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Crocifissioni riprese dallo smartphone
Antropologia politica di Isis
di Nique la Police
Già da diverse settimane ci chiedevamo in redazione cosa fosse Isis. Nel frattempo, oltre alla proclamazione dello stato islamico, piovevano immagini di esecuzioni, di decapitazioni, di feroci conflitti tra Siria ed Iraq. Questo articolo, che poi verrà rielaborato in forma di saggio e riversato sul sito academia.edu, cerca di rispondere a diverse domande su Isis al di là della contingenza giornalistica. Il lavoro è diviso in due sezioni. La prima, (Immagine, antropologia e politica di Isis) cerca di fissare delle categorie analitiche di lettura all'interno del concetto di barbaro, di immagine, di antropologia del politico. La seconda (Fonti di Isis) si occupa di commentare alcune fonti selezionate, video e articoli, prodotte da Isis o che riguardano materiale che tratta questo argomento. L'uso della dizione "Isis" invece che di quella, più corretta di "Is" (Islamic State, stato islamico) è dovuto alla sua maggiore diffusione. E anche alla forte evocatività, dovuta all'omonimia con Isis, la divinità egizia che si narrava proveniente dall'oltretomba. Suggeriamo a chiunque sia interessato a studiare i video linkati di scaricarseli visto che i link cambiano velocemente. A volte anche in poche ore. Per cui per i link che risultano vuoti si consiglia di cercare nella memoria cache di Google. Il materiale che arriva a disposizione di chi legge è comunque significativo.
Redazione - 9 settembre 2014
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Commissione UE: vince di nuovo la Merkel
di Leonardo Mazzei
Mentre l'Istat dà i numeri del nuovo Pil all'europea, Juncker dà i nomi di chi vigilerà sull'ortodossia austeritaria
Giornate di numeri per l'Europa. Ma anche di nomine. Ieri l'Istat ha sfornato il suo primo compitino per abbellire i conti. Altri ne seguiranno a breve. Oggi è toccato invece a Juncker l'annuncio della composizione dell'esecutivo dell'UE. Occhi puntati sul commissario agli Affari Economici, in pratica il successore del mitico Olli Rehn. Come previsto, sulla ruota di Bruxelles è uscito il nome del francese Pierre Moscovici, che avrà però due supervisori: il ben noto Jyrki Katainen, ed il meno conosciuto ma altrettanto "fidato" (per Frau Merkel, ovviamente) Valid Dombrovskis.
Che relazione c'è tra la notizia della "rivalutazione" del Pil e le nomine europee? In un certo senso nessuna: si tratta di due adempimenti già previsti da tempo, privi di ogni legame diretto od indiretto. Eppure, se ci pensiamo un legame c'è. Ed è quello che spesso tiene insieme sostanza ed apparenza delle cose.
La revisione nominale del Pil, che ovviamente non sposta di una virgola i dati della crisi, quelli della disoccupazione, eccetera, serve a dare un po' d'ossigeno ai decisori politici - illuminante, oltre che patetico, è il caso italiano, immortalato dalle furberie di quart'ordine di un Renzi -, mentre i nomi di Juncker servono a chiarire che la direzione di marcia del mostro eurista non cambia. Appunto, da una parte le apparenze, dall'altra la sostanza.
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Sulla crisi della democrazia
Un contributo alla critica del regime democratico
Sebastiano Isaia
Quanto più il singolo diventa impotente, tanto più si restringe la giurisdizione della coscienza. La coscienza regredisce (M. Horkheimer, Potere e coscienza).
Leggo da Il Post del 5 marzo 2014: «La “crisi della democrazia” è un tema che negli ultimi tempi è sempre più frequente nelle discussioni sullo stato del mondo e dei suoi paesi, ma anche sempre più banalizzato: una specie di modo di dire che spiega ogni cosa senza spiegare niente». Cercherò, nel modo più stringato possibile, di chiarire il mio punto di vista sul concetto di democrazia e sulla sua prassi, cosicché si possa capire da quale prospettiva approccio il tema in questione, il quale è ormai diventato una sorta di tormentone che ricorda molto da vicino, almeno a chi scrive, un altro evergreen tematico italiano: la crisi del cinema.
Gli intellettuali e i politici antiliberisti (statalisti) di “sinistra” e di “destra” fanno risalire l’attuale «crisi della democrazia» alla seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso; essi insomma mettono tale fenomeno in una relazione di causa-effetto con la cosiddetta «controrivoluzione neoliberista» che porta i famigerati nomi di Margaret Thatcher e Ronald Reagan. La potente accelerazione del processo di globalizzazione alla fine degli anni Ottanta (crisi della sovranità nazionale, dominio della finanza sulla cosiddetta economia reale) e la crisi economica internazionale che travaglia l’Occidente (soprattutto il Vecchio Continente) dalla fine del 2007 avrebbero poi rafforzato tanto le cause quanto i sintomi di questa crisi, rendendola per certi versi permanente – strutturale.
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Renzi sta sbagliando tutto
Lucia Bigozzi intervista Antonio Maria Rinaldi
Analisi lucida ma impietosa sul Renzi-chef economico in versione Porta a Porta, con una sintesi estrema: “Siamo in un vicolo cieco”. Nella conversazione con Intelligonews, il professor Antonio Maria Rinaldi, economista e docente di Economia internazionale all’Università di Chieti-Pescara, svela tutti i nodi che Renzi non ha sciolto. E non solo…
Qual è la risposta dell’economista Rinaldi alla ricetta anti-crisi di Renzi declinata a Porta a Porta?
