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Atene come metafora
di Luciano Canfora
1. Parliamo di un libro di storia, scritto “alla macchia”, durante l’occupazione tedesca della Francia, da un professore ebreo mentre le donne della sua famiglia venivano annientate ad Auschwitz. Parliamo di un libro che parla di Atene ma intende parlare della caduta della Francia, di un libro che apparentemente non fa che raccontare con passione di parte quello che soprattutto Tucidide e Senofonte ci hanno lasciato scritto intorno all’oligarchia ateniese al potere.
Prima diremo molto brevemente della forza di Tucidide come ispiratore – nel turbine novecentesco – di storici che hanno parlato del loro presente. È la “grande guerra” innanzi tutto che sospinge i grandi studiosi, e non solo loro, verso Tucidide. Per Wilamowitz, che perde l’unico figlio subito all’inizio della guerra, sul fronte russo, è dapprima l’Iliade, il libro di guerra per eccellenza, l’oggetto di una rinnovata riflessione; ma poi daccapo Tucidide. Curiosa combinazione: egli studia i capitoli complicati e in parte oscuri sulla tregua annuale intervenuta tra Sparta e Atene (423), proprio nell’anno in cui, rettore a Berlino, sarà incaricato di una missione segreta per una pace di compromesso, che fallirà. Eduard Schwartz, che perde entrambi i figli l’uno all’inizio, l’altro alla fine della guerra, scrive in quegli anni, e pubblica nel ’19 uno dei libri capitali su Tucidide (Das Geschichtswerk des Thukydides).
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"Ormai solo il (non) lavoro ci può salvare"
Una lettura del Manifesto contro il lavoro del Gruppo Krisis
di Massimo Maggini
Il testo che presentiamo è stato scritto poco dopo la piccola odissea della edizione italiana del “Manifesto contro il lavoro“, apparso nel 2003 per i tipi di DeriveApprodi. La pubblicazione di quel libro nel nostro paese non fu così semplice, nonostante l’argomento “accattivante” e gli autori decisamente interessanti, la cui elaborazione trovava già allora ascolto in molte parti del mondo. L’originale era apparso in Germania nel 1999, e la traduzione italiana venne pronta poco dopo, soprattutto grazie a Giancarlo Rossi, ottimo traduttore del testo tedesco. Il mio ruolo in tutta la vicenda fu di impegnarmi a fondo nel reperire l’editore disponibile ad “accollarsene” la pubblicazione italiana: dopo aver bussato per almeno due anni a molte case editrici, grandi o piccole che fossero, la spuntai al secondo giro con DeriveApprodi (perché al primo approccio neanche con loro ero riuscito a cavare un ragno dal buco). Questa casa editrice si mostrò molto interessata a pubblicare il libro, tanto provocatorio quanto denso e prezioso, che così apparve in Italia nel 2003. In questa edizione vennero aggiunti, in più rispetto a quella tedesca, due ottimi articoli, uno di Robert Kurz (La dittatura del tempo astratto) e uno di Norbert Trenkle e ancora Robert Kurz (Il superamento del lavoro), entrambi magnificamente tradotti da Samuele Cerea, ed infine una bella post-fazione di Anselm Jappe (Il gruppo Krisis, la critica del lavoro e il ‘primato civile degli italiani).
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L’attualità della riflessione del giovane Marx
di Renato Caputo
L’opera di Karl Marx (1818-1873) ha avuto un’eccezionale influenza sulla formazione del mondo contemporaneo, tanto che durante il secolo breve l’accettazione o meno delle sue teorie ha costituito un vero e proprio discrimine in ambito non solo politico, ma più in generale culturale. È stato certamente fra i pensatori più influenti della storia della filosofia, dell’economia, della sociologia, della storiografia e delle scienze politiche. In alcuni Paesi le sue opere sono state pubblicamente bruciate e sono tutt’ora vietate, in altri sono divenute un’ideologia di Stato, al punto d’assurgere al ruolo svolto precedentemente dalla religione.
Il successo dell’opera marxiana è indissolubilmente legato ai rapporti di forza fra le classi sociali, a dimostrazione di una tesi fondamentali della sua Weltanschauung in cui la teoria è indissolubilmente legata alla prassi: i prodotti del pensiero non possono essere considerati come se fossero a sé stanti, dotati di una storia autonoma, ma sono parte integrante dei rapporti sociali che si sono stabiliti nel corso storico fra gli uomini, profondamente condizionati dagli interessi materiali ed economici. Il sorgere e la fortuna del pensiero di Marx sono legati, dunque, indissolubilmente all’emergere e all’acquisire coscienza di sé come classe del proletariato moderno, ovvero dei lavoratori salariati che per riprodursi sono costretti a vendere come merce la propria capacità di lavoro.
Marx è nato a Treviri (Trier) nella Germania occidentale nel 1818, assegnata dopo il Congresso di Vienna alla Prussia, in una famiglia borghese. Siamo in piena Restaurazione anche se forti sono in questa città universitaria al confine con la Francia le influenze della Rivoluzione francese.
