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I vostri segreti in vendita
di Pratap Chatterjee
Immaginate di poter gironzolare non visti attraverso una città, intrufolandovi a vostro piacimento in qualsiasi momento, di notte o di giorno, in case e uffici. Immaginate di poter osservare, una volta all’interno, tutto quel che succede, non notati da altri, dalle combinazioni delle casseforti bancarie agli incontri clandestini di amanti. Immaginate anche di essere in grado di registrare silenziosamente le azioni di tutti, che siano al lavoro o al gioco, senza lasciare traccia. Tale onniscienza potrebbe, naturalmente, rendervi ricchi, ma, cosa forse più importante, potrebbe rendervi molto potenti.
Tale scenario da romanzo di fantascienza futurista è oggi di fatto quasi una realtà. Dopotutto la globalizzazione e Internet hanno collegato tutte le nostre vite in un’unica fluida città virtuale dove tutto è accessibile al tocco di un polpastrello. Depositiamo il nostro denaro in casseforti in rete; conduciamo le nostre conversazioni e spesso ci spostiamo da un luogo all’altro con l’aiuto dei nostri dispositivi mobili. Quasi tutto ciò che facciamo nel regno digitale è registrato e sopravvive per sempre nella memoria di un computer cui, con il software e le password giuste, altri possono avere accesso, che lo vogliate o no.
Ora – ancora un momento d’immaginazione – che ne direste se ogni vostra transazione in quel mondo fosse infiltrata? Se il governo avesse pagato sviluppatori per inserire botole e passaggi segreti nelle strutture costruite in questo nuovo mondo digitale per tenerci continuamente connessi gli uni agli altri?
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Invadiamo i Cie, gabbia di gabbie
Un giorno al centro di Ponte Galeria, il più grande d'Europa
di Christian Raimo
Venerdì mattina sono entrato per la prima volta in un Cie, un centro di identificazione e di espulsione. Ero al seguito del senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani, che portava ai detenuti del centro di Ponte Galeria una lettera che il presidente Napolitano aveva scritto in risposta a quella che gli era arrivata da una serie di detenuti che avevano protestato nelle settimane passate arrivando a cucirsi la bocca.
Era la prima volta che entravo in un Cie, e mi è dispiaciuto che non l’avessi fatto prima. Avrei capito con una chiarezza cristallina alcune cose sulla politica italiana e europea degli ultimi dieci anni.
Il Cie di Ponte Galeria è il più grande di Europa. Visto da fuori è una specie di caserma gigante. Si trova accanto alla Fiera di Roma. Anzi, a dire il vero, si trova attaccato al parcheggio dell’entrata Nord della Fiera di Roma. Non c’è nessuna indicazione che porti al Cie, sembra veramente un non-luogo nella landa della non-luoghità. Lasci la macchina in questo enorme parcheggio vuoto, la desolata stazione della ferrovia per Fiumicino da una parte, e scale mobili che non trasportano nessuno per ore dall’altra: Paolo Virzì l’aveva giustamente presa come location di Tutta la vita davanti.
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Appunti sulla guerra valutaria II
Stefano Lucarelli
Dopo un’anno di incremento delle borse mondiali (2013), iniziano le prime avvisaglie di un’instabilità congenita (strutturale), questa volta derivante dalle tensioni valutarie che hanno attraversato, in particolar modo, i paesi emergenti. In questo articolo Stefano Lucarelli fa il punto della situazione, con un’analisi attenta e puntigliosa della situazione in atto, mettendo in luce come i movimenti dei capitali internazionali siano ancora attratti dalla supremazia del dollaro Usa. Un altro tassello della “critica della crisi”. La prima puntata degli Appunti sulla guerra valutaria può essere letta qui.
* * * * *
1. Il 2013 è stato un anno caratterizzato da menzogne, o – se preferite – da maldestri tentativi di governare le aspettative sui mercati finanziari, sulle relazioni industriali, sul futuro degli assetti istituzionali nazionali ed europei. Tra aggiustamenti al ribasso sui tassi di crescita europei, magie statistiche e comunicative volte a sottostimare il tasso di disoccupazione e a concentrare l’attenzione mediatica sulla sola disoccupazione giovanile (tagliando in questo modo fuori dall’agenda politica i disoccupati e i precari dai 25 anni in su), si giunge al capolavoro del ministro Fabrizio Saccomanni: subito dopo Capodanno l’uomo venuto da Banca d’Italia per far sì che il Tesoro torni degno di tal nome, cerca di diffondere fiducia nel Belpaese invitando gli italiani a gioire per il calo dello spread.
