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La ‘cronicizzazione’ della crisi e la necessità di costruire coalizioni sociali
Alberto De Nicola e Biagio Quattrocchi
Appunti per una discussione a venire, a partire dalla giornata seminariale dell’11 settembre nella Scuola estiva di Euronomade
Da più parti si discute sul fenomeno di sostanziale cronicizzazione della crisi capitalistica in Europa. Intendiamo riprendere questo tema nelle nostre giornate della scuola estiva, per tornare a discutere sulla nozione di crisi e sull’ipotesi che questa congiuntura, più che essere interpretata come una fase ciclica che apre ad un nuova stagione di espansione, sembra contenere invece tutti gli elementi di una “nuova forma di regolazione” di lungo periodo del sistema capitalistico. Sorprende che alcuni economisti del mainstream marginalista, anche negli ambienti da cui più direttamente sono provenute le ricette di politica economica centrate sulla austerità di bilancio e la liberalizzazione dei fattori nel mercato del lavoro, sia nata la preoccupazione sul futuro dello sviluppo capitalistico. Lawrence Summers alla conferenza annuale del Fmi nel 2013 suggerisce l’ipotesi che l’economia statunitense in modo particolare, si stia avviando lungo un sentiero di “stagnazione secolare”, aggiungendo che questa potrebbe essere la «questione [principale] del nostro tempo» . Ciò che questi economisti, insieme a tutte le altre teste d’uovo dell’establishment europeo non potranno mai vedere, è che alla base dell’ipotesi realistica della “stagnazione secolare” opera una radicale trasformazione del rapporto sociale capitalistico, maturata lungo il ciclo neoliberale.
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La Germania kantiana, il nuovo spirito umanitario e altre boiate
Cosa c’è dietro l’apertura tedesca ai migranti siriani. Con un’intervista a Vladimiro Giacchè
di Militant
La questione migranti può essere affrontata nei modi più disparati, ma tutti a loro modo fruttuosi per la politica europeista. Lungi dal costituire un “problema”, i migranti sono lo strumento perfetto per aggregare consensi o dissensi, a seconda dei casi. Possono consolidare una leadership o, all’inverso, essere utilizzati per combattere la linea politica avversa. E’ la manna dal cielo per le difficoltà in cui spasima la politica continentale, l’elisir di lunga vita che consente ai governi (e ai media dipendenti) di spostare l’attenzione dai problemi reali a quelli indotti, mentre al tempo stesso alimenta il consenso delle opposizioni populiste e/o direttamente razziste. Oltretutto, da che mondo è mondo, i migranti fruttano anche e soprattutto economicamente. Insomma, se non ci fossero, bisognerebbe inventarli. In effetti, gli attuali flussi migratori sono stati proprio inventati, nel senso letterale del termine, con un ventennio di bombardamenti in giro per il medioriente, di regime change, di guerre umanitarie, di ingerenze esterne. Sono in tutto e per tutto il frutto avvelenato delle politiche occidentali nei diversi territori col tempo trasformati in failed states.
Nel giro di qualche giorno, la Germania si è trasformata da “Stato canaglia”, inviso agli spiriti umanitari in sofferenza per la Grecia, a Stato illuminato, progressista, in linea con l’umanitarismo cattolico e la solidarietà internazionale. Un capitale di consenso veicolato dalle più bizzarre interpretazioni mediatiche, che descrivono in questi giorni la Germania come faro della civiltà europea.
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Capitalismo vs. democrazia
di Michael Löwy
Iniziamo con una citazione tratta da un saggio sulla democrazia borghese in Russia, scritto nel 1906 dopo la sconfitta della prima rivoluzione russa:
“è veramente ridicolo attribuire all’odierno capitalismo maturo (Hochkapitalismus), quale esso viene ora importato in Russia ed esiste in America, un’affinità con la democrazia e la libertà qualunque senso si voglia dare a queste parole […]. Ci dobbiamo invece domandare se la democrazia e la libertà siano possibili a lungo termine sotto il dominio del capitalismo maturo” (1).
Chi è l’autore di questo penetrante commento? Lenin, Trotskij o forse il precoce marxista russo Plechanov? In realtà è Max Weber, il ben noto sociologo borghese. Anche se Weber non ha mai sviluppato questa intuizione, qui sta suggerendo che esiste una contraddizione in termini tra capitalismo e democrazia.
La storia del ventesimo secolo sembra confermare questa opinione: molto spesso, quando è sembrato che il potere della classe dominante fosse minacciato dal popolo, la democrazia è stata messa da parte come un lusso eccessivo ed è stata rimpiazzata dal fascismo – come in Europa negli anni ’20 e ’30 – o da dittature militari, come in America Latina negli anni ’60 e ’70. Fortunatamente non è il caso dell’Europa attuale.
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La rottamazione del Mezzogiorno
di Guglielmo Forges Davanzati
Renzi ha dichiarato che il suo Governo “ha salvato il Mezzogiorno”. È un’affermazione palesemente smentita dall’evidenza empirica. Al di là della propaganda governativa, occorre prendere atto del fallimento delle politiche per il Mezzogiorno degli ultimi decenni, e operare una radicale revisione degli interventi puntando a rafforzare il tessuto industriale dell’economia meridionale
Il Presidente del Consiglio Renzi ha recentemente dichiarato che il suo Governo “ha salvato il Mezzogiorno”. E’ davvero difficile comprendere il senso di questa affermazione: stando all’ultimo Rapporto SVIMEZ, il Pil del Mezzogiorno è inferiore a quello greco, ha fatto registrare una contrazione del 13% dal 2008 a fronte del 7.4% del Centro-Nord, configurando uno scenario che SVIMEZ definisce di “sottosviluppo permanente”. Si tratta di un dato, fra i tanti rilevati nel Rapporto, che non può non destare preoccupazione e che smentisce in modo inequivocabile la propaganda governativa[1]. E si tratta peraltro di un’evidenza confermata dai dati recentemente diffusi dal Ministero delle Finanze, dalla quale risulta che, a fronte di una riduzione del reddito pro-capite in tutte le regioni italiane, le contrazioni di maggiore entità si sono manifestate nelle regioni meridionali e nelle Isole.