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E se il lavoro fosse senza futuro? (II Parte)
Perché la crisi del capitalismo e quella dello stato sociale trascinano con sé il lavoro salariato
Giovanni Mazzetti
Quaderno Nr. 4/2016 - Formazione online - Periodico di formazione on line a cura del centro studi e iniziative per la riduzione del tempo individuale di lavoro e per la redistribuzione del lavoro sociale complessivo
Qui la parte precedente.
Presentazione quarto quaderno di formazione on line
Proponiamo qui la seconda parte del testo “E se il lavoro fosse … senza futuro? Perché la crisi del capitalismo e dello Stato sociale trascina con sé il lavoro salariato” (qui la prima parte). Per ragionare su questo interrogativo bisogna, ovviamente, non avvicinarsi al lavoro in modo ingenuo. Mentre nella sezione precedente abbiamo collocato il lavoro salariato in un prospettiva storica, e cioè abbiamo ricostruito l’evoluzione della sua recente affermazione nella storia dell’umanità, qui cerchiamo di individuare le trappole nelle quali il senso comune normalmente cade, nel ragionare sulle prospettive delle possibilità di sviluppo di questo rapporto sociale.
Parte Terza. Il lavoro salariato al di là del senso comune
Capitolo Sesto
Uno dei maggiori contributi di Gramsci alla comprensione di come le forme del pensiero non siano mai univoche e non abbiano lo stesso valore riguarda, com’è noto, la sua critica del cosiddetto “senso comune”, cioè della rappresentazione di sé come organismo sociale che di volta in volta finisce col prevalere nella società. Normalmente, questa rappresentazione soffre, a suo avviso, di gravi limiti. Innanzi tutto si fonda quasi sempre su un pensiero disgregato, privo di unità, con convinzioni sconnesse, che spesso non hanno alcuna coerenza e rigore logico.
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The Jobs Act Effect, dall’Europa all’Italia e ritorno
di Lavoro Insubordinato
L’«entusiasmo» per il presunto aumento dell’occupazione e della stabilità dei rapporti di lavoro prodotto dal Jobs Act è durato ben poco. Nel primo trimestre del 2016 i dati rivelano un netto calo di assunzioni in coincidenza della riduzione degli sgravi fiscali. L’aumento delle assunzioni è infatti meno del 33,4% rispetto al primo trimestre del 2015. Dati alla mano è evidente che la crescita occupazionale è stata solo un temporaneo abbaglio. Se lo scorso anno l’esonero contributivo era pari al 100% per i primi tre anni, da gennaio 2015 è del 40% per soli due anni. Insomma, le assunzioni o le trasformazioni contrattuali sono strettamente legate alla consistenza dell’incentivo ma, laddove non c’è più risparmio totale, il contratto a tutele crescenti chiaramente non è più appetibile. Del resto, un’alta percentuale dell’aumento rilevato consiste nella conversione di contratti a tempo determinato in contratti a tutele crescenti, dovuti agli sgravi fiscali previsti per il primo periodo della loro introduzione. Gli sgravi sono infatti riservati alle cosiddette «nuove assunzioni», di nome ma non di fatto. I cosiddetti «furbetti del Jobs Act» sono stati smascherati qualche mese fa, quando l’INPS si è accorto che molti lavoratori erano stati licenziati per poi essere riassunti in un secondo momento, affinché le aziende potessero godere della decontribuzione. In alcuni casi, il giochetto messo in pratica consisteva nell’indurre i lavoratori a licenziarsi, per assumerli poi con un’altra azienda o cooperativa creata ad hoc e operativa nello stesso luogo di lavoro.
Il passaggio da contratti a tempo determinato al contratto a tutele crescenti viene venduto come un successo ma, oltre a non costituire un aumento reale dell’occupazione, non garantisce nessuna crescita della stabilità del lavoro.
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Le mani sulle città
Le politiche urbane del governo Renzi
di Francesco Biagi
1. L’obiettivo di questo lavoro è analizzare le politiche di intervento del governo Renzi, con un ampio approfondimento intorno alle questioni legate al diritto alla casa e ai nuovi scenari possibili di trasformazione dell’urbano. Prenderemo in esame in modo particolare le disposizioni del «Decreto Lupi» (detto anche «Piano Casa»), ovvero ci concentreremo esclusivamente su quei dispositivi giuridici che guardano – nella congiuntura della crisi economica – all’urbano, cercando di comprendere come i fattori strutturali del modello neoliberista siano rafforzati verso un modello di società sempre più polarizzato. A partire da un’analisi del testo giuridico e dalle ricadute sociali che hanno avuto negli ultimi due anni, decostruiremo le possibili conseguenze di tali politiche sulla dimensione territoriale e urbana in Italia. Le politiche del governo Renzi hanno inasprito o hanno risolto i problemi della crisi economica? Quali le ricadute sui diritti delle persone? Quale ruolo hanno avuto queste scelte politiche nel facilitare operazioni finanziarie volte a trasformare gli assetti urbanistici del territorio?
2. Il «Decreto Lupi», ovvero il decreto legge 47/2014 intitolato «Misure urgenti per l’emergenza abitativa, per il mercato delle costruzioni e per Expo 2015», ha intrecciato nel medesimo dispositivo giuridico le problematiche sociali attinenti all’emergenza abitativa con l’organizzazione di Expo 2015 a Milano.