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A proposito di Italian Theory*
Note sullo stato della filosofia italiana
di Toni Negri
Se di quel groviglio di prospettive teoriche, di progetti filosofici, di iniziative e di nuove pratiche politiche, sorto e sviluppatosi fra il ’60 e la fine secolo in Italia, se dunque di questo groviglio qualcuno non facesse un insieme, magari plurale o dialettico, chiamandolo Italian Theory – non ci sarebbe nulla da replicare. Come gli americani hanno fatto mettendo assieme, nellaFrench Theory, Derrida e Deleuze, Bataille e Foucault, Althusser e Lyotard, senza pretendere matrici comuni e solo invece costruendo un ambito, un territorio, un’epoca. In Italia, oltre ad essere difficilmente identificabile un ambito ricopribile da una sigla unitaria, la situazione è complicata dal fatto che quel territorio e quel tratto temporale, più che da un pensiero, furono riempiti da un conflitto politico assai drammatico. La filosofia nacque e si dispose dentro quel conflitto. L’origine di un’eventuale Italian Theory ha dunque caratteristiche difficilmente riconducibili ad una qualsiasi comune condizione storica e teoretica. Se il mondo accademico gli è totalmente estraneo, quello sociale è scisso da conflitti di classe e politici prossimi alla guerra civile. All’origine di quel groviglio non si può certo narrare una teoria politica; al massimo, nei suoi anfratti, si potranno riconoscere degli strumenti di lotta politica. La cassetta degli attrezzi precede tutto il resto.
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Brics, cronaca di una morte annunciata?
di Francesco Bogliacino
La mitologia dei paesi emergenti, con il recente deprezzamento delle valute, lascia ora il posto a una nuova stagione di crisi e debito estero nelle periferie. Ma senza un ritorno alla repressione finanziaria la sequenza di euforia e collasso continuerà a spostarsi indisturbata da un paese all’altro del pianeta
La scorsa settimana l’Economist mostrava in un grafico la generale tendenza delle valute dei principali Paesi emergenti a deprezzarsi, con una forte caduta nell’ultimo mese [1]. Si è assistito a grandi movimenti sui mercati finanziari a cui sono seguite pesanti risposte di politica monetaria. I casi più eclatanti sono stati l’Argentina, che ha dovuto sospendere l’intervento sui mercati dei cambi per evitare l’assottigliarsi delle riserve, e la Turchia, con una manovra monetaria di quasi cinque punti sui tassi d’interesse overnight. Nella vulgata del mondo finanziario, tanto avvezzo ai nomignoli, si parla giá dei Cinque Fragili (India, Indonesia, Brasile, Turchia, e Sudafrica) e altri cinque paesi sono nell’occhio del ciclone (Argentina, Venezuela, Thailandia, Ucraina, Ungheria), per i rischi associati a una crescente instabilità politica [2]. In cifre, la posizione finanziaria netta, cioè la differenza tra attività (patrimoni, investimenti, capitali) detenute all’estero dai cittadini, e passività detenute nel paese da non residenti) al 2012 era negativa per valori pari a 38 punti di Pil per Il Brasile, 16 punti per l’India, 42 punti per l’Indonesia, 53 punti per la Turchia e 8 punti e mezzo per il Sudafrica (dati Fmi).
La storia non è certo nuova, le crisi sono scatenate da un massiccio e improvviso deflusso di capitali dai paesi in questione, che in genere arrivano dopo lunghi periodi di indebitamento denominato in valuta estera e la cui successiva svalutazione mette in fibrillazione i bilanci di banche e imprese.
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Electrolux
Problemi di transito alla dogana operaia di Susegana
di Devi Sacchetto
Alla dogana operaia di Susegana (Treviso) le bolle di accompagnamento e il contenuto di ogni camion in transito sono accuratamente ispezionati. Verso l’esterno gli operai lasciano passare solo una quota della produzione effettuata in loco: un migliaio di frigoriferi al giorno stipati in 10-12 camion, perché vogliono garantirsi un po’ di spazio nei magazzini per stoccare la produzione quotidiana ed evitare così di essere messi in libertà. In effetti Enza Calderone, delegata della Uilm, in uno dei tanti capannelli racconta che l’azienda minaccia di mettere gli operai in libertà perché non riesce a portare fuori i frigoriferi, ma che non sarà certo questo a far togliere i blocchi. Verso l’interno viene concesso di far entrare solo i prodotti finiti che arrivano da altri stabilimenti e i semilavorati necessari per la produzione. I furgoni che riforniscono la mensa sfrecciano invece tra gli applausi. L’organizzazione operaia si estende «tutto intorno al grande stabilimento per evitare che dagli altri passaggi l’azienda tenti qualche sortita», ci racconta Manuela Marcon della Fiom. L’azienda ha fatto arrivare anche un treno per caricare 8000 frigoriferi, la produzione di due, tre giorni, che gli operai però useranno come magazzino senza farlo uscire, almeno per il momento. Perché il sapere operaio in una delle ultime grandi fabbriche del Veneto pare essersi riprodotto nel tempo. Da una settimana ormai il blocco delle portinerie e lo sciopero a rotazione nei reparti a Susegana, come negli altri stabilimenti dell’Electrolux, stanno facendo infuriare la dirigenza che si ritrova senza particolari sostegni.