Non so da dove cominciare… Facciamo un po’ di chiarezza. Ormai Renzi ci ha abituato a forti annunci poi non supportati da fatti concreti. Anche questo è un modo di fare politica, ma in questo momento in Italia servono cose concrete. Non capisco un aspetto tra i tanti che mi lasciano perplesso.
Quale?
Posto che Renzi non è un economista, spero si avvalga della collaborazione e della consulenza di persone che hanno dimestichezza economica. Ecco, non capisco come mai non gli abbiano fatto comprendere in maniera precisa che tutti questi annunci sulla creazione di posti di lavoro come nel caso dei 150mila precari della scuola, non trovano un riscontro oggettivo nella pratica perché impongono di reperire adeguate coperture finanziarie e, oltretutto, non tornano rispetto alle dichiarazioni dello stesso presidente del Consiglio che non più di 48 ore fa ha confermato il blocco dei rinnovi contrattuali per il pubblico impiego perché non ci sono risorse. È oltremodo strano che il fatto che si annunci una riduzione del costo del lavoro. Vorrei che Renzi rispondesse a una mia domanda…
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Algoritmi del capitale
Matteo Pasquinelli
Sta per uscire Algoritmi del capitale. Accelerazionismo, macchine della conoscenza e autonomia del comune (Ombre corte, 2014), a cura di Matteo Pasquinelli. Il libro raccoglie i contributi di Franco Berardi "Bifo", Mercedes Bunz, Nick Dyer-Witheford, Stefano Harney, Christian Marazzi, Antonio Negri, Matteo Pasquinelli, Nick Srnicek, Tiziana Terranova, Carlo Vercellone, Alex Williams.
La limousine di un miliardario non ancora trentenne procede lentamente per le strade di New York, tagliando l’orizzonte verticale delle torri del capitale finanziario.
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La danza della pioggia
Un bilancio provvisorio della "eurocrisi" con l'aiuto dei dati ufficiali
di Claus Peter Ortlieb
Benché la Germania finora continui a contarsi fra i vincitori della crisi, e la Grande Coalizione continui a godere della stessa popolarità dei governi federali precedenti, e che, secondo un sondaggio condotto nell'aprile 2014, l'80% dei tedeschi si dica "globalmente soddisfatto dello stato del nostro paese", sono apparentemente numerosi quelli che, malgrado tutto, pensano ci sia qualcosa di sospetto, e sentono che il "paradiso tedesco" (secondo la Wirtschaftswoche del 19 aprile) è minacciato, e che alla fine dei conti toccherà ancora al "contribuente tedesco" pagare per i danni fatti dai paesi europei in crisi. Da qui, l'appello pressante a mettere fine alla crisi senza indugi, e di conseguenza l'avvertimento che rischia di durare ancora un po', fa sì che troviamo nei media sempre più tentativi volti a produrre con la maggior forza possibile degli annunci di fine della crisi - annunci, il cui ottimismo, del resto, si limita spesso al solo titolo, mentre l'articolo vero e proprio ragiona secondo un modo di vedere le cose ben diverso.
"Die Welt", per esempio, intravvede la fine del tunnel il 3 aprile, e titola: "La Grecia si appresta ad effettuare una clamorosa rimonta". Lì pe lì, si crede ad un pesce d'aprile in ritardo, ma velocemente si arriva a comprendere che l'articolo è del tutto serio, salvo che non concerne altro che un aspetto parziale - ed anche non particolarmente pertinente - della catastrofe greca: "Per evitare un terzo piano di salvataggio, Atene considera il suo ritorno sui mercati finanziari, solo due anni dopo il fallimento. Sarebbe un record", spiega l'occhiello.
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La fabbrica del soggetto neoliberista
di Pierre Dardot e Christian Laval
Dopo aver ricevuto una buona accoglienza oltralpe, è da poco apparso in Italia “La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista” di Pierre Dardot e Christian Laval. In gran parte ispirato all’impostazione di lavoro inaugurata da Michel Foucault, il libro offre una delle più acute ricostruzioni delle vie attraverso cui le idee neoliberiste sono giunte a permeare le pratiche di governo dell’establishment occidentale. In questa sede il lettore troverà, per gentile concessione dell’editore DeriveApprodi, un estratto del capitolo tredicesimo del libro
La concezione che vede nella società un’impresa costituita di imprese non può non generare una nuova norma soggettiva, che non corrisponde più esattamente a quella del soggetto produttivo delle società industriali. Il soggetto neoliberista in via di formazione – di cui vorremmo ora tratteggiare alcune delle caratteristiche principali – è in relazione con un dispositivo di prestazione e godimento che è l’oggetto di numerose ricerche. Non mancano oggi le descrizioni dell’uomo «ipermoderno», «incerto», «flessibile», «precario», «senza gravità». Queste ricerche preziose, e spesso convergenti, all’incrocio tra psicanalisi e sociologia, rendono conto di una nuova condizione dell’uomo, che si rifletterebbe secondo alcuni fino all’economia psichica stessa.