Occorre innanzitutto individuare le cause che hanno portato a questo esito. Cause sostanzialmente riconducibili alle seguenti.
1) In primo luogo, in assenza di interventi esterni, un’economia di mercato tende spontaneamente a generare divari regionali e ad amplificarli. Ciò fondamentalmente a ragione del fatto che una volta determinatasi un’agglomerazione di imprese in una data area, per l’operare di economie di scala e di network, e per l’esistenza di centri di ricerca e di facile accesso al credito bancario, le imprese operanti in quell’area sono in grado di realizzare maggiori investimenti (e di generare più intensi flussi di innovazione) rispetto alle aree periferiche.
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La teatralizzazione della sovranità
Edoardo Greblo
Il 9 novembre 1989 il muro di Berlino veniva abbattuto fra gli applausi dell’opinione pubblica di tutto il mondo. Il sogno di un pianeta senza frontiere sembrava finalmente a portata di mano. A neppure vent’anni da quell’evento, il Congresso degli Stati Uniti votava, il 15 dicembre 2005, la legge 6061, che autorizzava l’innalzamento di un muro lungo oltre mille chilometri al confine con il Messico. Non si trattava della prima costruzione di questo tipo, e non era neppure destinata a essere l’ultima. Sia prima sia dopo, molti altri Stati hanno creato o progettato altri muri un po’ dovunque. Ultimo, almeno per il momento, quello che l’Ungheria sta costruendo al confine con la Serbia e che fa seguito a scelte analoghe compiute sia dalla Bulgaria sia dalla Grecia lungo i rispettivi confini con la Turchia e con lo stesso obiettivo: impedire ai migranti di entrare illegalmente nei propri territori nazionali.
Eppure, sino a non molto tempo fa, alcuni salutavano la fine dell’era dello spazio – dell’epoca del limes, dei cordon sanitaires, del Lebensraum – come la “fine della storia”. E quindi della fine dei muri, perché solo nell’era dello spazio il territorio e le sue eventuali fortificazioni erano garanti della sicurezza collettiva e il loro controllo rappresentava la prerogativa sovrana del potere politico: quello degli antichi imperi (la muraglia cinese e il vallo di Adriano), delle città e dei signori feudali del Medioevo (fossati, ponti levatoi, fortificazioni), degli Stati moderni (linee Maginot e Sigfrido), dei blocchi militari contrapposti (muro di Berlino).
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Il gruppo Krisis e il soggetto automatico capitalista
di Lorenzo Procopio
Richiamandosi a Marx le analisi del gruppo Krisis colgono puntualmente le strettissime relazioni che intercorrono tra l’attuale crisi economica e le profonde contraddizioni del processo d’accumulazione del capitale. Lo stesso gruppo di Krisis, sempre in nome di Marx, con un colpo di spugna cancella le differenze di classe e trasforma borghesi e proletari in vittime comuni del soggetto automatico capitalista
Ogni giorno è sempre più evidente che la crisi economica che attanaglia l’intero sistema capitalistico sia destinata a perdurare ancora per un lungo periodo di tempo. Non è più un caso che le ottimistiche previsioni di ripresa economica formulate in questi ultimi anni dai vari organismi internazionali, quali il Fondo Monetario Internazionale o la Banca mondiale, per non parlare delle previsioni dei vari governi dei singoli stati nazionali, sono sistematicamente smentite alla prova dei fatti e la tanto agognata crescita del Pil è rinviata sempre all’anno successivo. Anche il 2014 a livello globale farà registrare una crescita economica irrisoria che non permetterà al sistema capitalistico di recuperare i livelli macroeconomici precedenti lo scoppio dell’attuale crisi.
Le conseguenze sociali di questa crisi economica stanno diventando sempre di più drammatiche, con miliardi di esseri umani scaraventati nella miseria più nera o utilizzati come carne da macello in quella che ormai possiamo definire la guerra imperialista permanente. Infatti non passa un solo giorno durante il quale in qualche angolo del globo non si combatti una guerra funzionale ai processi d’accumulazione e alla conservazione capitalistica.
