delga di Parigi nel 2012 ed ora pubblicato da "La Scuola di Pitagora" in edizione italiana riveduta, ampliata ed aggiornata dalle corpose integrazioni di Emiliano Alessandroni, costituisce una privilegiata chiave d’accesso all’itinerario di pensiero di Domenico Losurdo.
I tre capitoli di cui si compone il libro riguardano il confronto storico e filosofico di Losurdo con la storia del liberalismo, con la filosofia classica tedesca e con il materialismo storico.
Secondo le narrazioni oggi in Occidente più gettonate, il liberalismo, nato tra Sei e Settecento presso le più illuminate intellettualità europee, lottò e vinse contro l’assolutismo monarchico facendo acquisire centralità al valore dell'individuo e realizzando lo stato di diritto. Dopodiché, una volta conferita una più o meno solida struttura alla sua propensione democratica, si trovò ad affrontare nemici ancora più temibili. Un parto gemellare di natura totalitaria diede infatti vita a nazismo e comunismo che, affratellati dalla comune natura dispotica, hanno tentato entrambi di contendere al mondo liberale la guida del Novecento. Fortunatamente, tuttavia, il liberalismo vinse anche quest’ultima battaglia e a tutt'oggi si candida a prosperare sull'intero globo, esportando il proprio modello sociale e politico, garanzia di serenità e di pace.
Domenico Losurdo ha mostrato l’inconsistenza di una simile narrazione, opponendo a questa storia sacra (la cui credibilità è stata favorita dalla sconfitta dei tentativi di costruzione del socialismo in Europa orientale) una storia profana, finora abilmente schivata dalla luce dei riflettori.
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In autunno: riprendiamoci la scuola
di CityStrike
Partiamo dalla fine, per essere chiari. Il 24 e 25 settembre sono state indette due giornate di sciopero e mobilitazione dai sindacati di base (USB, Cub, UniCobas e alcune sezioni dei Cobas). Queste due giornate sono state fatte proprie da alcune organizzazioni studentesche e da numerosi collettivi universitari. Riteniamo che quelle due giornate di mobilitazione siano importanti. Cerchiamo di spiegare il perché e, contemporaneamente, il motivo per cui non ci convince affatto la mobilitazione prevista per sabato 26 da alcune associazioni e dai sindacati confederali.
Le false narrazioni
Ragionare in maniera sensata e convincente su ciò che accadrà a settembre nelle scuole e nelle facoltà, in effetti, non è semplice. Pesano, infatti, la cortina di fumo e le false promesse rilasciate a ogni pie sospinto dalla ministra Lucia Azzolina, rilanciate ripetutamente dai media e avallate dai sindacati confederali ed autonomi. Si fa un gran parlare di rientro in sicurezza, di investimenti, di nuovi spazi e assunzioni. Quindi occorre, in primo luogo, cercare di avere un quadro più chiaro.
Ad oggi gli unici provvedimenti in qualche modo certi sono la firma di un protocollo tra il governo e i principali sindacati dove, all’interno di un fiume di parole di cui si fatica a comprendere l’utilità, si fa cenno a una ripartenza in presenza per le scuole dell’infanzia, vengono riportate alcune norme di monitoraggio, viene ribadita la necessità del distanziamento.
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Recovery Fund e l'Imperialismo frugale dell'Unione Europea
di Carla Filosa*
Imperialismo frugale
La semplificazione geniale di Altan, che però richiede sempre capacità critiche, nella vignetta di due signore benvestite a confronto, è forse la spiegazione più evidente e immediata da fornire alle masse sull’uso mistificante del momentaneo significato di “frugale”, di cui si sono auto-fregiati gli stati europei più predatori di questi ultimi tempi. Al raggiro delle parole segue però più rilevante quello del contenuto, relativamente ai 209 miliardi che la bravura e la tenacia di Conte avrebbero strappato all’Europa, cui sarebbe stata chiesta l’inusuale “solidarietà” per la crisi pandemica “in comune”, di cui effettivamente nessun paese dell’Unione è stato economicamente responsabile. Come ormai risulta più chiaro, rispetto alla crisi economica già precedentemente in atto, la crisi sanitaria si è configurata in termini inediti, peraltro inattesa, sebbene già preannunciata da diverse “voci” verosimilmente ben informate. A circa sei mesi dalla sua sconvolgente comparsa, e tuttora innalzando il livello delle difficoltà economiche ormai mondiali nel calo dell’accumulazione di plusvalore, i governi degli stati europei si sono riuniti per affrontare una situazione “comune” all’interno della differenziazione imperialistica che avvicina le prede ai loro razziatori, nella contemporanea gestione di una propaganda per le masse credulone, con narrazioni di umanità fraterna e comprensiva che avrebbe unito un’Europa sempre idealizzata, e perciò mai esistita.