Da una parte numerosi psicanalisti dichiarano di avere in cura pazienti affetti da sintomi che testimoniano di una nuova era del soggetto. Il nuovo stato soggettivo è spesso rapportato nella letteratura clinica a categorie vaste come l’«era della scienza» o il «discorso capitalista». Il fatto che una prospettiva storica si sostituisca a una strutturale non stupirà i lettori di Lacan, per il quale il soggetto della psicanalisi non è una sostanza eterna né una costante transstorica, ma l’effetto di discorsi inscritti nella storia e nella società1. Dall’altra, in campo sociologico, la trasformazione dell’«individuo» è un fatto innegabile. Ciò che viene designato il più delle volte con il termine ambiguo di «individualismo» fa riferimento talvolta a mutazioni morfologiche, nella tradizione di Durkheim, talvolta all’espansione dei rapporti mercificati, nella tradizione marxista, tal volta ancora all’estensione della razionalizzazione a tutti i campi dell’esistenza, secondo un filo più weberiano.
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Il fascino discreto della crisi economica
intervista a Marco Veronese Passarella
Marco è lecturer in economics presso la University of Leeds. I suoi interessi di ricerca includono le teorie dei prezzi e della distribuzione, la dinamica macroeconomica, l’economia monetaria, nonché la storia e la filosofia del pensiero economico. Oltre alle sue pubblicazioni accademiche, è autore di varie opere divulgative, fra cui ricordiamo “L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa” (con E. Brancaccio, ed. Il Saggiatore).
DOMANDA: L’emergere della crisi ha confermato la visione di alcuni economisti eterodossi secondo la quale il capitalismo tende strutturalmente ad entrare in crisi. Tuttavia, le visioni sulle cause del disastro attuale divergono. Una posizione piuttosto diffusa (appoggiata ad esempio dai teorici della rivista “Monthly Review”) è quella che attribuisce la crisi al seguente meccanismo: la controrivoluzione neoliberista ha portato ad un abbassamento della quota salari; per sostenere la domanda privata è stata quindi necessaria un’enorme estensione del credito e lo scoppio della bolla nel 2007 ha interrotto il meccanismo. Altri pensatori, come il marxista americano Andrew Kliman, ritengono che le cause della crisi non si possano trovare nella distribuzione dei redditi e che la depressione sia spiegabile tramite l’andamento del saggio tendenziale di profitto. Una visione tutta improntata sulla produzione. Lei cosa ne pensa?
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L’Occidente psichiatrico di Ezio Mauro
Miguel Martinez
Leggo ieri, sul sito di Repubblica, un editoriale di Ezio Mauro che riesce a riassumere due secoli di paranoia in quattro luoghi comuni.
Mauro ci spiega che esiste l’Occidente e che l’Occidente ha un “nemico ereditario“, l’Oriente.
Egli adopera in modo intercambiabile il termine “Occidente” e il pronome “noi“, e già questo è clinicamente interessante.
Il signor Ezio Occidente precisa comunque di non essere paranoico: è il mondo, spiega, che ce l’ha con lui/noi.
Ci rivela che “l’anima imperiale e imperialista della Russia è eterna e insopprimibile” e vuole bloccare “la libertà di destino dei popoli“.
Poi ci sono i musulmani. Ezio Occidente, parlando del cosiddetto califfato islamico a cavallo tra Siria e Iraq, si chiede se l’Occidente (anzi “la comunità del destino”) abbia
“almeno la consapevolezza che quel pugnale islamista è puntato alla sua gola“.
E si pone l’eterna domanda di tutti coloro che temono la Decadenza dell’Occidente:
“Ma nel momento in cui due parti del mondo lo designano contemporaneamente come il nemico finale e l’avversario eterno, l’Occidente ha una nozione e una coscienza di sé all’altezza della sfida?”
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La bona scuola
di Marco Ambra
Bauducco, oltre a parlarmi di sport – scherma, equitazione, voga – e di quando era alpino, mi spiegava anche come cultura e produzione si accordino secondo una doppia curva. «Queste sono le spese generali», diceva mostrandomi una riga rossa ascendente su un foglio di carta millimetrata.
«Il fatturato invece è rappresentato da una riga verde. Quando le due curve si toccano, allora si ha il pareggio, e vuol dire che l’azienda è sana. Quanto più le due curve si distaccano, all’opposto, tanto più l’azienda è malata, passiva». «Ma qui la curva verde non si vede», feci io, perché infatti non si vedeva nessuna linea verde. «Ecco, per il momento noi abbiamo solo la riga rossa; quella verde non c’è, perché ora nella nostra azienda non esiste fatturato».
(L. Bianciardi, L’integrazione, Feltrinelli, Milano 2014, p. 41)
Passerà alla storia come un capitolo formidabile di storia della lingua italiana questo documento sulla Riforma della scuola pubblica diffuso ieri dal MIUR. Se non per la pletora di annunci e obbiettivi ambiziosi (come quello di riscrivere il Testo Unico del 1994), per l’uso iperbolico di anglismi e acronimi con cui le sue 136 pagine descrivono la visione de la buona scuola promossa dal duo Renzi-Giannini. In un Paese come il nostro in cui il livello di conoscenza della lingua inglese è considerato basso dagli indici internazionali per livello di competenza, il governo ha deciso di costruire la strategia di comunicazione di una di quelle che è considerata fra le riforme-chiave più importanti proprio sull’efficacia sciamanica delle formule anglofone, lessico di base dell’epoca del primato dell’economia sulla vita. Non perderò tempo ad analizzare la cornice semantica di un certo uso di parole inglesi come coding e governance, che a prima vista tradiscono una certa subalternità culturale – è un eufemismo – al pidgin english del neoliberismo e dei digitalisti. Mi limiterò dunque a scandagliare la cortina di governance e challenge che si addensa sul tanto atteso documento, per trarre qualche aleatoria conclusione sui suoi potenziali effetti.