Non è più un caso che proprio a causa di questa lunga crisi economica molti intellettuali stiano cercando di spiegare il fenomeno recuperando i vecchi arnesi della critica dell’economia politica di Karl Marx. Ciò sta avvenendo non con l’intento di rilanciare una vera alternativa alle barbarie del capitalismo, ma con il preciso scopo di deformare e mistificare il pensiero di Marx
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Falso movimento: sette anni di rivoluzione passiva, sette anni politicamente perduti
di Stefano G. Azzarà*
Non di tradimento bisogna parlare a proposito di Tsipras ma di una sconfitta annunciata di fronte a rapporti di forza impietosi e dell'incapacità politica di gestirla. Il tradizionale trasformismo di casa nostra si è ormai proiettato su scala continentale e fa della sinistra europea un pezzo della rivoluzione passiva in Occidente. Nell'imminente “Syriza italiana” si ricostituisce la maggioranza politica e culturale bertinottiana
Da Prodi a Tsipras, dall'Arcobaleno alla “Syriza italiana”
Grazie alle scelte di Tsipras ci sarebbe ancora la "possibilità di difendere i redditi più bassi e di operare una progressiva resistenza all'applicazione delle parti più regressive del Memorandum”, fino a “riproporre condizioni per un diverso sviluppo", sogna a occhi aperti Alfonso Gianni nel momento in cui il governo greco vara misure draconiane di austerità; "una tre giorni nella prima settimana di novembre, in cui definire in pubblico il profilo di una nuova soggettività unitaria – quella che noi chiamiamo la 'casa comune della sinistra e dei democratici'", annuncia Marco Revelli il giorno dopo l'esplosione di Syriza in almeno tre tronconi. Di fronte a simili prese di posizione il gioco è fin troppo semplice : si confrontino le argomentazioni dei pasdaran di Tsipras oggi con quelle degli ultimi giapponesi del PRC a sostegno di Prodi nel 2008, oppure si rilegga la campagna di “Critica Marxista” a favore della Sinistra Arcobaleno accostandone le tesi a quelle dei fautori della cosiddetta Syriza italiana, e si avrà la misura di come in sette anni non sia cambiata una virgola nel processo di apprendimento della sinistra di casa nostra. Una sinistra che sembra quasi candidarsi a gestire nuovi memorandum e che anche dopo la catastrofe che ne ha cancellato ogni effettualità è preda di un'irresistibile coazione a ripetere gli stessi errori di confusione analitica e subalternità politica.
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La crisi globale e la Pizia cinese
Cronaca di un’estate torrida
Angela Pascucci
Alla fine è arrivato Capitan America sfoderando un tasso di crescita dell’economia Usa che nessuno si aspettava e il rinvio dell’aumento dei tassi di interesse, e i foschi cinesi sono rientrati nei ranghi facendo quello che tutti si aspettavano dovessero fare, pompare soldi nel loro sistema spompato. Le Borse mondiali hanno rimbalzato di sollievo agguantando i rialzi, la “tempesta perfetta” si è dissolta. Fino al prossimo round che, a leggere bene le cronache economiche rosa del giorno dopo, è acquattato dietro l’angolo.
Ragion per cui l’immagine più vera di questa torrida estate di crisi finanziaria resta una sola. Quella di un mondo che, entrato nella seconda fase della grande crisi economica deflagrata nel 2008, non ha ancora capito a che santo votarsi per arginarla. Il disorientamento globale è tale infatti da far apparire surreale, anche alla luce del poi, il raccomandarsi spasmodico alla Cina che nella circostanza è apparsa anch’essa come una Pizia traballante sul suo trespolo fumoso, dal quale nei momenti più critici ha lanciato rimedi, senza apparentemente rendersi conto di dove sarebbero andati a parare.
Breve riassunto. Alle prime avvisaglie di squasso in Borsa, il governo di Pechino prima interviene massicciamente per bloccare il crollo, poi lascia andare rendendosi conto che frenare il panico di 90 milioni di piccoli azionisti incoraggiati dal governo stesso a entrare nel recinto dei razziatori di professione è come andare contro la forza di gravità, e soprattutto in quel momento non servirà a ridare fiato all’economia in panne.
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Il re è nudo! Viva il re!
di Beneath Surface
Approcciarsi a scrivere un pezzo sul pensiero di Keynes è sempre un azzardo, sia per l’immensa autorità dell’economista di Cambridge, sia per la monumentalità della sua opera, di cui sono un illuminante esempio i numerosissimi scritti di critica, perfezionamento e completamento sparsi nei decenni successivi ad opera di altri influenti economisti, in primis Hicks, Modigliani, Tobin, Samuelson e Hansen, sia per l’assenza in tutto il suo scritto di una modellizzazione formale, che fu lasciata ai successori.
Tratterò perciò della teoria keyesiana ortodossa, per quanto completata dalle riflessioni degli autori citati prima, intendendo con ciò soprattutto distinguerla dalla c.d. “sintesi neoclassica” che farà parte a sè in una serie di altri articoli.
La struttura del mio intervento è perciò la seguente: nel presente articolo tratterò i principali contributi della teoria di Keynes all’occupazione, agli investimenti e alla moneta; nel prossimo vedremo il ciclo economico e alcuni pros e cons dei primi due articoli; nel terzo parlerò della sua nuova politica economica basata sulla spesa pubblica in deficit e della politica del commercio estero; in un quarto articolo condenserò alcuni commenti e critiche relativi ai primi tre pezzi; in un quinto articolo vedremo un semplice modello keynesiano in economia aperta.
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Cominciare a finire di lavorare
Intervista a Moishe Postone
Quella che segue, è la trascrizione di un'intervista collettiva fatta da un nutrito gruppo di persone a Moishe Postone, il 23 novembre del 2012, a Madrid, preso la Escuela de Relaciones Laborales. Le domande sono state riassunte, in modo da limitare l'estensione del testo
Domanda: Come può aiutare, la lettura di Marx da lei svolta, i movimenti sociali in generale?