Per chi ancora riconosce nel termine imperialismo il dato di realtà presente, va ricordato che dal punto di vista delle sue precipue condizioni economiche, per quanto riguarda sia l’esportazione dei capitali sia la spartizione del plusvalore da parte dei capitali con base su potenze ex-coloniali e universalmente considerate “civili”, va preso atto che, finché perdura questo regime capitalistico, l’unità europea, sempre auspicata o invocata, è impossibile o può avviarsi prevalentemente verso derive reazionarie.
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Un parlamento “modello Rocco”?
di Ascanio Bernardeschi
Il taglio dei parlamentari è un tassello di un più vasto disegno volto a ridurre gli spazi di resistenza delle classi sfruttate. E noi diciamo No!
Il 20 e 21 settembre si andrà a votare al referendum confermativo dell’ennesima “riforma” costituzionale. Questa volta l’elettorato si deve pronunciare sulla riduzione del numero dei deputati da 630 a 400 e dei senatori da 315 a 200. L’elemento di novità di questo appuntamento è che questa volta si voterà non solo per il referendum, ma anche per il rinnovo dei consigli di sette regioni, dei sindaci e dei consigli di oltre mille comuni e di due senatori in un collegio uninominale della Sardegna e uno del Veneto.
Già questo abbinamento pone dei problemi. Infatti l’importante tema di una riforma costituzionale rischia di essere poco dibattuto nelle realtà dove al centro dell’attenzione saranno i partiti e soprattutto i candidati per le elezioni amministrative e regionali. In periodo di emergenza da coronavirus e con spazi di partecipazione ridotti il rischio è che il popolo italiano giunga a questo appuntamento poco informato.
C’è da considerare inoltre che la percentuale dei votanti al referendum nelle località dove si tengono altri tipi di elezione sarà verosimilmente molto maggiore di quella negli altri territori e quindi che il peso dell’elettorato sarà molto diverso da località a località. A causa di ciò sull’appuntamento elettorale si allunga l’ombra di ricorsi presso l’Alta Corte.
La difficoltà di informare e far ragionare gli elettori si inserirà in un percorso che per i fautori del No sarà tutto in salita. Infatti il taglio dei parlamentari è stato proposto dai partiti populisti cavalcando la stanchezza della gente, il senso comune – purtroppo in buona parte più che comprensibile – che la politica e i partiti sono tutti corrotti, che meno parlamentari mandiamo a Roma e meglio è, che bisogna ridurre il costo della politica in quanto abbiamo sul collo un debito pubblico enorme che mette a repentaglio i diritti sociali: scuola, salute, casa, lavoro, trasporti pubblici.
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«La tecnologia verde non esiste»
Simone Rossi intervista Jeff Gibbs
Planet of the Humans pone domande difficili sul fallimento del movimento ambientalista per fermare il cambiamento climatico e salvare il pianeta. Per cercare una risposta intervistiamo il regista
Rilasciato alla vigilia del 50° anniversario della Giornata della Terra e nel bel mezzo della pandemia globale causata dal Sars-Cov-2, Planet of the Humans ci racconta come il movimento ambientalista ha perso la sua battaglia facendosi convincere che pannelli solari e mulini a vento ci avrebbero salvato e cedendo agli interessi di Wall Street.
Per questi motivi, nessuna sorpresa che il film abbia generato polemiche. È stato criticato come parzialmente obsoleto e fuorviante e alcuni lo hanno accusato di distorcere le energie rinnovabili e di propagandare un “malthusianesimo anti-umano”.
Per fugare ogni dubbio abbiamo deciso di intervistare il regista e sceneggiatore del film, Jeff Gibbs.
Nato a Flint, nel Michigan, Jeff lavora da tempo come collaboratore di Michael Moore. Il primo film a cui ha lavorato è stato “Bowling for Columbine” e ha prodotto scene cult tra cui “la banca che ti dà una pistola”, “cacciatore di cani” e “Michigan Militia”. Dopo il successo di “Bowling for Columbine”, Jeff è diventato co-produttore di “Fahrenheit 9/11”, il documentario campione di incassi di tutti i tempi. Jeff ha anche scritto la colonna sonora originale di entrambi i film. Da “Fahrenheit 9/11”, sebbene si sia preso una pausa occasionale per produrre altri film tra cui il documentario di Dixie Chicks “Shut Up and Sing”, Jeff è stato singolarmente ossessionato dal destino della terra e dell'umanità.
* * * *
Domanda. Ciao Jeff. Grazie per averci concesso l’intervista. Il documentario si basa su dati scientifici. Quanto tempo è stato necessario per raccoglierli e quanto sono affidabili?
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Lukashenko “come Videla”
Il grande blob: odio, paura, menzogna
di Fulvio Grimaldi
Rivoluzioni colorate, la pandemia vera
Ogni volta che ti trovi dalla parte della maggioranza, è il momento di fermarsi e riflettere”. (Mark Twain)
Cercate su Google un’immagine dei 65mila (3000 per i nostri media) che l’altro giorno hanno manifestato per Lukashenko inalberando bandiere rossoverdi (quelle sovietiche). A fatica ne troverete una. Ma ne troverete tantissime con le bandiere biancorosse, quelle del dopo-URSS, di altre migliaia di manifestanti (milioni per i nostri media). Quelle pro-USA e pro-UE. Le uniche viste sui giornali e in tv. E’ la stampa, bellezza.