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Primarie Usa tra show, false aspettative e malcontento popolare
Redazione Senza Tregua
Le primarie statunitensi sono ormai entrate nella loro fase finale verso le rispettive Convention dei Democratici a Philadelphia e Repubblicani a Cleveland nelle quali saranno nominati i due candidati alla Presidenza degli USA nelle elezioni del prossimo 8 novembre. Nonostante l’ostracismo di parte del Partito Repubblicano verso Trump e i “successi” ottenuti dal sedicente “socialista democratico” Bernie Sanders nel Partito Democratico, i superfavoriti rimangono il miliardario Trump rimasto ormai unico candidato per i Repubblicani e Hillary Clinton per i Democratici. Anche se per quest’ultima la corsa alla candidatura si sta dimostrando molto più complicata delle attese iniziali come dimostra anche l’ultimo voto in Kentucky e Oregon che ha visto di nuovo un testa a testa che ha praticamente diviso in due l’elettorato democratico con 55 delegati andati a Sanders e 51 alla Clinton che comunque conserva un ampio vantaggio1 anche grazie a diversi casi di brogli.
Il teatrino delle elezioni americane
Le elezioni americane suscitano nell’opinione pubblica europea grande interesse fino alla suggestione e alla mitologia di alcuni bislacchi personaggi che animano lo “spettacolo elettorale”.
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Organizzazione e partito
di Fausto Sorini
Rileggendo il saggio di Pietro Secchia, “L’arte dell’organizzazione” (1945) e il libro “Ricostruire il partito comunista” (2011), alla luce del dibattito presente
Riceviamo dal compagno Fausto Sorini e volentieri pubblichiamo come utile contributo all'analisi della storia dei comunisti in Italia e alla discussione sulle loro prospettive.
Ci auguriamo che a questo articolo ne seguano altri, contenenti analisi che, sebbene non coincidenti fra loro ma nell'ambito di un confronto costruttivo e di rispetto reciproco, consentano di approfondire aspetti relativi alla fase complessa e di difficoltà che sta attraversando il movimento comunista nel nostro paese.
* * *
Credo sia utile - nel presente dibattito sulla esigenza di ricostruzione in Italia di un PC all’altezza dei tempi - una rilettura critica e attualizzata del famoso saggio di Pietro Secchia, “L’arte dell’organizzazione”, che Rinascita pubblicò nel dicembre del 1945. Esso rappresentò negli anni e nei decenni successivi, e ancora rappresenta, una pietra miliare nella formazione di intere generazioni di quadri comunisti, cioè leninisti. E ciò resta vero, nonostante le numerose e variamente motivabili rimozioni subite negli ultimi 62 anni dalla figura e dall’opera del fondatore dell’organizzazione della Resistenza italiana, della lotta politica e militare della Liberazione e della nascita del “partito nuovo” dopo gli anni della clandestinità.
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Cos'è destra, cos'è sinistra
di Fulvio Grimaldi
Infamoni curdi, Regeni e Fratelli Musulmani, Marò, Albertazzi, Berlinguer-Ingrao-Iotti, varie ed eventuali...
Tutti noi ce la prendiamo con la Storia
ma io dico che la colpa è nostra
è evidente che la gente è poco seria
quando parla di sinistra o destra. (Giorgio Gaber “E pensare che c’era il pensiero”, 1991)
Una nazione di fucilatori ed eroi
Tutti a festeggiare il rientro dei marò dall’India. Eroi baciati a destra e sinistra. Noi festeggeremo quando constateremo, dopo cinquant’anni, che hanno smesso di fucilare poveretti inermi per conto di padroni privati a cui lo Stato li aveva affittati. E, soprattutto, quando a mogli, madri, padri e figli di due pescatori, nei quali solo energumeni certi di immunità potevano fingere di aver visto dei pirati, avranno avuto giustizia. E non da una magistratura dell’Aja di cui si sa chi serve, come la Corte Internazionale di Giustizia, che processa solo gente con la pelle scura, o come Il Tribunale dell’Aja per la Jugoslavia, che ammazza gli imputati di cui non riesce a provare la colpa. Intanto alla Pinotti, nel bacio a Girone, gli rimanga in bocca il sapore di un morto ammazzato.
Su Albertazzi i vermi prima ancora di essere sepolto
Con Giorgio Albertazzi è morto un grandissimo attore, a 92 anni, sul palcoscenico, da Adriano imperatore. Un uomo che ha cosparso la Terra di conoscenza, cultura, poesia, verità.