Moishe Postone: Quello che sto tentando di recuperare, è un concetto di capitale che credo sia stato perduto dai movimenti sociali di sinistra. E non solo dai movimenti più recenti. Credo che esista una tendenza a non capire pienamente il sistema, ma di personalizzarlo nei banchieri (ad esempio, nei banchieri tedeschi). E' ovvio che questi stanno giocando un importante (e pessimo) ruolo, ma dobbiamo capire che ci troviamo davanti ad una crisi globale. Il mio lavoro è un tentativo di recuperare categorie molto astratte, come quella del capitale, per iniziare a ripensare il modo in cui intendiamo la natura sistemica del capitalismo, non solo della crisi, ma anche di quello che accade nella crisi. Credo che, per quel che attiene alla coscienza delle sinistre, la guerra fredda sia stata disastrosa. Il movimento comunista internazionale ha trasformato il termine internazionalismo nello schierarsi con un bando, cosa che ha ridotto la capacità critica delle persone di sinistra. Potevano essere molto critici con gli Stati Uniti, ma quello che facevano era limitarsi a difendere quello che stava succedendo in Unione Sovietica. Categorie storiche come il capitalismo ed il socialismo si sono trasformate in categorie spaziali: una zona ed un'altra. Questo è importante in quanto la nuova sinistra ha trasferito questo problema ai nazionalismi del Terzo Mondo. [Questa forma di pensiero] riduce la capacità critica delle persone di sinistra nel trattare a fondo determinate situazioni, nel preciso momento in cui è urgente creare una nuova forma di internazionalismo, che sia realmente internazionale, e non solo una somma di nazionalismi buoni e cattivi.
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Il male oscuro (ma non troppo) del Capitale
di Giovanni Di Benedetto
Prosegue su Palermograd il dibattito avviato dagli interventi di Totò Cavaleri (9 Aprile 2015) e Calogero Lo Piccolo (3 Giugno 2015) su disagio mentale, desiderio, lavoro e nuove forme di schiavitù del godimento. L’intento è quello di tracciare una cartografia in grado di individuare le forme della sofferenza psichica nell’attuale contesto sociale e di provare a legarle all’analisi della società capitalistica, alle forme contemporanee del lavoro e del suo sfruttamento
Alcuni articoli comparsi negli ultimi mesi su Palermograd hanno provato a sottolineare il nesso strettissimo che lega le condizioni del benessere psicologico soggettivo e l’assetto della sfera dei rapporti sociali e di produzione dell’attuale formazione sociale dominata dal modo di produzione capitalistico. Mi riferisco, nella fattispecie, alle riflessioni di Calogero Lo Piccolo e Totò Cavaleri. Si sottolineava, in particolare, come il campo dell’attuale crisi economica abbia determinato un conseguente incremento di infelicità e malessere, aggravato peraltro dalla percezione di non reversibilità di una tale condizione di naufragio e spaesamento. In una recente intervista, l’economista Emiliano Brancaccio ammoniva chi, in Italia, si è recentemente esaltato per l’andamento dell’economia e dell’occupazione ricordandogli che se alla fine del 2015 l’occupazione, come previsto dalla Commissione Europea, dovesse crescere di 130.000 unità, ci troveremmo comunque con un milione di posti di lavoro in meno rispetto al 2008. Stesso discorso andrebbe fatto per la tanto celebrata economia della Spagna che si ritroverà, alla fine dell’anno, con due milioni e mezzo di occupati in meno in confronto all’anno in cui è esplosa la crisi dei mutui subprime. Il governo greco, alla vigilia del referendum a seguito della rottura delle trattative sul debito, rottura, è bene ricordarlo, voluta dai “creditori” della Troika, ha pubblicato alcune significative informazioni sulla situazione economica del Paese. L’austerità, imposta dalle istituzioni europee, dal Fondo monetario internazionale e dal governo tedesco, ha prodotto i seguenti risultati: tra il 2010 e il 2014 la pressione fiscale è cresciuta di 5 punti percentuali rispetto al Pil, la spesa pubblica è diminuita di un quarto e i salari monetari sono caduti di 20 punti percentuali.
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Elvio Fachinelli: il clinico che ridefinì l'osceno
Pietro Barbetta
Tempo fa William Buckley rimproverava Allen Ginsberg di comporre opere oscene per via del suo linguaggio; invitato a una trasmissione televisiva gestita dallo stesso Buckley, Ginsberg rispose che oscene non sono le parole, ma le morti durante l'allora guerra del Viet-Nam.
La biografia culturale di Elvio Fachinelli (1928-1989) sembra una genealogia Biblica. Il suo analista fu Cesare Musatti (1897-1989), il quale – considerato uno dei Padri della psicoanalisi italiana – si formò con Edoardo Weiss (1889-1970), il primo psicoanalista italiano. Weiss era, a sua volta, in supervisione dallo stesso Sigmund Freud. Nonostante le sue origini nobili e ortodosse, Fachinelli fu tra gli psicoanalisti che più cambiarono la psicoterapia in Italia.
In primo luogo rifiutò l'idea di “resistenza del paziente” a favore dell'accoglienza della “persona che frequenta l'analisi”, spostando la responsabilità della terapia sull'"esperto”. Negli anni Settanta nacque e si diffuse la strana idea che se c'è fallimento nella relazione tra il professionista e il suo utente, la responsabilità è del professionista, non dell'utente. Per esempio, se un tempo una persona moriva legata a un letto, si attribuiva la morte alla furia della persona. Basaglia per primo ebbe l'idea di invertire l'ordine delle responsabilità nei manicomi. Don Milani invertì l'ordine delle responsabilità nelle scuole. Lo stesso Fachinelli contribuì, con altri autori, a fondare una scuola libera, nell'epoca in cui veniva messo in discussione il ruolo dell'insegnamento.
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Il Regime del salario. Prefazione
di Ferruccio Gambino
Uscirà domani [4 settembre, n.d.r.] Il regime del salario, l’ebook del collettivo Lavoro insubordinato che raccoglie tutti gli interventi pubblicati sul Jobs Act e le trasformazioni che esso produrrà sull’organizzazione del lavoro in Italia. Pubblichiamo oggi in anteprima la prefazione di Ferruccio Gambino
Questa premessa intende rilevare alcuni effetti della politica del lavoro nell’Eurozona (19 paesi nel 2015) e in particolare in Italia, in considerazione del processo di mercificazione del lavoro vivo in corso. Seguono poi undici articoli che esaminano in modo circostanziato aspetti cruciali del regime del salario e delle sue tendenze in Italia. Questa premessa vuole limitarsi a offrire qualche coordinata per rammentare che il fenomeno di frammentazione della forza-lavoro è in realtà una serie di tentativi che procedono da tempo e che vanno di pari passo con più aggressivi esperimenti in altri continenti e in particolare nell’Asia orientale. Dunque, nell’Eurozona vanno sostenute quelle forze che si oppongono ai disegni dell’odierno capitale industriale e dei servizi e che sono motivate a non cedere terreno.