Badanti
Finora non se n’erano mai viste. A pulire le terga degli anziani non autonomi, a stramazzarsi a lavare scale e cantine, a spingere carrozzelle con vecchi e disabili, a procurare e procurarsi documenti fino alle sevizie e all’esaurimento nervoso, a essere imputati di untorame slavo da Coronavirus, a farsi pagare cinque euro/ora per spazzare una casa da cima a fondo, o svellere uva dai tralci, ad avere come unico momento di tregua e di socialità, in mancanza di figli o dei vecchi rimasti in patria, la panchina al parco con le sorelle della deportazione, ci avevamo le moldave, le ucraine, le bulgare, le rumene, le polacche, qualche russa. Se va male, per strada, a volte nelle “case”.
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Introduzione a Ian Angus: Anthropocene
di Giuseppe Sottile
GMO are an ‘invention’ of corporations, and therefore can be patented and owned.
Ana Isla
Nature, too, awaits the revolution
Herbert Marcuse
Il libro di Ian Angus è stato pubblicato nel 2016. Da allora si sono avute novità e conferme. Il 21 maggio dello scorso anno, l’Anthropocene Working Group ha formalizzato la proposta di considerare quella in cui viviamo una nuova epoca successiva all’Olocene, definita Anthropocene, il cui inizio viene datato a partire dalla metà del secolo scorso, con quella che è stata definita la «Grande accelerazione». Adesso si attende il parere di altri organismi.ii L’AWG individua questa nuova realtà cronostratigrafica in una serie di fenomeni imputabili alle recenti attività umane, che consentono di paragonare “l’umanità” ad una potente e distruttiva forza geologica.
Fondamentali cicli naturali sono stati compromessi a causa dei processi di industrializzazione ed urbanizzazione per come li abbiamo conosciuti e delle attività militari in campo nucleare, cosa che ha procurato il riscaldamento globale a cui stiamo assistendo, nonché una generale devastazione del pianeta; e molti di questi cambiamenti sembra persisteranno per millenni. La più importante traccia (primary marker) che segnala lo spartiacque tra le due epoche geologiche viene individuata nella presenza di radionuclidi dovuta alle esplosioni nucleari, che al ritmo di una ogni 9,6 giorni hanno caratterizzato il Secondo dopoguerra dal 1945 al 1988.
Intanto, vasti incendi hanno interessato la Russia, la California, l’Amazzonia e di recente in misura ancora più drammatica l’Australia, e inondazioni il Sud-Est asiatico. Circa dieci milioni di ettari di vegetazione scomparsi a causa degli incendi e si stimano un miliardo di animali morti nella sola Australia. In fondo, tutto come niente fosse.
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Cambio di paradigma, ad alto rischio
di Dante Barontini
In calce l'intervista di Tatiana Santi a Guido Salerno Aletta
Sollevare lo sguardo dal flusso impazzito delle news ora per ora; individuare una logica, o una tendenza, nel mare magnum senza coordinate stabili; capire dove stiamo andando per vedere se è possibile cambiare direzione prima che sia troppo tardi.
Lo sforzo informativo e analitico che facciamo ogni giorno è spesso superiore alle nostre forze, e dunque siamo abituati ad “aiutarci” con il meglio che troviamo in giro. E’ la ragione per cui pubblichiamo spunti e contributi che ci sembrano importanti, spiegando il legame che vi rintracciamo con quanto andiamo analizzando.
Questa intervista di Sputnik news – sì, sono russi, e allora? – a Guido Salerno Aletta, editorialista autorevole di testate come Milano Finanza e TeleBorsa, fornisce un altro tassello.
Diciamo subito le cose per noi rilevanti, che sottolineiamo in corsivo e grassetto anche nel testo dell’intervista.
In primo luogo il raffronto con l’altra grande crisi di “paradigma”, ossia la crisi petrolifera del 1973. Anche allora un evento geopolitico ed economico di grande dimensione – l’aumento shock del prezzo del greggio, anche fino al triplo – portò a politiche di “austerity” e divieti di ampia portata sulla vita quotidiana dei cittadini.
In quel caso, il “fatto economico” si accompagnava ad una guerra potenzialmente pericolosa (la “guerra del kippur”, tra Siria ed Egitto contro Israele) per gli equilibri mondiali congelati dal bipolarismo Usa-Urss.
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Sul concetto di formazione economico-sociale in Marx
Parte II. L'interpretazione sovietica e althusseriana
di Bollettino Culturale
Qui la Parte I
L'interpretazione sovietica
Durante i decenni che ci interessano ai fini di questo lavoro, la partecipazione di questa matrice interpretativa attorno alla definizione del concetto di formazione economico-sociale avviene in due forme, ma in entrambe resta una concezione specifica, ereditata dal periodo antecedente gli anni ‘50: i rapporti di produzione costituiscono l'elemento di discernimento sia del modo di produzione, sia della formazione economico-sociale, che si definisce dalla coesistenza dei rapporti di produzione con le “sovrastrutture politico-ideologiche”.