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Le pillole azzurre del capitale
di Cristina Morini
Una lettura del libro di Federico Chicchi, Emanuele Leonardi e Stefano Lucarelli Logiche dello sfruttamento. Oltre la dissoluzione del rapporto salariale (Ombre Corte, pag. 126, 12 euro)
L’algoritmo definitivo del futuro, ovvero la produzione di predizioni che ci riguardano distillate da informazioni sulla nostra esistenza raccolte attraverso la rete, sta lì, acquattato nelle varie infomacchine digitali che usiamo. “Saprà tutto quello che siamo riusciti a insegnargli sulla vita umana” rappresentando “uno strumento di introspezione fantastico: uno specchio, uno specchio digitale, uno specchio capace di prendere vita”[1]. Secondo alcuni frontiera del biopotere foucoltiano, si configura come un lavoro invisibile che, utilizzando le determinazioni che vengono dai nostri dati e percorsi online, si propone prossimamente di afferrare i pensieri che abitano gli arcipelaghi preconsci, non ancora affiorati alla consapevolezza in forma di desiderio compiuto o immaginazione: “l’accelerazione infosferica porta, per così dire, l’inconscio alla superficie della relazione sociale contemporanea”[2], seguendo le parole di Franco Berardi. Futuro della macchina che evoca e genera un processo di inveramento delle idee, prova a materializzarle e a indirizzarle commercialmente per trarne profitti e ottenere “individui liberi ma condizionati” (l’accento sta sull’avversativo). Nel frattempo, Kenneth Griffin di Citadel e James Simons di Renaissance Technologies hanno raggiunto l’apice della classifica 2015 dei gestori hedge found proprio utilizzando strategie algoritmiche elaborate dai computer, con guadagni di 1,7 miliardi di dollari ciascuno e rendimenti intorno al 15 per cento.
Così, insomma, scopriamo vivendo che le previsioni sulla redditività e il potere di controllarle sono il vero valore nell’economia finanziarizzata contemporanea: “il valore del capitale immateriale è essenzialmente una finzione borsistica”[3], aveva sottolineato André Gorz.
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L'evoluzione della teoria di Darwin
di Pierluigi Fagan
La sopravvivenza del più adatto, questa è la sintesi che condensò l’intuizione e la successiva teoria su essa basata di Charles Darwin. Non è, nello specifico, una frase di Darwin ovvero non fu Darwin a dare questa sintesi, essa quindi è una ricezione, come venne recepito il discorso del naturalista. Queste ricezioni, dovendo sussumere tanto in poco (l’Origine delle specie è abbastanza voluminoso e l’argomento di cui tratta è complesso ed originariamente poco determinato nello specifico), fanno scelte linguistiche che vengono operate da mentalità orientate epistemicamente, a loro volta orientate a comunicare qualcosa ad altre menti epistemicamente orientate secondo i codici vigenti in una data epoca.
Cosa succede se pluralizziamo la frase se cioè il condensato del pensiero darwiniano diventasse “la sopravvivenza dei più adatti”? Apparentemente poco ma in realtà, invece, si crea subito una scena diversa. In questa scena non c’è più l’Uno contro Tutti ma i Molti. Questi Molti poi potrebbero ben essere in competizione tra loro e con Altri per sopravvivere ma anche in competizione con Altro. Questo “altro” sarebbe l’impersonale fronte naturale, l’ambiente, il contesto in cui ogni situazione biologica è di sua natura posta. In effetti, il registro naturale che è ciò che affascinava Darwin, è spesso il venirsi a creare di progressivi affinamenti di organi o di prestazioni di organismi, relativamente al loro ambiente. La gran parte di queste caratteristiche fenotipiche, non sono volte alla competizione inter-individuale ma alla fitness con l’ambiente. Del resto, Darwin titolò la sua opera al plurale, parlò delle” specie” e terminò il volume con la famosa dichiarazione di meraviglia per questo bellissimo e complesso spettacolo delle diversità biologiche, un vero inno all’autocreazione del Molteplice[1] che è la “vita”. L’essenza dell’intuizione di Darwin sembra proprio essere il come la relazione con l’ambiente modelli le varie specie.
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Da Keynes a Gramsci
Il filo della pace impossibile nell'internazionalismo dei mercati
di Quarantotto
Nozioni elementari, un tempo note e oggi del tutto dimenticate (nell'insegnamento scolastico e specialmente nelle Università):
1. C'è un articolo di Keynes assurto ormai a rinnovata fama, almeno nel recente, e non casuale, dibattito attuale legato a globalizzazione e federalismo liberoscambista imperniato sull'euro: "National Self-Sufficiency", originato da una conferenza tenutasi all'Università di Dublino il 19 aprile 1933, e pubblicato in varie riviste economiche anglosassoni e anche italiane (in Italia, nel 1933 e nel 1936, con il titolo "aggiustato" di "Autarchia economica", non si sa se dovuto al traduttore o alla "diplomazia" dello stesso Keynes; cfr; la ripubblicazione dell'articolo stesso nel libro J.M.Keynes "Come uscire dalla crisi", raccolta di scritti a cura di Pierluigi Sabbatini, pagg.93 e seguenti; sul punto del titolo italianizzato, v.nota * alla stessa pag.93).
L'articolo non risulta disponibile in rete nella sua versione integrale e per la citazione di vari ulteriori brani rinviamo, ex multis, a questa fonte.
