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I linguaggi della Narcoguerra
di Militant
La “guerra alla droga” è lo strumento politico attraverso cui gli Stati uniti mantengono il controllo amministrativo ed economico di alcuni Stati dell’America Latina e centrale. Non è una lotta del “bene contro il male”, soprattutto laddove il primo è rappresentato dagli Usa o, peggio ancora, dalle sue particolari agenzie repressive (Cia, Dea, Nsa); l’obiettivo non è quello di estinguere il problema, sia perché questo è il prodotto di una domanda incontrollabile dei paesi occidentali, sia perché droga e narcos costituiscono privilegiati strumenti di controllo di territori e dinamiche sociali da utilizzare come “agenti di prossimità”; è, infine, una questione eminentemente politica e non semplicemente criminale, d’ordine pubblico, militare o in qualche modo tecnica: è politica perché deriva da specifiche cause sociali che la determinano; perché è prodotto diretto degli accordi neoliberisti di libero scambio tra paesi subalterni all’economia Usa; perché serve ai politici locali per costruire legittimazione che poi riversano contro le popolazioni povere dei rispettivi contesti e per facilitare gli accordi di libero scambio di cui sopra. Sebbene scomparsa dai radar dei media occidentali, la lotta alla droga costituisce uno dei più rilevanti ambiti di gestione imperialista dei territori. In questi anni è soprattutto il mondo della cultura di massa ad essersene occupata, con linguaggi e obiettivi differenti, a volte opposti. E’ interessante capire come avviene il racconto della “guerra alla droga”, alla luce di alcuni specifici lavori usciti in questo anno, che contribuiscono a dare una panoramica degli interessi e delle sensibilità sul tema in questione.
Dei due imprescindibili romanzi di Don Winslow (qui e qui) ce ne siamo occupati tanto in passato e di recente.
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La performance zoppa e il cantiere del «comune»
Christian Laval
Christian Laval oggi alla «Scuola di politica» di Napoli. Un’anticipazione dell’intervento del sociologo sulla radicalizzazione del neoliberalismo
Stiamo vivendo una forte accelerazione dei processi economici e securitari che stanno trasformando nel profondo le nostre società. Abbiamo a che fare con un’accelerazione del processo di uscita dalla democrazia. Da una parte vi è la potenza rinnovata dell’offensiva rivolta contro i diritti sociali ed economici dei lavoratori; dall’altra parte, la moltiplicazione dei dispositivi securitari rivolti contro i diritti civili e politici dei cittadini. Stato d’emergenza anti-sociale in nome della disoccupazione e della perdita di competitività da un lato; stato d’emergenza securitario permanente dall’altro: le due vie d’uscita dalla democrazia e dallo stato di diritto si completano e si appoggiano reciprocamente.
Uscita accelerata dalla democrazia per mezzo di questa duplice e connessa radicalizzazione, neoliberale e securitaria: questa è la diagnosi che si può fare della dinamica politica dominante nella quale siamo coinvolti. La radicalizzazione neoliberale è proprio uno dei fenomeni che maggiormente caratterizzano il periodo che stiamo vivendo. Come spiegare questa radicalizzazione neoliberale? Perché e in che modo il neoliberalismo è uscito più forte dalla crisi? Questa radicalizzazione deriva dalla razionalità dello stesso neoliberalismo. La crisi, che è la conseguenza delle politiche neoliberali, è in effetti anche la causa di questa radicalizzazione neoliberale. La crisi, in tutte le sue forme, e alla luce degli aspetti più oggettivi come di quelli più retorici della propaganda ufficiale, è al tempo stesso il principale strumento e il principale argomento della disciplina che è oggi imposta alla popolazione e ai lavoratori. Questa crisi, al tempo stesso conseguenza e causa della radicalizzazione, è diventata uno strumento di governo, una razionalità per governare, un argomento costante delle riforme dette strutturali.
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Lo Stupro di Timor Est: ”Sembra Divertente”
di John Pilger
Alcuni documenti segreti saltati fuori dagli Archivi Nazionali Australiani ci danno la possibilita’ di dare un’occhiata al come uno dei piu’ grandi crimini del Xxmo secolo fu eseguito e tenuto nascosto. I documenti ci permettono anche di capire come e per chi il mondo funziona.
I documenti si riferiscono a Est Timor, al giorno d’oggi chiamata anche Timor-Leste, e furono scritti da diplomatici dell’ambasciata Australiana di Giacarta. La data era Novembre 1976, meno di un anno dopo che il dittatore Indonesiano Generale Suharto si era impossessato di quella che allora era una colonia Portoghese nell’isola di Timor.
It terrore che ne segui’ ha pochi paralleli: neanche Pol Pot riusci’ a assassinare, proporzionalmente, cosi’ tanti Cambogiani quanti ne uccisero Suharto e i suoi colleghi generali a Est Timor. Massacrarono quasi un terzo della popolazione che allora contava quasi un milione di persone.
Questo fu il secondo olocausto di cui Suharto si rese responsabile. Un decennio prima, nel 1965, Suharto si impadroni’ del potere in Indonesia in un bagno di sangue che porto’ alla morte di piu’ di un milione di vite umane. La CIA riporto’:” In termini di numero degli uccisi, i massacri costituiscono uno dei peggiori assassinii di massa del XXmo secolo”.