Le politiche adottate negli scorsi 35 anni nell’UE hanno mirato e mirano a deteriorare i salari e di conseguenza le condizioni di lavoro. L’onda lunga della casualizzazione del lavoro salariato si era sollevata già alla fine degli anni 1970 negli Stati Uniti con la politica antinflazionistica di Paul Volcker alla guida della Federal Reserve (agosto 1979) e il conseguente aumento della disoccupazione oltre il 10% nel 1981. L’onda è ben lontana dal placarsi. Di solito, l’abbassamento dei livelli di occupazione prepara l’attacco alla busta-paga. Nell’Eurozona la crisi dell’occupazione ha comportato una continua pressione sulla massa salariale che poi si è aggravata con il rafforzamento dell’euro rispetto al dollaro. Nell’ultimo quadriennio (2008-2011) degli otto anni di direzione di Jean-Claude Trichet alla Banca centrale europea (BCE) il numero dei disoccupati è schizzato nell’Eurozona, fino a raggiungere la cifra da primato di 19 milioni nel 2012 (più dell’11% delle forze di lavoro), poco dopo l’uscita di scena del banchiere francese; né si vedono segni di significativa flessione del fenomeno nello scorso triennio.
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Il male della povertà
Federico Teani
(Ricevo da Federico Teani, che lavora in Rwanda dal 2010 come missionario laico “fidei donum”, queste pagine di riflessione sulla povertà e sulla cosiddetta vita indegna di essere vissuta, che volentieri pubblico. C.B.)
Ho letto per la prima volta Lettere luterane in Italia e non è successo niente, le ho riprese quando già mi trovavo in Rwanda e il primo scritto, I giovani infelici, ha attraversato da parte a parte il mio cuore.
Leggendolo è facile intuirne la ragione. Pasolini esordisce confessando di non aver mai compreso il motivo del teatro greco che fa ricadere la colpa dei padri sui figli, questo gli è sempre parso come qualcosa di estraneo ed appartenente ad un altro tempo, ma nel momento in cui scrive, siamo agli inizi del ’75, crede che per la prima volta sia possibile per il lettore moderno fare esperienza diretta di quella verità. Lui, che ormai appartiene alla generazione dei padri, prova infatti verso i figli un sentimento di condanna che nasce da una “cessazione di amore”, ma questi figli infelici sono puniti per una colpa che è stata commessa dai padri, una colpa senza dubbio gravissima, “forse la colpa più grave commessa dai padri in tutta la storia umana”. Qual è questa colpa? Non è né il vecchio né il nuovo fascismo dei consumi perché si tratta di una colpa condivisa da “fascisti e antifascisti, padroni e rivoluzionari”. Per comprenderlo occorre prima rendersi conto di un fatto nuovo, i giovani di cui si sta parlando non sono soltanto figli borghesi né soltanto figli proletari poiché per la prima volta le due storie, quella del popolo e quella della borghesia, si sono unificate sotto il segno dello sviluppo. Nessuno si è opposto veramente a questo processo, perché?
Perché c’è – ed eccoci al punto – un’idea conduttrice sinceramente o insinceramente comune a tutti: l’idea cioè che il male peggiore del mondo sia la povertà e che quindi la cultura delle classi povere deve essere sostituita con la cultura della classe dominante. In altre parole la nostra colpa di padri consisterebbe in questo: nel credere che la storia non sia e non possa essere che la storia borghese.
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Sotto il cielo dell’”Interregno”
Beppe Caccia e Sandro Mezzadra
Note preliminari sul metodo politico della trasformazione oggi
È ormai alle nostre spalle il luglio greco, con l’entusiasmante vittoria dell’OXI al referendum del 5 luglio e con il famigerato “accordo” di una settimana dopo. La Grecia resta comunque al centro dell’attenzione, non solo per quel che riguarda il dibattito all’interno della “sinistra” internazionale ma anche per gli scenari aperti dalle dimissioni di Tsipras, dalla scissione di Syriza e dall’annuncio di nuove elezioni a fine settembre. Sono scenari complessi, in cui in gioco sono tra l’altro la natura di Syriza e la democrazia interna al partito dopo la nascita di “Unità popolare”, le prospettive politiche ed elettorali di quest’ultima formazione, il rapporto che i movimenti intratterranno con le istituzioni nella nuova congiuntura. Nessuna scorciatoia auto-consolatoria, nessuna ricetta ideologica derivata dalle categorie e dagli schemi del passato può funzionare di fronte alle contraddizioni del reale, che qui si manifestano con inedita violenza. In questo intervento, non ci proponiamo tuttavia di affrontare direttamente questi temi e queste contraddizioni. Quel che vorremmo tentare, piuttosto, è di formulare alcuni criteri di metodo che possano orientare in questa fase, dal punto di vista di una politica che punta alla trasformazione radicale dell’esistente, il giudizio su una situazione come quella greca, e inevitabilmente su quella europea che in essa si rispecchia.
In questa fase, abbiamo detto: in una fase che continua a essere segnata dalla crisi e da una transizione dall’esito incerto, tanto in Europa quanto su scala globale. La categoria gramsciana di “interregno” è parsa a molti, negli ultimi tempi, particolarmente calzante per descrivere alcuni tratti del nostro presente.