Vediamo, inizialmente, come avviene questa costruzione nei manuali di economia politica del periodo indicato, come è il caso di Nikitin, e poi analizzeremo l’analisi fornita da Oskar Lange.
Partendo dalla definizione di economia politica marxista-leninista come scienza che studia le leggi che governano lo sviluppo della società, Nikitin afferma che il movimento e il progresso delle società umane devono essere compresi dalla produzione di beni materiali, come base della vita sociale. La produzione dei beni materiali avviene nell'ambito di un certo processo produttivo che contiene necessariamente il lavoro dell'uomo, i mezzi di lavoro e l'oggetto su cui lavorare. In questo modo, “in qualsiasi fase di sviluppo che si incontra, la produzione ha sempre avuto i seguenti aspetti: le forze produttive e i rapporti di produzione”.
Ecco i due concetti fondamentali per la concezione sovietica dello sviluppo delle società e, di conseguenza, dei modi di produzione e delle formazioni economico-sociali. Le forze produttive sono intese come mezzi di produzione e strumenti di lavoro prodotti nella società e, inoltre, dagli uomini che hanno prodotto questi beni materiali.
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La storia della terza rivoluzione industriale*
6-L’illusione della società dei servizi
di Robert Kurz
Sesto capitolo della sezione VIII dello Schwarzbuch Kapitalismus (“Il libro nero del capitalismo”) di Robert Kurz
Naturalmente le elite funzionali del capitalismo si rendono conto, o quanto meno hanno sentore del fatto che, prima o poi, si arriverà alla fine della corsa. Se non si verificherà al più presto una nuova avanzata della crescita e dell’occupazione su scala globale accadrà ciò che sembrava già incombere drammaticamente, su di uno stadio di sviluppo assai inferiore, durante la prima parte del XIX secolo: lo sgretolamento della società capitalistica, ostinatamente attaccata alla sua forma, nelle guerre civili e negli stati di assedio permanenti, nel terrore e nella follia. Il discorso della «tolleranza zero» è già un sintomo della crescente paura da parte delle elite, che potrebbero perdere completamente il controllo della situazione. Ma poiché, com’è logico, la violenza in uniforme, nuovi campi di correzione e di lavoro non possono generare da soli una nuova accumulazione di capitale, bisogna comunque insistere con la claudicante promessa di un miglioramento economico, anche se quest’ultima sembra essere ormai del tutto insussistente.
La scomparsa definitiva del miracolo economico industriale è ormai un fatto universalmente noto. Nessuno parla più della teoria delle «onde lunghe», un tempo il paradigma della crescita industriale. Conformemente alla tesi della «disoccupazione naturale» di Milton Friedman, esiste oggi un consenso generale fra economisti e consulenti aziendali circa il fatto che la «piena occupazione» non tornerà mai più. Ma per «gestire», in un modo nell’altro, il sistema globale capitalistico nel suo processo di crisi occorre trovare, costi quel che costi, un nuovo settore di crescita per l’«occupazione» per arrestare l’incessante processo di liquefazione almeno in una parte relativamente considerevole dei settori industriali.
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Beirut come Belgrado, Kiev, Teheran, Bengasi, Damasco
Minsk come Caracas, Roma come allora. Anzi, peggio
di Fulvio Grimaldi
I “comunisti” neocon del Terzo Millennio e i loro “rivoluzionari”
In prima pagina, con esaltata gigantografia, titolo e occhiello che un giornale, con la tracotanza di chiamarsi “quotidiano comunista”, dovrebbe dedicare all’ottobre 1917 di Leningrado, al luglio 1789 di Parigi, al gennaio 1959 dell’Avana. E, invece, confermandosi organetto dei neocon globali, sussidiato da pubblicità turbocapitaliste e, indecentemente, da cittadini ignari depredati per questo scopo dallo Stato, celebra in tal modo il contrario di quanto chiedevano le lotte di massa in quegli eventi emancipatori.
Le rivolte in cui il giornale, peggio mimetizzato da indipendente, o di sinistra, si riconosce sono altre. Tutte di destra estrema. Quelle i cui fili dipartono dalla Vedova Nera, il mostro letale che fa tessere la sua tela a Langley, Wall Street, Pentagono, Bilderberg, Davos. Parliamo dei “rivoluzionari libici”, così omaggiati da Rossana Rossanda, dei vari “colorati” alla Otpor, dei “ribelli democratici” di Hong Kong o Portland, di “Black Lives Matter”, Me TooI e affini. E, si parva licet, delle nostrane Sardine, anch’esse fasulle e dunque di vita brevissima, rispetto a quella dei nobili pesci di cui avevano usurpato il nome.