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E' guerra! Ecco i retroscena. Con delle proposte per reagire
Renzi riporta l'Italia in Africa per (ri)colonizzare la Libia
Patrick Boylan
Stiamo per entrare in guerra. Silenziosamente, con il dibattito parlamentare ridotto a zero. Il nostro compito più urgente: suonare l'allarme. Per farlo è prevista una giornata di manifestazioni contro la guerra il 12 marzo
Ieri il Giornale ha svelato che lo scorso 10 febbraio il Consiglio dei Ministri ha varato, segretamente, l'autorizzazione all'utilizzo di forze speciali italiane in Libia, al di fuori di qualsiasi autorizzazione dell'ONU e senza l'invito del governo libico, ancora in formazione (ma i cui principali esponenti hanno già fatto capire che considererebbero qualsiasi invasione europea come un atto di aggressione). Trattandosi dell'invio di forze speciali per una “operazione di emergenza” e non (ancora) dell'invio delle truppe regolari, si è potuto evitare il vaglio parlamentare.
L'ordine di invasione sarebbe imminente e attende solo la firma del Presidente del Consiglio Matteo Renzi.
Si tratta, concretamente, d'inviare per ora “solo” una testa di ponte il cui scopo dichiarato sarebbe quello di proteggere alcuni impianti petroliferi che interessano l'ENI; in seguito il governo conta di inviare diverse migliaia di truppe ma spera di annacquare il relativo dibattito parlamentare includendo l'invasione della Libia tra le “missioni di pace all'estero” da approvare in un pacchetto complessivo.
Ma quale sarebbe l'emergenza attuale in Libia che giustificherebbe l'invio immediato delle forze speciali italiane? Si tratta forse di proteggere certi impianti petroliferi, adocchiati dall'ENI, dalla minaccia del cosiddetto “Stato Islamico” (o “ISIS” o “Daesh”)?
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Vita quotidiana. Tra Freud e Heidegger
Enrica Lisciani-Petrini
1. Se c’è un aspetto sul quale val la pena di focalizzare l’attenzione – se si guarda, anche con uno sguardo di sorvolo, al quadrante storico che va da Baudelaire fino ai giorni nostri – è la pervasiva e crescente irruzione della vita quotidiana a tutti i livelli. Dall’arte (cinema, fotografia, letteratura, pittura, come anche nella musica) fino agli altri ambiti della realtà, emerge – con l’avvento soprattutto della vita metropolitana – una visione delle cose che si separa dalle forme spirituali, perfette, armoniose, dalle figure eroiche del passato, per lasciare il posto alle forme informi della vita anonima e brulicante, refrattaria ad ogni qualifica, del quotidiano. Sì che alla figura dell’eroe (ovvero dell’eroina) subentra quella dell’uomo qualunque, del “chiunque” anonimo, insomma dell’«uomo senza qualità» per dirla con la celeberrima espressione di Musil. Il che smantella quella nozione di soggetto che trova nel personaggio dell’eroe, effigiato in una luminosa aureola identitaria, quale soggetto incomparabile, individualmente unico e insostituibile, il suo emblema principe. Non a caso, del resto, il processo di progressiva, per dir così, “quotidianizzazione” del reale va di pari passo proprio con quella radicale dissoluzione della categoria di soggetto che ha attraversato, come ben si sa, l’intero Novecento.
Solo che – ecco il punto che in questa sede vorrei sviluppare – l’irruzione della vita quotidiana conferisce a quella dissoluzione una connotazione molto significativa.
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In Iran hanno vinto i centristi
Occidente accecato dai pregiudizi
Nicola Pedde*
Una grande confusione ha caratterizzato la lettura dei risultati elettorali iraniani da parte della stampa internazionale, nell'interpretazione di un voto per le elezioni parlamentari e dell'Assemblea degli Esperti in Iran che ha visto i principali titoli dividersi tra una vittoria netta dei riformisti e del presidente Rohani e le smentite dall'Iran che hanno dato invece per vittoriose le forze conservatrici.
La ragione di questa confusione è in larga misura da individuarsi nel modo in cui, ancora una volta, gli europei e gli occidentali in genere si ostinano a leggere le dinamiche politiche e sociali dell'Iran, delineando una netta linea di demarcazione tra i riformisti e i conservatori.
I riformisti, per gli occidentali, rappresentano il "desiderata politico" con cui misurarsi e che immaginano come una forza ideologica anti-regime, anti-rivoluzionaria e pro-occidentale, animata dal solo desiderio di mutare il connotato politico dell'Iran in un qualche ibrido vicino ai modelli occidentali.
Allo stesso tempo, i conservatori sono visti dalla gran parte degli occidentali come un insieme di anziani teocrati radicali, fanaticamente religiosi e anti-democratici, animati dal solo desiderio di mantenere in vita l'apparato tradizionale islamico forgiato con la rivoluzione.