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La «neutralità» che difende Golia
Scienza, feticismo dei “fatti” e rimozione del conflitto
di Mariano Tomatis (*)
Tra le pagine de Il regno Emmanuel Carrère rileva che in materia di fede «la neutralità non esiste. È come quando uno dice di essere apolitico: significa soltanto che è di destra.» (1) Il paradosso, già affrontato qui da Wu Ming 1, si ripresenta negli ambiti più insospettabili – perfino nella divulgazione scientifica. Con quale credibilità il giornalismo scientifico può definirsi neutrale? E più in generale, il lavoro del giornalista scientifico è compatibile con l’espressione di una chiara e argomentata posizione politica?
In Italia il dibattito sul punto è stato recentemente sollevato da Andrea Ferrero su Query N. 21 (2015), la rivista del Cicap (Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze). Il suo articolo «Dai fantasmi agli OGM: affrontare la complessità» prende spunto da una trasformazione: nel 1989, quando il Cicap fu fondato da Piero Angela, l’acronimo si chiudeva con la parola «Paranormale»; nel settembre 2013 il termine venne sostituito con un più ampio riferimento alle «Pseudoscienze». Invitando colleghi e simpatizzanti “scettici” del Comitato a prendere atto delle conseguenze di una scelta del genere, Ferrero segnala la crescente complessità dei temi che ricadono nel nuovo perimetro:
«Quando ci chiedono di prendere posizione su riscaldamento globale, OGM, sperimentazione animale, rispondere diventa molto più difficile. Ci sono sempre affermazioni da controllare […] ma la grossa differenza è che, una volta verificate le affermazioni e smascherate le bufale, il problema non si esaurisce, perché rimangono degli aspetti fondamentali ai quali non può rispondere la comunità scientifica. (2)»
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Laudato si’, la ripresa del cammino nel mondo
Roberto Donini
La “Laude” di Papa Francesco, l’enciclica Laudato si’, sulla cura della casa comune ha portata epocale ma è banalizzata ad ecologia dai media e a decrescismo dai progressisti. Non nascondo il mio stato d’animo e dunque il mio preconcetto: questo “Canto di Cura” mi ha commosso, che non significa solo emozionato ma interrogato nel profondo.
La scelta della decrescita
E’ certo “L’enciclica della complessità” come dice P.L. Fagan (http://www.linterferenza.info/contributi/lenciclica-della-complessita/) ed è inevitabile laddove pone un complesso mondo com’è la cattolicità di fronte alla complessa crisi della terra; tuttavia con il rischio di semplificare e renderla parziale ritengo si possa approssimare che l’enciclica faccia con decisione la scelta della decrescita e dunque indichi una sintesi. Nelle 10 tesi dalla 189 alla 198, Francesco d’Assisi si fa Cristo (il messia): fino a quel punto del testo c’è stato il vasto canto del creato (l’ambiente) e delle creature (il popolo) ora c’è l’irruzione nel tempio e la cacciata dei mercanti. La tesi 189, quella più nota, riprende il tema della crisi finanziaria della tesi 109 ma qui c’è la potenza di un fendente perché precipita il ragionamento in una determinazione storica “la crisi finanziaria del 2007-2008” e in uno schieramento di battaglia“il salvataggio ad ogni costo delle banche”. Nella prosa del testo l’episodio invera le argomentazioni generali “critiche” (alla tecnocrazia, all’antropocentrismo, alla finanza) sin lì sostenute, giustifica decisamente la Decrescita come prospettiva forte di uscita dalla complessità e distruttività della crisi.
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Un banale “viaggiatore zaino in spalla” risponde a Giulia Innocenzi
Luigi Farrauto
Cara Giulia Innocenzi.
Che dolore, leggere il suo reportage. Come essere umano sono dispiaciuto per le disavventure che ha vissuto in Iran, paese che ho visitato due volte e in cui ritornerei altre mille. Paese che ho convinto molti miei amici — e amiche — a visitare, ma non è molto importante in questa sede raccontarle il loro giudizio, al ritorno. Parrebbe come un’inutile battaglia a colpi di “a me ha fatto innamorare”, come a voler compensare la sua esperienza negativa, che certo non si può cancellare.
Ma sono addolorato, perché la risonanza delle sue parole ha un peso molto più forte di quello che potrei direi io sul paese, o le tante persone che viaggiano in Persia ogni anno (tant’è che il Corriere della Sera ha subito pubblicato le sue disavventure, non le mie, né quelle dei tantissimi viaggiatori che raccontano l’Iran con parole magnifiche).
Come si può rispondere o commentare a ‘palpate al sedere’, ‘inseguimenti’, ‘uomini che fanno mostra del proprio pene’ o ‘aggressioni fisiche’? Riportando esperienze diametralmente opposte vissute nel medesimo paese si farebbe il gioco della bilancia, e in questo caso non è la cosa più importante.
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Quante balle sono state raccontate sull’Iran
Fabrizio Marchi
E’ ora di cominciare a smascherare un’altra delle tante menzogne che ci sono state propinate da decenni a questa parte dai media occidentali, nessuno escluso, come sempre, da “sinistra” a “destra”.
Quella in base alla quale l’Iran, una delle culle della civiltà mondiale, così come tanti altri paesi del mondo, sarebbe una sorta di inferno oscurantista e medioevale governato da fondamentalisti sanguinari e popolato da masse di esaltati, integralisti e invasati ma anche da una minoranza (ma potenziale maggioranza) di persone che, se potessero (se cioè non gli fosse impedito con la forza bruta dai “cattivi” e barbuti imam e dai loro seguaci), opterebbero senz’altro per il “way of life” occidentale; ergo, a diventare dei bravi cittadini democratici, “partecipativi”, civili e tolleranti (consumatori passivi, mercificati e precari privi di ogni coscienza e identità?…) chiamati periodicamente a ratificare i propri governanti-amministratori.