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Anime elettriche, corpi digitali
Linee di fuga e tattiche di resistenza nella gabbia 2.0
di Marco Dotti
Attivo dal 2005, il collettivo di mediattivisti e ricercatori Ippolita è tra le voci più acute e critiche della rete. Hacker libertari, hanno da poco pubblicato un lavoro, "Anime elettriche", in cui ci mostrano il "dietro le quinte" della società del controllo. Li abbiamo incontrati
«A cosa stai pensando?», recita il celebre form di inserimento di Facebook. La confessione è uno dei più potenti dispositivi di manipolazione e colonizzazione dell'immaginario messi in campo dal web 2.0. Nell'illusione di divertirci, incontrarci, conoscersi o di promuovere i nostri progetti, lavoriamo per l'espansione di un mercato relazionale che mescola pratiche narcisistiche e pornografia emotiva. È la servitù volontaria che ci consegna a quella che il collettivo haker Ippolita, che abbiamo incontrato, chiama l'algocrazia, un un esperimento socio-economico e culturale incardinato su algoritmi. Perché i "social" commerciali sono macchine. Macchine per formare soggetti oltre che strumenti per disegnare e profilare caratteri. In ogni caso, spiega Ippolita, «si tratta di sistemi di apprendimento basati sull’addestramento tramite risposte indotte, per creare automatismi performativi».
Poco imposta se la si chiama economia delle identità o comportamentale, economia della condivisione o del dono, osserva Ippolita in Anime elettriche, da pochi giorni il libreria per i tipi di Jaca Book. Al centro della questione - ed è una questione capitale - c'è sempre e comunque un problema: il tentativo di «estrarre valore economico dalla capacità umana di incontrarsi, comunicare, mostrarsi, generare senso e articolare la complessità dei legami sociali».
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Modernità in chiaroscuro
Splendori e miserie dei diritti umani
di Alessandra Ciattini
In un'interessante lezione Federico Martino ha ricostruito la storia dei diritti umani, mostrando la stretta relazione che essi intrattengono con l'individualismo occidentale e con il costituirsi della borghesia. Tale legame di classe ostacola però la loro efficace applicazione
Il passato 6 maggio Federico Martino, storico del diritto e professore emerito dell'Università di Messina, ha tenuto un'interessante lezione sui diritti umani, il cui titolo coincide con quello del presente articolo. La lezione è stata tenuta nell'ambito del corso di Antropologia culturale, disciplina il cui oggetto precipuo è rappresentato dallo studio delle differenze tra le forme di vita sociale che si sono succedute nella storia e che coesistono nella società contemporanea, sia pure ormai inserite in un unico sistema politico-economico profondamente conflittuale. In ambito antropologico l'indagine sulle differenze è sempre accompagnata dalla riflessione sulla possibilità di individuare un denominatore comune che possa fungere da elemento di raccordo tra le diversità che, in seguito ai processi migratori degli ultimi decenni, costellano la nostra vita quotidiana.
Federico Martino ha esordito indicando quali erano i presupposti metodologici a cui si richiamava per illustrare sia pure rapidamente la storia di tali principi fondativi della nostra forma di organizzazione sociale, rimarcando al contempo le criticità che sono strettamente connesse alla loro applicazione, assai spesso ispirata alla volontà di ingerenza ed espansione.
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Ancora sull’Helicopter Money
Money Rain o Money in a Bottle? Ovvero, Prince o i Police?
di Amedeo Di Maio e Ugo Marani*
I richiami alla teoria economica al tempo delle crisi paiono talora imprevedibili e fantasiosi; oggi, tanto per fare un esempio, il superamento di una recessione internazionale che si approssima al decennio di vita viene ipotizzato tramite il varo di misure del tutto radicali, così tanto da superare il pensiero keynesiano e approdare, come per incanto, al suo più tenace oppositore, Milton Friedman.
Paradosso di certo: si scava nel pensiero del più ostinato critico delle politiche keynesiane, anche quando il monetarismo sembra caduto in disgrazia, e si arriva, nel massimo del radicalismo corrente, a resuscitare l’immagine dell’elicottero che, volando sopra di noi, elargisce, per conto della banca centrale, moneta legale ai cittadini di un’economia depressa e afflitta da disoccupazione involontaria.
Supponiamo adesso che un giorno un elicottero sorvoli questa comunità e lanci 1000 dollari dal cielo, che, ovviamente, verrebbero frettolosamente raccolti dai membri della comunità. (Friedman, 1969).
L’intento della provocazione di Friedman in questo passo oggigiorno frequentemente ripreso dalla pubblicistica, specializzata e non, era molteplice:
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Da Occupy Wall Street a Bernie Sanders
Carlo Formenti
Il 26 maggio Jaca Book manda in libreria Un outsider alla Casa Bianca, l’autobiografia politica di Bernie Sanders, scritta con Huck Gutman (282 pp., euro 18). L’edizione italiana è accompagnata da un testo di Marco D’Eramo e dalla postfazione di Carlo Formenti, che proponiamo qui per gentile concessione dell’editore
Bernie Sanders è un populista? Sicuramente si autodefinisce tale (in più occasioni ha dichiarato «sono socialista e populista»). Rivendicazione che suona male alle orecchie di una sinistra europea che, pur se simpatizza per lui, è abituata ad associare il populismo ai movimenti nazionalisti e xenofobi di casa propria (nemmeno l’esordio sullo scenario europeo di movimenti come Podemos è riuscito a scalzare del tutto tale pregiudizio). E ancor più suona male sulle pagine dei big media americani, i quali, unanimemente schierati con i candidati «ufficiali» dei due grandi partiti tradizionali, Democratici e Repubblicani, associano Sanders a Donald Trump – l’uomo che sfida l’ establishment repubblicano come Sanders sfida quello democratico – considerando entrambi espressione di un fenomeno politico che, soprattutto se uno di loro dovesse vincere la corsa presidenziale, minaccia di sovvertire gli equilibri della società, dell’economia e del sistema politico americani. Ma Sanders e Trump si somigliano davvero (politicamente parlando, visto che, in quanto individui, non potrebbero essere più diversi)? E ancora: il populismo rappresenta davvero una minaccia per la democrazia? Proviamo ad abbozzare qualche risposta a partire dal secondo interrogativo.