Il piano di assunzioni dei precari nelle Graduatorie ad esaurimento (Gae)
Lo aveva anticipato il ministro Giannini alla compiacente assise del meeting di CL che il progetto di riforma della scuola andava nella direzione dell’abolizione delle supplenze e di conseguenza della fascia di precariato ad esse connessa, i precari e le precarie delle Graduatorie ad esaurimento.
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Le insostenibili leggerezze del Jobs Act
Andrea Fumagalli
La riforma del lavoro di Giuliano Poletti n. 78 (comunemente chiamato Jobs Act) potrebbe violare il diritto comunitario[1]. Lo hanno segnalato in molti a partire da Giugno: i parlamentari del M5S, l’Associazione giuristi democratici, il sindacato Usb. In agosto anche la CGIL ha deciso di farsi sentire presso la Commissione Ue. La Cgil, così come chi l’ha preceduta, insiste su un punto in particolare: la legge 78, eliminando l’obbligo di indicare una causale nei contratti a termine, “sposta la prevalenza della forma di lavoro dal contratto a tempo indeterminato al contratto a tempo determinato, in netto contrasto con la disciplina europea che, al contrario, sottolinea l’importanza della … stabilità dell’occupazione come elemento portante della tutela dei lavoratori”[2].
Quali sono le strategie che il governo di Renzi intende perseguire per la definitiva normalizzazione del mercato del lavoro italiano? Analizziamo dunque le ragioni economiche che stanno alla base del Jobs Act, partendo da tre ordini di considerazioni.
Primo: nel periodo pre-crisi, 2002-2008, gli occupati complessivi sono aumentati di 1,164 milioni di unità. Contemporaneamente, gli inoccupati sono calati di 366.000 (vedi Tabella 1). Tali dati possono essere interpretati, come è stato fatto, alla luce degli effetti di flessibilizzazione del mercato del lavoro indotti dagli interventi legislativi promulgati nel 1997 (pacchetto Treu), 2001 (riforma del contratto a tempo determinato), 2003 (Legge Maroni).
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Partecipate pubbliche e miti privati: una visione d'insieme
Giacomo Gabbuti
È ripartita, come prevedibile, la crociata contro le imprese partecipate dallo Stato – quelle imprese, cioè, “normali”, o “private” da un punto di vista del diritto, ma tra i cui azionisti figura lo Stato in una delle sue declinazioni a livello locale (quando è l’azionista prevalente, dovrebbero dirsi “controllate”). Del resto, per garantire coperture impossibili alle sue goffe misure di politica economica, il governo dimostra tutta la sua scarsa originalità e innovazione promettendo ancora una volta di eliminare la “spesa pubblica improduttiva”. Nel tentativo di dare un volto a questa creatura mitologica (forse Renzi pensava di trovare nel bilancio dello Stato la voce “spesa improduttiva”, da tagliare sic et simpliciter), torna buona la bestia delle partecipate. Non solo – ci tiene a dirci Repubblica – esse sono tutte in perdita:ma la perdita sarebbe addirittura proporzionale alla presenza dello Stato! Del resto, l’equazione è da prima elementare: se pubblico = brutto, allora + pubblico = + brutto. Talmente vero che entra in 140 caratteri, e se la metti su una slide lascia tanto spazio per le foto.
A prescindere dalla serietà di un governo che promette di coprire spese certe con tagli tutti da definire, sembra necessario provare a decostruire questa continua narrazione. Difficilmente otterremo l’ascolto del governo, ma speriamo almeno di aiutare i lettori di Repubblica a capire se dar retta o meno alla nuova editorialista, l’economista italo-americana Mariana Mazzucato, che proprio dalle colonne di quel giornale tenta di sostenere opinioni ben diverse.
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Sbadigliare, vomitare o mozzare teste?
Sebastiano Isaia
One thing I can tell you is you’ve got to be free (Come Together, Beatles).
Secondo il filosofo, e opinionista assai popolare in Inghilterra, Roger Scruton «L’assassino di James Foley è il prodotto del multiculturalismo inglese. Tutto quello che il multiculturalismo ha ottenuto è distruggere una cultura pubblica condivisa, e al suo posto ci ha messo un vuoto che fa sbadigliare». E qui, vittima del noto contagio, devo un attimo interrompere la citazione, per sbadigliare appunto. Fatto! Continuo: «Il più grande bisogno umano non è la libertà, come pensano i liberal, ma l’obbedienza, come hanno capito i musulmani» (Sgozzati dal multiculturalismo, Il foglio, 26 agosto 2014). Una volta Kant formulò – l’apparente – paradosso che segue: «Ragionate quanto volete e su ciò che volete, ma ubbidite!». È su questo “paradosso” che intendo dire qualcosa.