Peccato che questo “esercizio” di democrazia, pur con tutti i suoi limiti (vale anche per l’Iran ciò che vale per le democrazie occidentali) in Iran sia già ampiamente praticato, a differenza di tanti altri paesi dell’area mediorientale e non solo.
L’Iran, infatti (audite, audite!), è un paese nella sostanza più democratico rispetto a tanti paesi occidentali dove ormai la dialettica politica maggioranza/opposizione è ridotta ad una finzione, a cominciare dagli USA dove i repubblicani/conservatori e i democratici/progressisti si dividono sullo spinello libero e sul matrimonio gay ma non certo sulla natura e sulla vocazione capitalista e imperialista della loro nazione, chiamata ad assolvere ad una sorta di compito messianico, di missione escatologica che la Storia le avrebbe assegnato (“gli USA, l’unica nazione indispensabile al mondo” come ha coerentemente dichiarato lo stesso Obama).
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«Euro sì, Euro no». Oltre la dimensione afasica della “gabbia d’acciaio” capitalistica
Carmine Fiorillo e Luca Grecchi
Il refrain “Euro sì, euro no”/L’errore dei “No euro critici verso il modo di produzione capitalistico”/Tre notazioni per correggere la rotta/Il limite dell’approccio monetario e geografico/Il “contingente” elude la presa in carico di una progettualità umanistica e comunitaria//Oltre la dimensione afasica della “gabbia d’acciaio” capitalistica/Qualche minimo contenuto per affrontare il problema/Le scorciatoie non esistono
Il refrain “Euro sì, euro no”
Oramai da qualche anno il dibattito pubblico delle forze più “radicali” nel panorama politico italiano, si incentra sul tema della permanenza dell’Italia nell’euro e nella Unione Europea. Associazioni, blog, perfino trasmissioni televisive, vivono sul refrain “Euro sì, euro no”. Rispetto ad altri temi, il dibattito in questo caso è anche sostenuto da una discreta schiera di studiosi, che hanno nel tempo apportato molti contributi.
L’errore dei “No euro critici verso il modo di produzione capitalistico”
Ci pare tuttavia che la doppia tesi sostenuta dai “No euro critici verso il modo di produzione capitalistico” – ossia: a) che l’uscita dall’euro e dalla UE sarebbe sicuramente benefica per le classi subalterne; b) che essa costituirebbe la principale condizione necessaria per favorire una progettualità anticapitalistica –, sia per la prima parte (a) incerta, e per la seconda parte (b) errata.
Per iniziare ad argomentare, chiariamo subito – per evitare che sussistano equivoci sul punto – di essere pienamente consapevoli che l’euro e l’Unione Europea sono strumenti del modo di produzione capitalistico, e come tali utilizzati solo in favore del capitale.
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Note sul Capitale
(Capitale e mutamento storico)
di Moishe Postone
- I -
1. L'enorme trasformazione epocale del mondo negli ultimi decenni ha indicato drammaticamente che l'attuale teoria sociale e storica dev'essere intesa come centrale rispetto alle dinamiche storiche ed ai cambiamenti strutturali su larga scale, se vuole dimostrarsi adeuata al nostro universo sociale.
2. La categoria marxiana di capitale è di importanza cruciale per quel che riguarda la costituzione di una tale teoria del mondo contemporaneo - ma solamente se essa viene riconcettualizzata in modo da distinguersi sostanzialmente dai modi nei quali la categoria di capitale è stata recentemente usata nei diversi discorsi delle scienze sociali, così come nelle interpretazioni marxiste tradizionali.
3. La categoria di capitale che presenterò, allora, ha ben poco in comune con i modi in cui "capitale" viene usato da una grande varietà di teorici, che vanno da Gary Becker, passando per Bourdieu, fino ad arrivare a molti marxisti per i quali "capitale" generalmente si riferisce ad un surplus sociale di cui ci si appropria privatamente. All'interno di quest'ultimo quadro interpretativo, capitale è essenzialmente surplus di ricchezza nelle condizioni di sfruttamento di classe astratto e non palese.
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La distruzione del tempio di Baal a Palmira. Lettura geopolitica
di Piotr
Geopolitica e arte nella crisi sistemica. Usano la narrazione del fondamentalismo islamico per distruggere le basi mitopoietiche della civiltà umana
Quando visitai il tempio di Baal a Palmira rimasi affascinato e commosso.
Era l'anno prima dell'inizio della cosiddetta (dai nostri media e intellettuali) "rivolta anti Assad", ovvero l'attacco imperiale con mercenari tagliagole alla Siria.
E tagliagole lo sono. L'ultima gola tagliata è stata quella di Khaled al-Asaad, ottuagenario direttore dei siti archeologici di Palmira.
Dopo la sua decapitazione l'ISIS ha distrutto il tempio di Baal. Me lo aspettavo da tempo. Lo hanno fatto ieri.
Chi non lo ha già visto non lo vedrà mai più.
L'impero in difficoltà, e pertanto pericolosissimo, non vuole davanti a sé nazioni, civiltà, società strutturate e potenzialmente solidali (e qui i devoti dellareligionelaicista, quella del genitore 1 e genitore 2, devono riflettere molto). Sono di ostacolo, anche quando non sono direttamente "competitor". Perché coi competitor possono allearsi o anche solo rimanere neutrali e quindi ostacolare le manovre imperiali di aggiramento, avvolgimento, conquista e minaccia.