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Dov'è il comunismo?
Profitto, plusvalore, guadagno e ricchezza reale
Gianfranco Pala
È il caso di rammentare sùbito – onde evitare tanti equivoci nati da una lettura troppo affezionatamente ammiratrice di Marx – che lui quando coniò il titolo del futuro iv libro storico del Capitale <“Teorie sul plusvalore”> lo pensò unicamente in quanto rivolto alla ricerca, del tutto tralasciata o ignorata dagli economisti borghesi (classici e volgari), dell’“origine sociale del profitto” —— ovvero del guadagno dell’imprenditore [proprietario privato] capitalista in sèguito allo scambio contro denaro di merci ottenute entro quello specifico modo di produzione. Ma devono essere chiare due questioni, sia che: 1) questa particolare analisi è circoscritta soltanto al modo di produzione e circolazione della merce capitalistica (dove c’è valore e plusvalore); 2) un qualsiasi proprietario privato, in altri modi di produzione (per ora solo precedenti, i <futuri> per la loro significazione sono ineffabili), può trasformare il mero denaro che possiede, in qualsiasi altro oggetto che desideri o trarne eventualmente un vantaggio monetario. Tuttavia unicamente la rappresentazione del capitale in denaro diviene tale solo e soltanto se esso denaro\capitale è funzionalmente legato a comprare come merce la forza-lavoro altrui per valorizzarsi: ma un vantaggioso guadagno monetario [che gli agenti e i contabili del capitale denotano come “profitto” – e per Marx il tasso del profitto ha cause empiriche e forme diverse dal tasso di plusvalore che pure lo determina concettualmente] si può ottenere in tanti modi diversi dall’uso funzionale della forza-lavoro altrui non pagata, cioè dall’aver trasformato quel <denaro in quanto tale> in capitale per far produrre plusvalore mediante pluslavoro.
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Anamorfosi dello Stato. La gestione dell’ordine in Europa
Salvatore Palidda
Le pratiche adottate dalla polizia francese negli ultimi mesi, e in particolare fra la fine d’aprile e il 18 maggio, hanno scioccato la maggioranza dei manifestanti pacifici e provocato danni e ferite a molti di loro. Il 17 maggio la polizia ha inscenato manifestazioni di protesta contro le violenze anti-flics e il 18 i servizi d’ordine dei sindacati hanno picchiato duramente alcuni cosiddetti casseurs. Le testimonianze e i dibattiti su questi fatti sono numerosi (si vedano i reportage di Médiapart, qualche tv e anche di «Le Monde» e «Libération»)1 . Manca però una riflessione più approfondita e anche una prospettiva comparativa con fatti simili riscontrati, su un periodo più lungo, in altri paesi sedicenti democratici2 .
I fatti
Indurimento, deriva e deregolamentazione incontrollati, involuzione violenta: definizioni come queste, adottate da diversi commentatori delle recenti pratiche poliziesche, indicano che si sarebbe di fronte a un cambiamento inatteso. Tali fatti sono avvenuti nella congiuntura della scelta del governo d’imporre la legge El Khomri di riforma delle norme che regolano i rapporti di lavoro (una sorta di job act), manifestamente ispirata alla logica liberista. I capi dello Stato e del Governo, François Hollande e Manuel Valls, hanno affermato con fermezza di voler escludere qualsiasi negoziazione con i parlamentari «dissidenti» e con sindacati e scioperanti.
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Il debito pubblico italiano: fardello insostenibile o esempio di virtù?
di Marco Rotili
Il debito italiano. Introduzione
Da ormai oltre un trentennio, quanto meno dalla famigerata intervista su “La Repubblica” ad Enrico Berlinguer nel 1981 (tema all’ordine del giorno “la questione morale”), il debito pubblico italiano è elemento centrale del nostro dibattito politico. Ma se al tempo del Berlinguer “moralizzatore” e del pentapartito “spendaccione” (visione ovviamente partigiana e non rispondente pienamente al vero, come vedremo), i termini della questione si ponevano rispetto all’esigenza di una maggiore sobrietà dei costumi e di legalità degli atti/fatti dell’azione amministrativa, dall’inizio degli anni ’90, con l’introduzione dei parametri di Maastricht, il dibattito è gioco forza sceso dall’ambito teorico, per arrivare a porsi come “problema all’ordine del giorno”.