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Contro l’utero in affitto
Luisa Muraro, Paolo Ercolani, Diego Fusaro
1. Luisa Muraro: utero in affitto, mercato delle donne
Intervista di Lucia Bellaspiga a Luisa Muraro in Avvenire 4 novembre 2015
«La tratta e la schiavitù sono già un crimine riconosciuto e condannato a livello internazionale, invece contro l’utero in affitto, la forma più odiosa di sfruttamento del corpo delle donne, bisogna combattere. Siamo ancora in tempo». Luisa Muraro, filosofa e figura di riferimento del femminismo italiano, fondatrice a Milano nel 1975 della Libreria delle Donne, è persona difficile da circoscrivere: «Figura storica del femminismo? No, ho cominciato prima del femminismo, con il Comitato per la pace nel Vietnam, che fu iniziazione politica di molta gente della mia generazione, prima ancora del Sessantotto. Poi fondai un piccolo circolo dissidente dedicaito a Bernanos per il suo documento sulla guerra di Spagna. Infine l’incontro con femministe davvero storiche come Lia Cigarini e Carla Lonzi, e la nascita della Libreria delle Donne…».
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L'utero in affitto e i clerico-fascisti di sinistra
di Turi Comito
Le deboli obiezioni di coloro che si battono per l'utero in affitto, le loro sottovalutazioni, le distorsioni che non vogliono dibattere
Malgrado mi fossi ripromesso con me stesso e con altri amici di non parlarne più, torno sulla questione dell'utero in affitto o, se si preferisce GPA (gestazione per altri), per due motivi.
Il primo è che il dibattito in questi giorni ha assunto i toni di una vera guerra di opinioni come non ne vedevo da tempo e siccome io sono schierato con chi è contrario a questa pratica non mi sottraggo alla chiamata alle armi.
E il secondo è che mi sento molto urtato nel vedermi accostato a personaggi tipo Adinolfi o a un qualunque retrogrado cardinale di Santa Romana Chiesa. Con questa gente, a parte l'aria che respiro, non ho nulla in comune.
Quindi esporrò alcune mie considerazioni - che potranno interessare qualcuno, essere liberamente criticate da altri o semplicemente ignorate da tutti - solo per evitare fraintendimenti.
Prima di cominciare vorrei però sottrarmi ad una specie di obbligo che pare sia, in questi giorni, necessario da parte di chi parla di queste cose. Non mi interessa nulla della questione di Vendola né mi interessa augurargli tutto il bene possibile a lui e famiglia. Sinceramente non ne sento la necessità altrimenti avrei dovuto pure fare gli auguri alla nipote della regina d'Inghilterra per i figli che ha avuto e a tutta un'altra infinita serie di personaggi pubblici che hanno avuto figli, in una maniera o nell'altra, e di cui non mi è mai fregato assolutamente niente.
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Diritti delle coppie omosessuali: proviamo a “comprendere”
di Walter Moretti
Riceviamo da Fabio Bentivoglio questo contributo alla discussione sui diritti di Walter Moretti, che pubblichiamo volentieri (M.B.)
Se siamo qui a scrivere sulla questione dei diritti delle coppie omosessuali, dopo aver letto e sentito milioni di parole in proposito, è perché ritengo che il dibattito sia a un livello a dir poco avvilente, perché monopolizzato da quelli che Massimo Bontempelli nel suo scritto “Diciamoci la verità” (Koiné, Gennaio/giugno 2001 ed. C.R.T.) ha definito i teorici del “libertarismo arbitraristico”, tipico della sinistra progressista, a fronte del falso moralismo repressivo tipico dei cattolici e della destra.
Prima ancora di dividersi in merito alla questione in oggetto, ritengo di fondamentale importanza cercar di comprendere perché oggi il tema del diritto delle coppie omosessuali di sposarsi e avere figli (queste due possibilità sono strettamente collegate tra di loro, nonostante i tentativi di farli apparire come scindibili, perché se anche il parlamento non dovesse legalizzare l'adozione, tale possibilità dovrà comunque esser concessa per via giudiziaria) sia avvertito come una questione così dirimente, addirittura un discrimine di civiltà, in un’ epoca in cui l’economia e di conseguenza la politica hanno fatto piazza pulita di tutti i diritti sociali acquisiti dal dopoguerra fino all’inizio degli anni ‘80. Non mi occupo professionalmente di filosofia e di storia (che coltivo per mio interesse personale), ma credo che se sapute interrogare, queste discipline siano in grado di darci delle “lezioni” che consentono di meglio decodificare le questioni del nostro tempo. Sono “lezioni” che costano fatica, ma credo che valga la pena riproporle sia pure in termini ultra sintetici.
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Dove casca l'asino del neoliberista
di Leonardo Mazzei
Nazionalizzare per privatizzare: le pittoresche contraddizioni del sig. Giavazzi
Pubblicizzare le perdite per privatizzare i profitti: sai che novità!
Il "bostoniano" della Bocconi, al secolo Francesco Giavazzi, ce l'ha riproposta ieri mattina sul Corsera come fosse l'innovazione del secolo. Quando, invece, è quel che Lorsignori van facendo da decenni. Questa volta si tratta di nazionalizzare le perdite del Monte dei Paschi di Siena (Mps), per mettere le mani sui profitti delle maggiori aziende che lo Stato ancora controlla.