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Teorie volgari e prospettive economiche
Amit Bhaduri, Nadia Garbellini, Ariel Wirkierman
Per comprendere cosa potrà accadere nel corso del 2014 all’economia mondiale occorre partire da una considerazione squisitamente teorica: di questi tempi le teorie sopravvivono in una forma “volgare” e vengono utilizzate per giustificare politiche opposte a quelle per le quali erano state originariamente pensate. La versione volgare della teoria keynesiana della domanda effettiva a cui i politici fanno riferimento in tempi di recessione è la cosiddetta “stimulation doctrine”, secondo cui governi e banche centrali dovrebbero iniettare liquidità a favore degli istituti finanziari, stimolando la domanda aggregata e credendo di salvare in questo modo l’economia reale dalla disoccupazione. Molti economisti, persino alcuni tra quelli che si definiscono “keynesiani”, continuano a teorizzare su basi neoclassico-liberiste, assumendo “agenti rappresentativi”, teorizzando equilibri di lungo periodo in cui la domanda aggregata non conta, ipotizzando perfetta flessibilità dei salari e una sostituibilità tra capitale e lavoro garantita da un sistema di prezzi che riflette la scarsità relativa. Se saranno queste le teorie che continueranno ad ispirare le politiche economiche anche nel 2014, l’esito prevedibile sarà un acuirsi dei problemi economici e sociali su scala mondiale.
Eppure gli insegnamenti di Kalecki e Keynes potrebbero ispirare scelte politiche ben più sagge.
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Il capitalismo americano
di Daniele Balicco e Pietro Bianchi[1]
Pubblichiamo un saggio di Daìniele Balicco e Pietro Bianchi dal terzo volume di “L’altro Novecento. Comunismo eretico e pensiero critico. Il capitalismo americano e i suoi critici”, vol. III. Jaca Book 2013. Il titolo originale è: “Interpretazioni del capitalismo contemporaneo. Fredric Jameson, David Harvey, Giovanni Arrighi”
Nel secondo dopoguerra, il marxismo ha occupato un ruolo importante nel campo della cultura politica europea, soprattutto in Italia, Germania e Francia. Ma è solo a partire dagli anni Sessanta che la sua influenza travalica gli argini tradizionali della sua trasmissione (partiti comunisti e socialisti; sindacati e dissidenze intellettuali) per radicarsi come stile di pensiero egemonico nell’inedita politicizzazione di massa del decennio 1968-1977. Tutto cambia però, e molto rapidamente, con la fine degli anni Settanta: una serie di cause concomitanti (cito in ordine sparso: la sconfitta politica del lavoro, l’esasperazione dei conflitti sociali, l’uso della forza militare dello Stato conto i movimenti, una profonda ristrutturazione economica, la rivoluzione cibernetica, il nuovo dominio della finanza anglo-americana) modifica non solo l’orizzonte politico comune, ma, in profondità, le forme elementari della vita quotidiana. In pochi anni, tutta una serie di nodi teorici (giustizia sociale, conflitto di classe, redistribuzione di ricchezza, industria culturale, egemonia, ecc.) escono di fatto dal dominio del pensabile; e in questa mutazione occidentale il marxismo, come forma plausibile dell’agire politico di massa, semplicemente scompare.
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"E' la prima volta nella storia dell'umanità che abbiamo un sistema monetario così assurdo"
Alessandro Bianchi intervista Alberto Bagnai
Nel Consiglio europeo di giovedì 19 dicembre, Angela Merkel, di fronte all'impossibilità di far accettare ad i suoi “alleati” i cosiddetti contratti di riforma vincolanti, ha sostenuto come “senza la coesione necessaria, l'euro prima o poi esploderà”. Sarà la Germania a staccare la spina? E ci troveremo, quindi, di fronte ad una beffa assoluta per i paesi del sud che hanno deciso la via della povertà, della disoccupazione di massa e della rinegoziazione dei diritti sociali pur di restare nella moneta unica?
Farei una riflessione iniziale di principio. E' assolutamente ovvio come un'unione monetaria tra paesi diversi, creando distorsioni e tensioni derivanti dall’abolizione di quello strumento difensivo che è il cambio flessibile, non possa sopravvivere senza un coordinamento o una cooperazione. Questa esigenza basilare, iscritta in modo molto chiaro nei Trattati europei soprattutto per quel che riguarda le politiche sociali, si può realizzare in tanti modi. Quello che Angela Merkel propone oggi è abbastanza simile ad una resa senza condizioni, come ha commentato in modo molto efficace Jacques Sapir.
L'Unione Europea nasce fra paesi diversi, alcuni dei quali erano in un ritardo quantificabile in termini di Pil pro capite in una ventina di anni rispetto al paese leader, la Germania. In questo contesto, il sogno era quello di creare una comunità di eguali per competere con i big player del mondo, ma per arrivare a questo, i paesi del sud dovevano essere aiutati da quelli del nord ed una cooperazione positiva di questo tipo non si è verificata.
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I governi che vogliono fare politiche progressiste non possono rimanere nell'euro
Intervista a Costas Lapavitsas
Pubblichiamo un'attualissima intervista a Costas Lapavitsas, economista greco che insegna all'Università di Londra e scrive sul Guardian. Oltre ad affrontare in profondità il tema economico, Lapavitsas discute anche delle grandi speranze suscitate dalla lista Tsipras e dal partito Syriza, sia in Grecia che nel resto dell'Europa e nel nostro paese: se non si affrontano i temi con chiarezza, si rischia di affossarle definitivamente
Come sará il voto greco per le europee?