Diciamo che l’eccesso di debito pubblico ha condizionato, attraverso la teoria del “vincolo esterno”, molte (se non la maggior parte) delle nostre scelte di politica economica nazionale. E obiettivamente i parametri di contabilità nazionale hanno sempre fatto apparire il nostro paese come la “pecora nera” all’interno dell’Unione Europea, con un debito pubblico estremamente elevato (ben oltre il 100% del Pil dal 1992, con picchi odierni sino al 132%) nonché poco sostenibile (il disavanzo si è mantenuto oltre il 7% del Pil sino al 1997, per poi attestarsi, in media, nell’intorno del 3%).
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Uscire dall'Euro?
Domenico Moro
L'analisi di quanto accaduto a partire dall'introduzione dell'euro e soprattutto dallo scoppio della crisi nel 2007-2008 dimostra la necessità di mettere a tema la disgregazione dell'area euro. Su questo bisogna fare due precisazioni. La prima è che l'obiettivo primario deve essere la Uem (Unione economica e monetaria) e non la Ue nel suo complesso. Nonostante la Ue sia una istituzione tutt'altro che neutrale dal punto di vista di classe e funzionale alle istanze del capitale, è l'euro lo strumento attraverso cui passa la ristrutturazione capitalistica a livello continentale. Senza di esso il capitale perderebbe gran parte della sua capacità di imporre politiche antipopolari e alla Ue mancherebbe il braccio operativo. La seconda è che il nostro primo compito consiste nel chiarire la necessità della disgregazione dell'area euro. Il come questo debba avvenire è importante, ma è successivo. La disgregazione dall'euro può avvenire in modi diversi: per mutua decisione di tutti i Paesi partecipanti, oppure per decisione unilaterale di uno o di più Paesi. La mia opinione è che l'uscita dall'euro anche unilaterale di uno o più Paesi non debba più essere considerata un tabù, bensì come una opzione praticabile e soprattutto necessaria. Tuttavia, il quando e il come ciò possa avvenire non è indifferente, ed è legato alle condizioni del contesto generale e della lotta di classe, sebbene già oggi, come accennerò più avanti, sia necessario inserire l'uscita dall'euro in una elaborazione programmatica più complessiva.
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Nel ground zero della Politica
Benedetto Vecchi
«Non ti riconosco», un viaggio nella crisi del «made in Italy» a firma di Marco Revelli per Einaudi. Un libro sulla fine della grande fabbrica e dei distretti industriali, orfani di qualsiasi progetto di liberazione sociale
Un lungo viaggio per l’Italia, facendo tappa nelle città, le regioni, i luoghi che ne hanno scandito la storia nel lungo Novecento. È quanto fa Marco Revelli nel volume Non ti riconosco (Einaudi, pp. 250, euro 20). Il punto di partenza non poteva che essere Torino, la città operaia per eccellenza che Revelli conosce benissimo. Lì è cresciuto come intellettuale, lì è cresciuto politicamente. A questa company town ha dedicato altri libri e innumerevoli di articoli e saggi. Torino era il luogo di un modello di società da cambiare per costruire una «città futura». Non è andata così, come è noto.
Torino è diventata il ground zero del Novecento italiano. Di quella classe operaia che ha incendiato le menti di molti militanti ci sono solo flebili tracce, il resto sono aree dismesse, terreni inquinati, rottami, ruggine e una immensa sequenza di templi del consumo che ne hanno ridisegnato la geografia, anche sociale. Il centro storico è stato però ripulito, rimesso a nuovo; i sindaci che si sono succeduti negli ultimi dieci, venti anni hanno solo accompagnato l’approfondirsi della sua morte come città simbolo dell’Italia industriale. Alcuni con pragmatismo, altri con complice subalternità ai piani della Fiat di abbandonare la città per proiettarsi sul palcoscenico impalpabile della finanza. Come in tanti altri luoghi, gli operai cacciati dalla fabbrica non hanno avuto altra alternativa che sopravvivere alla lenta, ma progressiva desertificazione sociale; l’élite invece si è «deterritorializzata», recidendo i suoi legami con il territorio, altra parola magica che tutto dice per non affermare nulla.
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Si può arginare l'uso capitalistico del digitale?
Necessaria una rivoluzione nel nostro modo di pensare
Intervista a Sergio Bellucci
Quali sono le ripercussioni della rivoluzione digitale del XXI secolo incombenti sull’ assetto sociale e politico europeo?
Il digitale rappresenta più che una rivoluzione, rappresenta un passaggio di paradigma. Per alcuni versi è molto più profondo di qualsiasi cambiamento sociale, culturale ed economico concepibile da un’idea politica. Dall’altro sembra che possa riproporre una dialettica tra le classi. Ma di nuova generazione. Oggi se il digitale resta confinato, egemonizzato dal capitalismo globale e a dimensione planetaria, rischia di produrre una società suddivisa tra pochissimi ricchi e tantissimi poveri, tra una piccola parte di sfruttatori e una massa sterminata di sfruttati. La metafora creata da Occupy Wall Street è la più efficace: l’1% contro il 99% del mondo.
Quali cambiamenti ha apportato sulla nostra società e sullo scenario politico?