Per un verso Scruton affonda il coltello nella burrosa, e sempre più screditata (nonché stucchevole), ideologia multiculturalista, la quale ama celare i reali contrasti e antagonismi sociali (d’ogni tipo: di classe, di genere, di razza, di religione) dietro una tolleranza, anch’essa ridotta a mera finzione ideologica*, che sempre più mostra la sua vera natura di strumento al servizio dello status quo sociale. Per altro verso egli, suo malgrado, tocca un nodo fondamentale della condizione disumana nell’epoca del dominio totalitario e planetario degli interessi economici (capitalistici): la reale mancanza di libertà di tutti gli individui. Oggi la «libera scelta» non solo è un inganno, un’ipocrisia (soprattutto quando si presenta in guisa elettoralistica), ma è anche un’odiosa arma di oppressione psicologica di massa: «Nessuno ti ha obbligato a scegliere quel lavoro, quella merce, quella persona, quel partito. Guarda il ben di Dio che ti offre il mercato (delle merci, della politica, delle idee, delle religioni, delle amicizie, dei desideri)! Oggi la società ti offre perfino la libertà di scegliere il sesso che meglio aderisce alla tua più intima personalità. Anziché lamentarti, impara dunque a usare meglio il tuo libero arbitrio».
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L’alternativa radicale alla globalizzazione
Guido Viale
«Riterritorializzare» i processi economici. Se è stata la globalizzazione a spalancare le porte alla competitività universale, noi dobbiamo pensare e praticare alternative che valorizzino i benefici dell’unificazione del pianeta in un’unica rete di rapporti di interdipendenza e di connettività
Molte delle minacce che incombono sul nostro pianeta – e di cui poco si parla – sono già fatti. Innanzitutto la data che renderà irreversibile un cambiamento climatico radicale e devastante si avvicina. A questo vanno aggiunte tutte le altre forme di inquinamento e di devastazione, sia a livello globale che locale, che lasceranno a figli e nipoti un debito ambientale ben più gravoso dei debiti pubblici su cui politici ed economisti si stracciano le vesti.
Governi e manager hanno per lo più cancellato il problema dalla loro agenda: la green economy promossa a quei livelli non è un’alternativa al trend in atto, ma una serie scollegata di misure, spesso dannose, che ne occupano gli interstizi. L’Italia, che ha una strategia energetica (Sen) recepita dal governo Renzi, ne è un esempio: ha impegnato cifre astronomiche nelle fonti rinnovabili a beneficio quasi solo di grandi speculazioni che devastano il territorio, ma dentro un piano energetico incentrato su trivellazioni e trasporto di metano in conto terzi. È una visione miope che distrugge, insieme all’ambiente, anche l’agognata competitività, e chiude gli occhi di fronte al futuro.
Viviamo ormai da tempo in stato di guerra: l’Italia – ma non è certo un’eccezione – è già impegnata con diverse modalità, tutte contrabbandate come «missioni di pace», su una decina di fronti.
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Marx contro il “marxismo”
di Sandro Moiso
Ettore Cinnella, L’altro Marx, Della Porta Editori, Pisa – Cagliari 2014, pp.182, € 15,00
Già negli ultimi anni della sua vita Karl Marx dovette prendere le distanze da ciò che già allora si definiva come “marxismo”. Lo testimonia proprio il suo amico e sodale Friedrich Engels in una lettera a Eduard Bernstein del 2-3 novembre 1882, in cui afferma: “Ora, ciò che in Francia va sotto il nome di “marxismo” è in effetti un prodotto del tutto particolare, tanto che una volta Marx ha detto a Lafargue: “ce qu’il y a de certain c’est que moi, je ne suis pas marxiste”.
Anche se, in ultima istanza, sarà proprio Engels a codificare il “marxismo” nello sforzo di salvaguardare il lascito teorico del comunista di Treviri dopo la sua scomparsa, ancora nel 1890, in una lettera a J.Bloch si vedrà costretto a chiarire che:
“secondo la concezione materialistica della storia la produzione e riproduzione della vita reale è nella storia il momento in ultima istanza determinante. Di più né io né Marx abbiamo mai affermato. Se ora qualcuno distorce quell’affermazione in modo che il momento economico risulti essere l’unico determinante, trasforma quel principio in una frase fatta insignificante, astratta e assurda. La situazione economica è la base, ma i diversi momenti della sovrastruttura – le forme politiche della lotta di classe e i risultati di questa – costituzioni stabilite dalla classe vittoriosa dopo una battaglia vinta, ecc. – le forme giuridiche, anzi persino i riflessi di tutte queste lotte reali nel cervello di coloro che vi prendono parte, le teorie politiche, giuridiche, filosofiche, le visioni religiose ed il loro successivo sviluppo in sistemi dogmatici, esercitano altresì la loro influenza sul decorso delle lotte storiche e in molti casi ne determinano in modo preponderante la forma.
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Uniamo il pensiero ribelle!
Piotr Zygulski intervista Antonello Cresti
Per iniziare, si presenti.
Come recitano le mie biografie standard sono un saggista e compositore, più in generale un appassionato di idee, creazioni ed ambientazioni “nascoste”. Le mie assolute passioni sono la cultura tradizionale britannica, la controcultura e la musica underground, e utilizzo questo bagaglio di conoscenze non propriamente “mainstream” per approcciare da un punto di vista eccentrico anche altre problematiche. Ho pubblicato CD, libri, ho fatto programmi radiofonici, ho organizzato festival … Le vie della comunicazione culturale, insomma, mi intrigano tutte allo stesso modo!
Lo scorso anno ha lanciato il progetto “Idee In/Oltre”. Per quale motivo si è lanciato in questa avventura?