Il modo più facile per riconoscerli è l’uniformità degli slogan, l’attrezzatura logistica omogenea e immediata, la violenza estrema e indistinta nella ricerca del caos, lo sfruttamento di rivendicazioni popolari mutate, su ordine della Cupola, in regime change attraverso il depistaggio su obiettivi che i militari chiamano “falsi scopi”. Immancabili il plauso unanime di tutta la propaganda finto-giornalistica del globalismo, il finanziamento da centrali occulte, ma per niente oscure, tipo Open Society di Soros, Fondazione Ford, Fondazione Rockefeller, National Endowment for Democracy e tante altre.
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Femminismo anticapitalista?
Elementi di una critica del femminismo II*
di Marino Badiale
I. Introduzione
Questo scritto parte dalla convinzione della fine relativamente vicina dell’attuale organizzazione economica e sociale, che a partire dal 1989 si è estesa al mondo intero [1]. Il collasso di questa forma sociale, il capitalismo, dipende dal fatto che essa è entrata in una fase di totale distruttività: sta ormai divorando natura e società, distruggendo in tal modo i fondamenti stessi della propria esistenza.
Se questo dato di fatto è già piuttosto preoccupante, ciò che veramente spaventa è rendersi conto della sostanziale assenza di ogni forma di opposizione o di resistenza al suicidio collettivo verso il quale il capitalismo sta portando l’umanità. Ciò dipende sicuramente da molti fattori, ma credo che uno di questi sia il fatto che chi arriva oggi a sviluppare, in un modo o nell’altro, una coscienza critica anticapitalistica, lo fa attraverso una serie di mediazioni culturali che sono in realtà completamente inadatte a costruire una resistenza effettiva. Anche qui, il discorso per essere completo dovrebbe toccare molti temi (di alcuni ho discusso recentemente [2]). Uno di questi è sicuramente la predominanza, all’interno delle minoranze anticapitalistiche, delle tesi del “politicamente corretto”. Nel breve spazio di questo scritto mi concentrerò su un punto specifico, quello del femminismo, e discuterò l’idea, molto radicata nelle piccole cerchie anticapitalistiche, che il femminismo debba essere parte essenziale di ogni progetto di superamento del capitalismo. Intendo quindi discutere le relazioni fra femminismo e anticapitalismo, e intendo criticare la tesi appena esposta.
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Bielorussia: un futuro complesso tra due imperialismi in lotta tra loro
di Redazione
Le elezioni in Bielorussia hanno portato alla riconferma per la sesta volta consecutiva del presidente uscente Aleksandr Lukašenko, rieletto con l’80,23% dei voti.
È opportuno precisare subito che il presidente bielorusso non è un comunista, ma un “paternalista autoritario”, fautore di “un’economia di mercato socialmente orientata”. Nel 1994, anno della sua prima elezione, basò la sua campagna elettorale su un programma di lotta alla corruzione dilagante negli apparati statali e di introduzione di riforme di mercato e di privatizzazioni meno selvagge che nelle altre repubbliche ex-sovietiche.
Successivamente ha più volte ribadito la necessità di favorire e accelerare la destatalizzazione dell’economia, pur mantenendo il controllo pubblico dei grandi monopoli strategici, organizzati in forma di società per azioni, cioè di imprese capitalistiche, in cui lo stato viene ad assumere il ruolo di “capitalista collettivo”: una cosa ben diversa dalla proprietà socialista. Non stiamo parlando, quindi, di un’economia socialista pianificata, ma di un tipo di gestione della restaurazione dell’economia di mercato in maniera meno selvaggia che altrove. Un capitalismo di stato che, tuttavia, ha permesso alla Bielorussia di ottenere una buona performance economica, con la disoccupazione allo 0,5% (percentuale ben più bassa che negli USA e in tutti gli stati europei), il PIL pro capite più alto tra tutte le repubbliche ex-sovietiche, un apparato produttivo solido e funzionante per il 50% ancora nelle mani dello stato, un welfare molto più sviluppato che in altri paesi, una sanità efficiente ereditata dall’Unione Sovietica e un tenore di vita discretamente elevato. Sono queste le ragioni del relativo consenso di cui gode Lukašenko tra la popolazione.
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Sul concetto di formazione economico-sociale in Marx
Parte I. Il dibattito marxista fino agli anni '50
di Bollettino Culturale
Sfortunatamente Marx non espose formalmente cosa intendeva con il concetto di formazione economico-sociale. Marx utilizza alcune derivazioni per questa nozione, come la formazione sociale, la formazione della società, le forme economiche, ecc., derivazioni che seguono il processo di maturazione della teoria di Marx. Tuttavia, in due occasioni, secondo Sereni, Marx utilizza il concetto di formazione economica della società (Ökonomische Gesellschaftsformation), la cui nozione si avvicina alla concezione attribuita successivamente dagli autori marxisti alla formazione economico-sociale. Dovrebbe essere chiaro che l'obiettivo di questo scritto non è ricomporre il concetto di formazione economico-sociale in Marx, ma piuttosto rivedere il dibattito più recente attorno a questo concetto. A questo punto, è interessante evidenziare in Marx i due contesti in cui sono stati utilizzati tali concetti preliminari, lasciando così una base per il dibattito che svilupperemo intorno all'obiettivo che proponiamo.