È cambiata la forma della socializzazione. Quando cambia la natura e la modalità con le quali gli umani si scambiano le relazioni, cambia tutto. E la politica non può restare al palo, pena la propria decadenza, la propria marginalità, la messa in fuori gioco. Ma non è solo un problema dei partiti. Anche le istituzioni, le forme codificate tra l’Ottocento e il Novecento delle nostre democrazie sono investite da nuove domande, da nuove richieste di partecipazione e di decisione.
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La teoria marxiana del valore. Le confutazioni
di Ascanio Bernardeschi
Se si legge Marx con le lenti di Ricardo, la sua teoria appare contraddittoria. Occorre invece avere chiara la sua netta rottura con l'economia classica
La difficoltà o l'impossibilità di misurare gli oggetti non implica che essi non esistano o che non siano regolati da determinate leggi. Nella meccanica quantistica, per esempio, secondo il principio di indeterminazione di Heisenberg, è impossibile misurare con precisione, nello stesso istante, sia la posizione che la velocità di una particella. Però la teoria di Marx è stata criticata per via della difficoltà di misurare il lavoro sociale necessario a produrre una merce oppure di stabilire a quanto tempo di lavoro semplice corrisponde un'ora di un lavoro complesso, maggiormente specializzato. È agevole rispondere che per Marx è il mercato a stabilire il tempo lavoro necessario a produrre una merce. Se la misura immanente del valore è il tempo di lavoro, quella “fenomenica esterna” è il denaro, quale rappresentante di ricchezza astratta e quindi di un certo tempo di lavoro. È il mercato che verifica se e in che misura il lavoro prestato è lavoro socialmente necessario. Così pure, Marx non si è mai sognato di cercare di risolvere il “puzzle” [1] della riduzione del lavoro complesso a lavoro semplice, limitandosi casomai a indicare come ciò sia possibile in via teorica. Anche nei suoi esempi numerici, ha quasi sempre utilizzato il denaro come misura del valore. La sua teoria non serve a determinare in vitro il valore delle merci, ma a scoprire le leggi di movimento del modo di produzione capitalistico e metterne a nudo le contraddizioni. Essa deve essere valutata sulla base della sua capacità o meno di raggiungere questo obiettivo e naturalmente sulla base della sua coerenza interna.
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Le ragioni del no all'arretramento costituzionale*
di Domenico Gallo
Quali sono le ragioni della nostra critica alla Costituzione quale è stata riscritta dal governo, voluta da Renzi e propagandata dalla Boschi?
Innanzi tutto il metodo. La Costituzione non e’ un regolamento di condominio, non è una legge ordinaria, è qualcosa che si pone al confine tra la storia e il diritto; nella Costituzione entra il senso delle vicende storiche del Paese. La Costituzione del ’48 è l’espressione di una vicenda storica particolarmente dura per il nostro Paese. La Costituzione rappresenta cio’ che unisce gli italiani e li trasforma in una comunita’ in cui tutti si possano riconoscere e in cui tutti possano riconoscere di avere un destino comune. Quindi la Costituzione non è frutto di un indirizzo politico di maggioranza, non puo’ essere scritta da una fazione. In effetti la Costituzione fu approvata da un’Assemblea costituente eletta col metodo proporzionale, che rappresentava tutte le opzioni politico-culturali presenti nella societa’ italiana; il lavoro di questo corpo costituzionale fu portato a termine con un’approvazione quasi all’unanimita’; ci furono 453 voti su 515, quindi la stragrande maggioranza del popolo italiano approvo’ la Costituzione che adesso viene messa in questione.
L’attuale riforma è la piu’ vasta, la piu’ organica che sia stata mai proposta dal ’48 ad oggi, se si fa eccezione della riforma di Berlusconi che non è mai diventata legge perche’ fu bocciata nel referendum del 2006; quindi giustamente il nostro documento dice che questo disegno di legge sostituisce la Costituzione italiana con un’altra.
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Napoli fa 90!
A proposito di elezioni, lotta al Governo Renzi e futuro che ci attende
Premessa
In queste pagine vogliamo condividere la nostra lettura della fase economica e politica, esprimere il nostro punto di vista sulla prossima tornata amministrativa a Napoli, e sui compiti che ci attendono se vogliamo provare a contrastare la crisi e le politiche che da ormai otto anni ci stanno massacrando. Speriamo soprattutto che questo documento possa diventare la base di futuri confronti.
Prima di iniziare ci teniamo però a socializzare questa riflessione, una preoccupazione e una speranza che non ci fa dormire la notte.
I tempi che stiamo vivendo sono davvero eccezionali. Dal 2008 gran parte del mondo è in preda a una crisi economica epocale, la più grave di sempre. Le classi dominanti non hanno la minima idea di come uscire da questa crisi, perché per uscirne bisognerebbe toccare i loro profitti e le loro ricchezze, e non vogliono che questo accada. Non vogliono concederci nulla, anche perché sanno che la fame vien mangiando... Quindi restringono gli spazi di espressione, manganellano ogni protesta, ci fanno fare ulteriori sacrifici, tagliano servizi sociali, aumentano tasse, tolgono diritti.
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