In questo momento c’é tanta rabbia, disperazione e mancanza di capacitá organizzativa. Non so se la gente in Europa lo capisce, peró i greci si sentono molto frustrati, disillusi e soprattutto deboli. É probabile che il Pasok, il vecchio partito di governo socialdemocratico, sparisca completamente e Nuova Democrazia, il partito di destra che è al potere, subisca importanti perdite. É anche probabile che Syriza cresca tanto da diventare il partito di maggioranza relativa, anche se non so se potrá governare da solo. É da prevedere una crescita del partito fascista fino a diventare il secondo o terzo partito per importanza.
Le elezioni europee, insieme alle amministrative in Grecia - si voterá lo stesso giorno - saranno senza dubbio un evento politico molto significativo. Le elezioni europee potrebbero significare una completa trasformazione del quadro politico ed elettorale in tutta la Grecia. Se la coalizione di governo di destra e Pasok dovesse perdere voti, sarebbe molto difficile per loro continuare a governare con stabilitá e portare a termine le misure che esige la Troika.
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Consigli (o sconsigli) per gli acquisti
Militant
Alcuni libri sono come le ciliegie… uno tira l’altro. E’ capitato così che leggendo La bolla del dollaro, un libro che consideriamo davvero importante e che a breve recensiremo, ci siamo imbattuti in un volume altrettanto importante scritto da Duccio Basosi e pubblicato nel 2006 dai tipi delle Edizioni Polistampa: Il governo del dollaro. Sulla scorta di fonti originali e poco conosciute il testo affronta uno degli snodi più importanti della storia recente del capitalismo, ovvero il passaggio dal gold-dollar standard uscito dalla conferenza di Bretton Woods al dollar standard su cui ancora oggi poggia il sistema monetario internazionale. Forse potrà sembrare strano star qui a sottolineare l’importanza di un libro che affronta avvenimenti ormai vecchi di oltre quarant’anni eppure l’analisi di quanto avvenne allora si rivela indispensabile per comprendere le radici della crisi che dal 2007 scuote il modo di produzione capitalistico e, al contempo, le contraddizioni interimperialistiche che caratterizzano il presente. Da questo blog abbiamo più volte sottolineato come la crisi finanziaria rappresenti solo l’epifenomeno di una crisi sistemica ben più profonda legata alla caduta tendenziale del tasso medio di profitto e all’esaurimento del ciclo di accumulazione fordista che aveva caratterizzato i “gloriosi” 30 anni post bellici. Abbiamo anche scritto di come tutto questo si sia tradotto in una crisi di egemonia dell’imperialismo statunitense costretto a confrontarsi in primo luogo con l’emersione del blocco imperialista europeo.
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Facchini e libri
Scrittori, editori e istinto di classe
Cristiano Armati
Pubblichiamo un contributo alla discussione di Cristiano Armati che interviene e prende spunto dalle lettere aperte pubblicate su carmilla e sul blog di wuming a proposito della lotta dei facchini contro Granarolo e alle dichiarazioni di Carlo Lucarelli. Il dibattito è aperto!
Dopo giorni di pioggia e nuvole nere, ma mai nere come le anime dei benpensanti della nostra politica e della connessa loro industria (non solo) editoriale, cercavo giusto un'occasione per cimentarmi con un argomento con cui sarà facile rendersi impopolare.
Questo argomento riguarda i libri, la loro presunta sacralità e quell'aura di "garanti della democrazia e della libertà" da cui vengono artatamente circondati.
"I libri," sostengono facendo la faccia da cerbiatto stuprato orde di cittadini-buonidemocratici-mediamenteacculturati, "non dovrebbero mai essere toccati..."; e, immancabilmente, proseguono il loro noioso discorso ricordando a chiunque metta in discussione questo assunto che erano stati i nazisti a permettersi il più grave dei peccati: bruciare i libri.
Singolari paragoni. Perché in casi come questi chi ha tanto a cuore il destino dei libri, facilmente si dimentica dell'unico destino per il quale valga davvero la pena di lottare: quello degli uomini e delle donne; persone in carne e ossa, non cellulosa sporcata d'inchiostro.
Il nazismo ha fatto naturalmente ben altro rispetto al bruciare i libri.
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Dall’antropologia filosofica all’ontologia sociale e ritorno
Che fare con la sesta tesi di Marx su Feuerbach?
di Etienne Balibar
È in uscita per Mimesis “Il Transindividuale. Soggetti, relazioni, mutazioni”, una raccolta di studi sulla questione del transindividuale curata da Etienne Balibar e Vittorio Morfino. Qui, per gentile concessione dei curatori, anticipiamo lo stesso saggio di Balibar, in cui il filosofo francese conduce un’analisi particolareggiata del significato filosofico della Sesta Tesi di Marx su Feuerbach
Le Tesi su Feuerbach[1], un insieme di 11 aforismi a quanto pare non destinati alla pubblicazione in questa forma, sono state scritte da Marx nel corso del 1845 mentre stava lavorando al manoscritto dell’Ideologia tedesca, anch’esso non pubblicato. Sono state scoperte più tardi da Engels e da lui pubblicate con alcune correzioni (non tutte prive di significato), come appendice al suo pamphlet Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca (1886)[2]. Sono considerate largamente una delle formulazioni emblematiche della filosofia Occidentale, talvolta comparate con altri testi estremamente brevi ed enigmatici che combinano una ricchezza apparentemente inesauribile con uno stile enunciativo da manifesto, che annuncia un modo di pensare radicalmente nuovo come il Poema di Parmenide o il Trattato di Wittgenstein. Alcuni dei suoi celebri aforismi hanno guadagnato a posteriori lo stesso valore di un punto di svolta in filosofia (o, forse, nella nostra relazione con la filosofia) come, per esempio dei già citati Parmenide e Wittgenstein rispettivamente: «tauton gar esti noein te kai einai »[3], «Worüber man nicht sprechen kann, darüber muss man schweigen»[4], ma anche lo spinoziano «ordo et connexio idearum idem est ac ordo et connexio rerum»[5] il kantiano «Gedanken ohne Inhalt sind leer, Anschauungen ohne Begriffe sind blind»[6] etc.