Nell'articolo Giavazzi non si occupa solo di questo. Già il titolo dell'edizione cartacea è un doveroso omaggio all'indiscussa presunzione del soggetto: «Le 5 cose da fare per ripartire». Il Nostro prende atto che la ripresa non c'è —sai che scoperta! E perché non c'è? Perché il Renzi del Jobs act è sì bravo, ci mancherebbe!—, ma è troppo attento alle scadenze elettorali. Eh, bei tempi, quando non c'era neppure la seccatura del voto!
Dunque, cosa bisogna fare? Ovviamente dar retta a lui. Nei 5 punti elencati, ve n'è perfino uno condivisibile (il rilancio degli investimenti pubblici). Per il resto è la solita solfa fatta di liberalizzazioni, come se non fossero in atto da un quarto di secolo; di imponenti tagli alla spesa pubblica per consentire una forte riduzione delle tasse; di nuove massicce privatizzazioni.
Ovviamente le tasse che Giavazzi vuol tagliare sono solo quelle delle imprese.
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Elvio Fachinelli, il dissidente
Esce in questi giorni da DeriveApprodi un libro molto atteso, Al cuore delle cose. Scritti politici (1967-1989) di Elvio Fachinelli (255 pp., € 18), che ci restituisce la parte sinora oscurata di un’opera che per il resto è giustamente celebrata, a livello editoriale, da marchi come Adelphi e Feltrinelli. L’infaticabile Dario Borso ha rintracciato sessantuno testi dispersi, per lo più brevi o brevissimi, che Fachinelli andò pubblicando in quegli anni sulle sedi più diverse: dalle riviste di politica e cultura alle quali collaborò (Quaderni piacentini, Quindici, anche la prima alfabeta: con la relazione al convegno milanese ispirato nel 1984 al libro omonimo di George Orwell, Le vivenze, uscita sul numero di dicembre dello stesso anno) oltre ovviamente quella che fondò (L’erba voglio, uscita dal 1971 al ’77: quando venne chiusa, dopo la pubblicazione del numero 29-30 – e una perquisizione di polizia), ai settimanali e ai quotidiani: L’Espresso, la Repubblica, il Corriere della Sera (sembra un altro secolo, e in effetti lo era; era, però, appena trent’anni fa).
Si compone attraverso questi tasselli una specie di mosaico dunque, più che un affresco, della realtà psichica italiana (e non solo). Come scrive Borso nella sua prefazione, «il paziente suo più complicato fu l’Italia, e il trattamento più lungo fu della realtà italiana»: un trattamento che procedeva «per chiavi e spie assolutamente inedite, per brevi rilievi sismografici che segnalano pur senza spiegarla (senza risposta cioè) una realtà in continuo movimento, ossia un sommovimento».
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Collasso del Kurdistan iracheno
di Andre Vltchek
Soleva essere presentato come una storia di successo. Ci raccontavano che in mezzo a un Medio Oriente stuprato, circondato da disperazione, morte e dolore, brillava luminosa come una fiaccola di speranza una terra di latte e di miele.
O era più come una torta circondata da marciume? Quel luogo eccezionale era chiamato Kurdistan o, ufficialmente, ‘Regione Kurdistana’.
E’ qui che il vittorioso capitalismo globale è andato riversando ‘massicci investimenti’ mentre l’occidente stava ‘garantendo sicurezza e pace’.
Qui imprese turche stavano realizzando e finanziando innumerevoli progetti, mentre le loro autobotti e poi un oleodotto trasferivano in occidente quantità sbalorditive di petrolio.
Nell’elegante aeroporto internazionale di Erbil uomini d’affari, soldati ed esperti della sicurezza europei socializzavano con specialisti ONU dello sviluppo.
Che cosa importa che il governo della Regione Kurdistana continuava a scontrarsi con la capitale, Baghdad, sulle riserve di petrolio o sulla portata dell’autogoverno e su molti altri temi essenziali.
Che cosa importa che (come accade spesso in società estremamente capitaliste) gli indicatori macroeconomici erano improvvisamente in spaventoso contrasto con la crescente miseria della popolazione locale.
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Le crisi dell'Unione Europea
Franco Russo
Basta scorrere i titoli delle Conclusioni dell’ultimo Consiglio Europeo (17-18 dicembre 2015), per cogliere la gravità delle crisi in cui si dibatte l’UE: migrazioni, terrorismo, unione monetaria, mercato interno, clima, Brexit, ISIS e Siria. Leggendole ci si accorge subito che l’UE le affronta con il consueto approccio: varare misure per affrontare nell’immediato le crisi senza essere mossi da prospettive di lungo periodo, attuarle passo dopo passo, sempre però in funzione della costruzione e gestione del mercato unico sovranazionale, il vero e solo grande disegno delle élite europee. Nella ‘realtà effettuale’, per usare parole di Machiavelli, quelle che si vanno compiendo non sono scelte di routine, anche se l’UE le presenta business as usual. Questo approccio non è casuale, in quanto tipico del pluridecennale metodo funzionalista – ‘da cosa nasce cosa’, ciò che raffinati esegeti chiamano ‘effetti di spill over’; in secondo luogo, perché questa routine dai tratti burocratici esprime la consapevolezza delle élite europee dell’ampiezza dei loro poteri in grado di imporre le proprie scelte senza che in nessun paese – neanche là dove sono stati infranti equilibri politici come in Spagna Grecia e Portogallo – governi, partiti, sindacati o movimenti abbiano l’intenzione e, soprattutto, la forza di opporvisi. A scontrarsi, almeno a parole, con l’UE sono formazioni di estrema destra che si battono esclusivamente contro l’ingresso dei migranti e che come alternativa prospettano al più il ritorno allo Stato-nazione, ormai indebolito dalla devoluzione di poteri sovrani; oppure sono capi di governo, come Renzi, che sperano grazie alle polemiche con la Commissione di lucrare consensi nei sondaggi d’opinione e alle elezioni.