Nella Prefazione per la critica dell'economia politica, pubblicata originariamente nel gennaio 1859, Marx fa una retrospettiva della sua formazione politico-intellettuale dove espone il risultato generale dei suoi studi in una sintesi chiara e astratta di dialettica dei rapporti di produzione e sviluppo delle forze produttive dalla concezione materialistica della storia. Dopo aver distinto, nella trasformazione materiale del processo storico, il movimento delle condizioni economiche di produzione dalle forme ideologiche, Marx sviluppa dialetticamente questo movimento, esponendone le implicazioni per società specifiche, dove sottolinea:
“Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza.
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Libano: il collasso del neo-liberalismo e la prima tappa della nuova guerra fredda
di Rete Dei Comunisti
Lunedì 10 agosto il governo libanese si è dimesso a fine giornata, sei giorni dopo l’esplosione che ha devastato il porto ed il centro di Beirut ed al terzo giorno consecutivo di proteste popolari.
L’esecutivo uscente con a capo Hassan Diab era in carica da gennaio dopo le dimissioni di Saad Hariri lo scorso ottobre che erano state provocate da inedite mobilitazioni popolari per la storia recente del Libano.
Lo scorso sabato il premier nel tardo pomeriggio aveva promesso che lunedì avrebbe chiesto “elezioni anticipate”, chiarendo che sarebbe potuto rimanere in carica “per due mesi” cioè il tempo necessario affinché le forze politiche si fossero accordate per tale fine.
Ma l’effetto domino delle dimissioni “a catena” di vari ministri, la pressione popolare e le non poche interferenze straniere hanno spinto per la scelta delle dimissioni “in toto”, aprendo una fase di “vuoto politico” in una situazione sull’orlo della bancarotta economica e con classe dirigente delegittimata.
Per comprendere la situazione che si sta sviluppando nel “Paese dei Cedri” è indispensabile capire come questa sia diretta conseguenza di un modello di sviluppo al capolinea, di un sistema politico che ha portato il Libano ad essere uno “Stato Fallito”, con il concorso dell’Occidente così come delle petrol-monarchie del Golfo.
Il sistema politico di stampo confessionale sostanzialmente tuttora vigente sorto dopo la Seconda Guerra mondiale sulle ceneri del colonialismo francese, è stato costruito più in una logica di spartizione di potere tra notabili delle comunità principali, piuttosto che sulla necessità di dare rappresentanza a tutte le componenti della popolazione del complesso mosaico etnico-confessionale.
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Pensare l'antropocene per evitare la catastrofe
di Roberto Paura
Fino a qualche anno fa, il termine “Antropocene” era noto solo tra i circoli degli addetti ai lavori: geologi, climatologi, ambientalisti e pochi altri. Oggi, questa parola complicata che si basa su due termini greci (anthropos e kainos) è entrata nel linguaggio comune con molta più facilita e velocità di quanto chiunque avrebbe osato sperare. Google sforna 730.000 risultati correlati ad Antropocene (in italiano), ci sono almeno diciassette volumi in italiano che usano questo termine nel titolo, un album della band Il rumore bianco e il docufilm Antropocene. L’epoca umana, girato da Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier con l’abbagliante fotografia di Edward Burtynsky e, per l’Italia (disponibile in Dvd, Blu Ray e Digitale grazie a CG Entertainment), l’ipnotica voce narrante di Alba Rohrwacher, nell’originale affidata ad Alicia Vikander, nota soprattutto per la sua apparizione in The Danish Girl di Tom Hopper, che le valse nel 2016 l’Oscar come miglior attrice non protagonista. Il documentario ci porta in diverse parti del mondo per mostrarci la realtà del concetto di Antropocene, secondo cui, a partire da un certo momento storico (sulla cui datazione gli studiosi si interrogano ancora, ma probabilmente dall’inizio della rivoluzione industriale) l’umanità è diventata la principale forza di cambiamento su scala geologica nel pianeta, superiore a tutti gli altri fenomeni naturali.
La fortuna di questo termine sta nel fatto che offre una visione nuova del problema da tempo noto dei cambiamenti climatici e dei danni ambientali. Anziché considerare tutti questi problemi – l’aumento delle temperature, i fenomeni meteorologici estremi, l’estinzione di specie viventi, la deforestazione, la distruzione della barriera corallina, i danni dell’estrazione di minerali, il buco nell’ozono, l’acidificazione degli oceani, e potremmo allungare questo elenco ancora per parecchie righe – come elementi a sé stanti, l’Antropocene ci offre una cornice epistemologica per tenerli tutti insieme.