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Il principio della liquidità e la sua corruzione*
Un contributo alla discussione su algoritmi e capitale
di Stefano Lucarelli
Pubblichiamo l’intervento di Stefano Lucarelli al workshop “Algoritmi e capitale” svoltosi a Londra lo scorso 20 gennaio. Esso segue gli interventi di Giorgio Griziotti e Andrea Fumagalli. Abbiamo così una primo nucleo di interventi che affrontano il tema della moneta digitale e della moneta del comune
1. Il workshop cui ho il piacere di partecipare ha come scopo quello di giungere ad una critica degli algoritmi in grado di mettere a fuoco come avviene oggi il processo della valorizzazione capitalistica e di giungere ad immaginare in che modo sottrarsi dalla cattura del capitale. In questo mio breve intervento interagirò con alcuni dei passaggi fondamentali del testo che Andrea Fumagalli ha proposto quest’oggi affinché fosse discusso. Lo farò cercando di sostenere che solo una riappropriazione di ciò che sta sotto il controllo della dimensione finanziaria può porre le basi affinché sia possibile una sottrazione autentica dai dispositivi di cattura capitalistici. Non perverrò ad un esito definitivo, mi limiterò a cercare di individuare alcuni aspetti dell’esperienza di bitcoin su cui credo occorra ancora riflettere, nonostante la rilevanza che in questo caso assume il movente speculativo. Anche per mancanza di tempo non toccherò invece un problema a mio avviso fondamentale quando si parla della possibilità di istituire una moneta alternativa alla logica del comando capitalistico: il principio del clearing[1].
2. Il capitalismo nasce e si impone in quanto economia monetaria di produzione. A tal proposito credo che sia il caso di riprendere un passo tratto dal III Libro de Il Capitale di Marx [citato da Sergio Bologna, Moneta e Crisi: Marx Corrispondente per la “New York Daily Tribune”, “Primo Maggio”, n. 1, p. 14]:
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Lista Tsipras? No, grazie!
di Leonardo Mazzei
Almeno sulla stampa, Alexis Tsipras appare come il personaggio del momento. Il tempo ci dirà per quanto, ma vediamo subito di capire il perché. Il leader di Syriza, nonché candidato alla presidenza della Commissione europea, sembra dire cose ragionevoli. Molto ragionevoli, forse un po' troppo ragionevoli... E' molto aperto, e di tutto dice di voler discutere, tranne che di una cosa. Eh sì, perché il giovane Alexis un tabù ce l'ha, ed è proprio quello a renderlo simpatico a certi nostrani tromboni.
Andiamo subito al sodo. Parlando ieri l'altro a Parigi (vedi il manifesto del 5 febbraio) Tsipras ha messo le cose in chiaro: l'euro non si discute. Secondo la corrispondente parigina del giornale, Anna Maria Merlo, questa è stata la premessa, il punto fermo, il cardine attorno al quale tutto il resto del ragionamento si svolge. Dunque: le politiche austeritarie vanno abbandonate (in qualche modo lo ha detto perfino Napolitano al parlamento di Strasburgo), ma l'uscita dalla moneta unica non può neppure essere oggetto di discussione.
Questa posizione non è certo nuova. Tsipras l'ha ripetuta in tutte le sedi. Ad esempio in questa recente intervista a la Stampa, dove insieme agli attacchi a Grillo e ad ogni movimento anti-euro, si legge questa affermazione:
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Privatizzare il signoraggio?
Rivalutare le quote delle banche private, così come previsto dal decreto Bankitalia, significa sottrarre al Tesoro parte di questi introiti di natura pubblica. Siamo in presenza di un processo di privatizzazione del signoraggio che, a danno della collettività, avvantaggia alcuni privati
In un lucido fondo su Affari&Finanza di lunedì 3 febbraio, Massimo Giannini elenca i punti che i “grillini” hanno frainteso (veramente parla di “falsificazione”) nella loro opposizione al “decreto Bankitalia”. Per dimostrare che non vi è stato “un altro regalo alle banche” (in linea con quanto affermato dal Ministero del Tesoro e commentato su questo sito da Andrea Baranes http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/capitali/Bankitalia-una-toppa-peggiore-del-buco-22000) Giannini sostiene che la Banca d’Italia è, e rimane, un istituto di diritto pubblico e che non potrà mai essere privatizzata; che le quote di capitale possono appartenere solo a banche nazionali; che l’aumento di capitale (da 156.000 euro a 7,5 miliardi) è una semplice rivalutazione delle quote già esistenti nel bilancio di (alcune) banche nazionali: “nessuno sborsa un euro, né Via Nazionale, né il Tesoro” ed è quindi solo un “vantaggio virtuale”. Ma questo è vero? Non manca ancora un tassello alle considerazioni fin qui ineccepibili del vicedirettore de La Repubblica?