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Intellettuali declassati
Gli intellettuali, l’impegno e la fine delle utopie
di Andrea Amoroso
Pubblichiamo un estratto del saggio contenuto ne Le nuove forme dell’impegno letterario in Italia, a cura di Federica Lorenzi e Lia Perrone (Giorgio Pozzi Editore, 2015)
Felice chi è diverso
essendo egli diverso.
Ma guai a chi è diverso
essendo egli comune.
Sandro Penna
Thomas Mann, Tonio Kröger
Quello della fine dell’”intellettuale-legislatore”, per riprendere ancora la definizione di Bauman, è un mantra che in Italia va avanti non da anni, bensì da decenni. È già a metà degli anni Settanta (in un saggio poi confluito nella volume Il critico senza mestiere), che il critico Alfonso Berardinelli parla di prendere atto di una
avvenuta dissoluzione di un corpo ideologico al cui interno sono state vissute quasi tutte le vicende italiane degli ultimi trent’anni [nei quali] poesia e letteratura sembrano, inoltre, aver perduto del tutto il loro carattere di relativa e simbolica centralità all’interno del sistema culturale. [1]
Quando Berardinelli scrive queste righe siamo nel 1975; poco più di un decennio dopo Zygmunt Bauman conierà la sua fortunata e abusata definizione, efficace certamente dal punto di vista comunicativo ma non altrettanto convincente dal punto di vista concettuale.
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Foucault contro il Leviatano
“La grande soif de l’Etat” di Arnaut Skornicki
Paolo Missiroli
Scrivere un libro sullo Stato e su Foucault può apparire o impresa impossibile o banale ripetizione. Impresa impossibile in quanto Foucault è notoriamente il teorico del potere inteso come relazione e non come cosa che si possiede e che sta in un luogo od in un altro e, per questo, un grande critico dello statocentrismo, cioè di ogni analisi (Hobbes) che consideri il potere risiedere nelle mani dello Stato, cioè del detentore della violenza fisica in ultima istanza. Banale ripetizione perché in effetti Foucault dello Stato ha parlato parecchio, sopratutto nei corsi tenuti al College de France dal 1975 al 1980. In quegli anni ha elaborato le assai conosciute e spesso abusate, sopratutto in Italia, categorie di biopolitica e governamentalità, ed ha approfondito e studiato la storia del liberalismo e del neoliberalismo, tutti concetti evidentemente legati a quello di Stato. Ognuno di questi termini è stato soggetto di saggi ed articoli a non finire e l’ennesimo libro sulla governamentalità nel pensiero di Foucault, o sulla concezione neo ed ordo liberale dello Stato, non desterebbe alcun interesse.
L’ultimo libro di Arnault Skornicki, La grande soif de l’État (La grande sete dello Stato), per Les praires ordinaires, non risulta né assurdo né banale. Questo è dato, credo, da una duplice motivazione: in primo luogo l’approccio dell’autore, che è essenzialmente comparativo (non a caso il sottotitolo è Michel Foucault avec les sciences sociales), che gli consente numerosi excursus tra vari autori come Bordieou, Elias, Weber, Poulantzas ed altri, utili sia per comprendere il pensiero di Foucault sui vari punti, sia per allargare il respiro del testo, rendendolo così un libro non tanto su Foucault ma sullo Stato.
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Perché l’euro è condannato
di Vincent Brousseau
Dal sito de l’Union Populaire Républicaine – nuovo movimento politico francese che si propone il ristabilimento della democrazia con l’uscita dalla UE e dall’euro – una interessante analisi del Prof. Vincent Brousseau sul meccanismo e la dinamica dei saldi Target2: essi sono allo stesso tempo condizione necessaria dell’unione monetaria, ma anche pomo della discordia; riprendendo la loro fuga in avanti, portano ad una situazione sempre più irragionevole e inaccettabile
Qualche giorno fa, l’UPR ha segnalato che i saldi Target avevano ripreso la loro fuga in avanti, cosa sulla quale i media francesi rimangono straordinariamente discreti.
Il grafico accanto mostra l’evoluzione di questi saldi Target da prima dell’inizio della crisi fino ad ora. Questi saldi sono debiti e crediti in un sistema chiuso; la loro somma è quindi pari a zero, il che spiega l’aspetto simmetrico del grafico. I debiti (in basso) riflettono i crediti (in alto).