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Critica, Capitale e Totalità
di Roberto Finelli
Critica e totalità sono due categorie che entrano nella cultura moderna come intrecciate e inscindibili solo con la filosofia di Hegel. Già Kant, com’è ben noto, aveva fatto della critica la modalità fondamentale di una filosofia che, rinunciando alle astrazioni di una metafisica ontologica dell’Essere o della Realtà Oggettiva, indagasse di fondo le strutture invarianti e trascendentali della soggettività. Ma è propriamente con Hegel che, a partire dalla tesi secondo cui «il vero è l’intero», la critica diventa fattore intrinseco della costruzione di una totalità, giacchè solo attraverso il progressivo autotoglimento di visioni fallaci e parziali si raggiunge la verità di un intero: attraverso cioè la dialettica dell’autocritica e dell’autocontraddizione in cui non può non cadere qualsiasi pretesa di un lato solo particolare o di una configurazione parziale di valore come l’intero. Il finito si toglie da sé medesimo, perché, non riuscendo alla fin fine a coincidere e a consistere solo con sé stesso, è costretto, per necessità interiore, a negarsi e a trapassare in altro.1 La critica qui, ancor più che in Kant, non rimanda più ad alcun osservatore o giudice esterno ma è il giudizio che la realtà stessa produce su sé medesima, in un’autonegarsi attraverso contraddizione, che dovrebbe garantire insieme verità del sapere ed emancipazione dell’agire. Solo che Hegel per dare continuità ai diversi passaggi dialettici ha dovuto forzare, almeno a mio avviso, la natura della negazione, assolutizzandola e ipostatizzandola, fino ad estremizzarla in un purissimo negativo, che non nega alcunché di determinato fuori di sé, ma alla fine null’altro che il proprio negare. Estenuando, con ciò, il nesso fondamentale genialmente istituito tra critica e totalità nella chiusura, invece, di una metafisica immanente del nulla/negazione.
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Quattro modi in cui l’ecologia ci fa dare di matto
di Bruno Latour*
Pubblichiamo un estratto da La sfida di Gaia di Bruno Latour (Meltemi)
Non c’è mai tregua, ogni mattina ricomincia tutto da capo. Un giorno, l’innalzamento delle acque; un altro, la sterilità del terreno; la sera, la scomparsa accelerata dei ghiacciai; dal telegiornale delle venti apprendiamo che, tra un crimine di guerra e l’altro, migliaia di specie sono destinate a scomparire prima ancora di essere state adeguatamente classificate; ogni mese, il tasso di Co2 nell’atmosfera è sempre più elevato, ancor più di quello della disoccupazione; ogni anno che passa, ci dicono, è l’anno più caldo mai registrato dalle stazioni meteorologiche; il livello dei mari non fa che innalzarsi; i litorali sono sempre più minacciati dalle tempeste di primavera; quanto all’oceano, a ogni campagna di misurazione risulta sempre più acido. È quel che i giornali definiscono vivere nell’epoca della “crisi ecologica”. Purtroppo, parlare di “crisi” sarebbe ancora un modo per darsi facili rassicurazioni, per dirsi che “passerà”, che “presto ci lasceremo alle spalle” questa crisi.
Se fosse soltanto una crisi! Se solo fosse stata semplicemente una crisi! Secondo gli specialisti, si dovrebbe parlare piuttosto di “mutazione”: eravamo abituati a un mondo; passiamo, mutiamo in un altro. Quanto all’aggettivo “ecologico”, lo utilizziamo troppo spesso, anch’esso, per rinfrancarci, per porci a una certa distanza dai problemi che ci minacciano: “Ah, state parlando di questioni ecologiche, be’, non sono cose che ci riguardano!”.
Una mutazione nel rapporto con il mondo
Come è già accaduto, d’altronde, nel secolo scorso, quando si parlava di “ambiente” e si designavano con questo termine gli esseri della natura considerati da lontano, al riparo di una teca di vetro. Ma oggi, siamo tutti noi – dall’interno, nell’intimità delle nostre preziose, piccole esistenze – a essere toccati, coinvolti in prima persona, dicono gli esperti, dai bollettini che ci mettono in guardia su quel che dovremmo mangiare e bere, sul nostro modo di sfruttare i terreni, di spostarci da un luogo all’altro, di vestirci.
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Grottesco fachinelliano
di Dario Borso
I. Appena laureatosi in Medicina a Pavia, Elvio Fachinelli si trasferì nel 1953 a Milano, dove lavorò per qualche anno come microbiologo in una grossa industria farmaceutica. Di sera, frequentava una compagnia così descritta quasi mezzo secolo dopo dal poeta Elio Pagliarani, allora giornalista del quotidiano socialista “L’Avanti!”:
Il ritrovo dove ci si vedeva più spesso era la trattoria di Poldo, in via Borgospesso, dove costituivamo un gruppetto abbastanza fisso e piuttosto affiatato: c’era e c’è il mio Virgilio, Luciano Amodio, guida assatanata e indistruttibile, non solo di me medesimo (per lui conobbi i Solmi, Vittorini, Fortini, Basso, Chiara Robertazzi, le tre sorelle Bortolotti, Giancarlo Majorino, Michele Ranchetti, Ettore Capriolo, Sergio Caprioglio che se n’è andato appena un mese fa, Antonino Tullier fra Dada e surrealismo, scomparso già da molto tempo) ma di tutta la giovanissima intellighenzia milanese in quegli anni, almeno così a me pareva allora e ne sono convinto ancora, e c’era Elvio Fachinelli, che non c’è più da troppo tempo1.