Perché le quote di capitale (nelle mani delle banche) abbiano un valore reale, tanto da poter essere alienate come previsto se superano la quota del 3%, esse devono fornire un rendimento. È proprio su questo rendimento atteso che Giannini si dimentica di renderci edotti. Senza farla troppo lunga, rivalutare il valore delle quote di partecipazione delle banche in Bankitalia significa anche rivalutare il loro reddito in occasione della distribuzione annuale degli utili.
Se, nel 2012, le banche partecipanti hanno ricevuto tra dividenti e loro integrazione, poco più di 15.000 euro, sostanzialmente il 10% del valore capitale delle loro quote, quali saranno gli utili che verranno stornati alle banche partecipanti quando il valore delle loro quote è stato rivalutato a 7 miliardi e mezzo di euro? Se si assume un tasso del 4%, le banche private otterranno d’ora in poi 400 milioni di euro all’anno. Si può considerare questo un “vantaggio (solo) virtuale”?
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Monete digitali (criptomonete) e circuiti finanziari alternativi
Portare l’attacco al cuore dello Stato, pardon, dei mercati finanziari
di Andrea Fumagalli
Continuiamo ad approfondire il tema delle monete digitali (o criptomonete) , presentando la traduzione in italiano della relazione svolta da Andrea Fumagalli al workshop “Algoritmi e capitale”, svoltosi a Londra lo scorso 20 gennaio. In questo intervento, si cerca di delineare alcune caratteristiche che potrebbe avere una moneta del comune come possibile embrione della costruzione di un circuito finanziario alternativo, che sfugga al controllo e alle imposizioni delle oligarchie finanziarie.
* * * * *
“.. L’importanza della moneta deriva essenzialmente dal fatto che essa è un anello fra il presente e il futuro”[1] (J.M.Keynes)
“Ciò che mediante il denaro è a mia disposizione, ciò che io posso pagare, ciò che il denaro può comprare, quello sono io stesso, il possessore del denaro medesimo, Quanto grande è il potere del denaro, tanto grande è il mio potere. Le caratteristiche del denaro sono le mie stesse caratteristiche e le mie forze essenziali, cioè sono le caratteristiche e le forze essenziali del suo possessore. Ciò che io sono e posso, non è quindi affatto determinato dalla mia individualità. Io sono brutto, ma posso comprarmi la più bella tra le donne. E quindi io non sono brutto, perché l’effetto della bruttezza, la sua forza repulsiva, è annullata dal denaro”[2] (K.Marx)
1. Introduzione. Sul ruolo e la forma della moneta nella nostra storia[3]
La moneta è un’invenzione umana. La moneta non cresce sugli alberi. La moneta ci dimostra che l’essere umano è un animale sociale. La moneta è relazione sociale. Una relazione sociale che oggi non è paritaria, ma che potrebbe diventarlo. La moneta è la dimostrazione dell’esistenza di una comunità, perché la moneta è frutto di un rapporto di fiducia.
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Per una teoria del potere destituente
Giorgio Agamben
Conferenza pubblica (Atene, 16 novembre 2013), trascrizione a cura di ΧΡΟΝΟΣ
Traduzione di Giacomo Mercuriali
Una riflessione sul destino della democrazia oggi qui ad Atene in qualche modo è inquietante, poiché obbliga a pensare alla fine della democrazia nel luogo stesso in cui questa è nata. In effetti, l’ipotesi che vorrei proporre è che il paradigma governamentale predominante oggi in Europa non solo non sia democratico, ma che non possa nemmeno essere considerato politico. Tenterò allora di mostrare che la società europea non è più una società politica: è qualcosa di totalmente nuovo, qualcosa per cui ci manca una terminologia appropriata e dovremo quindi inventare una nuova strategia.
Permettetemi di iniziare con un concetto che sembra aver rimpiazzato ogni altra nozione politica a partire dal settembre 2001: la sicurezza [security]. Come sapete, la formula “per ragioni di sicurezza” funziona oggi in ogni ambito, dalla vita quotidiana ai conflitti internazionali, come una parola chiave che serve per imporre misure che le persone non hanno alcuna ragione di accettare. Tenterò di mostrare che lo scopo reale delle misure di sicurezza non è, come si ritiene comunemente, prevenire pericoli, disordini o addirittura catastrofi. Sarò dunque obbligato a fare una breve genealogia del concetto di “sicurezza”.
Una possibile modalità per abbozzare questa genealogia sarebbe quella di inscrivere la sua origine e la sua storia nel paradigma dello “stato di eccezione”.