Idee In/Oltre nasce soprattutto dall’esigenza di coagulare un po’ di forze attorno ad un progetto di informazione/divulgazione non massificato. Usando facebook e i social network ci si rende conto che vi sono intelletti e spiriti liberi, ma che è difficile riunirli sotto un’unica sigla. Il blog che ho creato è un tentativo in questo senso, ed è anche un esperimento per capire quanto impatto possa avere un articolo (anche a mia firma) senza il supporto della testata di riferimento.
Devo dire che in periodo ancora invernale qualche piccolo “miracolo” è accaduto, con punte di svariate migliaia di lettori per singolo articolo. Conto quindi di continuare nel tentativo di affiancare mie collaborazioni esterne (da Il Manifesto a Aam teranuova, a Rockerilla etc…) a questo progetto più organico. E pluribus unum, insomma!
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Per il Papa siamo alla Terza Guerra Mondiale. Ha davvero ragione?
di Alfonso Gianni
Di fronte agli scenari bellici in Medio Oriente e Ucraina Bergoglio ha preso parola sostituendosi anche alla classica sinistra laica e pacifista. Ma forse sbaglia: si tratta piuttosto di una guerra civile prolungata senza frontiere, ove entrano in gioco una molteplicità di soggetti dai contorni imprecisi. Per un nuovo equilibrio mondiale
Papa Bergoglio sta godendo di un lungo momento di grazia nell’opinione pubblica mondiale. Ogni cosa che dice diventa di riferimento anche in ambito non confessionale. Ne sia esempio la sua recente dichiarazione sull’esistenza nel mondo contemporaneo di una terza guerra mondiale “a pezzetti”. Il Papa non è un analista politico e quindi non si può pretendere da lui l’esattezza della definizione, ma è un fatto che essa ha sfondato anche nel campo della sinistra laica che pensa di interpretare così le varie guerre guerreggiate sanguinosamente in corso, dall’Ucraina al Medio Oriente. D’altro canto, vista la mancanza di profondità nella ricerca analitica e di pensieri lunghi nel campo della sinistra non deve stupire né infastidire questa supplenza pontificia.
Resta da domandarsi se le cose stanno proprio così. Se il papa ci ha preso oppure no. Propenderei, con tutto il rispetto e – perché no – anche ammirazione per la figura di papa Francesco, per il no.
Per quanto molteplici siano i conflitti in corso, non credo che si possa parlare di una terza guerra mondiale seppure a macchia di leopardo e a bassa intensità. Siamo piuttosto di fronte – ma ogni definizione è per necessità, come diceva il grande filosofo, una limitazione – ad una guerra civile prolungata senza frontiere, ove entrano in gioco una molteplicità di soggetti dai contorni imprecisi.
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Il referendum contro l’austerità è un regalo alla Germania? Ma anche no
Keynesblog
Ovvero: perché chi non guarda contemporaneamente anche al lato dell’offerta rischia di prendere lucciole per lanterne, fischi per fiaschi e il keynesismo per la croce keynesiana; e ancora: perché la domanda è un vincolo esterno quanto il tasso di cambio fisso
Sui social network ogni tanto (per fortuna piuttosto raramente) spuntano commenti di questo tipo a proposito del referendum contro l’austerità:
Commentatore-che-sa-tutto-lui-1:
In un regime di cambi fissi…e l’euro e’ esattamente quello, allentare l’ austerita’ servira’ a far ripartire l’export della Germania. Lo capirete quando sarete morti e sepolti dalla Troika.
Commentatore-che-sa-tutto-lui-2-ancor-più-educato-del-1:
ma neanche per il c***. scusate il francesismo, ma dire queste cose significa non averci capito una mazza. possiamo fare tutte le politiche keynesiane di sto mondo ma con l’euro andremmo sempre più a fondo. a cosa servirebbe espandere la spesa se la bdp va a picco per i deficit di parte corrente e per l’ingresso di capitali a bassa inflazione? a un cavolo di nulla se non a portarci ad una agonia senza fine.quindi basta che sta balla che la colpa è dell’austerità. la colpa è della moneta euro. punto.
Qualcosa ci dice che gli autori di queste perle sono lettori accaniti di altri blog. Lasciamo perdere le polemiche (che taluni condiscono con accuse di “collaborazionismo” e “tradimento”). Stiamo al merito. Hanno ragione o hanno torto questi due commentatori?
Hanno torto non una ma due volte, perché gli argomenti sono in realtà due, entrambi erronei. Vediamoli.
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Le "due crisi" e il nodo della sovranità
Draghi al telefono con Merkel
Quarantotto
"Il Cancelliere tedesco Angela Merkel avrebbe chiesto chiarimenti al presidente della Bce, lamentando il fatto che Draghi avrebbe posto maggior accento sull’opportunità di riforme strutturali piuttosto che sulla necessità di mantenere l’austerità di bilancio, per rafforzare la crescita in Europa. Lo rivela il Der Spiegel. Ma la Bce smentisce: «È inesatto il fatto che la Merkel abbia chiamato Draghi per contestare le frasi dette a Jackson Hole», afferma il portavoce della Bce, senza fornire i dettagli ma confermando implicitamente che ci sia stata la telefonata. «Il contenuto della conversazione - aggiunge il portavoce - non lo commentiamo e non lo riveliamo».
Senza citare fonti, la testata tedesca ha riferito che sia la Merkel sia il Ministro delle finanze Wolfgang Schaeuble avrebbero telefonato al numero uno dell’Eurotower, la scorsa settimana, per chiedergli chiarimenti riguardo il suo intervento fatto a Jackson Hole la scorsa settimana.