La fase 2011-2013 è stata un momento di panico. Col passare del tempo, abbiamo accumulato dati sufficienti per poter fare una constatazione: Se non si considera questo episodio di panico, si può constatare ora che il ritmo di fondo della progressione non si è mai interrotto. La Bundesbank accumula ogni anno, in media, circa 80 miliardi di crediti supplementari. E, dal 2008, si arriva a un rispettabile totale di 600 miliardi.
Per dare un ordine di grandezza, vorrei ricordare che il bilancio totale della Bundesbank all’inizio dell’euro era solo di 250 miliardi, e nel 2005, di 300 miliardi.
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Le insuperabili criticità della riforma costituzionale Renzi-Boschi
di Alessandro Pace *
Violazione degli artt. 1 e 48 della Costituzione
Il Governo Renzi, con il d.d.l. cost. AC n. 2613-B, già approvato nella prima delle due deliberazioni richieste per le leggi di revisione costituzionale, si propone di modificare le disposizioni costituzionali contenute nei titoli I, II, III, V, VI della Parte II della Costituzione e nelle disposizioni finali. Ebbene, poiché tali modifiche sono svariate – come si desume dalla stessa intitolazione della legge («Superamento del bicameralismo paritario e revisione del Titolo V della Parte seconda della Costituzione») – una volta che tale legge fosse sottoposta a referendum, coercirebbe la libertà di voto degli elettori (art. 48 Cost.) e violerebbe, nel contempo, la proclamazione della sovranità popolare «nelle forme e nei limiti della Costituzione» (art. 1 comma 2 Cost.), in quanto, trattandosi di una legge dal contenuto disomogeneo, l’elettore potrebbe esprimere, sull’intero testo, solo un sì o solo un no ancorché le scelte da compiere sono almeno due: la modifica dell’attuale forma di governo (e cioè il rafforzamento del Governo a spese del Parlamento, con un Senato ridotto ad una larva) e la modifica della forma di Stato (essendo rafforzata la posizione dello Stato centrale nei confronti delle Regioni).
Il che evidenzia l’illegittimità costituzionale che caratterizza il d.d.l. cost. AC n. 2613-B, perché viola, come già detto, gli artt. 1 e 48 Cost. Un vizio che non contraddistingueva invece la c.d. riforma della Costituzione proposta dal Governo Letta (d.d.l. cost. n. 813 AS), naufragata strada facendo, il cui art. 4 comma 2 prevedeva appunto che «Ciascun progetto di legge è omogeneo e autonomo dal punto di vista del contenuto e coerente dal punto di vista sistematico».
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Classe lavoratrice, sindacato, storia del Movimento Operaio
Riflessioni sull’oggi
Alessandro Mazzone
1. Il lettore di “Proteo” sa bene che questa rivista a carattere scientifico è, nello stesso tempo, una pubblicazione di classe. Le due cose vanno insieme. Da sempre, lotta di classe dalla parte dei lavoratori vuol dire anche conoscere, rendersi conto del mondo, migliorarsi, emanciparsi. (Cento anni fà, la prima lotta mondiale, quella per la giornata lavorativa di 8 ore, aveva per motto: 8 per lavorare, 8 per riposare, 8 per migliorarci.) - Questo è il lato soggettivo. Il suo sviluppo, nel corso di ormai quasi due secoli, ha portato alla costruzione di organizzazioni economiche (cooperative), sindacali, politiche dei lavoratori; in Italia, a Camere del lavoro, Case del popolo, istituzioni di vita autonoma delle classi lavoratrici, che insieme erano strumenti di lotta e di cultura attiva.
Ma, naturalmente, c’è un lato oggettivo della lotta, che emerge non appena si considera la controparte. Anche la borghesia è mutata profondamente nel tempo, fino a generare un’oligarchia ristretta che oggi, con strumenti economici, politici, culturali (o anticulturali), impone il suo dominio, direttamente e indirettamente, a miliardi di uomini in quasi ogni Paese. E oggi diventa via via più chiaro qualcosa, che in linea di principio è sempre stato vero: che l’oggetto della lotta di classe è sempre stato, fin dai primi confronti parziali, locali, fin dalle Leghe di Resistenza dell’‘800, il modo di organizzare la vita degli uomini associati, la produzione e riproduzione di questa attraverso e mediante il lavoro [1].
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Il neurocapitale
Tiziana Terranova
Esce in questi giorni giorni, presso Mimesis, Neurocapitalismo. Mediazioni tecnologiche e linee di fuga di Giorgio Griziotti. Anticipiamo qui, per gentile concessione dell’editore, l’Introduzione di Tiziana Terranova
Nella ormai sterminata produzione di testi, studi e analisi sulle reti informatiche e i media digitali, non capita davvero spesso di imbattersi in un libro, quale quello scritto da Giorgio Griziotti, capace di coniugare un competente sguardo tecnico con una coerente prospettiva teorica e una evidente passione politica. Come questa sintesi sia stata possibile, Griziotti ce lo racconta nella sua premessa, il momento in cui sceglie di mettere la sua soggettività in campo seguendo quella esortazione femminista che ha insistito e continua a insistere (da Donna Haraway, Gayatri Spivak e Sandra Harding a Rosi Braidotti e Karen Barad) sull’importanza di un sapere situato e corporeo, parziale e partigiano, che si distende a partire da un luogo e un tempo specifico piuttosto che da una prospettiva disincarnata e ostentatamente imparziale. Come non sottolineare dunque che questo è un testo in cui si incrociano, come Griziotti ci racconta all’inizio e come ci lascia intravedere attraverso tutto il libro, diverse dimensioni esistenziali in una ricerca animata da grande passione politica nutrita dal «comune dell’apprendimento» dell’auto-formazione collettiva.