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Perché boicotto la Granarolo
di Girolamo De Michele
Premessa: è un post che richiede tempo, perché contiene alcuni link che completano quello che voglio dirvi. Sono informazioni essenziali per capire cosa sono, oggi, lo sfruttamento e il razzismo, anche e soprattutto quando si mascherano da cooperative, sindacati e partiti “di sinistra” – o forse, semplicemente sinistri.
Cominciamo con una foto. Ricordate la scorsa estate, quando l’indignazione estense s’intiepidiva per la foto di una volante dei vigili al McDrive? Beh, ecco una variante. Gli agenti in servizio ai cancelli della Granarolo, dov’era in atto un picchetto dei lavoratori della logistica (d’ora in poi li chiameremo facchini), escono dal magazzino con buste e contenitori bianchi. Non sono in grado di dire se, come viene facile pensare, in quei pacchi ci siano prodotti Granarolo, né se si tratti di un dono, o cos’altro: lascio al lettore. Certo che se fosse [sottolineo il se fosse: periodo ipotetico della possibilità] un omaggio, sarebbe qualcosa di molto simile a un atto illegale. Se…
Un picchetto ai cancelli: perché? Che succede alla Granarolo?
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Abbassare la cresta
Intorno al sovranismo come fine e ai suoi filosofi
di Rodolfo Ricci
Se la storia non è storia di lotta di classi, che cos’è ? Storia dello spirito general-generalista, nel suo percorso di avvicinamento ad Almotasim ? Oppure è geopolitica delle puntuazioni di potenza espresse dai territori che poi diventano nazioni sotto la spinta delle famiglie di sangue blu, che successivamente si fanno la guerra quando non trovano la mediazione attraverso i matrimoni tra le varie discendenze interne ?
Se la storia non è storia di lotta tra classi, cos’è ? E’ la storia dei conflitti tra le borghesie locali, poi nazionali, nel loro imperituro rincorrersi per un posto al sole che ne salvaguardi lo spazio vitale ? Lo spirito finiva qui ?
Ed oggi, se non è storia di lotta di classi, è forse il movimento astratto del capitale svincolato da ogni soggettività storica, una sorta di serpente che si morde la coda e che, solo mordendosi la coda, scatena catastrofi ?
Ma anche se fosse l’ultima di queste cose, e cioè se la storia fosse oggi solo il movimento di una macchina metafisico-tecnologica, inumana, autosufficiente, che per perpetuarsi ha solo bisogno che il suo meccanismo di estrazione di profitto resti intatto perché ne costituisce il cuore, anche se fosse così, abbiamo avuto bisogno, guarda caso, di ri-coniare e rinverdire il termine “elites”, per ricollocare questo movimento dentro la storia stessa.
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I nuovi mostri
di Maurizio Sgroi
L’alba delle controparti centrali
Una delle conseguenza meno esplorate dell’esplosione della crisi finanziaria del 2008 è stata il sorgere prepotente delle Controparti centrali. Prepotente perché imposto da uno dei tanti G20 andati in scena dopo il grande crollo per cercare di salvare il mondo. E in questa hybris regolatoria i pezzi grossi hanno determinato di affidare a queste entità, che c’erano anche prima ma facevano (e fanno) dell’altro, di entrare a gamba tesa nel florido mercato dei derivati Otc, che, come abbiamo visto, muove appetiti corposi e correlati rischi.
Dal 2009 in poi tanta strada è stata fatta e tanta carta riempita di buone intenzioni. Col risultato che ormai le controparti centrali, che sono normali clearing house, hanno finito col connotarsi come il costituendo pilastro della stabilità finanziaria presente e, soprattutto futura.
Senonché, siccome, com’è noto, il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, ecco che i nostri regolatori notano con malcelato disappunto che centralizzare le operazione di compensazione (clearing) finanziaria di tutto il mondo in pochi soggetti, come di fatto sta succedendo in ossequio alle disposizione del G20, crea un rischio sistemico che prima non c’era (nel senso che ce n’era un altro).
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L'unione bancaria (immaginaria)
Unione Europea
Moreno Pasquinelli
La dis-Unione europea davanti alla sfida della nuova tempesta finanziaria
Il Consiglio Ecofin [il cruciale dipartimento del Consiglio dell’Unione che si occupa di Economia e Finanza, Ndr] la notte del 18 dicembre scorso approvò un protocollo d’intesa sulla cosiddetta Unione bancaria.
Per chi voglia addentrarsi nella sfera delle tecnicalità, ovvero capire i farraginosi meccanismi di questa Unione Bancaria, (s)consigliamo di leggere questa meticolosa ricostruzione di Economy 2050. Per una descrizione meno impegnativa si vedano queste schede de Il Sole 24 Ore.
Al netto dei tecnicismi noi vorremmo dare un giudizio politico e spiegare perché noi riteniamo che l’Unione bancaria si concluderà in un flop, con conseguenze letali per le sorti della Ue.
Perché l’Unione bancaria?
E’ presto detto: mettere al riparo il sistema bancario europeo da nuove tempeste finanziarie e bancarie come quella del settembre 2008 (fallimento della Lehman Brothers) che dagli Usa si propagò al resto del mondo.
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Elogio del pensiero critico
Per una reale cultura della conoscenza.