In un dibattito riportato su “Il Tempo” del 19 dicembre 1976, Fachinelli aveva ironicamente specificato le dinamiche del gruppetto, dichiarando che nel 1955
era sorta l’idea di fare una rivista, che si chiamasse “Borgospesso”, perché mangiavamo tutti in via Borgospesso. C’erano Elio Pagliarani, Gianni Bosio, Amodio, Giuseppe Bartolucci e tanti altri2. E c’era, telefonato, Fortini. Verso l’ora del profiterol infatti arrivava un cameriere, chiamando Amodio al telefono. Grande irritazione di tutti, sia verso Amodio, che era il prescelto, che con Fortini, che telefonava per “dare la linea”, per farci sapere cosa andava, e cosa no.
E un appunto sparso datato 20 dicembre 1954 (il primo in assoluto conservatoci) fotografa la posizione di Fachinelli stesso, ironica e disincantata:
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Essere marxista, essere comunista, essere internazionalista oggi
di Samir Amin
Da: http://www.rifondazione.it/formazione - [estratto dal libro di Samir Amin LA CRISI. Uscire dalla crisi del capitalismo o uscire dal capitalismo in crisi? Punto Rosso 2009].
Samir Amin è stato un economista, politologo, accademico e attivista politico egiziano naturalizzato francese
Io sono marxista. Per me vuol dire “partire da Marx”. Sono convinto che la critica che Marx ha messo nell’agenda del pensiero e dell’azione – la critica del capitalismo, la critica della sua rappresentazione centrale (l’economia politica del capitale), la critica della politica e del suo discorso – costituisce l’asse centrale e imprescindibile delle lotte per l’emancipazione dei lavoratori e dei popoli.
Io non sono “neo-marxista”. Per esserlo, bisogna confondere Marx e i marxismi storici, il che non è il mio caso. I “neo-marxisti” vogliono rompere con il marxismo storico e pensano che bisogna andare “oltre Marx”. Di fatto, essi si oppongono solo a quelli che io definisco “paleo-marxisti”, cioè ai seguaci acritici del marxismo storico, in particolare il “marxismo-leninismo” nelle sue diverse versioni. Essere marxista come intendo io non significa essere “marxiano” (che trova “interessante” una qualche “teoria” di Marx, isolata dal resto dell’opera), né essere “marxologo”.
Significa necessariamente essere comunista.
Marx non dissocia teoria e prassi. Non si può seguire la scia di Marx se non ci si impegna nella lotta per l’emancipazione dei lavoratori e dei popoli. Essere comunista significa anche essere internazionalista. L’internazionalismo non è solo un’esigenza della ragione umanista. Non si cambierà mai il mondo se si dimentica l’immensa maggioranza dei popoli che lo costituiscono, quelli delle periferie.
Questi popoli hanno la responsabilità del proprio avvenire. Non sono i popoli dei centri imperialisti opulenti che possono da soli “cambiare il mondo” (in meglio). La carità, gli aiuti, l’umanitarismo, che si vuole sostituire all’internazionalismo, inteso come solidarietà nelle lotte, contribuiscono solo a consolidare il mondo come è, o, peggio, ad avviarlo verso la costruzione di un apartheid su scala mondiale.
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Il partito dello stato forte e la battaglia su Keynes
di Vadim Bottoni
La battaglia su Keynes è politicamente importante.
Si ritenga importante tatticamente, strategicamente, dialetticamente o che si condivida integralmente, il pensiero keynesiano ben interpretato fornisce uno strumento utilissimo per chi crede nella centralità dello Stato in economia.
D’altronde basta pensare a quante volte vengono tirate in ballo le politiche keynesiane come risposta alla crisi, come naturali implementazioni della parte economica della Costituzione, come aspetti costitutivi delle moderne economie monetarie, e così via.
Se questo dà la misura della sua importanza, un altro aspetto dà la misura della fragilità del richiamo al pensiero keyenesiano: il fatto è che Keynes risulta tanto nominato quanto poco letto e questo vale sia per i sostenitori che per i detrattori.
Questa fragilità presta il fianco a due tipi di attacchi da parte del mainstream liberista: o il loro qualificarsi come veri keynesiani mentre in realtà ne stravolgono il pensiero, o identificare chi crede nello Stato interventista come falsi keynesiani statalisti, i keynesiani de’ noantri, il cui pensiero non avrebbe non solo nulla a che fare con il (probabilmente) più grande economista del Novecento, ma che per giunta neanche avrebbero letto.
Il caso in questione rientra in quest’ultimo tipo di attacchi, che non sono solo pretestuosi e capziosi, ma sono anche perpetrati spesso senza assumersi l’onere della prova, perché se si scrive su testate prestigiose agli occhi del grande pubblico si eredita quel prestigio che consente di esimersi dalla giustificazione delle invettive.
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