Giorgio Griziotti è un ingegnere informatico, un programmatore e dunque è uso all’intensa attività di corpo a corpo solitario con il linguaggio e i codici che coraggiosamente estende dalla programmazione di software alla scrittura saggistica.
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Antonio Gramsci, ritratto di un rivoluzionario
Francesco Bellusci
“Quando, nel mese di aprile 1919, abbiamo deciso in tre, o quattro, o cinque di iniziare la pubblicazione di questa rassegna, nessuno di noi pensava di cambiare la faccia al mondo, pensava di rinnovare i cervelli e i cuori delle moltitudini umane, pensava di aprire un nuovo ciclo della storia… L’unico sentimento che ci unisse, in quelle nostre riunioni, era quello suscitato da una vaga passione di una vaga cultura proletaria; volevamo fare, fare, fare…”. A poco più di un anno dalla fondazione della rivista “Ordine Nuovo”, che, da scopi genericamente culturali, sarebbe passata in poco tempo a sostenere il movimento dei consigli di fabbrica nella Torino industriale del primo dopoguerra, così Antonio Gramsci rievocava l’inizio di quell’avventura di alcuni giovani intellettuali socialisti (a fianco di Gramsci, segretario di redazione, c’erano Togliatti, Terracini e Tasca), che non si ponevano come detentori della coscienza di classe o come mentori filosofici della classe operaia, ma come analisti e promotori della soggettività rivoluzionaria che essa era in grado di esprimere da sé, in un frangente storico che, in Italia e in altre parti d’Europa, sembrava propizio alla rivoluzione, almeno agli occhi dei gruppi di sinistra più radicali e all’osservatorio speciale del Comintern.
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Il virus letale della condivisione
Benedetto Vecchi
Parassiti che si nutrono delle relazioni sociali e si appropriano dei profili personali. Occhi puntati sulla sharing economy e sull’industria dei Big Data. «Silicon Valley: i signori del silicio» di Evgeny Morozov per Codice edizioni. Sempre dagli Stati Uniti arriva il saggio del teorico Trebor Scholtz "Platform Cooperativism", dove viene proposta la strategia di mettere in Rete le cooperative di produzione e di servizi attraverso l'uso di piattaforme digitali aperte
Sharing economy è una espressione che si è fatta largo tra la selva delle definizioni che caratterizzano il capitalismo che ha nella Rete il suo medium. Segue quella dal sapido sapore controculturale della peer to peer production, che metteva l’accento sulla condivisione alla pari di conoscenze e mezzi di produzione nella quale Internet è una neutra piattaforma per determinate attività economiche separate tuttavia da quanto accade al di fuori dello schermo. Soltanto che il confine tra dentro e fuori la Rete è svanito. La logica della condivisione, infatti, è ormai riferita ad attività produttive, di informazione, conoscenza, software. Coinvolge infatti ogni attività di intermediazione tra produzione e consumo. Inoltre la sharing economy non prevede un rapporto alla pari, bensì una relazione mercantile, dove l’attività di intermediazione prevede un pagamento di una percentuale tra produttore e consumatore. Non è un caso che i nomi usati per esemplificare la sharing economy sono Uber e Airbnb, cioè servizi di taxi e di affitto di una stanza o di un appartamento per viaggi di lavoro o di piacere. Il tutto accompagnato da una melassa ideologica sul potere del consumatore di poter scegliere il miglior prodotto a prezzi accessibili e sulla possibilità di vedere realizzati il proposito neoliberista di trasformare ogni uomo o donna in imprenditore di se stesso.
In nome del municipalismo
Sarebbe un errore ridurre la sharing economy a mera ideologia, perché individua una forma specifica di organizzare tanto la produzione che la distribuzione o il consumo di merci, poco importa se tangibili o «immateriali».
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Condizionalità senza frontiere
Quello che non dovevate sapere dei finanziamenti comunitari
Alberto Bagnai
(...è uscito un libro che non dovete leggere. Si chiama Finanziamenti comunitari - Condizionalità senza frontiere. Lo ha scritto Romina Raponi e spiega come funzionano realmente i finanziamenti comunitari. Leggerlo nuoce gravemente alla salute. Gli effetti collaterali sono: esofagite, gastrite, insonnia, sindrome depressiva, problemi cardiovascolari. Io vi ho avvertito, voi fate come vi pare. Meglio conservarsi in salute, piuttosto che capire perché chi vi dice "eh, ma noi non riusciamo nemmeno a spendere i fondi europei!" è un perfetto imbecille. D'altra parte, quando non avevamo capito un cazzo, possiamo anche dircelo, stavamo tutti meglio... In ogni caso, quella che segue è la mia prefazione - così gli effetti collaterali li subite ugualmente!...)