Posted by Daniela Palma
C’è una crisi ben più profonda di quella economica, che sta attraversando il mondo e che ne sta compromettendo il futuro: è la crisi dell’istruzione. Da questa osservazione prende le mosse Martha Nussbaum nel saggio Non per profitto, che offre un’ampia disamina sullo stato e sulle tendenze dei sistemi educativi e sulle ripercussioni che la deriva in atto è destinata a produrre sullo sviluppo democratico delle società.
L’analisi della Nussbaum è condotta sui sistemi educativi degli Stati Uniti e dell’India, due paesi caratterizzati da significative differenze sul piano culturale e dello sviluppo socio-economico, ma in cui è possibile ravvisare la comune tendenza a ridurre sempre più lo spazio dedicato alle materie umanistiche in tutti gli ordini di istruzione e nel finanziamento dell’attività di ricerca. Lo scopo è quello di mostrare come si stia delineando un’epocale crisi di civiltà, tale da mettere in discussione le conquiste della democrazia sulla base delle quali si è plasmato il modello di sviluppo delle nazioni più avanzate. La visione che negli ultimi decenni si è andata affermando consiste nel considerare il prodotto delle attività economiche – sintetizzato nell’indicatore del Pil – l’obiettivo fondamentale dello sviluppo, al cui raggiungimento debbono tendere le politiche dei diversi paesi. La massimizzazione della crescita economica assicurerebbe peraltro il raggiungimento di tutti quegli obiettivi di benessere diffuso e di equità dei quali un reale processo di sviluppo deve essere portatore. Da ciò discenderebbe la necessità da parte di ciascun paese di concentrare l’impiego delle risorse disponibili in attività strettamente connesse alla crescita economica, rese per lo più possibili dal possesso di competenze di natura tecnico-scientifica.
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Caso Bankitalia: il regalo alle banche è il meno
Aldo Giannuli
Il decreto relativo a Bankitalia è passato nella disinformazione generale. Cerchiamo prima di tutto di capire cosa prevede, partendo da un brevissimo excursus storico (ci scusi il lettore già informato, che può saltare a piè pari queste righe). La Banca d’Italia è una banca di diritto pubblico che, per tutto il periodo repubblicano, ha avuto un consiglio di amministrazione espressione delle banche del paese, ma questo aveva molti contrappesi: il consiglio aveva (ed ha ancora) poteri molto limitati, Bankitalia aveva un rapporto di dipendenza dal Ministero del Tesoro, le quote non erano commerciabili e le tre principali banche (Credit, Bancoroma e Comit) erano di proprietà dell’Iri. Di fatto, il potere reale dell’Istituto si concentrava nelle mani del Governatore nominato a vita dal Capo dello Stato (sino alla riforma del 2005, che ha definito la durata temporale dell’incarico) ed assistito dall’apparato tecnocratico della banca, mentre al consiglio di amministrazione, sia prima che dopo la riforma del 2005, restavano poteri abbastanza marginali.
A partire dal 1981 le cose sono iniziate a cambiare, mentre si facevano velocemente strada gli indirizzi monetaristi della scuola di Chicago, l’allora Ministro del Tesoro Andreatta, con un colpo di mano, avviò il “divorzio” fra Ministero del Tesoro e Banca d’Italia che acquisiva una sua marcata autonomia definitivamente sancita nel 1992 quando il ministro Guido Carli stabilì che la decisione sul tasso di sconto diventava competenza esclusiva del Governatore.
Negli anni novanta, le tre banche Iri vennero privatizzate. E questo iniziò a produrre una serie di effetti a catena.
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Paolo Leon sul capitalismo e lo stato*
di Roberto Romano
Nell’ultimo periodo sono apparsi molti libri e saggi che indagano la crisi intervenuta nel 2007. Alcuni di questi descrivono la crisi, altri analizzano le insufficienze delle politiche adottate, altri ancora denunciano l’inadeguatezza delle istituzioni europee come di quelle internazionali. Il tratto comune è quello di una crisi che affonda le sue radici nell’insufficienza della domanda, nei migliori dei casi, e nella struttura finanziaria che avrebbe contaminato la così detta economia reale. Ma la crisi del 2007 è l’inizio della fine di un paradigma, più precisamente del paradigma reaganiano-thacheriano che ha costruito un particolare equilibrio tra stato e capitale. Cosa si cela dietro l’esaurimento di questo particolare paradigma? Quali sono i fenomeni sociali, economici e ri-produttivi del capitale che l’hanno determinato? Occorre passare dall’analisi allo studio del fenomeno che stiamo vivendo. In “Il capitalismo e lo Stato. Crisi e trasformazione delle strutture economiche” (edito da Castelvecchi, collana Le Navi, 27 euro), Paolo Leon indaga la crisi del 2007 partendo dagli economisti classici (Smith, Ricardo e Marx) sostenendo che “non conosco un altro metodo capace di indagare sulla specifica natura di ogni trasformazione del capitalismo…”. Sostanzialmente un libro da studiare, con la possibilità di aprire delle nuove e inedite riflessioni sui temi e sulle tesi suggerite.
Sono tre le tesi dominanti che, assieme, concorrono a costruire una ragnatela del sapere e saper fare ricerca economica.
La prima tesi “dominante” è legata al conflitto capitale-stato.
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