In quell’occasione Draghi aveva sostenuto che sarebbe «utile» che la politica monetaria della Bce fosse fiancheggiata anche da «un ruolo maggiore della politica fiscale» nel quadro di importanti riforme strutturali. In particolare, Draghi aveva detto: «Nessuna quantità di aggiustamenti fiscali o monetari può sostituire le necessarie riforme strutturali: la disoccupazione strutturale era già molto alta nella zona euro prima della crisi e le riforme strutturali nazionali per affrontare questo problema non possono più essere ritardate».
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Il declino del lavoro standard
di Maurizio Fontana
Come attestano i dati più recenti sulle tipologie occupazionali, il processo di frammentazione del lavoro dentro la crisi ha subito nel nostro paese un’accelerazione, favorita dai provvedimenti legislativi assunti da tutti i governi succedutisi dall’inizio della crisi, che non ha eguali in Europa. Per quanto la crescente precarizzazione del lavoro sia una tendenza di fondo omogenea a livello continentale, come conferma lo studio Accessor reso pubblico lo scorso autunno (studio che peraltro ha anche evidenziato la connessa contrazione del welfare previdenziale collegato alle prestazioni lavorative atipiche), in Italia il decreto legge del duo Renzi-Poletti (34/2014), con l’introduzione della a-causalità totale nel rapporto di lavoro a termine, ha aggiunto all’ordinamento l’ennesima nuova fattispecie di contratto non standard che rende il lavoro a tempo pieno e indeterminato sempre più residuale, favorendo ulteriormente una tendenza che vede già da due anni le assunzioni a tempo pieno e indeterminato attestarsi intorno al 20% del totale dei rapporti di lavoro avviati. Secondo i dati, aggiornati all’inizio del 2013, forniti dai sindacati europei lo scorso autunno (vedi tabella), l’Italia si colloca un punto sotto la media dell’Unione Europea a 27 paesi per quanto riguarda le due principali tipologie di contratti atipici: il part-time (introdotto in Italia dalla legge 86 del 1984) e il contratto a tempo determinato (rilanciato dalla legge 56 del 1987).
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Attualità di Lacan
Federico Chicchi
Ogni lettore che si rispetti lo sa bene: ci sono libri che si limitano ad aggiungere semplici didascalie e libri che producono concatenamenti, aprendo nuovi e imprevedibili orizzonti di ricerca. Questo secondo è certamente il caso di Attualità di Lacan (a cura di Alex Pagliardini e Rocco Ronchi per Textus edizioni, 2014), un libro imperdibile per chi non sia allergico a quella fondamentale passione dell’essere che lo psicoanalista francese definiva ignoranza.
L’ignoranza è, non a caso rispetto a ciò che ci interessa sottolineare, quella passione che secondo il Lacan del Seminario I si situa sulla linea di giunzione del simbolico con il reale e che, in quanto terzo che introduce un’asimmetria tra amore e odio, fonda l’atto analitico. D’altronde, quando si prova a ricercare la verità in quanto tale, come negli intenti di questo volume, è, statene certi, perché ci si situa per intero nella dimensione appassionata dell’ignoranza (del desiderio di sapere), cioè proprio dove simbolico e reale confondono i loro confini.
Attualità è una parola che si declina al singolare o al plurale? In questo caso, nel caso di questo testo, direi al plurale. Ci sono infatti delle specularità, dei giochi allo specchio tra i diversi, tutti eccellenti, contributi, perché qui vengono supposte e proposte diverse attualità di Lacan. Alcune differenti argomentazioni che rivendicano una per una un’attualità dell’insegnamento lacaniano. I saggi che vengono presentati non sono infatti tutti interni alla stessa prospettiva “etica”.
Non si traccia qui una sola etica della psicoanalisi.
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“La nuova ragione del mondo” di Pierre Dardot e Christian Laval
Andrea Baldazzini
Partirò con un’apparente banalità: l’oggetto del presente studio, portato avanti a quattro mani da Laval e Dardot (sociologo il primo, professore di filosofia il secondo), non rappresenta solo il tema filosofico per eccellenza, ma costituisce anche il principio fondante, l’atto costitutivo, dell’intera società occidentale moderna, ovverosia la Ragione. Una Ragione che si è guadagnata la maiuscola conquistando la quasi totalità degli aspetti dell’esistenza individuale e collettiva, per usare un lessico habermasiano, colonizzando tanto la dimensione del ‘sistema’ quanto quella del ‘mondo della vita’ (Lebenswelt). Ma cosa si intende precisamente qui con ‘Ragione del mondo’ e in particolare con l’espressione ‘razionalità neoliberista’? Scopo di questa breve recensione vorrà essere da una parte la chiarificazione del significato di tali termini impiegati in riferimento ad un ambito che solo superficialmente è di carattere economico, dall’altra la messa in evidenza di alcune intuizioni chiave, che permettono una più ampia presa di consapevolezza sulla reale portata, per usare le parole degli autori, della disciplina neoliberista. Difatti, il merito più grande dell’opera è quello di porre la questione del neoliberismo in termini radicali, in termini cioè antropologici. Questo libro non è una scontata critica al capitalismo considerato come ideologia o come semplice sistema economico produttore di disuguaglianza, esso è qui «assunto nel suo essere una realtà sgombra da riferimenti arcaizzati e nel suo essere una matura costruzione storica»1.