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“Ce lo chiede l’Europa!” Quante volte ce lo siamo sentiti dire, in questi ultimi anni? Col passare del tempo, però, la retorica patriottarda di questo ritornello (“siam pronti alla morte, l’Europa chiamò!”) si sta sgretolando. È la realtà a inseguire e raggiungere chi non sia stato già convinto per tempo dalle tante autorevoli analisi, come quella di Luciano Canfora (È l’Europa che ce lo chiede! Falso!, Laterza, 2013), o quella di Giandomenico Majone (Rethinking the unionof Europe post crisis, Cambridge University Press, 2014).
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Marx e l’alchimia
Carlo Amore intervista Luciano Parinetto
Con Faust e Marx. Metafore alchemiche e critica dell’economia politica. Satura inconclusiva non scientifica (Luciano Pellicani editore 1989; nuova edizione: Mimesis, Milano 2004), Luciano Parinetto tende a effettuare una doppia operazione: da una parte una rivisitazione della lunga tradizione del sapere alchemico che rompe sia con generici “esoterismi”, sia con il pregiudizio storicista che riconosce nell’alchimia il ruolo di “mezzana” tra la chimica come scienza normale e i saperi premoderni; dall’altro, una lettura coerente di modelli e metafore di chiara impronta alchemica nell’opera marxiana.
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Come si motiva questo tipo di impostazione del tuo libro?
È ben noto che chi sia completamente inserito in una totalità (e soprattutto in una totalità alienata, come è il caso di quella che va sotto il nome di capitale) è ben difficile che trovi il punto archimedeo sul quale far leva per poter iniziare a considerarla criticamente, proprio perché ogni posizione assunta rischia di risultare interna e coerente a quella totalità. Nel caso dei mio ultimo libro, l’alchimia rappresenta dunque un possibile punto archimedeo, trattandosi appunto di una visuale talmente remota dal capitale che, non solo esso la disconosce in quanto sapere, ma le oppone polemicamente le proprie scienze, ancorate al quantitativo, castrate dell’immaginario.
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Deutschland über alles
di Thomas Fazi
Il piano della Germania: creare un oligopolio bancario germano-centrico che disporrà del potere assoluto di decidere di quanto e a che condizioni finanziare il debito degli Stati
La settimana scorsa abbiamo parlato della duplice proposta tedesca che sta scatenando il panico nei corridoi di Palazzo Chigi e di Palazzo Koch (Banca d’Italia). La prima è quella che vorrebbe che ai titoli pubblici posseduti dalle banche dell’eurozona siano attribuiti coefficienti di rischiosità corrispondenti a quelli degli Stati (mentre ora sono considerati privi di rischio); che sia messo un tetto alla presenza di titoli di Stato del loro paese nel portafoglio delle banche; e, infine, che in caso di crisi del debito pubblico – e di contestuale richiesta di assistenza al Meccanismo europeo di stabilità (MES) da parte del governo interessato – sia applicato ai titoli pubblici lo stesso principio di bail-in introdotto per le banche con l’unione bancaria: allungamento delle scadenze e magari anche sospensione e riduzione degli interessi. In pratica un default obbligatorio i cui costi ricadrebbero sui possessori dei titoli pubblici, cioè in primo luogo sulle banche del paese interessato. La seconda proposta riguarda invece la creazione di un “superministro” dell’economia dell’eurozona – un «lord supremo del bilancio dell’eurozona», nella sapida definizione data da Yanis Varoufakis –, che assorbirebbe i residui di autonomia degli Stati nella gestione dei bilanci, senza prevedere come contropartita alcun bilancio federale.
È evidente che tali proposte, se passassero, rappresenterebbe un colpo letale per l’Italia e per gli altri paesi della periferia.
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La decrescita infelice
di Pierluigi Fagan
L’ultimo numero di Foreign Affairs (Feb. ’16), la punta avanzata della riflessione strategica americana, ripropone il tema della “stagnazione secolare” una sorta de “il re e nudo” lanciato non molto tempo fa da Larry Summers[1]. Il re nudo di Summers si chiama strutturale e perdurante assenza di crescita, l’assenza di crescita potrebbe oscillare come crescita positiva o negativa ad esempio allo 0,2% (stagnazione) o potrebbe risultare addirittura decrescita. Occorre poi sempre dettagliare l’ambito di cui si sta parlando, se cioè parliamo dell’economia americana, di quella occidentale, di quella OECD (Ocse), di quella del mondo ed il quando, in quale prospettiva temporale accadrebbero i fatti. A sfavore della crescita americana, occidentale, OECD, è l’evidenza lampante che è più probabile che cresceranno i mai o poco cresciuti che i già cresciuti se si è in un trend generale di crescita difficile. Ma siamo in un trend strutturale di crescita difficile?
Beh, sembrerebbe proprio di sì. Gli indici e le previsioni son quelle, la sistematica revisione al ribasso di previsioni già non troppo ottimiste è ormai una consuetudine (OECD-2016). Il prezzo del petrolio e delle materie prime, dicono della flessione di domanda e soprattutto, grave allarme ha destato un altro re nudo, il fatto cioè che la capacità di stimolazione dell’economia, degli investimenti, della circolazione e dell’inflazione da parte delle torrentizie immissioni di moneta pompate dalle banche centrali, non ha sortito alcuno degli effetti sperati.
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