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Stagnazione secolare o caduta tendenziale del saggio di profitto
di Vladimiro Giacchè
1. Il ritorno dello “stato stazionario”: la “stagnazione secolare”
La teoria economica ha recentemente riscoperto il concetto di «stato stazionario». È accaduto nel novembre 2013, allorché l’economista statunitense Laurence Summers ha parlato di «stagnazione secolare» (secular stagnation) in un discorso al Fondo Monetario Internazionale, per tornare sul tema pochi mesi dopo, nel febbraio del 2014, davanti agli economisti d’impresa statunitensi. In verità non si tratta di una teoria originale, ma di un revival: perché di «stagnazione secolare» aveva parlato nel 1938 l’economista Alvin Hansen rivolgendosi al presidente degli Stati Uniti1 .
Dopo Summers, l’idea è stata ripresa da altri economisti ed è attualmente al centro di un vivace dibattito, il cui contesto è stato così sintetizzato:
«Sei anni sono passati dallo scoppio della Crisi Globale e la ripresa non è ancora soddisfacente. I livelli di prodotto interno lordo sono stati superati, ma poche economie avanzate sono tornate ai tassi di crescita pre-crisi nonostante anni di tassi d’interesse praticamente a zero. Inoltre, cosa preoccupante, la crescita recente ha un vago sentore di nuove bolle finanziarie. La lunga durata della Grande Recessione, e le misure straordinarie necessarie per combatterla, hanno originato una diffusa sensazione, non meglio definita, che qualcosa sia cambiato. A questa sensazione ha dato un nome a fine 2013 Laurence Summers, reintroducendo il concetto di ‘stagnazione secolare’»2 .
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Sicurezza e guerra all’alba del XXI secolo: il grande gioco
di Aldo Giannuli
Ancora oggi, l’opinione più diffusa fa coincidere i problemi della sicurezza dello Stato con quelli di natura militare: la parola guerra è ancora associata all’idea di scontri di aerei, carri armati. Ma da oltre mezzo secolo le cose sono andate mutando.
Proprio l’impossibilità di giungere ad una guerra aperta fra i due grandi blocchi – pena un conflitto nucleare reciprocamente distruttivo - spinse a cercare altre strade per piegare la volontà dell’altro alla propria, cioè, altre forme di guerra.
Il concetto di strategia andò affrancandosi dall’ originaria pertinenza militare, diventando un concetto molto più ampio:
<<...ho voluto di proposito collocarmi sul piano della strategia totale, quella che ha per oggetto di condurre i conflitti, violenti o insidiosi, contemporaneamente nel campo politico, economico, diplomatico, militare, e che presenta pertanto un carattere generale. Infatti, la strategia diventa in genere inintelligibile se si limita al campo militare, in quanto troppi fattori decisivi sono trascurati..>>
Dal momento in cui Beaufre scrisse queste righe (1963) è passato mezzo secolo in cui il concetto di strategia è diventato sempre più onnicomprensivo, inghiottendo l’economia, la ricerca scientifica, il sistema satellitare, la finanza, la propaganda politica, le reti telematiche, ecc. e le guerre sono sempre meno guerre aperte ed a carattere militare, mentre diventano sempre più commerciali, valutarie, finanziarie ecc.
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Passioni ludiche senza desiderio
di Jean Baudrillard
“Nessun giocatore deve essere più grande del gioco stesso”. La battuta di un film a suo modo chiave, Rollerball, veniva posta da Jean Baudrillard in esergo al terzo capitolo del suo De la séduction, pubblicato nel 1979 per i tipi di Galilée, edito in Italia da Cappelli e poi da SE, per la traduzione di Pina Lalli. Proprio da questo lavoro pubblichiamo un estratto, importante per la riflessione sul “destino politico della seduzione”. Un destino che si dipana, nel suo asse centrale, proprio attraverso le dinamiche del gioco e della regola. Un gioco che “assorbe non solo il giocatore, ma il mondo”, scriveva Baudrillard e lo consegna all’infinita deriva del ludico
È quello che dice il Diario del seduttore: nella seduzione non c’è nessun soggetto padrone di una strategia, e quando questa si dispiega nella piena consapevolezza dei mezzi posseduti, è ancora sottomessa a una regola del gioco che le è superiore. Drammaturgia rituale al di là della legge, la seduzione è un gioco e un destino che conduce ineluttabilmente i protagonisti verso la propria fine, senza che la regola sia infranta, poiché è lei che li lega. E l’obbligo fondamentale è che il gioco continui, sia pure a costo di morire. Una specie di passione lega dunque i giocatori alla regola che li lega, e senza la quale non sarebbe possibile giocare.
Comunemente viviamo nell’ordine della Legge, anche e persino quando abbiamo il fantasma di abolirla. L’unico al di là della legge per noi concepibile è la trasgressione o l’eliminazione del divieto. Infatti, il modello della Legge e del divieto governa il modello inverso di trasgressione e liberazione. Ma in realtà, quel che si oppone alla legge non è affatto l’assenza di legge, è la Regola.
La regola gioca su una concatenazione immanente di segni arbitrari, mentre la Legge si fonda su una concatenazione trascendente di segni necessari. L’una è ciclo e ricorrenza di procedure convenzionali, l’altra è un’istanza fondata su una continuità irreversibile. Per l’una esistono soltanto obblighi, per l’altra costrizioni e divieti. La Legge può e deve essere trasgredita, perché instaura una linea di spartizione. Di contro, non ha alcun senso «trasgredire» una regola del gioco: nella ricorrenza di un ciclo, non c’è linea da oltrepassare (si esce dal gioco, punto e basta).
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