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Quali alternative al neoliberismo?
di Massimiliano Lepratti
Nonostante la gravissima crisi attraversata dall'Europa e la fallacia delle ricette neoliberiste finora sperimentate in risposta, il campo delle teorie critiche si mostra incapace di offrire un solido orientamento di politica economica che metta in crisi l'egemonia culturale del neoliberismo e funga da guida per progettare una società egualitaria, inclusiva e sostenibile. Di conseguenza laddove un'ideologia culturalmente egemone non venga contrastata sul suo stesso terreno di teoria capace di dettare le agende, anche i tentativi di politiche alternative tendono a divenire timidi, inclini a mediare al ribasso e a piegarsi ai principi dominanti: l'Italia di Prodi/Padoa Schioppa o (peggio) di Renzi/Padoan ne sono solo alcuni esempi. Eppure i materiali culturali per sostenere la costruzione di un pensiero diverso a sinistra non mancherebbero: i grandi classici (da Smith a Ricardo a Marx) e i classici della dinamica dello sviluppo (ancora Marx, oltre a Keynes, e Schumpeter) continuano ad essere forieri di eccellenti spunti di analisi il cui livello scientifico e la cui capacità di lettura realistica del mondo sono senza dubbio superiori rispetto a quelli che per semplicità qui chiamiamo neoliberisti.
Detto questo, i motivi per cui ci troviamo in questa situazione di subalternità sono molteplici, ma due appaiono più significativi di altri:
1. il pensiero mainstream è in grado senza dubbio di dispiegare una quantità di mezzi culturali tali da spingere verso la minorità le idee alternative: mezzi giornalistici, comunicativi, istruzione – si pensi ai manuali economici studiati nelle università, l'assenza dell'economia politica nelle scuole superiori... - l'insieme di questo fuoco di fila riduce progressivamente da almeno 40 anni lo spazio per pensieri diversi.
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Thomas Piketty, il pragmatico dell’utopia light
Russell Jacoby
l saggio di Thomas Piketty Le Capital au XXIe siècle è un fenomeno sia sociologico sia intellettuale. Cristallizza lo spirito della nostra epoca come fece, a suo tempo, The Closing of the American Mind di Allan Bloom. Quel libro, che denunciava gli studi sulle donne, sul genere e sulle minoranze nelle università statunitensi, opponeva la mediocrità del relativismo culturale alla ricerca dell’eccellenza associata, nello spirito di Bloom, ai classici greci e romani. Ebbe pochi lettori era particolarmente pomposo ma alimentava il sentimento di una distruzione del sistema educativo statunitense, e degli stessi Stati uniti, a causa dei progressisti e della sinistra. Un sentimento che non ha affatto perso vigore. Le Capital au XXIe siècle (Il Capitale nel XXI secolo) si inquadra nello stesso registro inquieto, a parte il fatto che Piketty viene dalla sinistra e che la controversia si è spostata dall’educazione al campo economico. Anche in materia di insegnamento, il dibattito si focalizza ormai sul peso dei debiti di studio e sulle barriere suscettibili di spiegare le disuguaglianze scolastiche.
L’opera traduce un’inquietudine palpabile: la società statunitense, come l’insieme delle società del mondo, parrebbe sempre più iniqua. Le disuguaglianze si aggravano e fanno presagire un futuro grigio. Le Capital au XXIe siècle avrebbe dovuto intitolarsi Le disuguaglianze nel XXI secolo.
Sarebbe sterile criticare Piketty per la sua incapacità di raggiungere obiettivi che egli non si era dato. Tuttavia, tesserne le lodi non è sufficiente.
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"Stampare meno, Trasferire di più"
di Mark Blyth and Eric Lonergan
Dalla rivista online Foreign Affairs, un interessante studio sul "Quantitative Easing per il Popolo", di cui si è già parlato, in cui la politica monetaria si mette al servizio della politica di bilancio, per rilanciare con forza l'economia reale. (senza dimenticare che nell'eurozona il mantenimento della moneta unica impedisce di combattere davvero l'austerità)
Perchè le banche centrali dovrebbero dare i soldi direttamente ai cittadini
Nei decenni seguenti la II guerra mondiale, l’economia giapponese crebbe così rapidamente e per così tanto tempo che gli esperti dissero che il fenomeno era a dir poco miracoloso. Durante l’ultimo grande boom del paese, tra il 1986 e il 1991, la sua economia crebbe di quasi 1000 miliardi di dollari. Ma poi, in un modo che oggi suona molto familiare, scoppiò la bolla degli asset giapponesi, e i suoi mercati sprofondarono. Il debito pubblico esplose, e la crescita annua rallentò a meno dell’1%. Nel 1998, l'economia si stava contraendo.
Nel dicembre di quell’anno, un professore di economia di Princeton di nome Ben Bernanke sosteneva che i banchieri centrali avrebbero ancora potuto risollevare il paese. Il Giappone essenzialmente stava soffrendo per mancanza di domanda: i tassi di interesse erano già bassi, ma i consumatori non acquistavano, le imprese non chiedevano prestiti e gli investitori non facevano scommesse. Era una profezia auto-avverante: il pessimismo sullo stato dell'economia stava impedendo la ripresa. Bernanke sosteneva che la banca del Giappone doveva agire in modo più aggressivo e le suggeriva di considerare un approccio non convenzionale: dare contanti direttamente alle famiglie giapponesi. I consumatori avrebbero potuto spendere le inattese entrate trainando il paese fuori dalla recessione, facendo aumentare la domanda e i prezzi.
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